Goldonivirus, il contagio senza vaccino

Ho sempre sofferto di goldonite cronica, una strana malattia professionale che coglie spesso attori e spettatori e si manifesta con i sintomi classici di altre malattie come la plaudite, la sofoclite, la senechite e, più virulenta di tutte le altre, la pirandellite. Questi sintomi sono irritabilità, ipotensione arteriosa, secchezza delle fauci, allucinazioni sonore e visive, vertigini, torpore ricorrente e catalessi irreversibile, con 2 variabili: testa reclinata in avanti sullo sterno con sbavamento sulla camicetta, oppure all’indietro, sullo schienale della poltrona con bocca spalancata e rischio di un bel ronfare molesto. La goldonite ha di buono che passa all’istante, appena cessa l’esposizione del soggetto cane che sta recitando. Queste cause sono da rintracciarsi nella maggior parte delle messinscene italiane delle opere del nostro migliore drammaturgo: Carlo Goldoni. Attenzione! Perché il contagio è pressoché sicuro e fino a ieri non esisteva un vaccino efficace. Soprattutto fino a quest’anno, 1993, che cade il bicentenario goldoniano. Io sono andata a teatro premunita di strumenti contro il contagio, comprese le mollette per le palpebre, eppure non ce n’è stato bisogno. Merito del regista: Maurizio Scaparro, e degli attori, Pino Micol e Valeria Moriconi, che hanno realizzato una messinscena memorabile del Teatro Comico. Spettacolo di rara bellezza. Ma anche i Rusteghi e la Trilogia della Villeggiatura di Massimo Castri e altri allestimenti finalmente rinnovati e rinfrescati, come quello di Strehler e del suo meraviglioso Arlecchino, che vive in salute da sempre. Ci voleva il bicentenario per guarire da tante mascherine, inchini e mossettine, che avevano reso noioso e virulento questo meraviglioso teatro veneziano. Confidiamo nel bicentenario di Pirandello allora!

(Ha collaborato Massimiliano Giovanetti)

Usa e Trump sotto accusa: più precari e paghe basse

Francesco Costa ha le carte in regola. Conosce bene il suo argomento preferito (gli Stati Uniti), ci ha viaggiato, vissuto, continua a esplorarli e tutto questo avviene mentre è giovane. Non deve frugare nei ricordi. Estrae i temi dagli eventi di adesso, che ha appena conosciuto e vissuto, con caparbia sicurezza. La parola che avete appena letto (caparbia) ha senso se si parla della scrittura di Costa.

Nel suo libro Questa è l’America (Mondadori) Costa è un autore severo. Giudica più che narrare. Lo fa in modo colto, attento a riportare sempre il lettore a una fonte verificabile, e a un tema importante, e con una scrittura che non è tipica del giornalismo italiano. Ma lo fa con l’enfasi del bravo avvocato, che deve provare la sua tesi con implacabile accumulo di argomenti forniti dal bravo giornalista al bravo giurista. Costa è quasi sempre un avvocato di accusa. Viene in mente, tra gli importanti saggisti americani degli stessi anni americani, Alan Dershowitz piuttosto che Alexander Stille o John Newhouse. Il Costa–Dershowitz ha scelto territori, materiali, storie e personaggi che si prestano bene alla sua vocazione all’accusa. Il caso Bundy in Nevada (cap. II) è una storia perfetta nelle 3 diverse esperienze dei cattler (allevatori) contro i fencer (agricoltori), dell’individuo contro il governo, dell’eroe libertario contro tutti.

Il capitolo III (L’America nuova) usa la già prosperosa e ora misera città di Flint (Michigan) come parabola (e documento) di ciò che è accaduto al lavoro americano e ai suoi più celebrati protagonisti, i lavoratori dell’automobile. E qui troviamo una notizia che di rado e malvolentieri è offerta dai nuovi esperti dell’America: il trionfo della piena occupazione che tutti celebrano come merito di Trump, è sopratutto un vasto precariato con paghe mai così basse nella storia americana. Segue, nel testo, la storia del declino della California (cap. IV). I 2 ultimi capitoli sono un modo nuovo e originale di rivisitare la storia americana, che è del resto un’ossessione affettuosa ed esaltata di quel Paese, e di prefigurare, sulla base di ciò che sappiamo, dove andrà l’impero americano, lacerato da speranze e promesse opposte.

A me restano dubbi e incertezze sul primo durissimo capitolo di Questa è l’America dedicato agli oppiacei (dunque al rapporto fra America e droga, America e dolore) visto solo sul lato della cura bene organizzata e disonesta del dolore che diventa drug addiction per milioni di persone. Ma Costa trascura la grande disattenzione della medicina del mondo (più aspra e crudele nei paesi cattolici) per la cura del dolore. Anche in America c’entra la religione. E mi dispiace che l’autore attentissimo ignori il grande lavoro del Cristianesimo fondamentalista contro ogni tentativo laico di mettere al sicuro le persone che soffrono. Sicuri che non si possano salvare coloro che sono ingiustamente lasciati al dominio del dolore, senza creare eserciti di drogati? Sicuri che il problema siano loro (i drogati della società oppiacea) e non quelli che muoiono lentamente, a lungo, a milioni, di sofferenze inutili?

“Lo gran morbo” del coronavirus: la commedia macabra di talk e tg

Lo gran morbo che tutto si prende – il Coronavirus – è come dire “peste”, o “colera”. Ed è appunto un’epidemia che scaraventa l’attualità nelle pagine della più remota tra le storie. Oggi che il calendario segna 2020 lo gran morbo ci fa coevi del tempo di quando c’erano almeno due papi intorno al Soglio – e così è, manco fosse un lapsus – e contee, ducati, città e stati sbarravano il passo ai viandanti temendone, nella mescolanza, e nella prossimità, il contagio. E così davvero è.

Ha sempre ben scavato la vecchia talpa della storia. I più colti tra le fragoline della cultura volgono il pensiero al Decameron, o ai Promessi Sposi visto l’assalto ai forni che c’è stato, e cioè i supermercati svuotati. Qualcuno, tra i situazionisti, sa bene trattarsi d’altro: ovvero un effetto Gieffe. È una percezione psichedelica derivata dalla strategia di comunicazione della Casa del Grande Fratello, alias Palazzo Chigi, dove sapientemente, dando il là, ognuno – ogni singola identità tra la cittadinanza – si ritrova “nominato”. Ma è un discorso che porta lontano, praticamente apre la strada al governo di salute pubblica.

Lo gran morbo, insomma, è il più ghiotto tra i pretesti. I più cinici, forgiati alla scuola della commedia, oltre a beneficiare della paura altrui – bus semivuoti, metropolitane deserte, traffico scorrevole – sfogliano la memoria nell’ambito meritatamente grottesco. È un canone dell’arte, il morbo. I più vecchi se lo ricordano ma i più giovani tra i lettori vadano a guardarsi su YouTube la scena del corteggiamento tra l’avvenente Maria Grazia Buccella e Vittorio Gassman ne L’armata Brancaleone, il film di Mario Monicelli. È la scena di prendimi e dammiti. “Godiamo e pecchiamo!”, dice l’aspirante crociato alla bella dama. Ella è vogliosa ma “no, su quel letto no!”, gli dice. “Perché?”, domanda il cavaliere indomito, “prendimi e dammiti” le ripete spogliandola con gli occhi. “No”, lo ferma lei: “Vi morì lo meo marito!”. Contrito, Gassman, s’informa: “Quando, di che malanno?”. La risposta di lei fa scappare lui a gambe levate: “Come di che malanno? Dello gran morbo che tutti ci prende, la peste!”.

Ogni epoca ha il suo morbo e il colera è il coronavirus dell’età a cavallo tra Ottocento e inizi Novecento. Ogni veleno ha il suo contravveleno e ’U Contra di Nino Martoglio – opera di squillante comicità – mette in scena la diatriba tutta di ignoranza e pseudoscienza tra don Cocimu e don Procopio Ballaccheri nell’imperversare del colera presso le plebi meridionali. I due si dividono sulle cause del morbo. Uno, “ballista”, è convinto che sia il governo dell’Italia unita a diffondere la malattia per eliminare quel sovrappiù di bocche da sfamare. L’altro – un “colonnista” – ritiene che il morbo viaggi sulle correnti d’aria, tra starnuti e colpi di tosse.

I ragionamenti tra i 2 personaggi sono un mirabile canovaccio su cui sovrapporre la scaletta di un talk show. Ci si accalora nella discussione, quando – a un certo punto – don Procopio è preso da un violento mal di pancia. Nel quartiere – la Civita – tutti scambiano quel suo contorcersi per una botta di colera. Il dottor Anfuso gli somministra il laudano, un farmaco in uso al tempo, don Procopio ne trova immediatamente ristoro e però tutti, fermamente convinti del “morbo”, scambiano la medicina per una pozione miracolosa. Nessuno vuole saperne di vera scienza, tutto – e nulla è cambiato nella storia, figurarsi nella rappresentazione – volge sempre in commedia. Macabra. Ma pur sempre commedia.

Etruria & C., è andata persino peggio agli azionisti di banche non fallite

Resta più solo un mese e mezzo per le richieste di rimborso per le azioni e obbligazioni delle banche fallite: le due famigerate banche venete nel 2017 e due anni prima Banca Etruria, Banca Marche ecc. La scadenza per l’istanza al Fondo Indennizzo Risparmiatori (Fir) è il 18 aprile e comunque manca l’ultima puntata. Non è chiara infatti la sorte di chi è fuori dal rimborso automatico, perché il suo reddito o patrimonio mobiliare non è abbastanza basso.

In ogni caso c’è però un problema per gli azionisti. Infatti molti di loro si lamentano perché gli verrà riconosciuto solo il 30% di quanto hanno pagato le azioni. A prima vista sembra poco. Ma è davvero così? Ho voluto approfondire, utilizzando anche confronti e simulazioni elaborati dalla Tokos, società di consulenza finanziaria, e sono venuti fuori alcuni dati interessanti. Per brevità mi concentro sulla Banca Popolare di Vicenza, ragionando sugli ultimi quindici anni, cioè da inizio 2005, e supponendo sempre il reivestimento dei dividendi. Ma la sostanza del discorso non cambia allargando i confronti.

Una prima osservazione è che con molte banche, quotate e non fallite, è andata anche peggio. Rispetto a 100 euro inizialmente investiti gli azionisti di Unicredit si trovano ora con 14,9 euro. Quelli del Banco Popolare con 2,5 euro, partendo però dalla quotazione nel 2007. Col Monte dei Paschi di Siena, la terza banca italiana, la perdita è pressoché totale. Almeno in relativo, i 30 euro del Fir non appaiono poco. Persino gli azionisti di Ubibanca si ritrovano con una perdita nell’ordine del 55% malgrado l’impennata dopo l’offerta d’acquisto da parte di Banca Intesa.

Ma c’è altro. La percentuale di recupero non risale a uno o due mesi fa, dopo la Borsa euforica del 2019. Fu decisa dal governo a fine 2018, per giunta assediato dai soliti tromboni che bocciavano qualunque ipotesi di indennizzo per gli azionisti.

Cercando un riferimento obiettivo, il più logico era la media delle azioni bancarie italiane. Adottando un tale criterio si arrivava, sempre dal 2005, a una perdita del 74,5% per cui limitarla al 70% appariva addirittura generoso. Per il settore bancario, dopo gli entusiasmi rialzisti di inizio millennio, è stato un disastro generalizzato. Non sarà un mezzo gaudio, ma è un mal comune. E il coronavirus non c’entra nulla.

Parecchi risparmiatori obietteranno che le banche popolari avevano rifilato le proprie azioni, raccontando frottole. Ma questo capita facilmente anche coi fondi, le polizze e i certificati, tanto agli sportelli bancari quanto porta a porta. Ed è un problema molto più ampio.

 

Coronavirus, ecco il conto. Aziende sull’orlo del baratro e famiglie senza stipendio

Cara Selvaggia, siamo (io e il mio socio) un tour operator che organizza viaggi in tutto il mondo: una realtà di 5 persone con esperienza e capacità da 5 stelle. I nostri bilanci sono tutti in attivo, poco è l’utile annuale perché si sa che nel nostro settore si lavora per passione, non per denaro. Non l’abbiamo mai distribuito, l’utile, così da avere denaro su cui contare. Non ci interessano le borse di Louis Vuitton, ma solo la possibilità economica di anticipare il denaro per i gruppi che vogliono viaggiare. Abbiamo tutte le biglietterie, abbiamo l’assicurazione che copre il fondo di garanzia, la RC , tutto quello che serve e ancora di più. Il nostro conto corrente (incluso circa 100.000,00 di tfr) era sempre all’attivo per 300.000,00 , più o meno, oltre al flusso bancario che oscilla a seconda della stagione. Non abbiamo mai ricevuto un sollecito di pagamento da nessun fornitore.

Il 13 febbraio abbiamo pubblicato sulla nostra pagina facebook un comunicato per segnalare che avevamo protetto di tasca nostra 70 passeggeri. Serviamo da anni anche il Cral (Circolo Ricreativo Assistenziale dei Lavoratori) della Regione Lombardia, organizzando per loro viaggi di gruppi. Siamo seri, sempre in prima linea solo a tutela dei nostri passeggeri, non li abbiamo mai lasciati soli. Negli ultimi 3 giorni e mezzo lavorativi non riusciamo ancora a valutare il buco: le frontiere chiudono le porte all’Italia, le persone hanno giustamente paura a viaggiare, le gite scolastiche da domenica sono saltate. Le scuole ovviamente ci dicono di non fatturare perché ovviamente non ci pagherebbero. I nostri corrispondenti e le compagnie aeree si trincerano dietro le regole di altri Paesi, ma anche gli italiani: albergatori, guide, musei non stanno rimborsando, forse lo faranno ma ci anticipano che non copriranno il 100 %. Trenitalia, per alcune partenze, emette un buono, ma pensate alla beffa: un buono a favore della scuola, la scuola che non ci paga. La Giordania ha chiuso la frontiera agli italiani. Abbiamo un gruppo di 46 persone per la Giordania in partenza il 19 marzo. Noi abbiamo già pagato tutti i servizi al fornitore, in Giordania, che ci risponde che lui non può fallire per rimborsare noi, quindi si tiene i nostri soldi. Ryan air non si esprime perché sta valutando, dice la compagnia.

I clienti, giustamente, pretendono il rimborso di 1.450,00 a persona per 46 persone , dobbiamo restituire 66.700,00 e i clienti non accettano un buono di cui usufruire più avanti. Ti faccio una confidenza. I primi di gennaio avevamo sul conto corrente oltre 700.000,00 . Oggi non potremmo permetterci di rimborsare tutti, non abbiamo più i soldi. Ieri sera la nostra commercialista ci ha suggerito di non aprire questa mattina, ma di portare i libri in tribunale. Invece questa mattina abbiamo trovato il coraggio di aprire di nuovo, come sempre sapendo che avremmo dovuto sostenere le accuse e gli insulti di chi rivuole indietro i soldi. Le scuole sono chiuse, nessuno risponde, non sappiamo cosa fare con le gite dopo il 15 marzo. Cosa dobbiamo fare ? Cosa ne sarà di noi?
Monica

 

Cara Selvaggia, sono uno studente di dottorato in matematica presso l’ateneo di Bologna. Avevo programmato un periodo di studio–ricerca a Nizza per 2 mesi. Scoppiata la psicosi Coronavirus in Italia, neanche un’ora dopo lo studentato di Nizza mi ha inviato una email per comunicarmi la cancellazione del mio soggiorno. Nonostante il ministro della sanità francese abbia dato indicazioni precise, lì a Nizza non hanno voluto sentire ragioni. Il paradosso è che posso accedere al laboratorio di ricerca ma non allo studentato. In pratica mi hanno invitato a cercarmi un altro posto in cui alloggiare. Come se io possa infettare tutti solo nello studentato e non in giro per Nizza. È follia.
Pasquale

 

Cara Selvaggia, sono un ristoratrice fiorentina. Non voglio più avvelenarmi il fegato pensando alle ultime settimane d’emergenza, e vista la tua sensibilità verso l’argomento, allego a questa lettera le cancellazioni dei clienti tra ieri ed oggi. Sono decine e altre ne arriveranno, visto che Firenze si sta svuotando. Ho aperto il ristoranteda meno di un anno: pago 4000 d’affitto, ho 4 persone in cucina e 2 in sala. 6 famiglie da mantenere, oltre la mia. Non so se riuscirò a pagare i prossimi stipendi e la prossima rata d’affitto (oltre il mutuo del ristorante e di casa). Scusa lo sfogo, ormai ho paura a controllare la mail e immaginare il futuro.
N.

 

Cara Selvaggia, nell’azienda di mio fratello vendiamo stufe a pellet. Il primo step è visionare l’appartamento dei clienti per verificare se l’impianto è fattibile. Ora nessuno più ci fa entrare in casa, nessuno si fida, e noi non vendiamo più. Così, chiuderemo in un mese, lasciando senza lavoro circa 15 persone. Cosa possiamo fare? Non essendo nella zona rossa non ci sono provvedimenti del governo, ma comunque non riusciamo più ad andare avanti. Sono disperata.
Elena

 

In questo momento l’economia del paese è priva di sistema immunitario. E forse, quando finirà tutto, si conteranno più morti tra piccoli e grandi imprenditori che tra gli ospedalizzati. In ogni caso, un dramma.
Selvaggia Lucarelli

 

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00184 Roma, via di Sant’Erasmo,2.
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L’uomo, la donna e la madre: tre strategie contro ogni patologia

Se pensate che il coronavirus, e altre poco simpatiche patologie, ci interroghino sul rapporto tra “essere umano” e “malattia” vi sbagliate. Perché in realtà quando discutiamo di salute le categorie dovrebbero essere almeno tre: la donna, l’uomo e la madre. La prima, abituata com’è fin da adolescente a mani di dottori palpanti e pap test – cui si aggiungono dopo i 35 schiacciamenti mammografici vari – al tema della cura del corpo è più che avvezza. Anzi, in genere approfitta dei malanni per riposarsi, chiedendo poco a chi la circonda ma condividendo con amiche e social il suo star male. E l’uomo? Tendenzialmente, fino ai cinquanta crede di essere un ragazzino. Compiuto metà secolo, comincia a guardarsi intorno con leggero panico e al massimo va finalmente a conoscere il medico di base o si fa un elettrocardiogramma. Quando si ammala, dalla massima autonomia, rivendicata con furore fino a un attimo prima, passa a una dipendenza semi–completa, avvinghiandosi a chiunque possa lenire il suo terrore e nulla lasciando trapelare al mondo, che non deve sapere di alcuna sua micro-defaillance (avete mai visto un uomo parlare di malattie su Facebook? E invece quante donne raccontano di gambe rotte e tumori?). Infine, ultimo tipo, c’è la madre, un ibrido strano. Perché da un lato, a furia di analizzare feci, muco, misurare febbri e chiamare pediatri, ha quasi una mezza laurea in medicina e nulla la impressiona. Dall’altro, invece, non sempre utilizza per i figli lo stesso sano relativismo. Così a volte, ossessionata dai microbi della prole, si dimentica di prendersi cura di sé e qualche volta si ammala pure. Peccato raramente possa risposare. Spesso, continua a lavare magliette e preparare la cena pure se ha in testa la parrucca per la chemio. Ma niente vittimismi: sarà questa impossibilità di fermarsi il motivo per cui vive, ancora e nonostante tutto, cinque anni di più?

Maschi castrati dall’influenza e ossessionati da talk show e tg

Che “prima le donne e i bambini” fosse una leggenda metropolitana si vede nei momenti d’emergenza, veri o presunti, come quella del coronavirus. Mentre le donne cercano di trovare soluzioni e i bambini vedono il lato avventuroso della situazione, i maschi dànno di matto – e in questo sì, sono i primi. Magari per un po’ fanno gli indifferenti, ci ridono sopra e continuano a lavarsi le mani solo una volta al giorno, nella doccia (se va bene), poi dall’oggi al domani diventano paranoici, stanno fissi su tivù e cellulare per non perdere una battuta del reality multimediale Tutto il virus minuto per minuto, si dividono fra chi tifa Burioni e chi Ricciardi, come se i virologi fossero squadre di calcio, e hanno paura non solo di passare per la “zona rossa”, ma perfino chattare o telefonare con gente che ci abita. Ovviamente, se li sfotti dicono che vogliono solo tenersi informati perché l’informazione è importante. Invece, sono fasci di nervi. In realtà, gli va riconosciuto: gli uomini sopportano benissimo i mali fisici di cui hanno visto l’origine con i propri occhi e che in genere si sono cercati da soli. Il menisco rotto dallo sgambetto del compagno a calcetto, il braccio grattugiato da una caduta in moto, le contratture dopo l’allenamento alla maratona. Ma questi virus vigliacchi, nemici invisibili che ti infilano dentro da qualche orifizio e ti mettono ko a tradimento, loro li vivono malissimo, fosse pure la classica influenza. Si sentono impotenti, ingannati, violati, anche un po’ castrati. Le due linee di febbre eclissano la virilità. Noi siamo diverse, magari non tanto per merito quanto per sfiga, visto che perdiamo sangue per quarant’anni tutti i mesi. E, ciclo o influenza, è la stessa cosa: pastiglia e via andare. Mentre lui, dal letto, ci domanda come si mette il termometro. No, non è una battuta, succede davvero.

Ottant’anni di oblio per i duemila cristiani uccisi in Etiopia dai fascisti

Spiega l’ex ministro Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio, nella prefazione: “A Debre Libanos avvenne una tremenda strage di monaci, diaconi, sacerdoti, fedeli, giovani, studenti, addirittura vicini della stessa area geografica, compiuta dagli italiani nel 1937, specie tra il 20 e il 29 maggio, come risposta all’attentato al viceré, maresciallo Graziani. Questo è – come si legge nel sottotitolo del volume – il più grave crimine di guerra commesso dall’Italia. Ma, in Italia, non si è parlato di Debre Libanos”.

Un silenzio lungo otto decenni, spezzato solo da “qualche studioso coraggioso” come Angelo Del Boca. La causa? Continua Riccardi: “La volontà radicata di non ridiscutere il mito degli ‘italiani brava gente’”. Debre Libanos, Etiopia. L’impero coloniale del Duce e l’amministrazione del maresciallo Rodolfo Graziani, nominato viceré.

Il 19 febbraio 1937 Graziani fu il bersaglio mancato di un attentato ad Addis Abeba. Così in base a prove debolissime il luogo della ritorsione italiana fu individuato nel villaggio monastico di Debre Libanos, la più nota meta di pellegrinaggio del cristianesimo etiopico. Furono ammazzate più di duemila persone, tra il 20 e il 29 maggio.

Le vicende di quell’eccidio sono raccontate nel libro di Paolo Borruso, storico della Cattolica di Milano: Debre Libanos 1937. Il più grave crimine di guerra dell’Italia (Editori Laterza, 244 pagine, 20). L’operazione fu guidata dal generale Pietro Maletti, con un reparto di carabinieri e tre battaglioni di ascari libici e somali di fede musulmana. I prigionieri vennero fucilati a ondate e gettati in un piccolo fiume. Graziani non venne mai processato e nel Dopoguerra fu presidente del Msi. Non solo. Nel 2012 la Regione Lazio gli ha eretto un monumento ad Affile.

Anche la Chiesa ha contribuito all’oblio su questo crimine. Il presidente della Cei, il cardinale Gualtiero Bassetti, presentando il libro di Borruso insieme con Lorenzo Guerini, ministro della Difesa, ha detto: “Mi dispiace la mancanza di spirito fraterno da parte di tanti cattolici degli anni Trenta. Oggi come vescovo chiedo scusa ai fratelli dell’Etiopia per la mancanza di rispetto che si ebbe nei confronti dei loro padri”.

Greg, la creatura dell’acqua: “Vincere è una condanna”

Quando durante l’intervista, il nuotatore Gregorio Paltrinieri (la cui specialità sono le lunghe distanze, cioè 1.500 e 800 metri) tira fuori alcune fotografie di sé da piccolo, si capisce tutto di lui. Non ve n’è una dove il Greg bambino e poi ragazzo non sia in acqua. In uno scatto, ancora nelle braccia di papà Luca (ex nuotatore agonista che per primo si accorge dei numeri del figlio), è in piscina. Con gli occhi sghembi ma già accesissimi e le labbra arricciate in una smorfia di spensierata gioia, prende confidenza con quello che sarà l’elemento caratterizzante della sua intera esistenza: “Ho iniziato prestissimo, in pratica a tre mesi già stavo in acqua perché mio padre gestiva una piscina. Io, invece, ho tantissimi ricordi già a partire dai quattro anni”.

In un’altra foto, già un po’ più grande, è arrampicato sulle spalle della mamma Laura e, guancia a guancia, non si stacca da lei. Sullo sfondo, mentre Gregorio resta abbarbicato amorevolmente al collo materno, le barche di un molo. La madre, figura cardine dei suoi giorni, per anni lo ha accompagnato dopo la scuola agli allenamenti, preparandogli alla sera – e oggi tutte le volte che torna a casa – le lasagne oppure i cappelletti in brodo che tanto gli piacciono. “Verso i sette anni ho iniziato con l’agonismo e ho ricevuto le prime piccole soddisfazioni. Ma è stato in adolescenza, durante i quattordici anni che ho capito che potevo far bene. Agli assoluti (le gare nazionali ndr.) ero sempre tra i primi. E lì ho iniziato a crederci, ad avere dei sogni”. A ben guardarlo, dunque, ora mentre i capelli bagnati gli rigano le belle gote e con ancora vivida l’immagine di lui che cavalca la distesa blu con agilità ultraterrena durante gli allenamenti, è chiaro: Gregorio è una creatura dell’acqua.

Classe 1994, questo prestante ragazzone di 1.90 m è un atleta ponderato e consapevole. A vincere importanti medaglie internazionali ha iniziato nel 2012, oro agli Europei di Belgrado nel 1.500 e argento negli 800; e di lì argento ai Mondiali di Istanbul dello stesso anno; nel 2014 oro ai Mondiali di Doha nei 1.500, per poi replicarsi l’anno successivo ai Mondiali di Kazan. Fino a Giungere alle Olimpiadi di Rio 2016.

Ma Greg non ha un ricordo bellissimo dell’oro olimpico: “Sin da subito ho voluto spingere e ricordo che già a metà gara avevo sei secondi di vantaggio. Ovvio che da piccolo sogni di poter vincere le Olimpiadi, ma io ero così carico di tensioni e aspettative, che non l’ho vissuta benissimo. Partivo da super favorito e se anche fossi arrivato secondo, avrei perso. La vittoria, lì per lì, è stata una vera liberazione. La gioia è arrivata a posteriori: oggi sono felice di quella che è stata una grandissima gara.”

Sono passati quattro anni e Greg è ancora tra i favoriti per Tokyo2020. “Adesso sono più maturo e vivrò questa mia terza Olimpiade con maggiore consapevolezza. Anche perché, se prendi una finale olimpica o mondiale, che differenza c’è tra i primi otto al mondo? Tempi e allenamenti sono simili. A vincere è la testa, come reggi la pressione del momento. Fa piacere sapere che la gente ripone speranze su di me, questo mi carica, ma in acqua io stacco tutto, non penso ai giornali, a cosa diranno, io sono lì per me stesso.” Ma soprattutto è uno che, tenacemente non smette mai di sognare. “Voglio sempre raggiungere qualcosa in più, sono mai sazio, mai appagato” E poiché gli piacciono le sfide, adesso – oltre alle sue discipline – ha aggiunto il mare aperto, “le acque libere” come si dice in gergo. “Si tratta di una gara totalmente diversa, molto fisica. È una tonnara senza corsie dove lotti anche contro le condizioni del mare”.

E mentre il nuotatore cinese Sun Yang viene squalificato per doping, l’azzurro Greg è un esempio di nitore sportivo. Non a caso, il suo mito era (ed è) Kobe Bryant. “Fuori e dentro al campo era un fenomeno. Volevo essere come lui”. Allora, non facciamo fatica a immaginare questa frase nei pensieri di molti bambini, piccoli nuotatori di oggi, mentre a bordo delle proprie piscine, stanchi ma motivati, sognano di vincere le Olimpiadi “come Gregorio Paltrinieri”.

Il calcio taccagno del made in Italy

Per fortuna c’è l’Atalanta. Che nel suo piccolo, sia in campionato che in coppa, prova a fare (spesso riuscendoci) quello che i grandi club d’Europa fanno ormai per abitudine, e cioè: A) correre a mille all’ora; B) non smettere mai di attaccare; C) segnare più gol possibile; D) mandare in deliquio i propri tifosi (e non solo loro). In Serie A l’Atalanta ha vinto 7–0 a Torino contro il Torino, 7–1 con l’Udinese, 5–0 col Milan e col Parma, 4–1 in casa del Sassuolo. Sono solo i suoi successi più eclatanti; ma anche in Champions, da Cenerentola, dopo aver preso qualche sonora scoppola d’ambientamento ha vinto 3–0 in casa dello Shakhtar e, negli ottavi, 4–1 con il Valencia. Partite vibranti, entusiasmanti, che la stanno portando dritta ai quarti di finale fra le migliori otto del continente. E sì, per fortuna c’è l’Atalanta. L’unica, nel nostro orticello, ad avere capito il linguaggio del calcio di oggi.

Domanda: c’è un motivo se in questa Champions i club tedeschi stanno stupendo tutti facendo addirittura meglio dei club inglesi e spagnoli dominatori negli ultimi anni? La risposta è sì. E il motivo è che il Bayern, il Dortmund e il Lipsia – un’Atalanta tedesca a 5 stelle – corrono a mille all’ora, non smettono mai di attaccare, segnano più gol possibile e alla fine mandano tutti in manicomio. Il Bayern in Bundesliga ha vinto tre volte con 5 gol di scarto, tre volte con 4, due volte con 3 e tre volte con 2. Il Dortmund ha vinto due volte con 5 gol di scarto, cinque volte con 4, una volta con 3 e tre volte con 2; il Lipsia ha rifilato un 8–0 al Mainz e fuori casa un 5–0 allo Schalke, un 4–0 all’Union Berlino e un 3–0 al Werder Brema e al Dusseldorf. Perchè è così che devi fare se vuoi diventare un top club.

In Inghilterra il Manchester City ha vinto partite con 8, 5 e 4 gol di scarto; del Liverpool non serve nemmeno parlare visto che su 28 partite ne ha vinte 26 spesso maramaldeggiando. E anche in Spagna, dove pure Real e Barça non sono più gli astri rilucenti di un tempo, lo spartito non cambia; così come in Francia per il Psg. E noi?

Noi siamo qui a spolverare le nostre anticaglie: e a dire, anche se ormai facciamo ridere, che in Italia vittorie di questo tipo non sono possibili perchè la Serie A è il campionato più difficile del mondo e da noi si vince solo in modo risicato; un bluff che l’Atalanta, per fortuna, si è incaricata di scoprire. Noi abbiamo la tristissima Juventus di Lione, la Juve di CR7, Dybala e Higuain, che nel suo stadio batte a fatica 2–1 Bologna, Genoa, Parma e Verona, 1–0 il Milan e 4–3 il Napoli; e in trasferta 1–0 Parma e Torino e 2–1 Sampdoria, Spal e Brescia (più Inter e Roma), rivali evidentemente più ostici del Leicester battuto 4–0 dal Liverpool, del West Ham battuto 5–0 dal City, dello Schalke battuto 5–0 dal Lipsia, del Werder Brema battuto 6–1 dal Bayern, dell’Eintracht battuto 4–0 dal Dortmund, del Getafe battuto 3–0 dal Real Madrid, del Siviglia battuto 4–0 dal Barcellona.

Davvero qualcuno ci crede? La verità è che il nostro calcio arranca penosamente: tant’è che da noi imbrocchisce persino Ronaldo, che nelle ultime cinque Champions col Real Madrid aveva segnato 17, 10, 16, 12 e 15 gol. Un anno fa, alla sua prima con la Juventus, si è fermato a 6; quest’anno è piantato a quota 2. Ma non diciamolo in giro: rovineremmo la narrazione dell’Istituto Luce.