Ue: procedura d’infrazione contro l’aeroporto di Renzi

Non solo i giudici amministrativi del Tar e del Consiglio di Stato. Adesso la pietra tombale sul progetto renziano del nuovo Aeroporto di Firenze arriva addirittura da Bruxelles: il commissario europeo all’Ambiente, il lituano Virginijus Sinkevicius, nei giorni scorsi ha aperto una procedura d’infrazione contro l’Italia per il decreto legislativo 104/2017 approvato dal governo Gentiloni – con Renzi azionista di maggioranza – che in molti avevano considerato una norma ad aeroportum in quanto velocizzava le procedure di Valutazione di Impatto Ambientale (Via) per le grandi opere.

Ed è stata proprio la “Via” sull’aeroporto di Firenze che, prima l’estate scorsa e poi a inizio febbraio, i giudici amministrativi hanno sonoramente bocciato bloccando per i prossimi anni (per non dire decenni) l’ampliamento dello scalo voluto da Matteo Renzi e dal suo giglio magico. “L’ampliamento dell’aeroporto di Firenze era l’unica grande opera pubblica che ha beneficiato della nuova norma – spiega al Fatto Gianfranco Ciulli, presidente dell’Associazione contraria allo scalo ‘Vita, Ambiente e Salute’ – e per questo abbiamo fatto ricorso all’Ue”. Il decreto legislativo approvato nel 2017 recepiva una direttiva, la 2014/52, dell’Unione europea proprio in tema di Via ma, secondo il commissario europeo, questo è stato fatto introducendo “un elemento di discrezionalità” e “non previsto nella direttiva”: tra questi l’impossibilità dei cittadini di leggere integralmente i progetti delle grandi opere, compreso le sue integrazioni successive, e anche di presentare eventuali osservazioni con le possibili contro deduzioni.

Per questo l’associazione “No Aeroporti” Vas ha fatto ricorso alla Direzione Generale dell’Ambiente Ue che ha dato ragione agli ambientalisti aprendo la procedura d’infrazione perché, si legge nel comunicato di risposta, “si pone un problema di conformità della normativa italiana di recepimento della direttiva”. “Non si pensi che la partecipazione dei cittadini sia una questione di poco conto – continua Ciulli – la trasparenza della Pubblica amministrazione è uno dei principi cardini della nostra Costituzione”. Adesso, come prevede la legge europea, il governo italiano ha 60 giorni per adeguarsi al diritto dell’Unione correggendo il decreto legislativo e a quel punto la commissione deciderà la questione di nuovo: se sarà sanato il vizio normativo non ci saranno ulteriori conseguenze mentre, in caso contrario, potrebbe arrivare una multa da Bruxelles. “Mi sembra una cosa fuori dal normale che noi cittadini riusciamo a capire quali siano le regole da rispettare per le opere pubbliche e non lo sappia chi è preposto a farlo: come diceva Andreotti, a pensar male si fa peccato ma spesso si azzecca”. Nel frattempo Toscana Aeroporti spa (presieduta dal braccio destro di Renzi, Marco Carrai), il sindaco di Firenze Dario Nardella e la Regione Toscana hanno detto di voler “andare avanti con l’opera” recependo la sentenza dei giudici mentre il senatore di Scandicci Matteo Renzi nei giorni scorsi ha annunciato di voler presentare un decreto per superare “i ricorsi assurdi” e che preveda la nomina di un commissario ad hoc sul modello di Expo 2015.

Così facendo sfiderà nuovamente la maggioranza di governo visto che il M5S è da sempre contrario all’opera e ha esultato dopo la sentenza del Consiglio di Stato. Non solo: nei giorni scorsi anche il candidato governatore, Eugenio Giani, ha più volte glissato sull’argomento per non spaccare le forze di centrosinistra che lo sostengono in vista delle elezioni di maggio. “Sull’aeroporto è stata messa una pietra – conclude Ciulli – solo l’utopia del senatore di Rignano può portare a queste idee strampalate. Se ci fosse un po’ di correttezza, la politica dovrebbe prendere atto delle sentenze dei giudici e della procedura di infrazione europea, chiedere scusa e ripartire con opere più sostenibili per la Toscana”.

L’attivismo di Zinga per guidare il governo

Una cabina di regia parallela. Di più, una sorta di governo parallelo. L’immagine che immortala il ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri e il capo delegazione Dem, Dario Franceschini, accanto a Nicola Zingaretti e Andrea Orlando, che incontrano le parti sociali al Nazareno, è eloquente. Ci sono, tra gli altri, il segretario della Cgil, Landini, per la Cisl la segretaria Furlan, per la Uil il segretario Barbagallo, per Confindustria il direttore generale Marcella Panucci. E si parla delle misure da prendere sul coronavirus. Una concentrazione che fa saltare i nervi ai Cinque Stelle: sembra un modo per intestarsi la guida del governo. Tanto più che la Panucci anticipa in quella sede ciò che verrà detto a Conte mercoledì: “Ora servono misure di carattere strutturale volte a sostenere l’economia. In una fase già di rallentamento”.

Sono passati sei mesi dalla nascita del governo Conte 2 e forse in questo momento si vedono le conseguenze della scelta del Pd di piazzare i suoi uomini in tre posti chiave a livello europeo: Paolo Gentiloni, Commissario agli Affari economici, Roberto Gualtieri alla guida dell’Economia e anche Enzo Amendola agli Affari europei. Mentre l’Europa promette la flessibilità di cui l’Italia ha bisogno, per bocca dello stesso Gentiloni (da vedere come va a finire, ovviamente), Gualtieri conquista alle suppletive di Roma proprio il seggio che era del Commissario. Un rafforzamento del suo ruolo, secondo i dem, che peraltro è cruciale: è lui che sta lavorando al decreto con le misure economiche per contrastare l’emergenza, è lui che media in prima persona con l’Ue, forte anche del suo rapporto di fiducia con Mario Draghi. Insieme a Giuseppe Conte, certo, ma in questi ultimi giorni è sembrato quasi un premier ombra. Non a caso, il suo nome è uscito più volte come premier di un eventuale esecutivo di unità nazionale. Sempre smentito dallo stesso interessato.

“Noi del Pd siamo sdraiati sul governo”, ribadiscono un po’ tutti nel partito. La traduzione in questa fase è che i Dem stanno “pidizzando” il governo. Non è più un mistero che Conte abbia migliori rapporti con loro che con i Cinque Stelle. D’altra parte, era il progetto originario di Goffredo Bettini. Quello che per primo ha parlato della ricerca dei Responsabili da parte del Pd. Giovedì, a Napoli, Conte, durante la conferenza stampa con Emmanuel Macron, ci ha tenuto a dire che un governo responsabile già esiste (il suo) e che non ne serve uno di unità nazionale. E allora, il Pd continua a lavorare per scongiurare cambi di scenario. “Teniamo buoni rapporti con tutti”, racconta uno degli uomini nevralgici dei dem in Senato. Capigruppo, vicecapigruppo e in generale un po’ tutti lavorano per capire chi sarebbe pronto ad appoggiare il premier in un momento di difficoltà. Anche se poi sta a Conte chiudere le trattative. Stasera lo stesso premier incontra i capigruppo di maggioranza e opposizione. La settimana prossima in Parlamento arriva la risoluzione per la variazione del bilancio: il tentativo è di coinvolgere tutti o quasi tutti.

Ma in realtà le tensioni continuano anche dentro la maggioranza. Domenica sera M5s ha accusato il Pd di “iniziative unilaterali”. Ieri dal Nazareno hanno passato la giornata a dire che l’incontro era programmato da tempo. “Tutte le forze politiche fanno bene a fare incontri con le forze sociali: non c’è nessun tavolo parallelo”, ha affondato Orlando. Aggiungendo: “La nostra presenza come maggioranza nel governo non ci preclude la possibilità di continuare a essere una forza politica”.

Ma le polemiche non si fermano. In previsione del decreto, M5S punta a farsi carico delle richieste delle imprese del Nord, area dove è al suo minimo storico. E il rischio è che, stretto tra il Pd e l’offensiva leghista, perda la sua “voce” sull’emergenza. Anche in questo frangente, i dem individuano un colpevole della destabilizzazione: Luigi Di Maio è accusato di remare contro questo governo.

“L’Ue non ci ascoltava, ora agisca in fretta”

In un pomeriggio romano di pioggia e ansie, la 5Stelle che si occupa dei conti pubblici prova a tamponare: “Sono appena uscita dall’ufficio del ministro Gualtieri, facciamo riunioni di continuo”. Ma la viceministra all’Economia, Laura Castelli, sa quanto sia stato agitato il fine settimana di Pd e M5S, con Gualtieri a promettere un nuovo decreto da 3,6 miliardi e il segretario dem Zingaretti che ieri mattina ha visto le parti sociali. E dall’altra parte loro, i 5Stelle, a diffondere rabbia contro le presunte “fughe in avanti” dei democratici.

Perché l’attivismo del Pd vi ha fatto così arrabbiare? Temete che voglia prendere il timone del governo?

Con i dem abbiamo sempre lavorato bene quando abbiamo lavorato assieme. Certe accelerazioni solitarie non fanno il bene del governo.

Incontrare le parti sociali rientra nelle prerogative di un segretario di partito.

Le incontrerà anche il presidente del Consiglio Conte, in un appuntamento che era già fissato da giorni.

Insisto: perché il Pd ha fatto annunci e organizzato incontri?

Perché c’è una forte richiesta di risposte da parte dei settori produttivi e dalle parti sociali del Paese. Ed è assolutamente comprensibile.

Sembrate marciare divisi. Stasera voi 5Stelle avete fatto il punto sul nuovo decreto separatamente.

Fare una riunione politica è molto diverso dall’incontrare le parti sociali. Ma ripeto, in queste ore stiamo lavorando come governo per varare il nuovo decreto entro questa settimana.

Gualtieri ha parlato di un decreto da 3,6 miliardi. Per alcuni dei suoi colleghi del M5S, anche di governo, sono pochi. Lei che ne pensa?

È prematuro dare cifre. Stiamo ancora raccogliendo dati sui danni prodotti dal virus alla nostra economia. Soprattutto, bisogna capire quali misure si vogliono fare e quali effetti ci si aspetta.

Il ministro però su Repubblica una cifra l’ha data, e voi del M5S non avete affatto gradito.

Sarà stato il frutto di interlocuzioni informali che ha avuto a livello europeo. Ma ripeto, il punto è quali misure applicare, e poi se e quanta flessibilità ci concederà la Ue.

Su questo aspetto Gualtieri, ex presidente della Commissione per i problemi economici e monetari della Ue, sembra ottimista.

Io credo che la Ue ci concederà spazi di manovra perché il coronavirus riguarda anche altri Paesi europei, quindi questa crisi va affrontata in modo globale. Nei prossimi giorni ci sarà un coordinamento europeo su come affrontarla. Peccato però che l’Europa non abbia ascoltato l’Italia in occasione delle due precedenti manovre, quando chiedevamo flessibilità per agire contro i danni del dissesto idrogeologico o per gestire l’immigrazione.

Ci sono dei parametri da rispettare nelle trattative, le risponderebbero.

Quando ad avere problemi era solo il nostro Paese, la Ue non ha mostrato la stessa sensibilità che si sta vedendo ora. Auspico che l’Europa agisca da comunità anche al di fuori di casi di epidemie, per esempio per prevenire crisi economiche consentendo spese per investimenti.

Prima parlavamo della riunione serale tra voi del Movimento. Quali misure vorreste nel nuovo decreto?

Innanzitutto bisogna rafforzare la tutela della salute dei cittadini, quindi servono nuove assunzioni per medici, infermieri e ricercatori.

Poi vanno aiutate le imprese, così da scongiurare licenziamenti. Serve l’esonero dal versamento dei contributi previdenziali, e va rafforzato il fondo per il sostegno alle piccole e medie imprese.

L’Italia è ferma, accusano le opposizioni: soprattutto sui cantieri, sostiene anche una forza di maggioranza come Italia Viva. E lo pensano anche diversi 5Stelle del Nord.

Il Paese non è affatto fermo, gli ultimi dati dell’Istat lo dimostrano. Detto questo, vareremo norme per snellire le procedure e velocizzare i lavori, sul modello di quanto fatto a Genova per ricostruire il ponte Morandi. Bisogna accelerare sulla legge speciale sui cantieri a cui stiamo già lavorando come M5S.

Glielo richiedo: 3,6 miliardi possono davvero bastare?

Di certo se fosse necessario un investimento maggiore il Movimento sarà pronto per fare tutto ciò serve.

Subito il mini-deficit, ma il conto salirà: si tratta con Bruxelles

Il governo prepara il nuovo decreto per fronteggiare l’impatto economico dell’epidemia di Coronavirus. Dopo il primo, di venerdì – peraltro ancora non pubblicato – che riguardava le zone dei focolai, il prossimo dovrà affrontare i risvolti macroeconomici sull’intero Paese. Al ministero dell’Economia si aspettano un nuovo picco di contagi nelle prossime due settimane ed è ormai chiaro che quest’anno l’Italia entrerà in recessione. Resta solo da stimare quanto sarà profonda. Numeri concreti, però, ancora non c’è ne sono.

L’unica certezza è che il disavanzo salirà subito di almeno 3,6 miliardi, lo 0,2% del Pil, come annunciato dal ministro dell’Economia Roberto Gualtieri domenica. Servirà a inserire nel decreto alcune misure d’emergenza: un credito d’imposta per le imprese che hanno perso un quarto del fatturato; sostegno al settore turistico in ginocchio; la Cassa integrazione in deroga a tutte le aziende colpite, anche quelle che normalmente non ne avrebbero diritto; un sostegno al servizio sanitario nazionale per aumentare i posti letto di terapia intensiva e accelerare l’assunzione di personale. Per farlo, il governo chiederà al Parlamento di autorizzare lo sforamento degli obiettivi di bilancio concordati con Bruxelles. Passaggio obbligatorio avendo inserito il pareggio di bilancio in Costituzione. Da Bruxelles è già arrivato il via libera informale a Gualtieri. Ieri Ursula von der Leyen ha annunciato un’unità di crisi di cui faranno parte i commissari alla Gestione crisi, agli Interni, alla Salute, ai Trasporti e all’Economia. Quest’ultimo, Paolo Gentiloni, è stato più esplicito: “Il virus sta continuando a diffondersi, è tempo di dire che la Ue è pronta a usare tutte le opzioni disponibili, se e quando necessario, per salvaguardare la crescita”.

Intanto Roma, che ha i contraccolpi più forti, si porta avanti. Sulla carta, per la verità, il governo italiano può contare su numeri perfino migliori del previsto. Ieri l’Istat ha svelato che il Deficit 2019 – l’anno del governo dei barbari, di Quota 100 e del Reddito di cittadinanza che dovevano scassare le finanze pubbliche secondo la meglio stampa – si è fermato all’1,6% del Pil, il più basso da 12 anni e 0,6 punti più basso delle stime del governo. L’avanzo primario – la differenza fra entrate e uscite dello Stato al netto del costo del debito – è salito all’1,7% del Pil, il più alto dal 2013. Numeri oltre le previsioni, dovuti a una crescita del Pil, seppur anemica, migliore del previsto (+0,3%, contro lo 0,1% stimato dal governo ad aprile) e a un incremento delle entrate (imposte dirette e indirette). L’ufficio parlamentare di Bilancio stimava un disavanzo in calo al 2%: si è fermato 3 decimali sotto. Il dato ha un effetto di trascinamento sul 2020, consentendo di partire da un deficit più basso. E cosa succederà? Senza grandi stravolgimenti e in caso di recessione contenuta (Pil in calo dello 0,2%) il Deficit/Pil si fermerà intorno al 2,4%, lo stesso che spinse Luigi DI Maio a esultare sul balcone a ottobre 2018, salvo poi fare bruscamente marcia indietro. Al Tesoro, però si aspettano una recessione profonda, specie negli altri Paesi europei il contagio avrà presto i numeri che oggi si osservano in Italia. A quel punto, il disavanzo arriverà – riducendo il Pil – ben oltre il 2,4% e la discussione sugli zero virgola sarà archiviata.

Insomma,il decreto contiene provvedimenti doverosi, ma la recessione – se l’emergenza dovesse estendersi o durare a lungo – richiederà ben oltre i 3,6 miliardi previsti da Gualtieri. Il governo si aspetta questo secondo scenario, tanto più che la recessione sembrava alle porte già prima del coronavirus. “Il disavanzo salirà ancora, ma verrà deciso nel Documento di economia e finanza di aprile”, fanno sapere fonti Pd. Il confronto con Bruxelles, quindi, si farà a tappe. Intanto, il governo giallorosso vuole portare la richiesta di sforare il deficit già mercoledì in aula, possibilmente con un via libera unanime e cerca l’appoggio dell’opposizione. Il premier Conte ha convocato per martedì sera a Palazzo Chigi i capigruppo dei partiti per condividere le prossime mosse. Forza Italia ha già detto che lo voterà. Fratelli d’Italia aspetta di vedere il testo. L’incognita è la Lega. “I 3,6 miliardi di Gualtieri non servono nemmeno per iniziare, significa non aver contezza del disastro in atto”, spiegano gli uomini vicini a Salvini. Ognuno porterà le sue proposte. Ieri i ministri 5Stelle ne hanno discusso in conclave, anche per il malumore verso l’attivismo del Pd, che la chiamata di Gualtieri al reggente Vito Crimi ha provato a stemperare.

Il 15enne ucciso: banda rubava Rolex, poi andava a ballare

La Procura di Napoli vuole indagare in tutte le direzioni. Si legge così la decisione di iscrivere nel registro degli indagati, per omicidio volontario, il carabiniere 23enne in servizio nel Bolognese, che ha ucciso a colpi di pistola il 15enne Ugo Russo, nella notte tra sabato e domenica, in via Generale Orsini. L’uomo ha sparato reagendo a una rapina andata male. Il ragazzino e il complice 17enne, come ha dichiarato quest’ultimo agli inquirenti, col bottino delle rapine volevano andare a ballare.

La storia è nota: due giovanissimi, il 15enne e il complice, a bordo di uno scooter sfrecciano nel borgo di Santa Lucia, affiancano l’auto del militare che sta parcheggiando, c’è il tentativo di impossessarsi del suo Rolex, il ragazzino sventola una pistola finta maledettamente somigliante a una vera, poi la reazione del carabiniere che spara. Per difendersi, dopo essersi qualificato come appartenente all’Arma, perché ha sentito scarrellare l’arma puntata alla tempia e temeva per la sua vita e per quella dell’amica che era con lui. Lo ha detto al pm, lo ribadisce attraverso il suo legale Enrico Capone: “È dispiaciuto per la morte del ragazzo, ma sereno e fiducioso nella giustizia. Si è comportato in maniera impeccabile dal punto di vista professionale. Attendiamo ora gli sviluppi”.

L’iscrizione, un atto dovuto e atteso – il militare è stato interrogato domenica e pur non formalmente iscritto è stato sentito in presenza dell’avvocato – consentirà al carabiniere di nominare, se lo riterrà, consulenti di fiducia per gli atti irripetibili che i pm disporranno. Per accertare il numero dei colpi sparati (tre o quattro), quelli andati a segno (sarebbero due), i fori di entrata e uscita dei proiettili, le loro traiettorie, la dinamica. A cominciare dall’autopsia per la quale si attende il conferimento dell’incarico. Insieme alla perizia balistica, sarà determinante per chiarire l’accaduto. I pm vaglieranno le circostanze esimenti esposte dal militare. Che potrebbero mutare l’ipotesi di reato, alleggerendola, oppure scagionarlo da ogni accusa.

Ma è presto per anticipazioni e fughe in avanti in un verso o nell’altro. Bisognerà pesare tutti i dettagli, come quelli emersi ieri. L’amica del militare, sentita anche lei dal pm, era già scesa dall’auto prima che iniziasse la manovra di parcheggio e quindi non ha potuto vedere da vicino come e in che modo il ragazzino si è avvicinato al finestrino del guidatore. Nel giubbotto di Russo i medici del pronto soccorso del Vecchio Pellegrini, dove il ragazzo è spirato poco dopo il ricovero, hanno ritrovato un altro Rolex e una catenina d’oro. Forse il bottino di un’altra rapina.

Lo scooter dei due minorenni circolava con una targa clonata. Sembra il modus operandi di rapinatori seriali che adottano le cautele criminali tipiche di chi vuole sottrarsi alle identificazioni delle telecamere. Se la rapina fosse andata a buon fine, quelle disseminate su via Orsini avrebbero fotografato una targa inutile a risalire agli autori.

E che Napoli sia una città complicata per chi indossa orologi preziosi lo conferma un altro episodio che il Fatto Quotidiano è in grado di ricostruire: alle 22 di venerdì scorso, il figlio di un generale dei carabinieri è stato rapinato, in circostanze simili, di un Citizen di valore. Era in auto e stava entrando nel parcheggio del comando interregionale dell’Arma in via Morelli. I malviventi sono arrivati in motorino, hanno sfondato un finestrino, hanno puntato un’arma. A 800 metri di distanza dal luogo in cui Russo è morto il giorno dopo. L’orologio non corrisponde a quello trovato nel giubbotto e non risultano elementi per collegare i due episodi. Che però sono il termometro del diffuso senso di impunità della criminalità napoletana. Che non esita a compiere una rapina davanti a una caserma dei carabinieri.

E nella notte successiva improvvisa un raid davanti a un’altra caserma, la Pastrengo di via Morgantini, dove ha sede il comando provinciale dell’Arma: quattro colpi sparati ad altezza d’uomo contro una finestra. Russo era morto da poche ore e i suoi parenti e amici avevano appena distrutto il pronto soccorso, rendendolo inutilizzabile per quasi tutta la domenica. Non esistono riprese dell’assalto. La videosorveglianza ha coperto solo i luoghi dell’ingresso dei facinorosi.

Russo avrebbe compiuto 16 anni il 10 aprile. C’è una foto che lo ritrae mentre regge uno stendardo della processione della Madonna dell’Arco ai Quartieri Spagnoli. Il suo quartiere, dove un operatore dell’oratorio, Ettore M., lo ricorda con affetto sui social: “Ugo era uno dei miei ragazzi, raccolti da me e da altri operatori che credevano e credono nel loro recupero. Ugo era un buono, educato e rispettoso, ha fatto la sua ragazzata che si è trasformata in tragedia”.

Arnone ancora assolto: nessuna calunnia

Una calunnia che non c’è perché manca il dolo, e i sospetti che tornano ad addensarsi sulla legalità di una villa, costruita in una zona archeologica a ridosso di una delle più belle spiagge siciliane, Eraclea Minoa, di proprietà di Angelo Capodicasa, esponente del Partito democratico, governatore della Sicilia dal 21 novembre 1998 al 26 luglio 2000, l’unico presidente degli ultimi vent’anni, a non essere mai stato incriminato o sfiorato da inchieste e processi.

Protagonista, ancora una volta l’avvocato Giuseppe Arnone, il legale più processato d’Italia: contro di lui sono stati aperti ben 110 processi penali, per lui i pm hanno chiesto, finora senza esito, 13 anni e mezzo di carcere.

Otto anni fa aveva denunciato l’abusivismo della villa, appendendo al balcone del suo studio, di fronte il palazzo di giustizia, le foto della villa incriminata con parte del contenuto delle sue denunce, ma la Procura di Agrigento aveva archiviato l’esposto e Capodicasa lo aveva contro-denunciato per calunnia. Nei giorni scorsi, la perizia disposta dal gup non ha smentito le accuse di Arnone, attestando che le volumetrie abusive erano pari ad almeno un terzo della costruzione e che la casa insiste oggi dove prima c’erano gli alberi e il giudice dell’udienza preliminare di Agrigento, Luisa Turco, lo ha assolto.

Ora il suo difensore, l’avvocato Daniela Principato, ha chiesto al gup di trasmettere gli atti della perizia alla Sovrintendenza “che dovrà revocare il nulla osta e disporre la demolizione’’. La battaglia legale è appena iniziata perché il difensore di Angelo Capodicasa, l’avvocato Nino Gaziano, insiste nel chiedere i danni ad Arnone: “L’assoluzione è per mancanza di dolo – sostiene – resta, pertanto, impregiudicata l’azione civile di risarcimento dei danni conseguenti alla condotta dell’Arnone, richiesta risarcitoria che potrà essere esercitata al deposito della motivazione. Resta fermo, inoltre, il diritto di impugnazione per gli effetti civili della sentenza”.

Tra i due la ruggine è antica, e risale al 2012, quando Arnone portò in giro per l’Italia il suo poster bus, parcheggiandolo sotto casa di Bersani, a Bettola, e di Pietro Grasso per invitarli a non candidare Mirello Crisafulli e Capodicasa, accusati di “lisciare il pelo alla mafia”: “Liberaci dagli impresentabili’” era scritto nel poster che nei confronti di Capodicasa era particolarmente duro: “Corvi, sciacalli e iene, così l’on. Capodicasa ha definito gli uomini dell’Antimafia commemorando un sindaco rimosso per mafia, Calogero Gueli, padre di mafiosi, condannati irrevocabilmente”.

Procura di Roma, la bagarre continua: manca l’accordo

È ancora in bilico la nomina di Michele Prestipino a procuratore di Roma. I numeri restano certamente dalla sua parte, ma a 24 ore dal plenum del Csm che deve votare il capo della procura più importante d’Italia, non vi è una certezza matematica. Scambi frenetici di idee nei corridoi di Palazzo dei Marescialli fino a sera danno il senso della tensione e della consapevolezza tra i consiglieri che la quadra non è stata trovata. Quello che a un’ora sembra certo un’ora dopo non lo è più tanto.

La certezza assoluta, a sentire i consiglieri, è solo il ballottaggio perché nessuno dei 3 candidati ha una maggioranza per essere nominato. Prestipino resta il super favorito, ma qualche incertezza ancora rimane perché non è sicuro chi si giocherà la nomina al ballottaggio. Secondo quanto risulta al Fatto, al primo turno a votare Prestipino, procuratore aggiunto di Roma e reggente dal maggio scorso, per il pensionamento di Giuseppe Pignatone, saranno i 5 consiglieri di Area (sinistra) e tre su cinque di Autonomia e Indipendenza, a cominciare dal capogruppo Davigo, relatore della proposta di nomina. Dunque, Prestipino ha al suo fianco 8 togati su 16. Sempre al primo turno, per il procuratore di Firenze Giuseppe Creazzo, voteranno i 3 togati di Unicost (centristi), la corrente del candidato e pure due togati di AeI. Forse anche Filippo Donati, laico M5S. Quindi per il procuratore fiorentino ci sarebbero tra i 5 e i 6 voti.

Creazzo è il magistrato che Luca Lotti voleva fuori da Firenze per i guai giudiziari dei genitori di Matteo Renzi e fuori dalla partita di Roma per i suoi di guai, essendo imputato nell’ambito dell’inchiesta su Consip. È lui che dice “si vira su Viola”, il Pg di Firenze ignaro di questo “tifo”. Lotti ha parlato di notte in un hotel di Roma a maggio 2019 di fronte a 5 togati del Csm (poi costretti alle dimissioni), al collega deputato del Pd Cosimo Ferri e al pm di Roma Luca Palamara, indagato a Perugia per corruzione, intercettato con un trojan nel telefonino, che ha registrato tutto.

Voteranno, invece, per il procuratore di Palermo Franco Lo Voi i tre togati di Mi (destra), la corrente del magistrato, il laico di Fi Michele Cerabona, relatore della proposta e, si dice, anche l’altro laico di FI, Alessio Lanzi. Quindi Lo Voi avrebbe tra i 4 e i 5 voti e potrebbe non passare il ballottaggio.

Il condizionale è d’obbligo perché fino a ieri sera non si conosceva la decisione dei laici della Lega Stefano Cavanna ed Emanuele Basile: uno di loro potrebbe votare al prino turno, o Lo Voi o Creazzo, l’altro si asterrebbe. Invece, i laici Alberto Benedetti e Fulvio Gigliotti al primo giro si asterranno. Non voteranno al primo turno né i capi di Corte né il vicepresidente del Csm David Ermini. Se con Prestipino va al ballottaggio Lo Voi, la vittoria del procuratore reggente di Roma è praticamente certa perchè ci risulta che avrebbe anche i voti dei 3 togati di Unicost. E se, come pare, al ballottaggio voteranno anche i capi di Corte, Prestipino sarebbe votato anche dal Pg della Cassazione Giovanni Salvi, di Area e fino a novembre Pg di Roma. Il presidente della Cassazione Giovanni Mammone, invece, voterebbe per Lo Voi: è di Mi e suo fraterno amico. Va al ballottaggio Lo Voi anche se al primo turno dovesse esserci parità con Creazzo perché il procuratore di Palermo è più anziano.

Se il ballottaggio sarà Prestipino-Creazzo, pare che saranno i tre di Mi a spostare i voti su Creazzo. A quel punto potrebbe finire sempre a favore di Prestipino per 11 a 10 perché lo voterebbero anche i due astenuti al primo turno di M5S. Ma l’incertezza della posizione dei due leghisti e dei due forzisti al ballottaggio, se dovesse arrivarci Creazzo, pure più anziano del reggente romano, rende la nomina di Prestipino ancora un po’ incerta.

La guerra di Pechino a giornalisti e blogger

Quando ha chiuso la portiera dell’auto e ha guardato nello specchietto, ha inarcato lo sguardo e cominciato a registrare. “Mi stanno inseguendo, la sicurezza dello Stato mi sta dando la caccia”. Dalle strade della Cina più nascosta alle telecamere in questi mesi, il giornalista Li Zehua manda in onda in diretta il suo inseguimento in auto a Wuhan. Guarda la telecamera del suo cellulare con un rigido volto spaventato che si intravede sotto cappello e mascherina chirurgica: “Spero che più persone sfidino la censura, l’ultima volta che mi sono sentito così è quando ho visitato la Nord Corea. Aiutatemi”.

Ex reporter della CCTV, tv dello Stato cinese, cassa di risonanza della voce ufficiale di Pechino e della sua propaganda ufficiale sul virus, si è dimesso dall’emittente per disobbedire ai diktat sul racconto dell’emergenza. Testimonianze dei cittadini sui social cinesi che ricordavano le punizioni dell’era di Mao lo hanno convinto a raggiungere Wuhan. “Non posso scappare, questo è il mio ultimo discorso, ho parlato sempre per gli altri, ora parlo per me, non mi sento in colpa” dice prima di essere arrestato mentre parla via Skype con un amico all’estero, che ha poi messo in rete tutto.

La Cina, la crisi, l’epidemia. Il Dragone fa guerra al virus e ogni guerra ricorre alla sua propaganda. “Otto in cinque minuti”. È il conto dei sacchi di plastica ammassati in un’ambulanza all’ospedale numero 3 di Wuhan. Dentro ci sono cadaveri dei contagiati. Intorno a loro persone vestite di nero con guanti bianchi e mascherine, nascosti i loro sguardi sotto cappelli scuri. Si muovono scafandri tra i corridoi di un ospedale troppo affollato. Prima muto, poi struggente per il lamento di un figlio che ha appena visto morire suo padre, è il video di Fan Bin, cittadino comune che ha rifiutato di rispettare la quarantena imposta dalle autorità e ha cominciato a passeggiare nella zona epicentro del Covid-19.

Quasi due milioni di persone lo hanno visto prima che Fan Bin scomparisse. Le sue ultime parole: “La loro avidità di potere e soldi li ha resi disumani. Mi hanno detto che devo stare zitto per la mia sicurezza, probabilmente hanno ragione”. Rintracciando il suo indirizzo dal suo account, le divise hanno fatto irruzione a casa sua. La data del 10 febbraio è quella cerchiata in rosso sul calendario per ricordare il giorno in cui sono cominciate le ricerche di Chen Quishi, ragazzino dal volto magro che erano abituati a vedere i circa 400 mila follower del suo canale Youtube. È scomparso dopo aver postato numerose testimonianze della rabbia della popolazione seguita alla morte del dottor Li Wenliang, l’oftalmologo che per primo ha tentato di denunciare la pericolosità del Corona, poi arrestato e costretto a ritrattare, ed infine deceduto perché colpito dalla malattia da cui aveva tentato di salvare gli altri. Le immagini di Wuhan di Quishi erano state viste quasi due milioni di volte. “Vi prego, aiutatemi a ritrovare mio figlio”. A usare la stessa piattaforma su cui Quishi era diventato celebre ora è sua madre, trafitta dal dolore della sua scomparsa e dall’assenza di informazioni sul suo prossimo futuro. La carenza delle strutture sanitarie, il vero numero dei decessi, i malati rimandati indietro senza diagnosi e senza cure: manca all’appello, nel clima da serratura e bocca chiusa, anche Xu Xhangrun, professore all’Università di Tsinghua, che ha criticato il governo per la gestione del controllo di una malattia dichiarata inesistente fino a dicembre scorso.

“Zona”, da Chernobyl a Wuhan e Codogno: la Storia che si ripete

C’è la Zona e c’è il resto del mondo. La campagna di Lodi a sud di Milano o quella di Prip’jat a nord di Kiev o il mercato del pesce di Wuhan. Il male invisibile ha un epicentro dal quale si diffonde creando il vuoto. Ci sono di mezzo muri e muraglie, e l’incapacità di contenere, arginare. La Chernobyl cinese, la Wuhan Ucraina, le zone si possono invertire.

Nell’aprile del 1986 il regime comunista sovietico, guidato da un Gorbaciov appena arrivato al potere dopo la morte di una sequenza di zombie (Andropov e Chernenko), ha affrontato il disastro nucleare tra omissioni e occultamenti. Non si è mosso diversamente – finché ha potuto – Xi Jinping.

Peng Yinhua, un medico, lancia l’allarme sull’insorgere di una nuova Sars, viene messo a tacere e poi muore. Il fisico Valerij Legasov viene emarginato, dopo avere capito che la causa dell’avaria al reattore di Chernobyl è un difetto strutturale comune a molte altre centrali; e infine si suicida. Le reazioni censorie dei regimi comunisti sono simili. Il suicidio apre la serie tv Sky Chernobyl e questa frase la chiude: “Se un tempo mi chiedevo qual è il costo della verità, ora mi chiedo soltanto: qual è il costo della menzogna?”.

L’accostamento tra zone emerge leggendo oggi, al tempo del coronavirus, Una passeggiata nella zona, il romanzo-memoir scritto da Markijan Kamyš, il figlio di un “liquidatore” della centrale Lenin di Chornobyl (Chernobyl, in ucraino), tradotto molto bene da Alessandro Achilli, edito da Keller. Il termine “zona” qui viene dal film di Andrej Tarkovskij, Stalker, del 1979. La zona in questione è un luogo postapocalittico, semirurale e abbandonato. Un luogo dove può avvenire di tutto tra le rovine.

L’accesso alla zona è proibito e per accedere e visitarla ci vuole uno stalker, un incursore. Allo stesso modo Markijan Kamyš, nato nel 1988 e cioè due anni dopo il disastro nucleare, compie esplorazioni nell’area proibita, protetta meno rigidamente in un paese che ha ben altri problemi di cui occuparsi dopo la disgregazione dell’Urss, la crisi economica degli Anni 90 e quindi la guerra. È il gusto dell’avventura nella rovina a spingerlo, uno strano miscuglio di civiltà tecnologica andata a male e natura che riprende possesso dello spazio sottrattole dall’uomo, la specie più infestante. Si parte con il sacco a pelo e le provviste per tre giorni, per cinque giorni, per una settimana. Si dorme in case abbandonate. La natura è speranza di resurrezione e anche orrore: è il giardino domestico cresciuto come una giungla, un po’ come la gallina che razzola davanti alla Borsa di Zurigo nel romanzo Dissipatio H. G., di Guido Morselli.

A Codogno e dintorni gli stalker forse sono quelli che fuggono e stalkerizzano il resto del mondo come il ragazzo tornato di soppiatto a Bari, una scena un po’ coronavirus e un po’ Sacracoronavirus.

Per Chernobyl, si ricordano ancora i divieti di mangiare questo o quel cibo, i consigli a stare in casa. Il male invisibile produce emergenze che svuotano la vita, la rendono più irreale di quel che già è. Scrive Markijan Kamyš: “A volte penso che non esistiamo. Non ci sono quelle quaranta persone che regolarmente si mettono a vagare tra le paludi di Chornobyl. Un tempo c’eravamo, poi ci siamo dissolti tra gli acquitrini, ci siamo decomposti in lenticchie d’acqua, giunchi e luce del sole”. Le leggende sconfinano nella verità e sono comuni: in Cina il salto del virus dal pipistrello in brodo all’uomo, in Ucraina i vitelli a tre teste e tutte le altre deformità causate dalla “merda radioattiva”. Alla fine l’avaria nucleare o l’aviaria virale o quel che è diventa autobiografia, storia personale, magari museo a cielo aperto come a Chernobyl, zona permanente, rovina da visitare col sacco a pelo o sorvolare col drone da fighetti.

Guidesi, il deputato leghista recluso a Codogno

Non può uscire dalla zona rossa, quei dieci Comuni a sud di Milano come Lodi e la sua Codogno. Parliamo di Guido Guidesi, deputato della Lega, l’unico parlamentare bloccato a casa per il coronavirus, dal 21 febbraio. Ci resterà almeno fino a domenica 8 marzo, quando scadrà l’ordinanza, che però potrebbe essere prolungata. Per l’Ufficio di presidenza di Montecitorio è considerato “in missione”.

Ma per equiparare i numeri, ogni volta che si vota, il capogruppo del Pd Graziano Delrio non partecipa. “In segno di solidarietà ma anche per ristabilire il giusto equilibrio tra maggioranza e opposizione”, ha spiegato Delrio.

Da Codogno, 16mila anime nel Lodigiano, Guidesi non può muoversi. “In realtà lavoro 20 ore al giorno. Tengo i contatti con sindaci, ospedali, Regione Lombardia, la prefettura di Lodi”, ha raccontato lui in un’intervista, concessa ieri via web, alla stampa estera. Occasione che gli è servita per sferrare un duro attacco al governo. “Le misure annunciate dal ministro Gualtieri sono un’elemosina ridicola e inaccettabile. In questo territorio ci sono 3.400 imprese, molte medio-piccole, a conduzione familiare. Ora sono ferme e i negozi chiusi. Rischiamo il tracollo. Ci vuole un piano di intervento preciso che renda questa zona a economia speciale”, è il suo grido d’allarme. “Siamo gente seria che sta vivendo questa situazione con grande senso di responsabilità. Per questo l’attacco di Conte al nostro ospedale ci ha offeso. Non è detto che il virus sia partito da qui, non siamo gli appestati d’Italia”, avverte Guidesi.

Non è uno qualsiasi, Guido Guidesi, cui una casualità alfabetica assegna le stesse iniziali del suo mentore: GG, Giancarlo Giorgetti. Guidesi, infatti, è l’ombra silenziosa del numero due del Carroccio. Quarantun anni, cresciuto a pane e Lega, Guidesi ha iniziato la sua gavetta tra Lodi, Codogno e Casalpusterlengo. Nel 2009 è segretario provinciale. Nel 2013 fa bingo con l’elezione alla Camera, dove diventa capogruppo leghista in commissione bilancio. È qui che Guidesi si fa stimare dal numero due, tanto da stringere con lui un sodalizio inossidabile, basato sulla passione per i numeri ma non solo: caratterialmente si prendono.

Non viene dalla Bocconi, ha solo un diploma da ragioniere, ma dove va Giorgetti, un passo indietro c’è Guidesi. Quando Giorgetti ha una grana da sbrigare, chiama Guidesi. Rieletto il 4 marzo 2018, Matteo Salvini lo arruola come sottosegretario alla presidenza, con delega ai Rapporti col Parlamento. È lui a interloquire col ministro Fraccaro. In quel governo sono noti i briefing mattutini, all’alba, tra i due GG. Pure in Transatlantico Guidesi inizia a esser guardato con rispetto: “Chel lì l’è inscì col Giorgetti, occhio a quel che dice…”, dicono i lombardi. Non solo numeri, però. Di lui si ricorda anche la lotta alle nuove moschee, la richiesta per la riapertura dell’indagine sulla morte di Marco Pantani e un ddl per la disciplina della caccia alle nutrie che, in bassa padana, bucano gli argini del Po e rovinano le coltivazioni.