“Super Martedì”: Sanders punta sugli elettori latinos

Dopo averlo testato in Nevada, le primarie democratiche prendono oggi una misura significativa dell’elettorato ispanico nel Super Martedì: vanno al voto 14 Stati, fra cui California e Texas, i due più popolosi dell’Unione e due di quelli in cui il voto ispanico pesa di più, con il New Mexico. Gli altri 12 Stati in cui si vota oggi sono Alabama, Arkansas, Colorado, Maine, Massachusetts, Minnesota, North Carolina, Oklahoma, Tennessee, Utah, Vermont, Virginia. Ci sono, inoltre, primarie alle Isole Samoa e fra i Democrats Abroad.

In un solo giorno, vengono assegnati 1.344 delegati, oltre un terzo del totale, contro i 167 assegnati nel mese di febbraio tra Iowa, New Hampshire, Nevada e South Carolina (circa il 4% del totale). Questo il punto della corsa, per delegati: Bernie Sanders ne ha 56, Joe Biden 48, Pete Buttigieg 24, Elizabeth Warren 8, Amy Klobuchar 7. Gli elettori del Super Martedì hanno un’opzione in più sulle loro schede: Mike Bloomberg affronta, finalmente, il giudizio delle urne. Ma ne hanno pure due in meno: Buttigieg ha lasciato la corsa alla nomination, così come senatrice democratica Amy Klobuchar; lei si appresta a dare il suo appoggio all’ex vicepresidente Joe Biden. Tornando a Buttigieg, l’ex sindaco di South Bend nell’Indiana, omosessuale dichiarato, ha annunciato la decisione d’uscire di scena domenica, dopo non avere ottenuto in New Hampshire, Nevada e South Carolina risultati confrontabili con il successo d’apertura conseguito nello Iowa. I suoi elettori e i suoi delegati potrebbero ora convergere su Biden, che s’è affrettato a “non escludere” un ticket con Buttigieg: ma ha già detto lo stesso per Kamala Harris, Julian Castro, Beto O’Rourke e vari altri. Anche Bloomberg contende a Biden l’elettorato moderato. I pronostici del Super Martedì sono favorevoli a Sanders, che, in termini di voto popolare, ha vinto le prime tre competizioni, cedendo solo sabato nella South Carolina a Biden. Sanders guida o è ben piazzato nei sondaggi in 14 delle 16 primarie odierne. Il senatore del Vermont è avanti, fra l’altro, proprio in California – molto nettamente – e in Texas – meno nettamente –, ma anche in Virginia e nel Massachusetts, lo Stato della senatrice Warren, che gli contende il voto di sinistra. I rilevamenti si sono finora dimostrati spesso scarsamente affidabili. Sanders ha riunito grandi folle, nei suoi comizi a Los Angeles e a San José. Gli ispanici non hanno un loro candidato, dopo i ritiri dei texani Castro, un ex ministro di Barack Obama, e O’Rourke, un astro nascente bruciato nel voto di midterm del novembre 2018, quando non riuscì a strappare il seggio di senatore a Ted Cruz. Sanders appare essere la loro prima scelta, ma il loro voto, almeno in California e in Texas, sarà relativamente ininfluente, nell’Election Day il 3 novembre: qualunque sia il rivale di Donald Trump, infatti, la California voterà democratico e il Texas repubblicano, perché i mutamenti demografici nello Stato non determinano ancora un rovesciamento della maggioranza.

Caratterialmente, e come programma politico, il senatore del Vermont è quello che meglio risponde alle attese dell’elettorato ispanico. Biden e Bloomberg hanno modi freddi; la Warren ci mette più passione, ma non è riuscita a stabilire un feeling con le minoranze (Biden, almeno, ha i neri dalla sua). Sanders fa litigare anche i rapper: i Public Enemy rompono con Flavor Flav. La decisione è stata presa due giorni dopo che Flavor Flav aveva diffidato Sanders, contestando la partecipazione di Chuck D (pure dei Public Enemy) a un comizio a Los Angeles, dove il gruppo è poi stato presente, oltre che con Chuck D, con altri suoi esponenti. La diffida accusava Sanders di sfruttare l’immagine di Flavor Flav che “non sostiene pubblicamente alcun candidato”.

Mail Box

 

Scuole, le assunzioni mettono fine alle inefficienze

Urge una precisazione a proposito dell’articolo di domenica 1 marzo, dal titolo “Pulizia delle scuole, da domani in 4.000 perdono il lavoro”. Grazie al MoVimento 5 Stelle lo Stato italiano ha assunto 12.000 lavoratori storici del settore delle pulizie scolastiche, che dopo vent’anni di precarietà e spesso sfruttamento, dal primo marzo 2020 lavoreranno con un contratto a tempo indeterminato statale, non solo tenendo le scuole pulite ma anche assolvendo a tutte le mansioni di vigilanza e assistenza del personale Ata, mettendo fine a un pezzo di privatizzazione della scuola pubblica.

Entro il 28 febbraio sono state chiuse tutte le procedure di selezione e oggi questi 12.000 lavoratori sono a disposizione delle scuole, finalmente libere da una esternalizzazione illogica e soprattutto inefficiente, che aveva condannato questi lavoratori alla precarietà a vita, mentre il servizio era scadente e a trarne vantaggio erano soltanto le ditte appaltatrici. Ora qualcuno cavalca la protesta dei lavoratori esclusi per mancanza di titoli, con l’obiettivo di strappare qualche concessione e non certo di tutelare i posti di lavoro. Noi non cediamo al ricatto degli attori che hanno tenuto condotte scorrette, come confermato sia dall’Antitrust sia dall’Anticorruzione. Vogliamo che i soldi spesi dallo Stato vengano utilizzati per servizi efficienti, a vantaggio della collettività, della sicurezza e delle tante esigenze della Pubblica amministrazione, cosa che non è avvenuto con il fallimentare appalto scuole belle che anche il vostro giornale ha raccontato. Per questo la Presidenza del Consiglio affronterà presto soluzioni utili tanto per i cittadini che per la dignità del lavoro, su cui tanto si sta spendendo questo governo, affinché i lavoratori possano accedere a tutti gli strumenti di sostegno disponibili e che per loro si attivino opportunità di lavoro qualificate e qualificanti.

Luigi Gallo, deputato M5S, Presidente della commissione Cultura, Scienza e Istruzione a Montecitorio

 

Proposta di autotassazione per gli investimenti pubblici

È mai possibile che in un momento così difficile, ci si debba dividere su come viene gestita la crisi ? È mai possibile che alcuni politici spalleggiati da certi giornali e talk show, ogni giorno, non fanno altro che infondere paura a dispetto delle rassicuranti dichiarazioni degli esperti? Come possono coloro che dichiarano di amare l’Italia lasciar credere che gli italiani riescono a dividersi anche quando è fondamentale mostrarsi uniti? Ecco, mi piacerebbe “stanare” i falsi patrioti, con una proposta provocatoria. Perché non autotassarci per un certo periodo a una parte della retribuzione e/o pensione (mi riferisco ovviamente a coloro con un certo reddito) versando il ricavato su un fondo messo a disposizione del Mef per destinarlo agli investimenti pubblici? Sinceramente sono stufo di ascoltare lamentele da gran parte delle varie associazioni di categorie, professionisti, cittadini comuni e persino editori che sanno solo chiedere l’intervento dello Stato, che però vogliono lontano dai loro affari. Vorrei ricordare la celebre frase di J.F. Kennedy: “Non chiedete cosa può fare l’America per voi, piuttosto chiedetevi cosa potete fare voi per l’America”. E allora, rivolgerei a tutti gli italiani che proclamano di amare il proprio Paese, non chiediamo cosa può fare l’Italia per noi, ma chiediamoci cosa possiamo fare noi tutti, per il nostro Paese.

Luigi De Luca

 

È discutibile il sistema creditizio e bancario italiano

Ricevo una email dalla banca che mi chiede un’apposita autorizzazione per poter prelevare gli interessi passivi dell’anno 2019, dal mio conto corrente. Il funzionario mi avverte che se non firmo entro un certo numero di giorni, la banca non può prelevarli e quindi si troverà costretta a procedere alla segnalazione in centrale rischi. Vengo a sapere che l’ammontare complessivo di interessi passivi che io dovrei alla banca, è pari a 19 centesimi di euro. Evidentemente se la banca non riesce a incassare una somma tanto ingente potrebbe andare incontro a seri problemi di patrimonializzazione, con rischio di default. Tutte quelle sigle che sono state inventate per classificare la solidità patrimoniale, a iniziare dai vari Basilea, non servono assolutamente a nulla, basta una cifra omeopatica per far indurre uno choc anafilattico creditizio. Poi, però, ci sono banche in Europa che hanno titoli spazzatura per trilioni di euro, ma non ci sono problemi, il Mes metterà a posto tutto. Con un sistema creditizio simile, questo Paese non ha alcun futuro.

Andrea Bucci

 

Giovani e smartphone, come invogliare alla lettura

Mentre passeggio in questa cittadina del Nord, vedo un negozio di giornali, con un articolo ingrandito e attaccato alla porta d’ingresso. È l’intervista al titolare, che racconta come si sia appassionato a estendere il piacere della lettura ai suoi concittadini. “La nostra comunità – racconta volentieri – legge poco, come succede ovunque, allora, la incuriosisco con giovani attori che leggono alcune pagine di un libro; poi chiedo ai presenti che emozioni hanno avuto. Abbiamo iniziato a vederci in tre o quattro, poi il numero si è ampliato. I giovani? Qualcuno viene, ma pochi. Quelli attaccati ai loro smartphone sono adolescenti di clausura difficili da stanare, ma qualcosa m’inventerò”.

Massimo Marnetto

Salute. La cattiva gestione dei rifiuti è dannosa, ma non c’entra con il Covid-19

 

Gentile redazione, vi scrivo come cittadino preoccupato per la salute pubblica, e per la scarsa attenzione da parte delle istituzioni della Regione Lazio e della Capitale alla gestione dei rifiuti, anche in virtù delle recenti notizie sull’epidemia da Coronavirus. La preoccupazione riguarda il fatto che il virus si propaga anche attraverso materiale organico di cui sono composti molti dei nostri rifiuti solidi urbani, spesso abbandonati ai bordi delle strade o, nel migliore dei casi, buttati in discarica senza alcun trattamento biologico.

Alcune delle nostre discariche ricevono rifiuti in deroga per quel che riguarda il residuo organico presente, ossia con una percentuale di residuo superiore a quanto sarebbe consentito: il tutto in virtù anche della grande incapacità della Capitale e della Regione di chiudere il ciclo dei rifiuti in maniera virtuosa. In una situazione di emergenza sanitaria nazionale come questa, mi domando: non è forse il caso di rivedere queste deroghe per la tutela della salute pubblica, del personale che opera nella raccolta e di chi lavora nelle discariche? Non crede che sarebbe forse opportuno che le istituzioni locali intervengano per rassicurare i cittadini?

Gerardo Rossi

 

Gentile Rossi, la premessa indispensabile è che la “mala gestio” dei rifiuti urbani porta tanti rischi per la salute generale, ma poco c’entra con il Coronavirus o con l’influenza in generale. Certo, le normali regole di igiene e un ambiente salubre aiutano il sistema immunitario a difendersi da virus e batteri, ed è per questo che – ad esempio – il Comune di Roma ha avviato una campagna di disinfezione dei mezzi pubblici e delle strade. Detto questo, nel Lazio non ci sono discariche che derogano all’indice respirometrico – così si calcola il “residuo organico” presente negli scarti dei tmb – stabilito per legge. Il problema riguarda gli impianti, vetusti o stressati dalle continue emergenze, che agiscono “fuorilegge” e non lavorano adeguatamente i rifiuti. Laddove si è verificato questo, ci sono inchieste della magistratura in corso, mentre gli impianti sono stati costretti ad adeguarsi. Il rifiuto non stabilizzato può determinare dispersione del percolato, con inquinamento delle falde acquifere e propagazione di miasmi. Eventualità che aumenta se la discarica riceve rifiuti che non è autorizzata a gestire. È su questo che le istituzioni dovrebbero essere chiamate a rispondere. Le condizioni di rischio per la salute pubblica – patologie tumorali o del sistema circolatorio – sono serie, ma nulla c’entrano con la diffusione del virus come il Covid-19.

Vincenzo Bisbiglia

 

Mollica, la pensione di un critico popolare

Anche se con qualche carrambavirus di troppo, ha fatto bene Mara Venier a festeggiare Vincenzo Mollica. Ci voleva la pensione per consacrare una popolarità conquistata in quarant’anni di interviste e servizi sul mondo dello spettacolo, e questa consacrazione possiamo considerarla una forma di risarcimento per l’affetto e i superlativi spesi, nessuno escluso (parliamo dei superlativi). Dacci oggi il nostro capolavoro quotidiano; anche quando nel suo cuore poteva avere qualche dubbio, Mollica non ha mai fatto differenze. Adesso va in pensione a testa alta, ma la Venier ha ragione, abbiamo ancora bisogno di lui, perché non lascia eredi, e non per sua colpa. Se in Rai da sempre “la critica è una parola astratta” (copyright Sergio Saviane); se in compenso oggi abbiamo tanti critici di ogni materia quanti sono i blogger (circa 60 milioni in Italia), le cronache di cultura e spettacolo sono in caduta libera ovunque, dai quotidiani ai tg. Abbiamo avuto i mezzibusti letterari come Luciano Luisi, poeta in proprio, che si faceva largo in giacca crema nella bolgia del buffet di Villa Giulia per arpionare i finalisti dello Strega; abbiamo avuto i mezzibusti dandy come Lello Bersani, in smoking, microfono e brillantina, beato tra i divi del cinema, quando il cinema era il cinema. Poi abbiamo avuto Vincenzo Mollica, che per decenni ha coperto tutto e tutti con munifica universalità papale (lo abbiamo scritto e lo ripetiamo: Mollica, un pezzo di pane). Ma ora? Non ci resta che Marzullo.

Borse in frenata: non è epidemia, è speculazione

Nel giro degli ultimi dieci giorni le Borse mondiali, dopo essere cresciute del 24 per cento nel 2019, hanno messo a segno la più drastica contrazione degli ultimi 12 anni. È una bella botta, ma ha preso di sorpresa solo gli sprovveduti. I bruschi cambiamenti di umore dei mercati finanziari sono la quintessenza del capitalismo, e sono lo strumento con il quale lo smartmoney, la grande speculazione, spiazza i creduloni – “tosa il parco buoi” come si dice nel gergo borsistico milanese – e inizia a guadagnare scommettendo sul ribasso dei titoli dopo avere lucrato nella direzione opposta.

È un gioco pericoloso, perché l’oligarchia finanziaria globale non controlla in pieno i mercati, e se il crollo momentaneo sfugge loro di mano e si trasforma in una crisi generale, la prima vittima della valanga sono proprio i lupi di Wall Street e i loro compari in Europa e in Asia. Ma il gioco va avanti lo stesso perché è connaturato ai suoi attori principali. L’irrequietezza, la temerarietà e l’avidità incontrollata sono la cifra della finanza capitalistica fin dalle sue origini nelle città-Stato italiane del 1400.

Il pretesto per dare inizio alle danze viene fornito questa volta, con un tempismo sconcertante, proprio dal coronavirus. E proprio nel momento in cui l’epidemia viene sconfitta nel suo punto di massima concentrazione dall’azione risoluta del governo cinese. Nei prossimi mesi, perciò, le dinamiche da tenere sotto osservazione dovranno essere quelle dei mercati finanziari prima di quelle dell’epidemia. Questa non è il “cigno nero” economico evocato da esperti e giornalisti in cerca di facili effetti, cioè un evento negativo imprevedibile che scatena una catastrofe, ma la scusa per effettuare quella drastica correzione di ciclo prevista a destra e a manca da almeno un anno. Ci sono economisti come Rubin che si sono specializzati nel lanciare allarmi sull’imminente apocalisse dell’economia. E l’Economist avverte che la contrazione in corso non è altro che il riflesso della lunga “compiacenza” delle piazze finanziarie verso se stesse.

Il vero interrogativo, quindi, non è se il coronavirus si trasformerà in una specie di peste nera che infetterà milioni di persone mettendo in ginocchio gli scambi mondiali. I padroni del vapore sanno, come sappiamo noi, che ciò non accadrà.

La vera domanda è se essi – epidemia o no – saranno in grado di arrestare il gioco al ribasso prima che questo si trasformi in una replica della grande crisi del 2008-10. Crisi che è partita dalla finanza americana e si è estesa all’economia reale di mezzo pianeta fino a che la Cina non l’ha fermata con potenti misure controcicliche e con la sua indipendenza da Wall Street.

Siccome dopo il 2010 non si è fatto nulla per riformare l’architettura finanziaria globale limitando l’arbitrio dell’élite predatoria che la domina, l’economia mondiale è rimasta molto vulnerabile. E nel caso si debba fronteggiare lo scenario peggiore, su questo piano è ormai tardi per agire. L’instabilità congenita dei mercati capitalistici non conosce mezze misure e assisteremo impotenti a un’altra devastazione.

Allo stato attuale delle cose, governi, Banche centrali e imprese non finanziarie devono solo sperare che lo slump appena iniziato rappresenti solo una inevitabile correzione degli eccessi accumulati lungo un decennio di espansione delle Borse. Oppure, paradossalmente, devono confidare che esso sia davvero legato solo al coronavirus e ne segua perciò la parabola declinante. Non resterebbe altrimenti che affidarsi a un nuovo salvataggio cinese.

Virus, la proposta di Salvini a Conte: bombardare la Cina

Il coronavirus sta cortocircuitando Matteo Salvini. Non che ci voglia molto, e non che la cosa sia poi così granché significativa, ma è evidente come il cazzaro verde sia in difficoltà: abituato com’è ad attaccare tutto e tutti, si è reso conto – persino lui – che fare la parte del bullo in tempi di Covid-19 non paga. Le persone vorrebbero serenità, coesione, serietà e concretezza: l’esatto opposto di Salvini. Il quale, nei sondaggi, non crolla minimamente: ormai è inchiavardato al 30/31 per cento. Al tempo stesso, però, in questi giorni se ne sta faticosamente ai margini. Il grado massimo di mestizia lo ha raggiunto quando si è accodato alla proposta di Renzi (poi smentita da Renzi) di un governissimo per fronteggiare l’emergenza. Null’altro che l’inciucio al tempo del virus. Capite bene che farsi dettare la linea da Renzi è un po’ come prendere lezioni di volée da Seppi. L’ipotesi è poi tramontata, non avendo né capo né coda (e neanche numeri in Parlamento), ma Salvini è sempre lì che gira a vuoto. Inizialmente è stato l’unico a non degnarsi nemmeno di rispondere a Conte, anteponendo una volta di più l’ego ai problemi nazionali. Così facendo si è fatto nuovamente superare a destra dalla Meloni, che infatti nei sondaggi è quella che cresce di più. L’uomo che sussurrava ai citofoni ha poi varcato nuovi confini dell’incoerenza, branca dello scibile su cui del resto ha 178 lauree. Il 21 febbraio, in una delle sue tante dirette Facebook con inquadrature in 3D ad altezza pappagorgia, tuonava (a caso): “Ascoltiamo la comunità scientifica: blindiamo, sigilliamo i nostri confini! Ne va della salute di decine di milioni di persone!”. Sei giorni dopo, ecco l’ennesimo dietrofront: “Riaprire! Tutto quello che si può riaprire! Riaprire, rilanciare. Quindi aprire, aprire, aprire! Tornare a correre, tornare a lavorare!” Poche idee e confuse.

Salvini ha poi reinventato la geografia: “Se qualcuno chiedesse scusa agli italiani non sarebbe male, perché è evidente che qualcuno ha sbagliato qualcosa se l’Italia è il terzo Paese al mondo per contagi, davanti persino al Giappone, che confina con la Cina”. Come no: infatti il Giappone è un arcipelago e a separarlo dalla Cina c’è un mare (quello del Giappone, appunto). Nel suo continuo lanciarsi a bomba contro se stesso, Salvini ha financo partorito delle proposte. Premesso che associare “Salvini” a “proposte” è quasi come mettere insieme le parole “Marattin” e “capellone”, il capitone leghista ha suggerito lo “stop alle cartelle in tutta Italia. Vanno sospesi subito gli adempimenti fiscali”. Bella idea: poi però gli stipendi a medici e infermieri, per citare giusto due categorie encomiabili, li paga lui. Se poi il governo lavora per destinare 3 miliardi e mezzo all’emergenza, lui non ci sta: “Ce ne vogliono minimo 20, meglio 50”. E ancora meglio 500. Salvini ha donato a Conte altre proposte per ripartire, battezzate dal presidente del Consiglio come fuffa. Quali erano queste proposte? Siamo in grado di svelarle ai lettori del Fatto. 1) Un’alabarda spaziale, fatta su misura per Speranza, affinché egli spezzi con essa le reni al virus. 2) Travestirsi da Sgarbi per lasciar credere al Covid-19 che in realtà siamo già tutti rincitrulliti e mezzi morti, quindi non è il caso di infierire (è l’unica proposta piaciuta a Conte). 3) Bombardare la Cina, però democraticamente. 4) Affidarsi al buon cuore della Vergine Maria. 5) Provare il mojito come antidoto al coronavirus: magari non servirà a nulla, ma se non altro passeremo dalla possibile pandemia alla pressoché certa sbornia. Un bel passo avanti. Daje Matte’!

Afghanistan, hanno vinto i talebani

Donald Trump ha sbandierato con toni trionfalistici l’accordo raggiunto con i Talebani a Doha. E, dal suo punto di vista, non ha tutti i torti: da buon imprenditore riteneva inutile spendere 40 miliardi l’anno per una guerra che tutti dallo stesso Pentagono ai suoi consiglieri militari agli opinionisti americani consideravano persa (“la guerra che non si può vincere”). Inoltre i morti Usa, nonostante l’uso pressoché esclusivo di aviazione e droni, cominciavano a essere troppi e un certo malcontento serpeggiava anche nella popolazione.

Ma i veri vincitori di questo accordo sono i Talebani che hanno ottenuto tutto ciò che volevano. Il ritiro sia pur graduale (entro 14 mesi) di tutte le truppe occidentali, basi comprese. E questo lo volevano ormai non solo i Talebani, ma anche i non Talebani e gli anti Talebani, stufi degli occupanti e di una guerra che si trascinava inutilmente da 19 anni. Tanto più ingiusta e pretestuosa perché è stato chiarito al di là di ogni dubbio che “la dirigenza talebana dell’epoca (cioè il mullah Omar e i suoi) era ignara degli attacchi alle torri gemelle e al Pentagono”. Inoltre, mentre l’11 settembre tutte le folle arabe scendevano in piazza festanti, il governo Talebano-afghano mandava agli Stati Uniti un telegramma di condoglianze che suonava così: “Nel nome di Allah, della giustizia e della compassione. Noi condanniamo fortemente i fatti che sono avvenuti negli Stati Uniti al World Trade Center, condividiamo il dolore di tutti coloro che hanno perso i loro familiari e i loro cari. Tutti i responsabili devono essere assicurati alla giustizia”. Invitava anche l’America a essere prudente nelle sue reazioni. Ma gli Stati Uniti furono tutt’altro che prudenti perché, come hanno rivelato il Washington Post e il New York Times, era da mesi che stavano preparando un attacco all’Afghanistan.

La condizione posta dagli americani agli eredi del Mullah Omar perché i Talebani si impegnino a sbarazzare l’Afghanistan dai terroristi internazionali, in particolare dell’Isis, per i Talebani non è una condizione è un fatto già in essere. È da quando Isis è penetrato in Afghanistan che lo combattono. Decisiva, per chi abbia orecchie per intendere, è “la lettera aperta” del 16 giugno 2015 che il Mullah Omar, in quello che fu il suo ultimo atto, inviò ad Al Baghdadi (e che solo noi del Fatto, almeno in Italia, abbiamo pubblicato) intimandogli di non cercare di penetrare in Afghanistan perché la guerra di indipendenza afgana era un fatto interno e non aveva nulla a che vedere con i deliri geopolitici del Califfo. E aggiungeva: “Tu stai dividendo pericolosamente il mondo musulmano”. Del resto negli ultimi anni era molto facile distinguere gli attentati talebani da quelli attribuibili all’Isis. I Talebani colpivano esclusivamente obiettivi militari e politici anche se inevitabilmente c’erano degli “effetti collaterali” perché non avevano alcun interesse a colpire i civili inimicandosi la popolazione il cui sostegno rendeva possibile la loro resistenza. I kamikaze dell’Isis si facevano saltare in aria ovunque, in mezzo alla popolazione, preferibilmente nelle moschee sciite. Stretti fra gli occupanti occidentali e i guerriglieri di Al Baghdadi, i Talebani, pur avendo l’egemonia nella vastissima area rurale del Paese, avevano dovuto cedere molte posizioni permettendo agli uomini del Califfo di arrivare fino a Kabul. Se non devono più combattere anche gli occidentali per i Talebani sarà ora molto più facile cacciare l’Isis, perché conoscono il territorio che è il loro territorio (Putin questo l’aveva capito prima di tutti riconoscendo ai Talebani lo status di “gruppo politico non terrorista”, temendo che Isis penetrasse nei paesi centroasiatici e si avvicinasse pericolosamente a Mosca).

Adesso il vero problema è quello del governo di Ashfar Ghani, escluso dalle trattative perché i Talebani lo hanno sempre considerato un fantoccio Usa, e della corrottissima cerchia governativa (Amministrazione, polizia, e anche magistratura, tanto che da tempo gli afgani preferivano rivolgersi alla giustizia talebana, più spiccia ma meno corrotta). È il problema dei “collaborazionisti”, molto simile a quello che si pose in Italia con i fascisti dopo la vittoria americana nella Seconda guerra mondiale. Se ci fosse ancora il Mullah Omar, con la sua sagacia, sarei ottimista. Il giorno dopo aver preso Kabul concesse un’amnistia generale e la rispettò per tutti i sei anni del suo governo. Oggi, con i nuovi talebani, incarogniti da 19 anni di una guerra sanguinosa, non so.

“Spariti i verbali della commissione”

Stop al tram, al concorso per undici posti di dirigente e persino la richiesta dell’intervento della Commissione regionale Antimafia: il giorno dopo la bufera giudiziaria che ha investito la maggioranza di Leoluca Orlando con l’arresto di due consiglieri comunali e due dirigenti, le opposizioni vanno all’attacco e chiedono il ritiro di “tutti gli atti firmati dai dirigenti comunali indagati, nominati intuitu personae dal sindaco’’.

E il day after di Orlando ha il sapore di una virata a 360 gradi: in sole 24 ore è passato dalla conferma politica di Emilio Arcuri, firmatario della delibera incriminata (“Quali sono le ragioni per non confermarlo? I suoi atti li ho firmati anch’io’’) alla scelta tecnica di livello istituzionale.

A presidio di uffici dove due anni fa un cartello vietava espressamente i “favoritismi’’, inibendo l’ingresso a “utenti accompagnati da colleghi di altri uffici, rappresentanti di comitati, enti, associazioni, partiti e movimenti politici’’, il sindaco ha chiamato il presidente dell’Ordine degli Ingegneri di Palermo Vincenzo Di Dio, stimato docente universitario. “Si occuperà solo di edilizia privata , è un tecnico di alta professionalità’’, ha detto ieri presentando gli altri due nuovi assessori, Paolo Petralia, figlio dei magistrati Dino e Alessandra Camassa, e Sergio Marino. Aggiungendo: “Sono commosso per il fatto che alcuni malfattori mi definiscano un ‘coglione’ per aver impedito alcuni affari. È una medaglia”.

E mentre i magistrati che conducono l’inchiesta hanno fissato gli interrogatori di politici, funzionari e imprenditori arrestati per il 5 marzo, i riflettori restano accesi sulla commissione Urbanistica, il cui presidente, Giovanni Lo Cascio, è finito agli arresti domiciliari: da una denuncia presentata il 4 novembre scorso in Procura dalla consigliera grillina Giulia Argiroffi si scopre che il 30 per cento dei verbali delle riunioni di commissione è sparito. O meglio, non è mai stato pubblicato nel sito internet del Comune: “Per il 2018 risultano non pubblicati 104 verbali su 248 sedute, il 41,9 per cento del totale – ha scritto la Argiroffi in una nota – per l’anno successivo al 4 novembre 2019 risultavano non pubblicati 144 verbali su 211 sedute, pari al 68,2 per cento. E dopo la cifra è scesa a 65 verbali non pubblicati su 251, pari al 25,5 per cento del totale’’.

Le indagini intanto proseguono e negli uffici comunali si attendono nuovi sviluppi giudiziari: “Io penso che altri tre consiglieri comunali siano nella black list della Procura. Il tempo ci darà risposta’’, ha scritto su Facebook il dirigente dell’area Riqualificazione Urbana Nicola Di Bartolomeo, ovvero l’unico dirigente tecnico rimasto al Comune.

Piazze vuote, espulsioni e B. Ma le Sardine: “Nessuna crisi”

“Non possiamo essere snob”, hanno detto. “Non c’è piazza che non valga la pena riempire”, hanno detto. Ma che succede se l’impresario della piazza è Berlusconi Silvio, anni 83, politico e miliardario, emblema – così pareva – di quello contro cui la piazza si riempiva? Il cortocircuito è palese e infatti l’ospitata di Mattia Santori, Lorenzo Donnoli e Jasmine Cristallo ad Amici – storico show di Canale 5 – ha costretto i leader delle Sardine a pubbliche giustificazioni.

E il caso non è affatto isolato, altrimenti non si spiegherebbe come nelle ultime settimane il movimento abbia perso popolarità – lo certifica un’indagine Demos&Pi per Repubblica – e soprattutto persone, attivisti, simpatizzanti, quelli che prima riempivano le piazze (vere) e adesso – ma tu guarda – non si fanno andare a genio la deriva iper-televisiva.

“Loro pensano di aver utilizzato bene i media. Ma bisogna capire se invece non siano i media a utilizzare loro”. Parola di Bruno Martirani, già referente napoletano del movimento espulso dieci giorni fa. Colpa di una manifestazione iniziata male e finita peggio: poca gente e qualche contestatore a margine della piazza di Scampia. “Dobbiamo valutare se ci hanno percepito come un corpo estraneo”, aveva detto Antonella Cerciello, una dei promotori. Mentre la valutazione è in corso, Martirani ce l’ha con la personalizzazione del movimento: “La sfida dovrebbe essere quella dei contenuti, non quella di creare personaggi da marketing politico”.

Anche perché la sovraesposizione mediatica rischia di far danni, come già aveva sottolineato il dissidente romano Stephen Ogongo, autoesclusosi dal movimento. Eppure Lorenzo Donnoli non sembra preoccupato: “Essendo un progetto nato dal basso, l’unico canale che abbiamo sono i media. Andrei anche a Ballando con le Stelle se mi garantissero di poter parlare del surriscaldamento globale, non dobbiamo essere snob o ghettizzarci”. Legittimo, anche se qualche mese fa Santori e soci garantivano che non avrebbero mai messo piede ai talk show di Rete4, tana sovranista da conduttori e pubblico urlanti: “Noi non partecipiamo a zuffe e baruffe – è ancora la versione di Jasmine Cristallo –, ma il problema sono le trasmissioni, non Mediaset. Anche perché ad Amici abbiamo avuto piena libertà”. E così anche Donnoli: “Non andremmo mai da Del Debbio e Porro, in programmi che sdoganano termini come culattone o frocio tra gli applausi delle persone”. E allora eccoli lì, apparecchiati di fronte alla Maria nazionale. Nonostante i malumori di parecchi referenti sui territori, come la pistoiese Francesca Cimò: “Il mio dissenso era dovuto al fatto che secondo me le Sardine avrebbero dovuto scegliere altri luoghi. Ma di questo abbiamo poi parlato con Mattia e ci siamo già chiariti”. “Una parte di noi è rimasta basita quando lo ha saputo”, confessa il fiorentino Danilo Magli. Per non dire di Fabio Cavallo, che racconta alcuni malumori nel gruppo lombardo: “Molti sono rimaste perplessi perché parliamo di Mediaset e quindi Berlusconi, con quello che comporta”.

Il nemico prediletto, è evidente, resta un altro. Non Silvio, ridotto a esser trattato da bonario locatore di prime serate con la cortesia dell’argenteria buona, ma Matteo Salvini. Problema: finite le campagne elettorali, messi da parte i fasti del Viminale ed emergenza virus in corso, Matteo non è più in grado di garantire la grancassa per sé, figurarsi per i suoi oppositori.

Così passa la gloria del mondo: secondo Demos&Pi, a febbraio il 53% degli italiani “non ha partecipato e non è d’accordo con le iniziative delle Sardine”, mentre due mesi fa ci si fermava al 43%. Anche su questo, però, Jasmine Cristallo minimizza: “In parte è una cosa fisiologica, dopo essere stati un fenomeno politico all’inizio. E poi da quando è iniziata l’emergenza coronavirus era naturale farsi da parte senza improvvisarsi virologi”. Argomento non scontato, vista la loquacità di Santori nei confronti dei più vari temi. Come quando spiegava a Giuseppe Conte i segreti del diritto in tema di concessioni autostradali: “Per recedere un contratto in essere ci deve essere una giusta causa che deve essere comprovata dalla magistratura”. Lezione corredata da foto in casa Fabrica, cioè in casa Luciano Benetton. All’epoca Jasmine Cristallo fu dura coi colleghi: “E sono ancora convinta che fu un errore. Ma ne abbiamo discusso per giorni e i ragazzi hanno chiesto scusa, non ha senso mortificarli ancora”. D’altra parte era solo un’altra piazza che “valeva la pena riempire”.

Castelli Romani, l’inciucio tra Lega e Italia Viva

Prove d’intesa fra Italia Viva e i partiti di destra in alcuni Comuni della provincia di Roma. Lo schema che a livello nazionale solletica le fantasia dei due Matteo, Matteo Salvini e Matteo Renzi, appare materializzarsi alle porte della Capitale. Soprattutto a Frascati, noto centro dei Castelli Romani, dove il primo cittadino Roberto Mastrosanti è da qualche settimana ufficialmente il primo sindaco di Italia Viva.

Ufficialmente “civico”, con un passato nell’Udc, Mastrosanti è sostenuto da una maggioranza di centrodestra composta da consiglieri legati a Fratelli d’Italia e di Forza Italia. Gli azzurri sono il vicesindaco, un assessore e un consigliere, mentre il partito di Giorgia Meloni esprime 3 consiglieri comunali. Finché i legami di partito non erano stati svelati, però, si è potuto continuare a giocare a carte coperte.

L’accordo è venuto fuori quando il primo cittadino ha dichiarato la propria adesione al progetto renziano, scatenando i vertici di FdI, che ne hanno chiesto la sfiducia. Ne è nata una riunione di fuoco che ha interessato anche i leader a livello regionale, ai quali tuttavia i tre consiglieri meloniani hanno risposto picche, conservando il loro sostegno al primo cittadino. “Uno è già stato mandato via, gli altri verranno cacciati se voteranno il bilancio”, afferma il coordinatore provinciale, Marco Silvestroni. I rumors parlano del cosiddetto “lodo-Ciocchetti”, un accordo spinto dall’ex parlamentare Udc, passato da poco a Fratelli d’Italia, che guarderebbe di buon occhio l’accordo con i renziani per arginare il dem Bruno Astorre, coordinatore del Pd nel Lazio e persona che nei Castelli romani ha da sempre il grosso dei propri consensi. Uno schema evidentemente ripercorribile a livello nazionale. Sul territorio è molto attivo anche il senatore 5S, Emanuele Dessì, fedelissimo della consigliera regionale Roberta Lombardi e fra i fautori dell’accordo Pd-M5S.

Non solo Frascati. Nei giorni scorsi il Fatto ha raccontato il “laboratorio Anzio”, dove il consigliere Marco Maranesi, passato da Forza Italia a Italia Viva, sostiene il sindaco leghista Candido De Angelis, con l’appoggio esterno di una ex rappresentante dem in rotta con il partito. Ma è dalle prossime elezioni che potrebbero arrivare le novità piu’ importanti in tema di alleanze.

Ad Albano Laziale, nel cuore dei Castelli, il coordinatore provinciale di Italia Viva, Luca Andreassi, ha prima annunciato la sua candidatura a sindaco, poi si è ritirato sostenendo il candidato del centrosinistra Massimiliano Borelli; ora, tuttavia, parrebbe essere tentato proprio dalle sirene di Fratelli d’Italia che gli starebbero insistentemente offrendo il loro sostegno. Andreassi smentisce qualsiasi coinvolgimento con i suoi ex colleghi di partito – ha un passato in Alleanza Nazionale – e la stessa cosa sta facendo FdI, ma il dialogo in chiave anti Pd-M5S prosegue. Infine il caso di Rocca di Papa. La scomparsa del sindaco eroe Emanuele Crestini – morto a giugno 2019 dopo aver coordinato i soccorsi in seguito all’esplosione di un’ala della palazzina comunale – ha lanciato la prima cittadina a interim, Veronica Cimino, che potrebbe a giorni ufficializzare il proprio passaggio a Italia Viva. Anche qui le appartenenze di partito, quando non dichiarate, sono “mascherate” dai simboli civici.

Cimino, in realtà, risulta da sempre vicina alla Lega, ma il 3 febbraio scorso è stata avvistata alla kermesse renziana di Cinecittà, in compagnia del suo collega di Frascati, Mastrosanti: la proposta sul piatto è quello di un apparentamento Italia Viva-Lega al ballottaggio. La sublimazione del teorema dei due Matteo.