Perché non possiamo far arrabbiare la Cina: 44 miliardi di ragioni

È per un paradosso che proprio dal Veneto sia arrivato uno schiaffo alla Cina in tempi di epidemia con l’incredibile frase del governatore Luca Zaia secondo il quale “abbiamo visto tutti i cinesi mangiare topi”. È un paradosso perché erano veneziani della famiglia Polo i primi mercanti europei dei quali, a metà del Duecento, la storia ha notizia di viaggi nel Catai. Perché tra il 1917 e il 1918, ne “l’an de la fam”, l’anno della carestia dovuta alla guerra, per sopravvivere molti veneti i topi dovettero mangiarli davvero. Ma è un paradosso anche per un altro motivo: perché il Veneto, insieme all’Italia e all’Unione europea, ha molto, moltissimo da perdere da uno scontro commerciale con la Cina.

Nel 2018, l’ultimo anno per il quale sono disponibili dati ufficiali, tra beni e servizi la Ue ha avuto un interscambio commerciale con la Repubblica popolare pari a 684 miliardi di euro. La Cina è stata il secondo Paese partner dell’Unione europea, con il 15,4% del totale, dopo gli Usa (17,1%). Ma per Pechino, l’Ue è invece stata la prima destinazione, con il 14,8% del totale, seguita dagli Usa con il 13,7%. La parte del leone, nel Vecchio continente, l’ha fatta la Germania con esportazioni verso Pechino per 169 miliardi. Alle sue spalle, dopo Olanda, Regno Unito e Francia, l’Italia arrivava quinta con un interscambio di 43,9 miliardi di euro. Meccanica, autoveicoli, ottica, agroalimentare e farmaceutica sono i prodotti più esportati dalla Ue in Cina, mentre i più importati sono quelli della meccanica, del tessile e dell’arredamento. Tra i servizi, il turismo è il primo legame, insieme ai trasporti e alla proprietà intellettuale. Secondo Eurostat l’Italia è quarto fornitore della Cina tra i Paesi europei con export per 13,2 miliardi, tra cui formaggi, vino, gelati, caffè con i marchi di punta Illy e Lavazza. Quanto all’import, l’Italia ha acquistati prodotti cinesi per 30,7 miliardi. Nei primi nove mesi del 2019 invece l’export italiano in Cina è calato a 9,4 miliardi mentre l’import è ammontato a 24,2 miliardi.

Come quasi 800 anni fa, il Veneto è ancora in prima fila negli scambi commerciali tra l’Italia e la Cina. Secondo i dati più recenti elaborati dall’Ufficio di statistica della regione guidata da Zaia, nei primi nove mesi dell’anno scorso l’interscambio con la Repubblica popolare ammontava a oltre 4,3 miliardi, tra 3,2 miliardi di esportazioni e 1,1 di importazioni. Tra le province venete i legami con la Cina erano più forti a Treviso (1 miliardo di interscambio), seguita da quella di Vicenza (oltre 991 milioni) e Padova (820 milioni). Tra i distretti industriali italiani più legati all’economia di Pechino, secondo l’ultimo rapporto di Intesa Sanpaolo, ci sono quello della meccanica strumentale e quello della concia di Vicenza.

In gioco tuttavia c’è molto più che il commercio. Il 23 marzo 2019 l’Italia è diventata il primo Paese del G7 a unirsi al progetto cinese Belt and Road Initiative (Nuova via della seta). In quell’occasione aziende cinesi e italiane hanno firmato dieci accordi per un valore dai 5 ai 20 miliardi di euro. Secondo l’ultimo report di Fondazione Italia-Cina e Cesif, in Cina e a Hong Kong ci sono quasi 2mila imprese italiane con 190mila addetti e un fatturato di 36 miliardi. Dai primi anni Duemila sono cresciute di sette volte, specie sul fronte produttivo, perché vent’anni fa due terzi delle aziende italiane in Cina avevano solo uffici commerciali.

Poi ci sono le imprese cinesi in Italia. A livello finanziario, investitori cinesi possiedono il 45% di Pirelli, il 2-3% di Eni, il 35% di Cdp Reti, il 2% circa di Intesa SanPaolo, UniCredit e Generali, il 40% di Ansaldo Energia e l’intera Candy. A fine 2018 nella Penisola erano presenti 340 gruppi della Repubblica popolare o con quartier generale a Hong Kong. Le imprese italiane partecipate da questi gruppi erano 638, con una occupazione complessiva di quasi 42mila addetti e un giro d’affari di circa 23,4 miliardi di euro. Le imprese italiane a partecipazione cinese occupavano oltre 29mila dipendenti con un fatturato di quasi 15,7 miliardi, quelle controllate da multinazionali di Hong Kong davano lavoro a oltre 12.800 italiani per un fatturato di 7,7 miliardi. A livello territoriale, dopo le 182 imprese italiane a capitale cinese presenti in Lombardia con oltre 9.500 addetti veniva il Lazio con 53 aziende, l’Emilia Romagna con 43 imprese e quasi 4mila lavoratori. A seguire Piemonte e Veneto con la presenza di 34 imprese cinesi per regione, la prima con 3.800 addetti e la seconda con oltre 3.200.

Nonostante le scuse, dunque, Zaia e i suoi fan devono fare attenzione a prendersela coi cinesi. Proprio un detto veneto infatti ricorda che “a rìdare de venere, se pianse de domenega”: a ridere di venerdì, paradossalmente si rischia di piangere di domenica.

Il chirurgo passato dalla sala operatoria all’emergenza virus

L’unico medico del governo, viceministro della Salute, da giorni imperversa in tv e sui quotidiani. Pierpaolo Sileri spiega, chiarisce, difende l’esecutivo. Lo difendeva anche nei giorni delle critiche autorevoli sul blocco dei voli dalla Cina e i mancati controlli su chi è rientrato, oggi non più attuali perché è probabile che il virus sia in Italia da prima del 31 gennaio. Ieri Sileri era al Sacco di Milano per una visita ai suoi colleghi e agli infermieri in prima linea. Sa di cosa parla. È un chirurgo, professore, quotato specialista del colon e del retto al Policlinico di Tor Vergata (Roma 2) dove operava anche dopo l’elezione in Senato, nel marzo 2018. Ha smesso, “per legge” dice, quando si è insediato al quarto piano del ministero della Salute, in un ufficio ultrapanoramico che si affaccia sul Tevere. E da viceministro si è infilato la tuta per salire due volte sull’aereo speciale dell’Aeronautica e andare a Wuhan, nel cuore dell’epidemia cinese, a prendere i nostri connazionali rimasti laggiù: un volo per i primi 56 e un secondo per Niccolò, il ragazzo di Grado che i cinesi non avevano fatto partire perché aveva la febbre. Poi è tornato e, quando Annamaria Bernini si è chiesta se il viceministro fosse infetto, ha postato una sua foto con il figlioletto di otto mesi come a dire: “Vi pare che lo metterei a rischio?”.

Romano, 47 anni, figlio di un commesso motociclista del Senato, un fratello sottufficiale dei Carabinieri, scuole all’istituto Don Francesco della Madonna delle suore orsoline vicino alla Stazione di Trastevere, laurea e specializzazione a Tor Vergata, studi e postdottorato a Pittsburgh e a Chicago, ma anche a Oxford. Migliaia di interventi e poi l’incidente, per così dire, che gli ha cambiato la vita, la ribellione al potente rettore Giuseppe Novelli contro discutibili chiamate dirette in cattedra: il ricorso al Tar, la decisione di registrare il rettore che gli diceva di aspettare il suo turno e la denuncia penale, fatta insieme all’amico, ricercatore di diritto amministrativo e avvocato Giuliano Grüner. Ora Novelli è sotto processo per tentata concussione (di Grüner) e induzione alla corruzione (di Sileri) mentre Sileri è al governo, non senza essere passato per le forche caudine dei grillini di fronte ai quali ha dovuto difendere i vaccini. Lui che, a differenza di altri, un lavoro ce l’aveva. Il prossimo sarà al San Raffaele di Milano, dove ha vinto un concorso bandito prima che decidesse di fare politica. Intanto c’è già una legge con il suo nome, quella sulle sperimentazioni sui cadaveri. Chi lo conosce bene dice che la regionalizzazione del servizio sanitario non gli è mai andata a genio, oggi però sta molto attento a quel che dice. Da anni denuncia i tagli del Lazio alla Sanità, ora tocca a lui.

È stato eletto nella periferia sud-est di Roma, un tempo “rossa”, lui che da ragazzo era di destra. Diciamo An. “Ma ho votato anche centrosinistra”, dice. Era vicino al professor Giuseppe Petrella, chirurgo a Tor Vergata e deputato dalemiano alla fine degli anni 90. Per il M5S è un tecnico. Come il prefetto Francesco Paolo Tronca che nel 2013, da commissario straordinario di Roma, gli diede il primo incarico “politico” nella giunta che traghettò la Capitale da Ignazio Marino a Virginia Raggi. “Lo conobbi in ospedale – ricorda Tronca –, era molto preparato”.

Il ministro per caso finito suo malgrado al centro della scena

È successo praticamente per caso. Nella gestazione del governo Conte bis c’era bisogno di una casella per Liberi e Uguali, il gruppetto di sinistra sopravvissuto al disastro del 4 marzo 2018, comunque prezioso per formare una maggioranza al Senato.

Il ragionamento dev’essere stato più o meno questo: diamogli la Sanità, cosa volete che succeda? Ecco cosa è successo, niente di che: è esploso il Coronavirus e un’emergenza sanitaria mondiale.

Roberto Speranza si è trovato all’incrocio di questi venti. È diventato ministro della Salute senza una ragione specifica, e senza alcuna esperienza reale sul campo. Un uomo di sinistra a presidio del più delicato dei servizi pubblici, sottoposto a una pressione impensabile.

Al di là dei giudizi di merito, è difficile non riconoscere a Roberto Speranza un po’ di solidarietà: si è trovato nel posto sbagliato nel momento peggiore possibile. Senza alcun preavviso del disastro che stava per manifestarsi. Ha provato a rimanere in piedi con i mezzi a disposizione. Si è affidato alla struttura tecnica, si è sforzato di assumere un profilo serio, rispettoso delle difficoltà, rassicurante. Ci è riuscito solo in parte, come inevitabile. Un uomo fiondato, da un giorno all’altro, senza preparazione, al centro di una clamorosa emergenza nazionale.

Quarantuno anni, nato e cresciuto a Potenza, laureato in Scienze politiche, Speranza è un prodotto della “Ditta”, un giovane vecchio allevato a pane e politica. Papà socialista lombardiano (e dunque anti-craxiano), una lunga militanza nella Sinistra giovanile, poi nelle varie forme assunte dagli eredi del Pci. Quando Matteo Renzi irrompe nel Pd e promette di cambiare tutto, Speranza è tra i “rottamandi”: un trentenne adottato dai polverosi notabili della tradizione post-comunista. Nel 2008 Veltroni l’aveva nominato nel comitato nazionale dei Giovani Democratici, poi Speranza è vicino a D’Alema e soprattutto a Bersani. È il figlio politico del segretario piacentino, la sua controfigura nelle primarie vincenti del 2012 e nella campagna elettorale successiva, quella in cui prometteva di “smacchiare il giaguaro”. Operazione, come noto, poco fortunata. Renzi quindi si divora il partito e il giovane bersaniano – per mantenere la pax interna – diventa capogruppo alla Camera. L’equilibrio è precario e presto si spezza.

Quando Bersani e i suoi fanno i bagagli, a Speranza vengono messe in mano le chiavi di Mdp, il movimento che nasce alla sinistra del Pd: non una Ferrari. La sinistra si riunisce attorno a Piero Grasso, il disastro prende forma all’alba del 5 marzo 2018: quel giorno Speranza, non ancora 40enne, ha già l’aria di un reduce. Uno dei pochi che almeno hanno salvato il seggio parlamentare. Per un curioso capriccio del destino un anno e mezzo più tardi – il 5 settembre 2019 – Speranza è al Quirinale per giurare da ministro. Sembra una mano di carte di quelle inspiegabili, fortunatissime, vincenti. Invece era un Coronavirus. Da allora il giovane vecchio Speranza è in apnea. Non è un carismatico o un genio della comunicazione, né – soprattutto – un esperto di sanità. Ma è un diligente studioso della politica e una persona seria. Deve svuotare il mare a mani nude, in bocca al lupo.

Sanità, il virus ha piegato le decantate eccellenze

Non solo diminuzione dei posti letto: i tagli alla spesa sanitaria stanno dissanguando gli ospedali italiani. Tra il 2009 e il 2018 sono venuti a mancare all’appello, per il blocco del turn over, oltre 7.700 medici e più di 12 mila infermieri. E da qui al 2025 – stime del sindacato dei medici Anaao – ci sarà una carenza di 17.800 specialisti, mentre già adesso servirebbero quasi 22 mila infermieri in più. Una débâcle. Ma la novità è che questo non riguarda solo le regioni storicamente sofferenti. L’emergenza coronavirus sta mettendo a nudo le fragilità di sistemi sanitari considerati fino ad ora delle eccellenze. Proprio come quelli di Lombardia, Veneto, ed Emilia Romagna, vale a dire le aree più colpite dall’epidemia.

Regioni che non si sono sottratte, con le loro competenze, alla politica di stime al ribasso (come denunciano i medici) dei fabbisogni di personale sanitario; che sulla scia della razionalizzazione hanno cancellato piccoli presidi (in totale, a livello nazionale, sono stati chiusi 115 ospedali tra il 2010 e il 2017); che, in generale, hanno scelto di trattenere i servizi ad alta complessità trasferendo gli altri, con profitti elevati, ai privati accreditati. “Tutto correlato a un vincolo economico: e il risultato è sotto gli occhi di tutti”, dice Giuseppina Onotri, segretario generale dello Smi, sindacato medici italiani.

 

Posti letto

In Veneto il taglio dei posti letto viene chiamato riconversione. In pratica: ne hanno 18mila, 1.400 dal 2016 ad oggi sono trasformati in letti nelle strutture di comunità, come le Rsa, o in hospice. Oppure – la maggioranza – sono stati destinati alla riabilitazione in strutture private convenzionate. “Oggi abbiamo 3 posti ogni mille abitanti”, spiega Adriano Benazzato, segretario regionale dell’Anaao Assomed.

In Emilia Romagna invece i conti sembrano non tornare: secondo i sindacati senza i posti del privato accreditato sono 2,7 ogni mille abitanti, ma la Regione ne conta in tutto 3,7, comprendendo probabilmente anche quelli per le lungodegenze. L’ospedale di Piacenza, in questi giorni, è al collasso. “I dispositivi di sicurezza scarseggiano, i pochi medici rimasti in prima linea fanno fatica a fronteggiare la situazione”, dice Ester Pasetti, dell’Anaao.

Tra i più bassi in Europa, anche il rapporto popolazione-posti letto della Lombardia: 3 sempre ogni mille abitanti. Primo grande taglio con la riforma Formigoni, a partire dal 1997, che ha portato il sistema privato ad assorbire il 40% dei ricoveri. Poi è arrivata la spending review. E con l’emergenza la corda si tende. La concorrenza con il privato voluta dalla Lombardia non sembra aver portato miglioramenti della qualità. E i reparti di terapia intensiva sono, come dimostrano le cronache di questi giorni, in forte affanno.

 

Medici e infermieri

Oggi la Lombardia ha oltre 14mila medici e più di 38mila infermieri dipendenti del servizio sanitario pubblico. Insufficienti, aldilà dell’ emergenza. Paga il prezzo di un errore nella programmazione specialistica, vale dire nei piani per la formazione degli specializzandi. Tra il 2012 e il 2013 sono stati tagliati oltre duemila contratti. Adesso si cerca di correre ai ripari con nuovi concorsi. Ma ci vorranno quattro o cinque anni per vedere i primi risultati. Nel frattempo, da qui al 2025, mancheranno oltre 1.900 specialisti . Quanto agli infermieri ne servirebbero almeno 8mila in più, secondo la federazione degli ordini infermieristici.

A sua volta l’Emilia Romagna ha più di ottomila medici e oltre 24mila infermieri. Una dotazione inadeguata. Basti di re che tra i pronto soccorsi della regione, quello di Piacenza è praticamente l’unico ad avere un numero di operatori tarato sulle esigenze. Nelle strutture c’è una carenza complessiva di 3.600 infermieri mentre nei prossimi anni mancheranno qua si 600 medici: già adesso all’appello non ci sono 250 specialisti nelle varie discipline.

Il Veneto, che parte da una base di oltre 8mila medici, ne do vrebbe avere almeno 1.300 in più già ora, mentre nell’arco di cinque dovrà fare i conti con un ammanco di 500 specialisti. E ha anche la necessità di un rinforzo di quasi 4mila infermieri, che adesso sono meno di 25mila. In molti reparti – pediatria, ortopedia, pronto soccorsi – non si raggiunge il numero minimo di medici per la piena funzionalità del servizio.

 

Il fallimento del federalismo sanitario?

Mentre il Governo varava le misure restrittive per fronteggiare l’emergenza coronavirus le Regioni si muovevano in ordine sparso. “Ognuna con le proprie interpretazioni”, dice Onotri. “La verità è che l’autonomia differenziata non paga, anche in Regioni che pensavamo fossero di serie A”. L’emergenza sta portando a galla, secondo gli operatori sanitari, anche questo: il flop del federalismo sanitario. Per mancanza di coordinamento, carenza di fondi, inadeguatezza nella individuazione dei fabbisogni.

Contagi oltre quota 2000. 52 i morti, 18 soltanto ieri

Più 258 rispetto a domenica. Per un totale di 1.835 ammalati. Oltre 23.300 tamponi effettuati, 668 i casi positivi confermati dall’Istituto Superiore di Sanità. Le vittime ieri pomeriggio erano salite a 52, 18 in più in 24 ore. Continuano a crescere i numeri che fotografano l’epidemia di Covid-19 in Italia. Nonostante tra i dati forniti dal commissario Angelo Borrelli ieri alla Protezione civile ci siano anche 149 persone guarite (+66), le cifre registrate nella penisola costano l’inserimento tra i Paesi che l’Oms tiene costante mente sotto osservazione: “Nelle ultime 24 ore si sono verificati quasi 9 volte più casi di Covid-19 segnalati all’estero che all’interno della Cina – ha detto il direttore generale dell’agenzia Onu, Tedros Adhanom Ghebreyesus – Le epidemie nella Repubblica di Corea, in Italia, Giappone e Iran sono la nostra più grande preoccupazione”.

I contagi crescono in tutto il continente – in Francia hanno raggiunto quota 191 (61 in più nelle ultime 24 ore), mentre la Germania ne registra 150 – e lo European Center for Desease Prevention and Control si è mosso di conseguenza: “Il rischio associato all’infezione per le persone di Europa e Spazio economico europeo e nel Regno Unito è attualmente considerato da moderato a elevato, in base alla probabilità di trasmissione e all’impatto della malattia”, si legge nell’ultimo report (aggiornato alle 8 di ieri mattina) dell’agenzia dell’Ue, che fino a 24 ore fa considerava il rischio “basso”. A quell’ora erano “89.068 casi nel mondo”; di questi, circa 9 mila al di fuori dalla Cina, in 66 Paesi. E in alcuni di questi casi gli esperti hanno registrato un legame con l’Italia.

Accade in Belgio, dove 6 nuovi contagi portano il totale a quota 8, ha annunciato la ministra della Salute, Maggie De Block: le persone interessate risultano tutte tornate dal Nord Italia. Così come erano rientrati dalla Penisola i due cittadini trovati positivi in Israele, che ha inasprito le misure contro chi arriverà in aereo da Roma: le restrizioni adottate da Gerusalemme il 27 febbraio si applicano “anche a tutti i viaggiatori che giungono da Paesi terzi su voli che fanno scalo in Italia”.

Se Tunisia e Giordania hanno registrato il loro primo contagio, e per entrambe si trattava di persone rientrate dal nostro Paese, l’Eritrea si è mossa prima: la Uil scuola ha reso noto che 6 docenti italiani di un istituto di Asmara sono stati bloccati dalle autorità e poste in isolamento forzato. Tunisi, tra l’altro, ha bloccato due connazionali a bordo della loro imbarcazione ancorata nel porto di Cap Marina di Monastir. La Turchia, da parte sua, ha invitato chiunque sia giunto negli ultimi 14 giorni dall’Italia a informare le autorità locali per essere sottoposto a controllo e ad aspettarne i risultati in isolamento in casa. Si è invece autoinflitta 14 giorni di quarantena la leader del Sinn Fein, Mary Lou McDonald, dopo che nella scuola dei suoi figli è stato diagnosticato il primo caso in Irlanda: si tratta di un allievo tornato dall’Italia. Da dove rientrava anche il 5° episodio registrato in Russia: un giovane di ritorno da una vacanza sulla neve.

Il Covid-19 è arrivato anche a New York: ieri il bilancio delle vittime negli Stati Uniti è salito a 6, tutte nello Stato di Washington, dove secondo uno studio il virus è presente da almeno 6 settimane. Diminuisce, invece, la pressione in Cina, dove sono stati individuati soli 206 nuovi casi, il numero più basso dal 22 gennaio, e 18 province hanno declassato l’allerta sull’epidemia. Che ha fatto registrare il primo caso di “contagio di ritorno”. Dall’Italia: le autorità della provincia dello Zhejiang hanno riferito di una donna di 31 anni trovata positiva dopo essere rientrata da Milano a Qingtian il 28 febbraio.

Sos terapia intensiva: “In 3 giorni posti finiti”

Prima di tutto una notizia confortante: due contagiati della zona rossa nel Basso lodigiano ricoverati al Sacco di Milano ieri sono stati dimessi perché guariti. Al netto di questo, la situazione resta ancora critica. Il virus cresce in modo esponenziale e il picco non è stato raggiunto. Risultato: la curva nei prossimi giorni continuerà a progredire. La Lombardia rappresenta il focolaio principale e il più preoccupante. Se giovedì 20 febbraio alle 21 avevamo il primo paziente affetto da Covid-19, ieri il numero dei positivi si attestava a 1.254 e 38 decessi con un totale nazionale che sfiorava i 1.850. Nessun dubbio che la vera emergenza sia oggi la Lombardia e alcune sue province. L’ondata dei contagi rischia di ribaltare l’intero sistema sanitario regionale. Con un’ultima emergenza, la mancanza dei posti letto per la terapia intensiva. Secondo i dati raccolti dalla sezione lombarda dell’Associazione anestesisti rianimatori italiani (Aaroi-Emac) a oggi nella regione ci sono liberi poco meno di 30 posti. Il resto, circa 900 (prima dell’epidemia erano 600), è occupato da pazienti con altre sintomatologie e dai 150 positivi al Covid-19. Con cifre del genere e vista la progressione del virus SarsCov2 che porta in rianimazione circa 13 persone ogni 24 ore è evidente che in meno di tre giorni la Lombardia andrà incontro a una saturazione e a una emergenza conclamata per la terapia intensiva, dove i contagiati possono sopravvivere con la respirazione assistita.

Il tema è stato affrontato ieri durante il punto stampa dall’assessore alla Sanità Giulio Gallera. La Regione sta lavorando per altri 200 posti. L’obiettivo, anche grazie alla collaborazione del settore privato, è quello di arrivare a 350 in più. Si lavora, spiega sempre l’Aaroi, per trasformare le sale delle terapie sub-intensive in intensive. Molte sale chiuse per mancanza di personale sono state riaperte. Al netto di questo, un altro vero problema è proprio il personale composto da anestesisti e rianimatori. Ad oggi, secondo le ultime stime, per essere a regime solo in Lombardia mancano circa 400 operatori sanitari specializzati. Sempre ieri, il presidente della Regione, Attilio Fontana, ha firmato un pacchetto da 40 milioni per l’acquisto di materiali vari, come i Cpap (Continuous Positive Airway Pressure), sorta di caschi irrorati di ossigeno e in generale per l’incremento delle stesse terapie intensive . Lo strumento necessario è il respiratore, ma non solo. Sappiamo, per come è stato spiegato dai medici, che chi arriva in pronto soccorso ha spesso una situazione già compromessa. Questo implica il trasferimento diretto in rianimazione. Qui i trattamenti sono vari. Ad oggi, ad esempio, dei circa 150 ricoveri, quattro vengono trattati in Ecmo, ovvero con un sistema che si sostituisce al funzionamento del cuore e dei polmoni. Oggi in Lombardia solo quattro ospedali hanno questo strumento salva-vita: Monza, il San Raffaele e il Policlinico di Milano e il San Matteo di Pavia dove è ricoverato il paziente uno. In molti ospedali della Lombardia, dunque, le terapie intensive sono complete. È successo a Lodi e Cremona, sta avvenendo all’ospedale Maggiore di Crema che, suo malgrado, si trova tra i due focolai più importanti d’Europa, quello del Lodigiano e quello del Cremonese.

L’emergenza qui è iniziata venerdì, quando l’ospedale di Lodi è andato in tilt con circa 100 accessi quotidiani di presunti Covid-19 al pronto soccorso. Da Lodi molti pazienti sono stati dirottati a Crema. Ieri qui un anestesista e una infermiera sono risultati positivi e subito sono stati ricoverati. La direzione generale ha comunicato che la stessa Areu sta dirottando le ambulanze su altre strutture per evitare il collasso di Crema, dove ieri sera la riorganizzazione della struttura ha portato ad avere altri 70 posti letti, ma non di terapia intensiva. I contagi continuano. Gli over 65 rappresentano il 53% dei positivi in Lombardia, di questi il 68% è in rianimazione. La Regione ieri ha registrato un altro dipendente contagiato, si tratta dell’assessore allo Sviluppo sostenibile Alessandro Mattinzoli subito ricoverato. Tutta la giunta si è sottoposta al tampone. Il 26 febbraio Mattinzoli a Roma ha incontrato il ministro Stefano Patuanelli. I controlli al ministero dello Sviluppo economico hanno dato esito negativo. Intanto il paziente uno del Pirellone, una collaboratrice del presidente Fontana, è stata dimessa: proseguirà la quarantena a casa.

Una catena di errori, è chiaro che così il protocollo non può più funzionare

A Roma la famiglia di un poliziotto di Pomezia è stata contagiata da Covid-19 ed è in cura presso lo Spallanzani. Leggiamo su Repubblica: “L’uomo, originario di Pomezia dove risiede la famiglia, era assente dal lavoro dal 25 febbraio scorso per sintomi influenzali”.

Non ci azzardiamo a fare ipotesi eziologiche; non possiamo però impedire al cervello di funzionare per non spaventare lo spread, e ci chiediamo: come mai il personale del Policlinico Tor Vergata, a cui l’uomo si è rivolto prima di andare al Gemelli in seguito al peggioramento, non gli ha fatto il tampone, presentando egli i sintomi chiari di una polmonite? Possibile risposta: perché il paziente non aveva un “link epidemiologico territoriale”, cioè non era stato in Lombardia o in Veneto. La famiglia aveva ospitato un amico lombardo: i sanitari potrebbero aver ritenuto che non provenendo l’amico da “zone con presunta trasmissione comunitaria”, non si dovesse fare il tampone; oppure l’eventuale asintomaticità dell’amico è stata sufficiente, sulla base del protocollo, per escludere un sospetto di Covid-19. C’è da scommettere che medici e infermieri non abbiano indossato i dispositivi di protezione e che il paziente sia stato messo in pronto soccorso insieme agli altri pazienti (infatti 98 persone sono state richiamate dall’ospedale). È la stessa catena di errori che hanno determinato il focolaio di Codogno, originati dal fatto che il protocollo ha falle spaventose.

Che ancora viga il criterio geografico, ormai superato dai fatti, è semplicemente irragionevole. Ora che nel Lazio ci sono già due possibili focolai (Fiumicino e Pomezia), cadrà il criterio territoriale e varrà solo quello sintomatologico? Il protocollo attuale prevede che se i contatti stretti del contagiato sono asintomatici, non gli venga fatto il tampone. Se la moglie e i figli del poliziotto sono stati testati è perché evidentemente avevano sintomi, ma sappiamo che i positivi asintomatici sono contagiosi. I contatti diretti asintomatici non testati sono sottoposti a isolamento fiduciario, ma non si capisce come si potrebbe impedire loro di uscire di casa. Il decreto emanato il 1° marzo prevede “il divieto di contatti sociali, viaggi e spostamenti” a chi è sottoposto a isolamento fiduciario, ma nessuna sanzione.

Se la priorità è contenere i contagi e fare più tamponi, si potrebbero impiegare locali e personale della sanità privata per fare i test, in applicazione degli artt. 32 e 120 Titolo V della Costituzione.

È il momento di uscire dal complesso del non fare domande per non creare allarmismo. Forse i morti da Coronavirus sono pochi e quasi tutti anziani o immunodepressi (come se non fossero proprio loro – diabetici, cardiopatici, malati oncologici, trapiantati, bambini leucemici – i soggetti da proteggere), ma se c’è un incremento esponenziale dei contagi, che ogni 3,8 giorni raddoppiano (nella sola giornata del 1° marzo, sono aumentati del 50% rispetto al giorno precedente, da 1000 a 1577), ci sarà un incremento esponenziale anche dei casi gravi, che sono circa il 10%. Questi pazienti andranno a saturare i posti disponibili di terapia intensiva (a meno di non prendere seriamente la voce raccolta da La Stampa per cui al Ministero si starebbe pensando alla gestione di casi medio-gravi a domicilio con caschetto e cannule, trasformando il salotto di casa in un reparto di terapia sub-intensiva). Su 100 mila contagiati, 10 mila persone potrebbero aver bisogno di terapia intensiva. Come si farà, se le terapie intensive in Italia sono 5000, e se parte di esse sono occupate da pazienti ricoverati per altre patologie? Questo rischio sarebbe scongiurato se le misure di protezione fin qui adottate si rivelassero efficaci. Sopra abbiamo esposto alcuni esempi dei motivi per cui potrebbero non esserlo.

O il Covid-19 è la terza guerra mondiale, oppure basta allarmi

La domenica ai tempi del virus nasce barricata dagli articoli sull’apocalisse, dalle foto della Capitale desertificata dalla paura (o forse già dalla pandemia assassina che ci nascondono, ’sti maledetti), dalla sanità distrutta e dalla nazione infetta che rantola sulla copertina di un settimanale, dalle notizie sugli stadi sprangati a doppia mandata, sugli scaffali dei market disossati dalla furia amuchina. Su questo tempo grigio e sudaticcio come una febbre subdola e definitiva (il morbo infuria, il pan ci manca).

Come un David Livingstone rionale alla ricerca di un giornalaio aperto mi avventuro temerario e scorgo ragazzotti che con incoscienza tipica dell’età giocano a palletta, e privi di mascherina, su prati chissà se contaminati. La strada principale del quartiere è stranamente gremita di passanti, che non assediano la farmacia bensì un apprezzato negozio di delizie napoletane da dove riemergono con infiocchettati pacchetti. Tipici contenitori non di prodotti antivirali, bensì di babà (come biasimarli, preferiscono chiudere gli occhi sotto gli effetti consolatori della glicemia piuttosto che del Covid-19). Anche la parrocchia è stranamente affollata: evidentemente non solamente da anziani mossi da comprensibile fiducia nell’imminente Aldilà, ma anche da giovani lungimiranti (hai visto mai?). Sì, forse intorno a noi, dietro l’apparenza si muove una normalità malata, rassegnata al proprio destino, incurante delle minime cautele forse perché considerate inutili. No, meglio non farsi ingannare dai 40mila convenuti sabato scorso allo stadio Olimpico per Lazio-Bologna, pigiati in dispregio di qualsiasi elementare profilassi, ma forse chissà uniti in un estremo cupio dissolvi (del resto, come si potrà assegnare uno scudetto in simili catastrofiche emergenze?). Sui quotidiani, il governo annuncia piani antivirus di tre, quattro miliardi. A che pro, risponde Matteo “Savonarola” Salvini, quando ne servirebbero dieci, venti volte, trenta volte tanti? (poi dice che uno si tocca).

Dalle colonne del Corriere, lo scrittore Alessandro Piperno si chiede “perché l’informazione, che per deontologia sarebbe tenuta a un’asettica ponderazione, si è impossessata degli strumenti tipici della narrativa horror o della fiction distopica? Fin dove può spingersi la tirannia del sensazionalismo catastrofista”. Mentre Piperno ci indica quello che è sicuramente il più vasto focolaio di infezione, la disinformazione dolosa, lunedì, sullo stesso giornale, il direttore Luciano Fontana nel rispondere a un lettore cerca di fissare un difficilissimo punto di equilibrio.

Da una parte il dovere di informare sui modi più efficaci per contenere il virus ed evitare la crescita esponenziale dei contagiati (e delle vittime). Tutto questo però “senza farci prendere dal panico”, poiché “tutto quello che può ripartire deve ripartire”. Sacrosanto, ma come si fa a “ripartire” quando l’informazione del buon senso, prima ancora di germogliare viene asfaltata da una comunicazione istituzionale da fine del mondo? Come la Regione Lombardia, che dice agli over 65 di “restare in casa”? Precauzioni o autolesionismo? Come se ne esce quando con l’evidente strategia di estromettere l’Italia dai mercati internazionali, perfino la Romania, i cui standard sanitari non rappresentano certo un modello di eccellenza, può permettersi di mettere in quarantena il nostro Paese?

Dobbiamo deciderci. Se il Covid-19 non è la terza guerra mondiale (e non lo è) chi ne ha il potere metta fine all’insensato procurato allarme di istituzioni fuori controllo che causano danni incalcolabili (nel 1957 l’influenza “asiatica” fece 2mila morti, nessuno proclamò lo stato d’emergenza e si aspettò semplicemente che si esaurisse). Ma se ci siamo dichiarati guerra da soli non aspettiamoci che qualcuno ci venga in soccorso.

Il virus è arrivato a Roma. In ospedale non lo vedono

Quasi una settimana in giro per gli ospedali romani prima della diagnosi di positività al Coronavirus. Soprattutto, una notte passata al pronto soccorso, dove potrebbe aver contagiato chiunque. È caos al Policlinico Tor Vergata di Roma dove sono stati messi in quarantena domiciliare sei fra medici e infermieri e sono state richiamate 98 persone – di cui 15 con i sintomi dell’infezione da Covid-19 – fra quelle che hanno frequentato il reparto di primo intervento del nosocomio alla periferia est della Capitale, il 26 e il 27 febbraio scorsi. Un caso che ricorda da vicino quello dell’ospedale di Codogno, dal quale è partita l’emergenza lombarda. Salvo che quello era un piccolo ospedale di provincia e questo il policlinico della seconda università romana.

Il “paziente 1”, in questo caso, è un poliziotto 53enne residente a Torvajanica, frazione marittima di Pomezia, alle porte di Roma. L’agente, impiegato presso il commissariato di Spinaceto, ha accusato i primi sintomi “influenzali” martedì 25 febbraio, quando si è messo in malattia. Vista la febbre alta, il giorno successivo è andato all’ospedale Sant’Anna di Pomezia, dove è stato invitato a recarsi in strutture “meglio attrezzate”. Qui la decisione di andare al Policlinico Tor Vergata, dove l’uomo è stato accolto nel tardo pomeriggio in codice verde al pronto soccorso e, a quanto si apprende, è rimasto a dormire su una barella. Le disposizioni del ministero della Salute, in realtà, per il Centro Italia indicano chiaramente di far riferimento all’ospedale “Lazzaro Spallanzani” di Roma, dove viene attivata la profilassi per il Covid-19. Ma qualcosa è andato storto. “Ci siamo subito messi in contatto con lo Spallanzani – spiega al Fatto il professor Massimo Andreoni, direttore della Uoc di Malattie Infettive del Policlinico Tor Vergata – ma loro ci hanno detto che non c’era la sintomatologia e che non gli avrebbero fatto il tampone”. Così il 53enne il giorno successivo è stato dimesso pur essendogli stata diagnosticata una leggera polmonite. L’uomo però ha continuato a stare male e sabato si è recato al Policlinico Gemelli, ospedale cattolico nella zona nord-ovest di Roma. Qui i medici hanno attivato la stessa procedura, che però stavolta è andata a buon fine. Domenica il trasferimento allo Spallanzani e ieri la conferma: positivo al Covid-19. Sono risultati positivi anche la moglie del poliziotto e i due figli, 20 e 17 anni. Nel bollettino emanato ieri mattina dallo Spallanzani, si afferma che l’uomo ha “un link epidemiologico lombardo”, probabilmente una persona ospitata in casa per qualche giorno. Ma fonti del ministero dell’Interno smentiscono.

Ieri pomeriggio a Tor Vergata è scattata la procedura d’emergenza. Un intero piano è stato chiuso e sono state avviate le procedure di disinfezione, con la distribuzione di occhialini e mascherine. Due medici e quattro infermieri venuti a contatto con il poliziotto sono stati messi in quarantena domiciliare precauzionale. Insieme a loro, un agente di polizia e due operatori della vigilanza in servizio presso l’ospedale. Inoltre, in serata il servizio regionale per l’epidemiologia ha comunicato di aver fatto richiamare 98 persone fra quelle che potrebbero essere entrate in contatto con l’uomo, fra cui 15 che risultano sintomatici. Non è tutto. In quarantena domiciliare anche cinque agenti del commissariato di Spinaceto, fra cui la vicina di scrivania che sabato pomeriggio ha svolto il servizio di pre-filtraggio allo stadio Olimpico prima della partita di Serie A fra Lazio e Bologna. Preoccupazione anche a Pomezia, dove è stato chiuso il liceo scientifico Blaise Pascal dove è iscritto un figlio del poliziotto e sono stati richiamati tutti gli alunni e gli insegnanti, mentre l’Università Sapienza di Roma ha provveduto a chiudere e sanificare caffè l’aula A1 dell’edificio della facoltà di Matematica, presso la città universitaria di piazzale Aldo Moro, dove si svolgono le lezioni di Informatica frequentate dall’altro figlio dell’agente.

L’altro fronte romano riguarda un giovane allievo vigile del fuoco di stanza nella caserma di Capannelle. Il ragazzo, originario di Piacenza ma residente a Terni, è risultato positivo ed è stato trasferito ieri allo Spallanzani. Si cerca di ricostruire i suoi spostamenti negli ultimi giorni. Alla serata di ieri, i casi accertati a Roma e provincia erano 10: il poliziotto e la sua famiglia (5 persone), il vigile del fuoco, una donna di Fiumicino con marito e figlia e una persona che avrebbe contratto il virus in Veneto. Infine, a Formia (Latina), una donna di Cremona si è sentita male dopo aver fatto visita ai parenti ed è stata portata allo Spallanzani: anche lei positiva. Ieri sera, la Protezione civile ha montato triage in tenda in 22 ospedali del Lazio nel tentativo di contrastare l’eventuale moltiplicarsi dei contagi. E infine una donna di Fiuggi (Frosinone) è risultata positiva ed è ricoverata allo Spallanzani in discrete condizioni: dal 16 al 23 di febbraio era stata in Lombardia e Veneto. Il 25 i primi sintomi.

Spritzvirus

Più dilaga il coronavirus, più avanza il sollievo per non avere più Salvini al governo. Vedendo cosa è capace di dire e di fare dall’opposizione, figurarsi cosa riuscirebbe a fare e a dire dal Viminale o, peggio ancora, da Palazzo Chigi. A occhio e croce, avrebbe chiuso porti e frontiere disdettando il trattato di Schenghen (che lui confonde con Shanghai) sulla libera circolazione in Europa, salvo riaprire frettolosamente tutto dopo la scoperta che così sono gli italiani a non uscire più e non gli stranieri a non entrare più, visto che quasi tutto il mondo ci tratta da appestati e untori. Poi avrebbe rotto le relazioni con la Cina, con sparate al cui confronto quella di Zaia sui topi vivi parrebbe un gesto distensivo, salvo scoprire dagli imprenditori del Nord che così si sfonda la bilancia commerciale e scusarsi in diretta Facebook ingoiando un pipistrello vivo e limonando duro un poster di Xi Jinping. Infine Mattarella l’avrebbe convocato al Quirinale e fatto rinchiudere nelle segrete dai corazzieri per evitare guai peggiori.

C’è solo un italiano più sollevato di noi perché Salvini non è al governo: Salvini. Basta seguirne le gesta sui social per scoprire che: a) non ha la più pallida idea di cosa sia il coronavirus; b) non ha ancora capito neppure dove sta la Cina sul mappamondo (l’altro giorno, per dire, era fermamente convinto – parole sue – che “confina con il Giappone”, cioè con un arcipelago di 6.852 isole); c) nessuno sta meglio di lui. Il Cazzaro Sciacallo, per ogni emergenza quando non è al governo, tiene sempre pronti due video. Uno per il caso in cui vengano adottati provvedimenti restrittivi (zone rosse, quarantene, divieti vari), per accusare il governo di bloccare l’economia. L’altro per il caso in cui vengano respinte o revocate o attenuate misure inutili, o ne vengano adottate di nuove in corso d’opera, per accusare il governo di fare troppo poco e/o troppo tardi. Non avendo la benché minima idea di cosa fare, si regola sulla stessa bussola del Giornale Unico Repubblica-Stampa-Messaggero-Espresso-Giornale-Libero-Verità: qualunque cosa faccia Conte è sempre sbagliata e qualunque cosa non faccia Conte è sempre giusta. E, non dovendo assumere decisioni nè responsabilità, fa una vita da favola. Appare sempre più rubicondo sul bordo di ruscelli, in tuta da sci davanti a baite trentine e vette innevate, pievi d’altura (“Una preghiera per chi soffre”), ma soprattutto flute di prosecco e spritz e taglieri di salumi e formaggi in un eterno apericena h24 (“Ho cominciato la dieta senza farina: niente pasta, pizza, pane e dolci. E mi accontento così”).

E di lì, tra un ruttino e l’altro, chiede “miliardi”: così, a cazzo, senza neppure specificare a chi e per chi (ridotti come siamo, farebbero comodo pure i 49 milioni fatti sparire dai prestigiatori della Lega, possibilmente tutti insieme, non in comode rate per 80 anni). Posta bandiere tricolori (su cui la Lega sputava fino all’altroieri), frecce tricolori, mazzi di tulipani, magliette della “clownterapia” (di cui è il terapeuta e il paziente modello) subito prima dei video degli “esperti economici della Lega” e dei suoi virologi preferiti: Porro, Giordano, Meluzzi, Capezzone, Feltri, Sgarbi, Cruciani e Capuozzo. Denuncia “i Caraibi” (pensa che siano uno Stato) che bloccano una nave con turisti italiani e, sotto, l’Italia che non fa altrettanto con i disperati africani, al momento mediamente più sani dei padani. Esalta il governatore siculo Musumeci che non vuole far sbarcare la Sea Watch, ma poi tace imbarazzato quando quello intima i turisti padani a starsene a casa perché tutti contagiosi per definizione. L’unica proposta precisa partorita dai suoi neuroni granturismo, a parte l’arresto di Carola Rackete (la cui attinenza col coronavirus spero non sfuggirà), è l’abolizione delle tasse: non solo per le zone rosse, per il Paese intero. Testuale: “Blocco immediato di pagamento di tasse, mutui, affitti, bollette, cartelle esattoriali e burocrazia varia in tutta Italia. Si può fare, anzi si deve fare, subito”. Così poi lo stipendio a medici, infermieri, poliziotti e carabinieri – che lui chiama “eroi” – glielo paga lui con Belsito, Siri, Arata e Savoini. A proposito: molti “eroi” degli ospedali lombardi non hanno più mascherine, né ricambi per i turni, né posti letto grazie alla sanità-modello creata negli anni di Formigoni&Lega a suon di tangenti e privatizzazioni. E chi lo fa notare passa per nemico degli “eroi”, prime vittime della rapina che ha spolpato il pubblico per ingrassare il privato.

Due soli attimi di defaillance abbiamo notato, nel crescendo rossiniano della social-Bestia: è stato quando, mentre lui esaltava gli eroici governatori Fontana e Zaia, il primo è rimasto impigliato nella sua stessa mascherina e l’altro ha straparlato della dieta cinese a base di topi vivi. Ci saremmo aspettati un inno ad Attilio vilmente aggredito dalla mascherina contiana e a Luca proditoriamente ubriacato da una partita di spritz tagliata male da Conte. Invece il Cazzaro Sciacallo è rimasto un po’ sulla difensiva: “Polemiche su Zaia? Averne di governatori come lui e Fontana che si battono come leoni, giorno e notte. C’è qualche poveretto che usa il virus per attaccarli”. Come se i due cabarettisti padani non avessero fatto tutto da soli. Poi ha chiamato in soccorso l’incolpevole Sant’Agostino, con una frase presa dal prontuario web delle citazioni: “La vera potenza di Dio consiste non nell’impedire il male, ma nel saper trarre il bene dal male”. Ma sì, proprio l’Agostino nato a Tagaste e morto a Ippona, in Numidia (l’attuale Algeria). Proprio l’africano che nel 383 s’imbarcò da Cartagine e raggiunse Roma senza che i romani, noti buonisti, lo respingessero. Ma questo, al Cazzaro Sciacallo, nessuno ha ancora avuto il coraggio di spiegarlo.