6underground: il film di Netflix fa infuriare il despota Turkmeno

Chi riesce a rimanere attento per quasi 2 ore di fila ora può guardare sulla piattaforma Netflix 6Underground, il film dove Ryan Reynolds e altri attori più o meno famosi, saltano tra grattacieli, bombe e proiettili, da un continente all’altro. Protagonista, ovviamente americano, è un ex bambino prodigio diventato miliardario. Il tycoon non rende noto mai il suo nome, ma mostra solo il suo massivo ego da salvatore del mondo. Mette insieme una squadra di sei stravaganti eroi per compiere un colpo di stato, liberare una nazione che nella realtà non esiste, il Turgistan, dal suo dittatore, un despota che bombarda con gas sarin il suo popolo e lo ammassa in campi al confine.

Nel colossal, per alcuni critici “inspiegabile”, costato a Netflix circa 150 milioni di dollari, girato tra Italia, Emirati arabi, Usa, il milionario protagonista snocciola slogan sulla democrazia, fa sesso occasionale con cameriere appena conosciute, cita senza motivo Eminem e Shakespeare, ma intanto pianifica la liberazione dello stato immaginario che si trova sulla mappa geografica (reale) al confine con l’ex repubblica sovietica dell’Uzbekistan: proprio come il vero stato del Turkmenistan, regno di un caudillo altrettanto esistente, Gurbanguly Berdymukhammedov. Altre somiglianze. Il Turkmenistan, peggiore perfino della Corea del Nord nell’indice della libertà di stampa di Reporter senza frontiere, come il Turgistan della Netflix, vive stretto nel pugno del suo autocrate. Nella città di 6Underground, dai panorami vagamente musulmani, la popolazione rimane affamata all’ombra delle statue giganti e dorate dell’uomo che la soggioga: ricorda Ashgabat, capitale del Turkmenistan, dove le statue d’oro di Berdymukhammedov ci sono davvero.

Il dittatore del film si chiama Rovach, proprio come il famoso puledro di Berdymukhammedov, che all’equino ha dedicato una delle canzoni che ama cantare. La popolazione, obbligata ad assistere alle sue esibizioni quasi quotidiane ed applaudirlo, vive con un canale unico in tv e senza accesso ad internet. Del film, dalla sceneggiatura contorta e dimenticabile, avrebbero dato notizia per altri motivi se la storia inventata non avesse avuto conseguenze reali. “Gli Stati Uniti, impero del male, stanno tentando di distruggere il nostro Paese”, lo fanno ormai “anche con i film”: è quello che ripetono ora i portavoce della propaganda del regime di Berdymukhammedov, oltraggiati dalla produzione del colosso dello streaming, ai bambini a scuola e ai cittadini delle province.

Sono dovuti intervenire i diplomatici di Washington in Tukmenistan per placare tensioni e ire dello Stato che vive in totale isolamento e dove Netflix, come quasi tutto il resto, comunque è vietato. L’ambasciata Usa ad Ashgabat ribadisce che “6 Underground è un lavoro di finzione prodotto da una compagnia privata” e non governativa e che “l’America rimane impegnata nella produttiva e forte relazione economica e commerciale con il Turkmenistan”.

Imputato Julian Assange: processo al giornalismo

Quando la fila inizia davanti ai cancelli della Woolwich Crown Court di Londra è ancora buio. Sono le 5.45 di mattina di lunedì 24 febbraio: alle 10, inizierà la prima udienza cruciale del processo di estradizione a Julian Assange. Il freddo gelido e la pioggia sottile non hanno dissuaso attivisti e gente comune, che si sono messi in fila con i pochi giornalisti già arrivati per conquistarsi un posto dentro la piccola aula della corte, dove si terrà il dibattimento per quattro giorni consecutivi. Passate da poco le 6, un team di Reporters Sans Frontières (Rsf) si unisce alla coda e per quattro giorni Rsf non mancherà mai. Sempre lì, al gelo per ore. Pochi minuti prima delle 10 siamo ammessi all’aula 2 della Woolwich Crown Court e il fondatore di WikiLeaks arriva scortato: si siede in un box dirimpetto al banco del giudice, Vanessa Baraitser. Alla sua destra c’è una guardia di colore e alla sua sinistra una di pelle bianca. Il box è alla spalle degli avvocati della difesa e dell’accusa, separato da loro da una spessa vetrata.

Ha un atteggiamento stoico, Julian Assange. Un volto impassibile, che non tradisce emozioni. Ma noi che, con altri giornalisti stranieri abbiamo lavorato dieci anni con lui come media partner, contribuendo a rivelare i documenti segreti di WikiLeaks fin dal 2010, sappiamo decifrare quel viso. La pelle, che il giorno dell’arresto, l’11 aprile scorso, era di colore bianco spettrale, oggi vira a un colore grigiastro. I media lo hanno spesso dipinto come un sorta di cattivo della saga di James Bond: un personaggio che proietta un’aura di mistero e minaccia. Ma chi lo conosce sa che sa ridere, essere affettuoso, autoironico. Oggi, però, è cupo, provato. Non sta bene, Julian Assange.

In aula, l’avvocato James Lewis che rappresenta gli Stati Uniti, e quindi l’accusa, cerca di convincere tutti che gli Usa non vogliono processare il giornalismo. Ma di fatto è la prima volta nella storia dell’America che un giornalista è stato incriminato con l’Espionage Act, una legge draconiana del 1917 pensata per punire le spie che passano informazioni segrete al nemico. Eppure Julian Assange non ha mai passato informazioni al nemico. Manco il governo americano lo accusa di tanto: ha pubblicato documenti segreti che rivelano crimini di guerra e torture. 91mila file segreti sulla guerra in Afghanistan, 391mila su quella in Iraq, 251.287 cablo della diplomazia Usa, 779 schede dei detenuti di Guantanamo. File che il New York Times, il Guardian, lo Spiegel e decine di altri grandi media nel mondo hanno rivelato in collaborazione con WikiLeaks. Chi scrive ha pubblicato quelle stesse informazioni per ben dieci anni senza mai subire un’incriminazione, un processo, una detenzione. Perché Julian Assange, dopo averli resi pubblici nel 2010, non ha mai più conosciuto la libertà?

In aula, Lewis argomenta che WikiLeaks ha messo a rischio fonti e informatori che hanno parlato con le truppe o con la diplomazia degli Stati Uniti nei teatri di guerra come l’Afghanistan e l’Iraq o nei paesi autoritari come la Cina o l’Iran. Sono dieci anni che il governo americano continua a rilanciare questa accusa, senza mai portare una sola prova di danno concreto. Nel 2013, durante il processo a Chelsea Manning – la fonte di WikiLeaks per i documenti segreti per cui oggi Julian Assange è incriminato, rischia l’estradizione in Usa e una condanna a 175 anni di prigione – il capo della Task force del Pentagono incaricato di verificare i danni causati dalle pubblicazioni, Robert Carr, fu chiamato a testimoniare. Carr ammise di non aver trovato un solo esempio di vittima. Nessuno era morto o era stato anche solo ferito a causa di quelle rivelazioni. Sette anni dopo, il governo americano si è presentato in aula questa settimana senza un solo nome, un esempio specifico di danno effettivo. Nel corso dell’udienza l’avvocato dell’accusa ha argomentato che “gli Stati Uniti sono a conoscenza di fonti, i cui nomi non redatti o la cui descrizione era contenuta nei documenti pubblicati da WikiLeaks, che sono successivamente spariti, sebbene gli Stati Uniti non possano dimostrare a questo punto che la loro scomparsa sia il risultato delle pubblicazioni di WikiLeaks”. Se non possono dimostrarlo, perché citarlo davanti a un giudice? E possibile che, se ci fossero state delle vittime, i loro nomi non sarebbero emersi in dieci anni, nonostante tutti i tentativi del governo Usa?

La difesa di Julian Assange, costituita da un nutrito gruppo di avvocati di alto profilo – come Gareth Peirce, una delle più grandi legali inglesi, esperta di diritti umani, il cui lavoro è raccontato nel film Nel nome del padre, il giudice spagnolo Baltasar Garzon, che negli anni ‘90 cercò di arrestare ed estradare il dittatore cileno Augusto Pinochet, mentre era in visita a Londra, Edward Fitzgerald e Jennifer Robinson dello studio legale londinese Doughty Street Chambers e Mark Summers – si preparano a chiamare a testimoniare anche i giornalisti che hanno lavorato sui documenti segreti, per ricostruire come WikiLeaks chiese a tutti di contribuire alla redazione dei documenti, se contenevano nomi di fonti a rischio.

Nel processo di estradizione gli Stati Uniti non agiscono direttamente, ma attraverso la pubblica accusa inglese: il Crown Prosecution Service (Cps). Chi scrive ha passato gli ultimi cinque anni a cercare di ottenere i documenti del Crown Prosecution Service sul caso Julian Assange attraverso il Freedom of Information Act (Foia), citando in giudizio le autorità del Cps. Dopo cinque anni, stiamo ancora lottando in Tribunale a Londra, ma i materiali che abbiamo ottenuto finora lasciano emergere molti interrogativi. Il Crown Prosecution Service ha avuto un ruolo chiave anche nell’indagine svedese per stupro, che ha tenuto Julian Assange intrappolato a Londra fin dal 2010, sotto indagine preliminare per ben nove anni, senza che la magistratura svedese si decidesse a rinviarlo a giudizio per processarlo oppure a scagionarlo una volta per tutte. L’inchiesta svedese è stata archiviata in modo definitivo solo nel novembre 2019, dopo che ormai Julian Assange era stato arrestato dagli inglesi per cercare di estradarlo in America, su ordine degli Usa, per le pubblicazioni di WikiLeaks.

I documenti che abbiamo ottenuto con il Foia forniscono la prova che sono state le autorità inglesi del Crown Prosecution Service a contribuire a creare la paralisi giudiziaria e diplomatica che ha caratterizzato il caso svedese. I materiali rivelano che nel 2011 le autorità inglesi del Cps scrissero ai magistrati svedesi: “Non pensiate che questa richiesta di estradizione sia gestita come tutte le altre”: che c’era di speciale in questo caso? E ancora: la documentazione lascia emergere che nel 2013, la Svezia considerò di chiudere l’indagine per stupro, ma le autorità inglesi del Cps non erano d’accordo e scrissero ai colleghi svedesi: “Non vi azzardate”. Non è chiaro che interesse speciale avessero le autorità inglesi in un caso di presunto stupro in Svezia. Quando abbiamo provato a cercare risposte a queste interrogativi, chiedendo tutta la documentazione completa, il Crown Prosecution Service ci ha risposto che avevano distrutto la corrispondenza, sebbene il caso giudiziario di Julian Assange fosse ancora in corso ed altamente controverso. Questa è l’agenzia del governo inglese che agisce nel procedimento di estradizione in Usa per conto del governo americano.

Il processo nell’aula della Woolwich Crown Court sembra condotto all’insegna del fair play, dopotutto l’Inghilterra è il Paese del fair play. Ma nel caso Assange, alcune delle azioni del governo inglese ricordano quelle di un paese fuorilegge. Per sette anni il Regno Unito ha negato un salvacondotto a Julian Assange per uscire dall’ambasciata dell’Ecuador e godersi il diritto di asilo in Ecuador, un diritto riconosciuto dalla legge internazionale. Quando nel 2015 le Nazioni Unite hanno stabilito che Inghilterra e Svezia lo detenevano arbitrariamente, Londra ha prima appellato la decisione e dopo aver perso l’appello ha semplicemente ignorato il responso dell’Onu, come un regime autoritario qualsiasi. Né hanno prodotto risultati le denunce autorevoli dell’Inviato Speciale dell’Onu contro la tortura, Nils Melzer.

Oggi, su richiesta degli Stati Uniti, il Regno Unito processa un giornalista, che ha rivelato crimini di guerra e torture, come un criminale della peggiore specie, rinchiuso in una gabbia di vetro, dove non riesce neanche a comunicare in modo riservato con i suoi avvocati. E la stampa inglese, che in questi ultimi dieci anni in cui Julian Assange è rimasto confinato prima in ambasciata e poi ora in prigione, non solo non ha fatto nulla per frenare i peggiori istinti del governo di Londra, ma continua a scrivere a malapena del caso.

Non tutti gli elettori si possono comprare: la sfida di Sanders

La giornata di domani sarà una delle più importanti del 2020: gli elettori Democratici di 14 Stati americani dovranno decidere se fidarsi o no di un candidato che promette un cambiamento così drastico che rivendica l’etichetta di “socialista”, anche se per gli standard europei non ha nulla di estremo. Il senatore del Vermont Bernie Sanders è diventato il protagonista assoluto delle primarie 2020, domani si capirà se può anche esserne il vincitore.

Sanders ha perso le primarie in South Carolina sabato, è arrivato secondo con il 19,9 per cento. Ma la classifica dei candidati chiarisce che il vero dilemma per i Dem è soltanto se fidarsi di lui come alternativa a Donald Trump. In South Carolina ha vinto Joe Biden, l’ex vicepresidente di Barack Obama: aveva puntato tutto su uno Stato dove la base Dem è in gran parte afroamericana e vede il voto per Biden come un omaggio dovuto alla stagione di Obama. Biden ha vinto bene, con il 48,4 per cento, un risultato che gli ha evitato l’umiliazione del ritiro ma certo non gli garantisce nulla, dopo le sconfitte in Iowa, New Hapshire e Nevada.

Il voto dei neri è fondamentale per i Democratici, che hanno perso la maggioranza tra i bianchi più di 50 anni fa, ma non basta. Dal 1968 in poi, nessun candidato è mai andato oltre il 46 per cento (Jimmy Carter nel 1980) tra i bianchi. Biden riesce a tenere il voto dei neri, soprattutto quelli più anziani, ma non ha innescato alcun movimento dal basso paragonabile a quello di Obama nel 2008. Per riconquistare i bianchi, dunque, è meglio il moderato centrista Biden o un radicale con idee nette? Secondo molti sondaggi, Sanders può spaventare qualche democratico della costa Est, ma può anche recuperare elettori arrabbiati e delusi dell’America profonda che nel 2016 si sono affidati a Trump. Proprio perché è un candidato diverso, guardato con sospetto sia dalla stampa libeal che da quella conservatrice. E il nomignolo che gli ha affibbiato Trump su Twitter, Crazy Bernie lo qualifica ancora di più come lo sfidante inevitabile: Bernie il pazzo contro Donald l’imprevedibile. Anche i tentativi di presentare Sanders come un nostalgico del comunismo o un ammiratore di Cuba, per via di sue dichiarazioni vecchie di decenni, non sembrano averlo danneggiato, sottolineano soltanto la sua diversità. Il New York Times lo ha definito teflon candidate, gli attacchi gli scivolano addosso senza lasciare danni. In South Carolina Sanders ha preso il 20 per cento, meno della metà di Biden, ma ha preso 20mila voti più che nelle primarie 2016, quando però aveva un solo avversario, Hillary Clinton.

L’altra ragione per cui la sconfitta in South Carolina consolida le prospettive di Sanders il ritiro del miliardario Tom Steyer: 62 anni, un patrimonio costruito con hedge fund e investimenti (anche) su carbone e petrolio, Steyer ha partecipato a quasi tutti i dibattiti tv tra democratici degli ultimi mesi grazie all’investimento di una parte considerevole del suo patrimonio da 1,6 miliardi in una campagna elettorale su temi ambientalisti. Nonostante alcune proposte originali – come il limite di mandati a 12 anni per i parlamentari – la sua candidatura non è mai decollata. Ha investito oltre 175 milioni di dollari di tasca propria in annunci tv, ha puntato tutto sul South Carolina e ha preso soltanto l’11,3 per cento, 59mila voti. Per quanto possa suonare sorprendente, gli spazi pubblicitari si possono comprare, gli elettori invece no.

La parabola di Steyer potrebbe essere replicata, su scala maggiore, dall’altro miliardario in corsa tra i Democratici: Michael Bloomberg. L’ex sindaco di New York ha speso oltre mezzo miliardo per preparare il Super Martedì, quando per la prima volta il suo nome sarà sulle schede (non ha corso nei primi Stati, che assegnavano pochi delegati per la convention Democratica che sceglierà lo sfidante di Trump). La sconfitta di Steyer e le disastrose due performance di Bloomberg nei dibattiti tv sono la migliore pubblicità per Sanders, uno che contesta l’esistenza stessa dei miliardari, minaccia per la democrazia, e vuole colpirli con una imposta patrimoniale: gli elettori non sono in vendita, e il lavoro dal basso di Sanders e del suo vasto popolo di militanti porta più voti dell’invasione di spot di Bloomberg.

L’establishment del partito Democratico non è riuscito a produrre una alternativa moderata, pragmatica e rassicurante a Donald Trump. La bolla di Pete Buttigieg, il 38enne sindaco della cittadina di South Bend, si sta sgonfiando. Resta Sanders.

Comunque finiscano le primarie, il senatore del Vermont ha già vinto: le posizioni del partito Democratico si sono spostate a sinistra in un modo impensabile qualche anno fa. Gli elettori sono d’accordo con le tasse sui ricchi, parlare di un’assistenza sanitaria pubblica non è più un tabù (si litiga soprattutto sui costi), ridurre l’accesso alle armi è considerato necessario. Cancellare i debiti di studenti e pazienti, rendere gratuite le università e automatica la registrazione degli elettori per evitare che fette di popolazione vengano escluse dal voto sono idee radicali, ma ormai parte del dibattito. Domani gli elettori Dem devono decidere se riconoscere l’egemonia culturale di Sanders o combatterla. Ma la vera scelta è tra il “socialista” e un presidente che i Democratici hanno messo sotto impeachment.

Tutti pazzi per micio Viktor, il gatto russo che non vola

Sotto i cieli nuvolosi che ricoprono la terra russa, all’aeroporto di Mosca, al trentaquattrenne Michail Galin, in partenza per la Siberia, l’hostess della compagnia Aeroflot ha chiesto di pesare il bagaglio a mano, per riferirgli subito dopo che eccedeva di due chili e sarebbe finito in stiva. Ma nella borsa c’era il suo fedele e obeso gatto Viktor e Michail non avrebbe mai abbandonato il suo amico al destino da deposito bagagli che lo attendeva. Così il proprietario del felino ha deciso di perdere il volo, prenotare il successivo, rifare i controlli con una controfigura, un doppelganger, un sosia smilzo: il magro gatto Phebe, prestatogli rocambolescamente da un’amica. Poi ha lasciato Phebe alla legittima proprietaria, ha sostituito Viktor nella borsa e ha imbarcato il suo animale, buggerando le regole della compagnia Aeroflot. La storia sarebbe finita lì se Michail non fosse vissuto nell’era di Instagram. Uno scatto mostrava al mondo Viktor mentre guardava le nuvole fuori dal finestrino in aereo e centinaia di persone hanno letto di come era riuscito furbescamente ad imbarcarsi. Tra loro anche gli impiegati dell’Aeroflot, che presto hanno sanzionato il proprietario, sottraendogli le sue trentasettemila miglia di bonus accumulati per sconti aerei. Milioni di click dopo, è stata questa la mossa che ha dato inizio alla saga del felino virale. Qui segue la storia (vera) del tentato dirottamento di un gatto volante, grosso e grasso, e forse dell’anima della Federazione che abita.

Sul web è stato subito un non complesso schierarsi di fazioni: supporto e solidarietà al proprietario punito dall’Aeroflot e anatemi contro la compagnia di bandiera, già fiore all’occhiello dei sovietici, gestita dal suocero dell’ex presidente Boris Yeltsin fino al 2009 e ora nelle mani di Vitaly Savelyev, amico del presidente Vladimir Putin. Veloce come il boeing dove gli volevano impedire di viaggiare, il gatto è diventato meme condiviso, soggetto adamantino da social media, protagonista di commenti in sequenza chilometrica, fonte d’ispirazione di aforismi profondi degli utenti: “Il grasso non è un crimine”. Icona anomala contro l’ingiustizia da milioni di fan: “Siamo tutti Viktor”. “Viktor Vola”. “Aerogatto”. È la vittoria di Viktor il grasso contro il colosso aereo per la santa alleanza trasversale tra felini e umani nel Paese dove nel 60% delle case c’è un gatto. La Russia è la nazione con più felini domestici al mondo, riferiscono statistiche di oscure fondazioni capaci in maniera misteriosa di contare i gatti pro capite. Inammissibile quanto imprevedibile, la controversia è diventa centrale per settimane nel dibattito dell’opinione pubblica slava. Uno stormo di penne della stampa cirillica si è occupata dei branchi di felini presenti nella storia della nazione, sono state rispolverate pagine maestose della letteratura russa del Novecento.

Nei talk show: “Perché i russi amano i gatti?”. Rispondono esperti: “Perché incarnano tradizione e saggezza del nostro popolo”. Sono utili: i gatti proteggono il prestigioso museo dell’Hermitage a Pietroburgo. È uno sciorinare di certezze chiave: “I gatti sono amici degli umani”. Si cercano risposte definitive nella scienza, in un proliferare propizio di opinioni sui benefici della vita domestica condivisa con la presenza pelosa.

Viktor, il gatto, diventa l’eroe nazionalpopolare a quattro, molli zampe che tutti vorrebbero tirare per il cicciuto collo. Omaggi alla sua bellezza sovrappeso: sul quotidiano Izvestia cominciano a scrivere che “grasso è bello”. Ripreso in ogni posizione per mostrare alle telecamere la sua maestosità adiposa, una sagoma di pelo grigio e lardo, il gatto è finito su quasi ogni canale russo. Lunghi minuti di inchieste ai microfoni dei giornalisti: Signor Galin, cosa mangia Viktor? È un gatto pulito, si lava? Dorme bene “dopo tutto quello che è successo”? Viktor è felice? Mentre il proprietario parlava a reti unificate, il micio Viktor per tutto il tempo è rimasto muto e probabilmente incosciente della sua fama non richiesta in inspiegabile espansione.

Per un’indignazione collettiva palesata in dimensione minore contro le istituzioni per sanzioni economiche, scandali, corruzione, Viktor ha ottenuto regali da aziende private, come cibo gratis a vita. Al suo proprietario sono stati regalati gli stessi chilometri che la compagnia aerea gli aveva sottratto da una società privata di taxi. Un trattamento da star è stato promesso dal dipartimento turistico della Repubblica del Tatarstan, che in via ufficiale ha invitato la coppia a visitare la capitale Kazan.

Viktor contro Aeroflot. “Il governo si rifiuta di reagire alla situazione!”. Il portavoce del presidente Putin, Dimitry Peskov, interpellato per sciogliere il veemente dilemma animalesco, assaltato da interrogativi di giornalisti impavidi in conferenza stampa ufficiale, ha dovuto rispondere: “Io non credo che il Cremlino debba o possa in qualche modo commentare la situazione del gatto in aereo”, ammettendo infine che “il Cremlino non si occupa di gatti”.

La ballata di Viktor è proseguita oltre confine. “I grassi hanno diritto di volare”: c’è stato anche lo sberleffo delle compagnie aeree straniere, dall’Air France all’Egypt Air, con foto annesse dei loro gatti viaggianti in costume nazionale, adagiati comodi nelle poltrone. Tentando di ignorare la notizia, per cedere poi alla calamita degli hashtag, del grassume del quadrupede hanno scritto Bbc, Washington Post, New York Times, Cnn, The Guardian. È una “cat-catastrofe” sul Daily Mail. Dell’insostenibile pesantezza di Viktor infine scriviamo anche noi. Il mogio felino pesante ha continuato ad essere tema dell’annoso dibattito fino a che la ruggine del web non stava per seppellire l’argomento. Il taciturno Viktor poteva finalmente riposare in un meritato cono d’ombra. Quando si pensava che fosse iniziato il suo letargo mediatico il silenzio sull’animale è stato rotto proprio da Ria Novosti, agenzia stampa del Cremlino. Un dispaccio di fine gennaio annuncia che presto sta per ricominciare tutto: “Viktor deve tornare a volare e si è messo a dieta”.

Disabili licenziati dalla Unilever. Gli altri vanno in appalto, per ora

Le opzioni sul tavolo sono due: o si accetta di non lavorare più per l’Algida e passare a una ditta in appalto, o si viene licenziati. Non proprio una scelta comoda quella che si è presentata ai nove addetti alla portineria dello stabilimento Unilever di Caivano, vicino Napoli. Sono quasi tutti appartenenti alle cosiddette categorie protette, chi per problemi di disabilità, chi per essere stato in passato vittime di gravi infortuni sul lavoro. Una circostanza non secondaria. Vista la situazione, insomma, ci si aspettava uno sforzo maggiore da parte della multinazionale olandese–britannica, titolare del marchio di gelati, la quale però è stata decisa nell’andare avanti sulla strada tracciata. Anche grazie a un accordo con i sindacati, non firmato dalla Flai Cgil, che ha previsto – oltre al taglio della portineria – altri 20 licenziamenti tra operai e impiegati. Così, cinque hanno accettato di essere “venduti” e stanno per essere assunti dalla nuova azienda, gli altri quattro stanno ricevendo le lettere di licenziamento. C’è un motivo per cui si sono opposti all’ipotesi che sarebbe sembrata il male minore.

La nuova società, San Vincenzo Srl, “si occuperà della gestione delle attività della portineria per la durata di tre anni”, dice l’intesa. Quindi il rischio è trovarsi in mezzo a una nuova crisi di lavoro nel 2023, alla scadenza del contratto. È un po’ la classica situazione di appalti e subappalti: i lavoratori possono anche avere un rapporto a tempo indeterminato, ma il loro destino resta legato a quello che succederà nel giorno della cessazione, quando arriverà una nuova impresa e la “clausola sociale” potrebbe non funzionare in modo automatico. In sostanza, una situazione che comunque è avvertita come molto più precaria. Ecco perché almeno una parte di queste persone ha provato fino all’ultimo a restare attaccata all’Unilever, tentando di far cambiare idea alla multinazionale.

Come detto, tra l’altro, questa operazione si è inserita in una procedura di licenziamento collettivo. La Unilever aveva dichiarato 53 esuberi, poi diventati 29 con l’accordo sindacale. Ma la cessione all’esterno della portineria, con conseguente transito dei nove lavoratori delle categorie protette, non è mai stata messa in discussione. Per gli altri venti allontanamenti, invece, saranno applicati i criteri di legge: andranno a casa quelli con meno anzianità, senza carichi famigliari, o quelli che possono essere accompagnati alla pensione con Quota 100. “In tutti questi anni – ha commentato con amarezza la Flai Cgil – abbiamo firmato accordi su accordi sempre per il rilancio del sito, e invece è bastato sacrificare nove lavoratori per assicurare un grande piano industriale”.

Un tempo in quello stabilimento erano occupati 1.200 persone, oggi sono 700 (230 i part time). Il Fatto Quotidiano ha chiesto all’azienda – senza però ottenere risposta – quali garanzie avranno i lavoratori passati all’altra azienda di non perdere il posto alla fine dell’appalto e il motivo per cui non è stato possibile evitare il licenziamento di quelli rimasti.

Coronavirus, ecco i rimborsi per eventi e servizi cancellati

Archiviato il primo decreto con le misure per attutire l’impatto dell’emergenza Coronavirus nelle zone rosse, si è in attesa del secondo testo che arriverà in settimana a sostegno dei territori e dei settori più colpiti. Novità che riguardano anche le famiglie. Nel primo pacchetto è stato confermato lo stop per due mesi, fino al 30 aprile, dei pagamenti delle bollette di luce, gas e rifiuti, che potranno anche essere rateizzati, e dell’Rc auto. Slittano al 1° giugno le scadenze della rottamazione ter (dal 28 febbraio) e del saldo e stralcio (dal 31 marzo). Nel testo sono state inserite anche le misure per sostenere le aziende del turismo alle prese con migliaia di disdette che, secondo le associazioni del settore vanno dal 70 al 90%, mettendo a rischio anche la Pasqua.

L’impatto del Coronavirus è pesantissimo sul turismo italiano che incide per il 13% sul Pil con un giro d’affari di 146 miliardi di euro, quasi 216 mila esercizi ricettivi, 12 mila agenzie di viaggio e oltre 4 milioni di lavoratori (il 14,7% totale). L’emergenza fa paura perché “contagia” tutti i settori, con le disdette che riguardano le normali attività: dalla cultura allo sport passando per i trasporti. Le associazioni dei consumatori hanno cercato di fornire delle risposte a quanti si chiedono se e come è possibile ottenere un rimborso. Facciamo un punto.

Treno.Per i clienti che hanno acquistato fino al 23 febbraio un biglietto su Frecce, Intercity, Intercity Notte e Regionale, Trenitalia riconosce il rimborso integrale (bonus elettrico o denaro per il trasporto regionale) in caso di rinuncia. La richiesta, spiega Cittadinanzattiva, va presentata entro il 1 marzo 2020. Italo, invece, rimborsa i biglietti acquistati fino al 23 febbraio per viaggi dal 24 febbraio al primo marzo per tutti i viaggi da e per le zone del Nord Italia.

Aereo.I consumatori che hanno acquistato un pacchetto turistico che comprende la visita in uno dei Paesi in cui sono presenti i casi di Coronavirus possono recedere prima della partenza senza corrispondere spese di recesso e hanno diritto al rimborso integrale dei pagamenti effettuati per il pacchetto. A tutelarli, dice Cittadinanzattiva, è l’articolo 41 del Codice del Turismo. Avranno indietro i soldi anche in caso di acquisto del solo biglietto aereo prenotato per la Cina, i cui collegamenti sono sospesi dal 31 gennaio. Alitalia ha spiegato che i passeggeri soggetti a restrizione della mobilità, cioè in quarantena, in possesso di biglietti acquistati entro il 22 febbraio, con date di viaggio comprese tra il 23 febbraio e l’8 marzo 2020, possono richiedere un buono di importo pari al valore del biglietto acquistato, usufruibile fino al 30 giugno 2020 per l’acquisto di altri biglietti. Intanto aumentano i Paesi che vietano o introducono restrizioni all’ingresso di chi proviene dall’Italia. L’ultimo in ordine di tempo è stato Israele. Gli altri sono: Territori Palestinesi, Capo Verde, Giamaica, Giordania, Arabia Saudita, Bahrein, El Salvador, Figi, Iraq, Kuwait, Libano, Madagascar, Mauritius, Seychelles e Turkmenistan. Enac consiglia di contattare le compagnie per verificare l’operatività dei voli e di monitorare i siti Viaggiare Sicuri della Farnesina e quello del ministero della Salute, oltre a contattare la compagnia aerea per verificare l’effettiva operatività del volo.

Gite scolastiche. Secondo quanto stabilito dal decreto del governo, sono stati sospesi i viaggi d’istruzione, le iniziative di scambio o gemellaggio, le visite guidate e le uscite didattiche programmate dalle istituzioni scolastiche di ogni ordine e grado fino al 15 marzo 2020. Un settore che, secondo Federturismo Confindustria, muove un business da 316 milioni di euro. Negli scorsi giorni la ministra dell’Istruzione, Lucia Azzolina, ha rassicurato le famiglie: i soldi versati verranno interamente rimborsati. Le disposizioni arriveranno con un possibile decreto ad hoc.

Teatri e concerti. Più nel dettaglio entra Altroconsumo che fornisce istruzioni pratiche sul fronte degli altri eventi come spettacoli teatrali o concerti che, di fatto, sono stati bloccati dai provvedimenti del governo e dei Comuni. Come riporta l’associazione sul proprio sito, “molte strutture rimborseranno direttamente, altre proporranno soluzioni alternative o cambi di data, alcuni potrebbero addirittura decidere di non rimborsare. In generale bisognerebbe vedere cosa prevedono tutti i singoli contratti per capire se queste situazioni sono disciplinate o meno. È importante anche tenere monitoriati i siti di operatori, squadre e enti vari e tenere monitorate le loro comunicazioni”.

Partite. L’Unione nazionale consumatori fornisce la risposta ai tifosi di calcio: “Se un evento sportivo viene rinviato, il tifoso in possesso di un biglietto ha diritto al rimborso del singolo titolo di accesso. Se si stabilisce lo svolgimento a porte chiuse, va rimborsato il singolo biglietto e per il tifoso abbonato scatta il diritto alla restituzione di una quota parte dell’abbonamento stesso”.

Il danno economico: 250 milioni di euro

Ecosì l’Europa perde la sua rassegna dell’auto più importante, per “cause di forza maggiore”. Coronavirus batte calvinismo tanto a poco. Eh già, perché la cancellazione del salone di Ginevra, oltre a un tuffo al cuore degli appassionati di motori, significa bruciare tanto denaro. Qualcosa come 250 milioni di euro, più l’indotto della città, tra alberghi, ristoranti e quant’altro. E se verranno restituiti i soldi a chi, tra i circa 600 mila visitatori attesi, aveva già comprato il biglietto, il conto più salato lo pagheranno gli espositori. “Le conseguenze finanziarie per tutte le persone coinvolte nell’evento sono significative e dovranno essere valutate nelle prossime settimane, così come il tema dei rimborsi”, fanno sapere gli organizzatori. Sarà interessante capire se e come questo avverrà. Intanto, l’appuntamento è per l’edizione del prossimo anno: la vera numero 90, finalmente, visto com’è andata quest’anno. Anche se le nubi che si addensano ormai da tempo sulle kermesse dell’auto tradizionali qualche dubbio lo lasciano. Formule i cui ritorni i costruttori hanno cominciato a mettere in discussione, convinti che esistano modi migliori per ottenere visibilità. E che i potenziali clienti ormai prediligano web e social, più che lo scintillio di luci e stand addobbati. Non è un caso che, correndo ai ripari, parecchi brand ricorreranno ai canali digitali per svelare le loro anteprime, come raccontiamo nel pezzo qui accanto. È il futuro, anche se il calore dei riflettori può ancora fare bene.

L’effetto del morbo: “Vendite in calo del 2,5%”

Il coronavirus, oltre che a esposizioni motoristiche come il salone di Ginevra, sta facendo danni anche all’auto in senso stretto. A quantificarli è l’agenzia di rating Moody’s: giù le stime sulle vendite di fine anno, in calo del 2,5% a livello mondiale e non più solo dello 0,9% come inizialmente previsto dagli analisti. Il motivo risiede nel fatto che la Cina (e il distretto di Wuhan in particolare, con le sue fabbriche) è un hub fondamentale per le quattro ruote. Oltre ad essere il più importante mercato mondiale, è anche il Paese da dove proviene la gran parte della componentistica (ma anche materie prime) utilizzata per i veicoli di quasi tutti i marchi. “Se il tasso di infezione non diminuisce e il bilancio delle vittime continua ad aumentare”, si legge nelle note diffuse dalla nota agenzia di rating, “vi è il potenziale per interruzioni più gravi nelle catene di approvvigionamento manifatturiere, incluso il settore automobilistico”. Il problema è che la produzione, da quelle parti, fa fatica a riprendersi. E anche la domanda a livello globale ha imboccato il tunnel del declino: la paura del contagio spinge potenziali acquirenti ad evitare luoghi affollati, tra cui i concessionari, e a posticipare l’acquisto. A questa situazione va aggiunto il fatto che l’Unione europea ha introdotto dal 1° gennaio 2020 norme più stringenti sui limiti alle emissioni. Ed i costruttori sono impegnati a far passare la rivoluzione verde di ibride ed elettriche, veicoli dai listini più alti che potrebbero non attirare più di tanto i cosumatori, con ricadute negative sul mercato. Insomma, dopo un calo di quasi il 5% nel 2019, anche quest’anno per l’auto non saranno certo rose e fiori.

L’auto va in streaming. Nuovi modelli presentati sul web

La paura fa 90. Anzi, no: fra le vittime del coronavirus figura pure la 90ª edizione del Salone di Ginevra, che avrebbe dovuto svolgersi dal 3 al 15 marzo e che, invece, è stata cancellata. Un epilogo previsto da molti, nonostante le rassicurazioni del presidente della kermesse, Maurice Turrettini, durante la presentazione: “Il Salone si farà. Siamo in contatto con l’OMS e col dipartimento federale della Salute che ci conferma che non c’è nessuna ragione per annullarlo. La Svizzera non ha avuto un solo caso di coronavirus”. Ne sono poi arrivati 15 in 24 ore, giovedì scorso.

L’emergenza potrebbe persino essere il colpo di grazia all’ultimo baluardo dei motorshow che fanno di riflettori e lustrini la loro principale ricetta, già claudicante per via delle numerosedefezioni incassate da molti costruttori. E se foste fra quelli che si chiedono se il Salone svizzero verrà posticipato nei prossimi mesi, “la risposta è no”, dicono da Ginevra, glissando con un “ci vediamo a marzo 2021”. Forse.

Se è vero che non si può biasimare l’organizzazione del Salone, vittima del precipitare delle circostanze, è pur vero che la medesima ha forse preso troppo sottogamba i rischi di un’epidemia. Vedendosi poi costretta ad annullare l’evento proprio a ridosso del via, dopo che a staccare la spina era stato un ordine del Consiglio Federale, in base al quale tutti gli eventi che riuniscono più di 1.000 persone sono vietati fino al 15 marzo. Una clamorosa e inderogabile resa allo sviluppo planetario degli eventi. “Ci rammarichiamo per questa situazione, ma la salute di tutti, attori e visitatori, è la nostra massima priorità oltre a quella dei nostri espositori. Questo è un caso di forza maggiore e un duro colpo per gli espositori che hanno investito massicciamente nella loro presenza a Ginevra”, ha aggiunto sommessamente Turrettini. “Pochi giorni prima dell’apertura dell’evento, il montaggio degli stand era terminato.

Una settimana fa, durante le conferenze stampa che annunciavano l’edizione 2020, non c’era nulla che potesse suggerire la necessità di tale misura”, dicono dall’organizzazione. Forse, la minaccia di un’epidemia globale avrebbe dovuto.

A rimanere col cerino in mano sono i costruttori, che si stanno organizzando per mostrare al mondo nuovi prodotti che, coronavirus o meno, dovranno arrivare sul mercato come da programma, preceduti da test drive della stampa e relative compagne pubblicitarie. Tutte cose già calendarizzate. E ciò spiega perché il Salone sia stato annullato e non posticipato. Ora si punta a dirette streaming e ai canali digitali per togliere i veli a bolidi come Alfa Romeo Giulia GTA e Aston Martin Vantage Roadster, novità del calibro di Audi A3 Sportback, DS9, Hyundai i20 e Kia Sorento, nonché ad auto a emissioni zero come Fiat 500 e Renault Twingo.

Bitcoin & C., truffe in aumento: “La bolla cresce. Ed esploderà”

Gian Luca Comandini lo ha capito prima degli altri: i bitcoin possono renderti ricco. Oggi è nella taskforce governativa sulla blockchain e possiede il sito internet cointelegraph.it, la bibbia online delle monete digitali. Ma 7 anni fa, quando consigliava ad amici e parenti di acquistare moneta virtuale, Comandini veniva ignorato senza pietà. Risultato: molti si mangiano le mani. L’esperto non scende nei dettagli, ma il suo gruzzolo in Bitcoin gli dà il giusto ottimismo. È pessimista, invece, sul destino di quasi tutte le monete virtuali: “La bolla si sta gonfiando e esploderà, come per le dotcom d’inizio millennio”, avvisa Comandini. Secondo coinmarketcap.com esistono 2.351 criptovalute: “Ma l’85% è ‘fuffa’ al limite della truffa e moriranno. Resteranno solo monete solide come Bitcoin”. Basta la notorietà, per lanciare un moneta e arricchirsi subito: poi il valore piomba a zero e gli investitori perdono tutto, ma intanto il malloppo è in cassaforte. Ad esempio, Bitcoiin2Gen: oggi è spazzatura, ma nel 2017 nacque in pompa magna con Steven Seagal testimonial. L’attore è stato multato a fine febbraio dalla Sec: aveva incassato 1 milione di dollari, per la promozione, senza dirlo agli investitori.

Così funzionano le truffe. Secondo l’organizzazione “Cipher Trace”, nel 2019 le frodi sulle criptovalute hanno bruciato 4,15 miliardi di dollari. Impennata notevole: nel 2018 andarono in fumo 618 milioni. Il metodo è lo schema Ponzi: un imbroglione propone investimenti dai guadagni straordinari, a patto che il malcapitato trovi altre persone interessate all’affare. I soldi però non vengono investiti, ma rubati. L’ignaro intanto incassa una piccola somma dal truffatore, grazie ai soldi di un’altra vittima, e così all’infinito. Bernie Madoff ha bruciato 65 miliardi di dollari con lo schema Ponzi. Il trucchetto funziona bene pure con le criptovalute. “Cipher Tracer” cita 3 episodi: Bitclub Network, OneCoin e Einstein Exchange.

Nel caso Bitclub, i risparmiatori hanno perso 722 milioni di dollari. Matthew Goettsche e Jobadiah Weeks sono accusati di frode dalla Corte del New Jersey (Stati Uniti): rischiano 20 anni. La piattaforma canadese Einstein Exchange ha chiuso il 1º novembre scorso con un buco da 12 milioni di dollari. Su OneCoin, criptovaluta truffaldina, hanno investito più di 3 milioni di persone. L’impresa sembrava volare: 2,3 miliardi di dollari di profitto tra il 2014 e il 2016. Ma a novembre il sito chiude e i fondatori, Konstantin Ignatov e sua sorella Ruja (nota come “Cryptoqueen”) finiscono a giudizio per truffa: lui è difeso dall’avvocato Jeffrey Lichtman, lo stesso del Chapo Guzman; lei è sparita. Ma l’onda della truffa ha toccato l’Italia: a luglio scorso la Guardia di Finanza ha chiuso 100 siti web dove si favoleggiava dei guadagni di OneCoin; 5 persone denunciate per truffa.

Secondo il sito coinmap, 14 mila negozi nel mondo accettano pagamenti in Bitcoin: l’Italia ne ospita il 15% (circa 2100), 4ª in classifica dopo Giappone, Usa e Corea del Sud. Solo dal 2018 la Polizia postale tiene il conto delle frodi: “Negli ultimi 2 anni abbiamo ricevuto oltre 700 denunce sul trading online di criptovalute”, dice Ivano Gabrielli, responsabile dell’anticrimine informatico. Quasi un truffato al giorno dal 2018, più di 27 milioni di euro rubati. Sulla carta, ogni offerta finanziaria deve essere autorizzata dalla Consob. “Basta verificare il sito con la lista dei broker abilitati”, ricorda Gabrielli: “Abbiamo oscurato 17 pagine web, grazie alle segnalazioni dell’autorità di controllo”. La filiera della truffa è nota: arriva una telefonata da un finto call center, l’offerta di guadagno è irrestistibile, il malcapitato abbocca, paga e i soldi finiscono su conti esteri intestati a prestanome, i cosiddetti moneymule. Gli investigatori risalgono alla testa di legno, ma il più delle volte è una marionetta che non sa nulla della truffa: riceve un compenso per mettere il suo nome su un conto bancario, nient’altro. “Se si viene contattati o appare un annuncio online, la probabilità della truffa è alta”, avvisa Ivano Gabrielli.

Gianluca Comandini è d’accordo: “Se promettono guadagni favolosi, è una frode”. L’aumento dei “bidoni” ha rallentato la corsa delle criptovalute. Oggi un Bitcoin vale circa 8 mila euro. Nel 2013 stava a 60–70 euro. Nel 2017 tocca la vetta, circa 16 mila. William Nonnis, esperto di Blockchain della Difesa, ha la sua idea: “Bitcoin è l’asset finanziario che ha creato più milionari nel corso della storia”. Il boom è tra il 2015 e il 2018, quando spuntano criptovalute come funghi. Il seme si chiama Ico, Initial coin offering: una startup chiede finanziamenti online illustrando il progetto di una moneta virtuale. Così, nel 2017, sono stati raccolti circa 1,25 miliardi. “Le Ico hanno arricchito pochi e truffato molti”, dice Comandini, “perciò sono morte nel 2019, nessuno voleva più investire”.

Il problema l’ha risolto Binance, la piazza virtuale dove comprare e scambiare monete digitali: riceve migliaia di progetti, seleziona i migliori e li offre sul mercato. Cioè, un “bollino qualità” sulle monete più promettenti per garantire gli investitori. È l’evoluzione della specie: le Ico diventano Ieo, Initial exchange offering. “Il colosso cinese, ogni mese, ospita transazioni per un volume di 10 miliardi di dollari, e con le commissioni incassa utili da un miliardi l’anno”, dice Comandini. Si dice che le criptovalute uccidano gli intermediari: ma le piattaforme digitali (o exchange) sono i nuovi mediatori. Con Binance c’è Coinbase, Bitfinex, Kaken, Luno. Comandini ha la sua teoria: “Molti apprezzano il filtro perché non dominano la tecnologia cercano aiuto. Esempio: se perdi la password, addio ai soldi”. È successo all’irlandese Clifton Collins: ha smarrito il codice e 55 milioni di euro in Bitcoin. Neppure gli exchange sono una cassaforte: il Ceo di QuadrigaCx, Gerald Cotten, nel 2018 s’è portato nella tomba le password dei conti digitali e 135 milioni di dollari canadesi. Investitori sospettano la truffa. Sarà per il prossimo giro di roulette.