Zero silenzio per Gualtieri ma stavolta è il Pd a tacere

Per carità, il ministro ci ha anche provato a salvare il pudore, quando l’intervistatore gli ha ricordato la sua candidatura alle elezioni suppletive di Roma (“Di questo preferisco non parlare”). Però resta il fatto che ieri il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri ha parlato di quasi tutto il resto nel lungo colloquio con Repubblica: diffuso proprio nella domenica in cui nel Municipio I, nel centro della Capitale, si è votato per eleggere il deputato che sostituirà a Montecitorio Paolo Gentiloni, diventato commissario agli Affari economici dell’Unione europea. E il candidato del Pd era proprio lui, Gualtieri.

Esponente di spicco di quel partito che, ogni volta che qualcun altro violava il silenzio elettorale (nel dettaglio Matteo Salvini), tuonava e invocava sanzioni, e a ragione, ci mancherebbe. Era successo anche domenica 26 gennaio, quella del voto in Emilia Romagna. Il capo della Lega, come sua consuetudine, se ne era infischiato del silenzio da urne, postando a ripetizione sui social network video dei suoi comizi e messaggi di varia natura. Abbastanza per spingere il responsabile organizzazione del Pd, Stefano Vaccari, a reagire così: “Matteo Salvini, in difficoltà per paura di perdere le elezioni, sta facendo ininterrottamente campagna elettorale sui profili social in violazione delle regole. Un film già visto”. Ma ieri mattina a ignorare la regola è stato un volto di spicco del Pd. E gli altri partiti, comprensibilmente, non hanno gradito. Così ecco la deputata di Fratelli d’Italia Ylenia Lucaselli: “Il ministro Gualtieri rilascia un’intervista-lenzuolo nel giorno in cui si vota nel collegio uninominale dove è candidato. È la prova, l’ennesima, della doppia morale della sinistra”. Prosit.

Il M5S avvisa i dem: “Non vi allargate”

Va bene la flessibilità sui conti da chiedere all’Europa, come no, perché il coronavirus è un’emergenza che si dilata, e così i Cinque Stelle appoggiano la linea nero su bianco. Ma di domenica sera il capo politico reggente Vito Crimi punta il dito contro il Pd.

Accusato di “fughe in avanti” rispetto all’alleato a 5Stelle, annunciando miliardi a pioggia e incontri con le parti sociali, insomma ostentando di aver preso il timone. “Chi pensa di utilizzare questo argomento a fini personali e per fare propaganda si faccia un esame di coscienza” avverte Crimi. E il messaggio non ha un destinatario ufficiale, ma vale anche per il segretario dem Nicola Zingaretti, che ha annunciato per questa mattina un incontro al Nazareno con le “forze sociali e produttive”. Eppure il presidente del Consiglio Giuseppe Conte aveva già fissato per mercoledì un identico appuntamento.

E allora fonti di governo del M5S ringhiano: “Queste cose nella precedente maggioranza le faceva Matteo Salvini, quando convocava i sindacati senza averne titolo”. E il paragone racconta il clima. Ma il resto lo fa, anzi lo dice ancora Crimi: “Sparare a casaccio cifre improponibili per la flessibilità significa prendere un giro gli italiani e mentire sapendo di mentire”. E anche qui, l’avviso vale per tutti i partiti, ma innanzitutto per il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri, che ieri ha rilasciato una lunga intervista a Repubblica promettendo investimenti per 3,6miliardi per rimediare ai danni del coronavirus. Mossa che ha irritato i 5Stelle: anche perché ieri a Roma si votava per le elezioni suppletive, dove Gualtieri era candidato per il Pd come successore a Montecitorio di Paolo Gentiloni, nominato commissario agli Affari economici dell’Unione europea. Ma il nodo non è solo il silenzio elettorale, è anche e soprattutto quella cifra lanciata dal ministro, “di cui a noi 5Stelle non aveva detto nulla”. E d’altronde il rancore verso Gualtieri risale già a venerdì sera, quando prima del Consiglio dei ministri si era presentato davanti alle telecamere per raccontare le misure del primo decreto sul coronavirus. E dentro, i ministri grillini a ruminare disappunto. Con Luigi Di Maio, racconta uno dei presenti, che aveva lo sguardo di chi vorrebbe urlare “ve l’avevo detto”. Certo, Gualtieri in conferenza stampa era stato portato dalla comunicazione di palazzo Chigi. E da qui si arriva a Conte. Cosa pensa il premier dei presunti strappi del Pd? “Non diciamo nulla” replicavano ieri sera da Chigi.

Però indiscrezioni raccontano di una telefonata di Crimi a Conte, per raccontare al premier le ansie del M5S. Perché è stata una domenica sera complicata, nella Roma dove Franceschini giorni fa incontrato possibili Responsabili. E anche questo a diversi grillini non è piaciuto: per nulla.

Spagnola: migliaia di morti, ma senza panico e psicosi

La domenica del 6 ottobre 1918 trova Milano immersa in un’atmosfera di sfrenata ed incontenibile gioia per la richiesta dell’armistizio da parte dell’Austria-Ungheria, della Germania e della Turchia. Migliaia e migliaia di cittadini – allora Milano contava 800mila abitanti – invasero le piazze per festeggiare, dal centro ai quartieri più periferici come “nel giorno di giovedì grasso”, scrisse Anna Kuliscioff a Filippo Turati, “operai, donne, bambini, soldati di tutte le caserme erano per le vie, bruciavano falò di carta (…) una vera follìa pacifica s’impossessò di tutti senza distinzione di classe”. Questa esuberanza promiscua sarà una manna per il virus della “febbre spagnola”, che aveva già cominciato a seminare di lutti la nostra penisola e il resto del mondo. È proprio a Milano che il Paese stremato dalla guerra, dai sacrifici, dai razionamenti, dai decreti che limitavano, per ragioni belliche, le libertà individuali, riconosce il pericolo, sino a quel momento sottovalutato, di una nuova subdola e devastante pandemia. Nel giro di poche ore, infatti, la capitale lombarda presenta un bilancio drammatico. Tra il 6 e il 18 ottobre vengono registrati i picchi più alti di contagio. Il 10 ottobre sono segnalati 1.246 casi, il 15 ottobre l’influenza causa 120 morti. Alla fine uccise 600 mila persone in Italia. Il mondo medico-scientifico è impotente, non sa come fronteggiare l’emergenza. Pure le autorità sono nel pallone per la mancanza di coordinamento tra comuni e Stato, e i tre ministeri cui era delegata la Sanità pubblica, ossia Guerra, Marina e Interno. Eppure, il panico non serpeggiò e nemmeno la psicosi da contagio, a differenza di oggi. Certamente un ruolo decisivo l’ebbe la censura militare che proibiva la circolazione di notizie capaci di demoralizzare la popolazione. E poi c’era una sorta di pudore nell’ostentare il lutto privato rispetto a quello collettivo per i caduti in nome della patria, ai quali andava invece riservato il ricordo e il pianto.

Vigeva, insomma, una “congiura del silenzio”, come osserva Eugenia Tognotti nel suo straordinario saggio La Spagnola in Italia (“storia dell’influenza che fece temere la fine del mondo”, l’emblematico sottotitolo, FrancoAngeli 2015), da cui emergono parecchie analogie con i comportamenti attuali e i riflessi nella vita quotidiana. Per esempio, gli “untori”. I portatori del misterioso batterio: chi starnutiva, si soffiava il naso, tossiva, sputava per terra. Vennero esecrati “i rituali più consolidati dello scambio sociale – l’abbraccio, il bacio, la stretta di mano”, quest’ultima, per Mussolini, una “sudicia abitudine”. A Milano si chiese, per evitare contatti coi malati, di ripristinare le linee telefoniche, ma la Spagnola infierì sulle centraliniste e il servizio andò in crisi. L’arcivescovo Andrea Carlo Ferrari emanò una pastorale in cui stabiliva particolari norme igieniche per la pulizia dei pavimenti e dei banchi degli arredi sacri, mentre le panche dovevano essere disposte a distanza di sicurezza le une dalle altre, e dispose un’attenzione “speciale” per l’acqua benedetta e per i confessionali, ritenuti troppo a rischio.

La Scala richiese all’ufficio d’Igiene la completa disinfezione quotidiana della sala e del palcoscenico, per sfoltire gli spettatori delle gallerie, dimezzò gli accessi. Dal 5 ottobre all’8 novembre 1918 il comune di Milano eseguì 23.000 disinfezioni per “influenza grippale”, anche con innaffiatrici e autopompe. Vennero sparsi 56.480 chili di sublimato, 566.300 di formalina, 107.550 di taurina, 2.950 di lisoformio nei corridoi, scale, terrazze, latrine, portici di uffici comunali, asili e scuole, uffici governativi, caserme, teatri, case di tolleranza, orfanotrofi, ospedali, ricoveri, alberghi popolari, caseggiati. Si proibirono le visite negli ospedali civili e militari e nei manicomi, ma pochi obbedirono. La gente affollò lo stesso tram e uffici postali, negozi di alimentari e centri di assistenza, continuò a restare in coda davanti alle latterie e alle macellerie nei tre giorni la settimana in cui era autorizzata la vendita. La Spagnola seminò più vittime della guerra, ma il vero mistero fu l’oblìo che l’avvolse, “la rimozione della memoria e del vissuto”.

Wuhan, quel virus fatto in laboratorio

Come se non fosse già sufficiente la questione del “salto di specie” di virus da animale a uomo, (come è accaduto con il Coronoavirus-19, che dal pipistrello, si sospetta abbia colonizzato un altro animale e da lì l’uomo), potenziali rischi di pandemie da agenti patogeni sconosciuti vengono anche da un settore della ricerca scientifica, chiamata Gain-of Function (GoF). Si occupa di “ingegnerizzare”, in laboratorio, il genoma di virus presenti negli animali in natura, con alcuni geni di virus diversi, nel tentativo di prevederne le future mutazioni e capire se potrebbero comportare salti di specie dall’animale all’uomo, e quanto potrebbero essere virulenti ed efficienti nel trasmettersi nella popolazione umana. È un campo controverso, quello della ricerca GoF, sia per la pericolosità che la creazione in laboratorio di nuovi patogeni pone, sia per la mancanza di trasparenza e di controllo da parte della società civile, specie in paesi poco trasparenti per definizione, come la Cina o la Russia. Ma anche gli Usa. Spesso si tratta di ricerche in ambito militare o secretate per questioni di sicurezza nazionale, oppure finanziate con fondi pubblici a seguito della pubblicazione di bandi, ma in assenza di una reale ed affidabile valutazione del rischio.

La controversia sugli esperimenti GoF è tornata alla ribalta proprio a seguito dell’attuale epidemia di Coronavirus. Nel 2015, infatti, una ricerca scientifica pubblicata sulla rivista internazionale Nature Medicine riportava i risultati di un esperimento che aveva condotto alla creazione di un chimera-virus, cioé una versione ibrida tra un ceppo di Coronavirus originariamente del pipistrello (l’SHC014) e uno simile a quello che causa la Sars nell’uomo (Sindrome respiratoria acuta grave). Il virus così creato mostrava di essere in grado di infettare le cellule delle vie respiratorie umane.

Tra gli autori di quello studio, oltre a ricercatori Usa, anche colleghi cinesi di un laboratorio di Biosicurezza e patogeni speciali situato proprio a Wuhan, in Cina (dove alcuni lavorano tutt’ora). Secondo la rivista Nature si tratta di un centro dove vengono studiati i “patogeni più pericolosi al mondo”. E Wuhan è la città dove un mese e mezzo fa, a distanza di quattro anni dalla pubblicazione di quello studio, è scoppiata l’epidemia. Nel 2015, molti virologi misero in discussione la reale necessità di tali esperimenti in termini di progresso della conoscenza medica, se paragonata ai rischi. “Se il virus fuoriscisse dal laboratorio, nessuno potrebbe prevederne la traiettoria (di diffusione, ndr),” aveva commentato Simon Wain-Hobson, virologo all’Istituto Pasteur di Parigi, Francia. Hobson aveva sottolineato che quel virus “ingegnerizzato” in laboratorio “prolifica in maniera incredibilmente efficiente nelle cellule umane.”

Allo scoppio dell’attuale epidemia di Coronavirus in Cina, in molti si sono chiesti se, come accaduto altre volte in passato, non ci sia proprio un incidente, una fuoriuscita del virus chimera da quel laboratorio di Wuhan, all’origine dell’attuale infezione. Alcuni scienziati hanno appena pubblicato una ricerca sulla possibile origine del Coronavirus-19, cercando di rispondere anche a questa domanda. Per quanto possa apparire complottista, ha evidentemente un suo fondamento scientifico. Ed anche etico. La ricerca conclude che, dall’osservazione attenta del genoma dell’attuale Covid-19 e quello “ingegnerizzato” nel laboratorio di Whuan non ci sia abbastanza relazione genetica da giustificare tali sospetti e il conseguente allarme. “È improbabile che abbia avuto origine da una manipolazione in laboratorio”, spiegano gli autori. Sebbene non escludano del tutto la possibilità.

La probabilità che un incidente di laboratorio inneschi un’epidemia è molto difficile da prevedere, così come è difficile farlo per eventuali scoperte utili all’umanità a cui potrebbero condurre gli esperimenti GoF. Chi li conduce e li finanzia sostiene che possano facilitare lo sviluppo di vaccini per future pandemie. Ma come spiega Ian Mackay, virologo dell’università del Queensland in Australia, alla rivista medica The Lancet “non siamo neanche in grado di prevedere come muteranno le influenze stagionali, da una stagione all’altra, figuriamoci prevedere come potrebbe mutare un virus presente in natura, per effetto dei salti di specie. Abbiamo vaccini per l’influenza che non sempre sono efficaci – spiega il virrologo – e invece di concentrarsi sui virus che già conosciamo e migliorare i vaccini attuali, c’è gente che preferisce preoccuparsi di virus che non sono ancora divenuti trasmissibili (da uomo a uomo, ndr) e che non abbiamo alcuna idea se mai lo saranno.”

L’attenzione per questo genere di ricerche è cresciuta nel 2014 a seguito di un incidente nel laboratori del Centre for Disease Control (Cdc) americano. Diverse violazioni alle procedure che regolano la manipolazione e conservazione di agenti patogeni in laboratorio, provocarono l’esposizione di almeno 86 impiegati del Cdc nientemeno che all’antrace. Questo sollevò la reazione dell’opinione pubblica che poi si tradusse nella sospensione, negli Usa, di tali esperimenti, fintanto che il Comitato Scientifico nazionale americano per la Biosicurezza (Nsabb) non avesse valutato attentamente la situazione e proposto nuove linee guida per la selezione e finanziamento di ricerche in questo ambito. Nel 2018, sono state formulate nuove linee guida che sostanzialmente prevedono la valutazione caso per caso di ogni singolo esperimento proposto, per mano di team di esperti e niente di più. La moratoria, dunque, è stata tolta nel 2018. Se negli Usa una maggiore trasparenza è stata forse raggiunta, nessuno garantisce cosa possa accadere nel resto del mondo, specie in paesi dove la democrazia non è di casa. Nel 2018, la rivista The Lancet ricorda che anche negli Usa le statistiche sul numero di violazioni ai protocolli di biosicurezza nei circa 1500 laboratori autorizzati a condurre tali ricerche è, tuttora, praticamente sconosciuta.

Pedofilia, folla ai funerali del prete condannato. Il divieto per virus?

Decine e decine di persone ai funerali di don Ruggero Conti, ex “guida” della parrocchia romana della Natività di Maria Santissima, in via di Selva Candida e condannato nel 2015 a 14 anni di reclusione per pedofilia. Il funerale si è tenuto nella chiesa della Madonna delle Grazie a Legnano, vicino Milano. E subito è intervenuta l’associazione “Rete l’abuso” che ha annunciato di aver denunciato a Milano “la parrocchia di Legnano, rea di aver violato il decreto sicurezza legato all’allarme Coronavirus, emesso dalla Regione Lombardia, nel quale si vieta qualunque tipo di assembramento, anche di carattere religioso”. Non solo. “Nella denuncia – continua l’associazione – si chiede anche come sia stato possibile, data la grande pubblicizzazione che ha portato all’affluenza di centinaia persone, che il sindaco di Legnano e la stessa Prefettura, non fossero al corrente dell’evento e soprattutto perché non siano intervenute, omettendo i controlli in tutela della popolazione”. La vicenda giudiziaria di Don Ruggero Conti – che si è sempre dichiarato innocente – inizia il 30 giugno del 2008 quando viene arrestato mentre stava partendo per Sydney per partecipare alla Giornata mondiale della Gioventù. A dare avvio all’indagine fu la denuncia di un altro sacerdote. Per l’accusa don Ruggero si era accattivato le simpatie dei bambini, convincendoli a subire gli abusi, attirandoli in casa con promesse di soldi, dvd o vestiti. “È un complotto. Sono gelosie e cattiverie”, la sua difesa. A marzo del 2011 arriva la condanna in primo grado: 15 anni e 4 mesi. Nel frattempo su tre degli episodi contestati arriva la prescrizione e in Appello, nel 2015, la condanna viene ridotta: 14 anni e due mesi per violenza sessuale continuata ed aggravata. Sentenza confermata in Cassazione.

Cronache dall’ospedale di Codogno: in cinque hanno sfidato il morbo

Ma che ci sarà mai a Codogno? Quali brulicanti mercati hanno fatto di questo piccolo centro apparentemente tranquillo la capitale occidentale di un virus che terrorizza popoli e governi? Domande che intrigano i lombardi divisi tra i sollazzevoli miraggi del Decamerone e l’incubo dei Promessi sposi.

Codogno: ironia e paura. Chiacchiere da bar. Epperò a Codogno qualcosa è accaduto. In un ospedale di provincia con pochi mezzi, un piccolo nugolo di medici e infermieri ha affrontato all’improvviso ciò che sta sconvolgendo gli aeroporti del pianeta, da Londra a Città del Messico. Chiamato di colpo a superare una prova campale all’insaputa del mondo, in nome della sanità lombarda. Poi la voce è girata. Ho saputo così un mattino da un amico lontano che tra quei professionisti in trincea c’era una signora che conosco da 20 anni.

Un’infermiera specializzata innamorata del suo lavoro. E amante della legalità. Conosciuta alle presentazioni di libri sulla mafia, dove mi accorsi di trovarla ogni volta che veleggiavo dalle parti di Lodi la quieta: Codogno e Casalpusterlengo, Zelo Buon Persico e Sant’Angelo Lodigiano. Simona Ravera si chiamava, boccoli ramati e gioiosi, con una bimba sempre accanto, che cresceva mandandomi disegnini e poi temi da diciottenne. Sono così andato in rete e ne ho trovato le tracce. Testatina: Nurse 24.it. Titolo: Le 24h in turno di infermieri e medici a Codogno. Testo: “Sembrava un giorno come gli altri. Un’infermiera e un infermiere della terapia intensiva in servizio per il turno pomeridiano, inconsapevoli di ciò che li avrebbe attesi.

Nuovo ingresso del giorno: giovane uomo affetto da sindrome respiratoria in insufficienza acuta […]. Circa 6 ore più tardi la notizia che nessuno avrebbe desiderato: i vari tamponi risultano positivi. Covid-19”. Che fare?

Ecco cosa hanno fatto. Due infermieri, 2 medici e il coordinatore hanno deciso tutto da soli, in gruppo, a partire dalle misure urgenti d’isolamento. Blocco dell’avvicendamento dei turni, auto–imposizione a se stessi di 48 ore filate di lavoro, costituzione di una équipe infermieristica di 5 unità. Per garantire il turn over a oltranza. Ottenendo le scorte necessarie per difendere la propria salute e tenendosi in contatto coi colleghi solo con i social. I generi necessari lasciati accanto all’ingresso dell’unità operativa. Due ore di riposo ogni sei. Chiusura agli ausiliari, così da sobbarcarsi ogni altro lavoro, a partire dalle pulizie.

Dal Sacco di Milano approvano le procedure seguite, e fanno i complimenti ai 5: Simona (appunto), Enrico, Salvo, Daniele e Giorgio. Che dopo 48 ore se ne vanno in quarantena ma poi, mentre a Codogno si arriva al 4º caso, tornano al lavoro volontariamente perché l’ospedale è piccolo e le forze sono insufficienti a reggere l’urto. Ci si divide dunque tra 12 ore di servizio e 12 ore di isolamento volontario, per garantire 2 unità fisse nel reparto strategico. E non basta. Perché poi danno volontariamente i turni ai colleghi della “medicina”, bloccati dalla mancanza di cambi, e attivano il punto di accoglienza per l’autopresentazione dei soggetti con sospetta infezione. Insomma: competenza, prontezza organizzativa, spirito di sacrificio, in un ospedale che non è lo Spallanzani ma dove l’urto è stato retto da un personale ridotto. In difesa della salute collettiva. Ecco, questo (l’hanno chiamata scherzosamente “sana epidemia di patriottica colleganza”) è successo nella terribile Codogno, quando s’è abbattuto qualcosa che ha fatto chiudere scuole e uffici, Duomo e musei. Proprio vero che le eccellenze non sempre coincidono con la disponibilità di mezzi e ricercatori.

Ho pensato a Simona e al suo impegno civile, che l’ha portata a mettere con orgoglio nel proprio curriculum professionale la militanza nella Scuola di formazione “Antonino Caponnetto”. Ho pensato al suo impegno al liceo “Colombini” di Piacenza, dove studia Bianca, la bimba ormai sedicenne, terzo anno di Scienze Umane, in cui lei ha fondato il comitato genitori per promuovere anche a scuola la legalità. Ho pensato ai suoi appuntamenti strappati al tempo libero. Ai libri che legge e che consiglia. Tutto quadra, tutto si tiene. Solo chi è a corto di ideali si nega al prossimo per ragioni di lavoro. Nonostante gli orari sterminati e la quarantena, l’infermiera di Codogno ha voluto aggiornarsi con i genitori del suo comitato. Già, come va la scuola?

Quel “pasticciaccio” del ’56. Un morto nella sezione Pci

Intorno al 1956, in Italia. Lo spirito e i valori della Resistenza sono naufragati nella Guerra fredda. La democrazia è forma, non sostanza. E ogni mezzo è lecito per combattere il Partito comunista e l’avanzata del movimento dei lavoratori: dalle repressioni poliziesche alle stragi, dalle infiltrazioni nei gruppi e nei partiti di sinistra all’apporto di Cosa Nostra. In nome della lotta al comunismo, notano Ennio Carretto e Bruno Marolo nel saggio Made in Usa, gli americani, le destre, una gran parte della Democrazia Cristiana, gli industriali, i servizi segreti, hanno premuto “per il salvataggio dei militari e dei burocrati fascisti, riciclati al vertice del nuovo Stato repubblicano”. È in questo contesto che prende anima e corpo Quel delitto del ’56 (Oltre Edizioni). È il nuovo romanzo di Mario Quattrucci, classe 1936, romano nato a Velletri, poeta e narratore di valore (autore di Memoria che ancora hai desideri e altri racconti e della serie del commissario Marè, usciti per i tipi di Robin–Biblioteca del Vascello) a lungo dirigente del Pci.

Questo racconto, una storia vera rimossa per oltre mezzo secolo, scrive l’autore, “ha avuto una lunga incubazione, ho rimuginato per molti anni nel mio foro interiore. La decisione di metterlo finalmente su carta è giunta dopo i recenti e poi recentissimi nuovi revisionismi e attacchi alla Resistenza”.

Lo scrittore Diego Zandel nella prefazione spiega che è la storia “di un fattaccio vero avvenuto a Roma nell’inverno del ’56, di una Roma imbiancata di neve, e del quale nulla riportano né è rimasto nelle cronache: il ritrovamento nei pressi di una sezione del Pci del cadavere di un uomo ammazzato, per altro, a quanto pare, portato simbolicamente lì, dopo essere stato ucciso da un’altra parte”. Una provocazione dei servizi segreti, com’è accaduto altre volte? Oppure c’è dell’altro? Magari l’eliminazione di una spia da parte di un militante comunista, poi fuggito dietro la Cortina di Ferro, com’era successo a Torino, nel 1947, con l’uccisione del fascista Alberto Raviola?

Nella realtà il delitto è avvenuto in Romagna, non a Roma. L’ambientazione nella capitale rende la vicenda più emblematica. Perché, ricorda Zandel, i “motivi sono politici. Non voglio anticiparli, perché sono gli elementi misteriosi del ‘caso’ e quelli, straordinari e coraggiosi, che spiegano anche la titubanza, i timori dell’autore di mettere in piazza, sì, mettere in piazza, un omicidio che è fortemente rappresentativo del contesto del tempo, condizionato dalla situazione internazionale della Guerra fredda con gli inevitabili riflessi di politica interna, quando l’impressione generale era che, con il governo Tambroni, appoggiato dal Movimento Sociale Italiano, ci fosse, dopo la caduta del fascismo, un ritorno della destra al potere”.

Quattrucci ricostruisce, indaga, fa parlare la memoria che si credeva perduta, si confronta con la propria storia e con la Storia, risolve il caso in omaggio al padre Vincenzo, maresciallo maggiore dei carabinieri, antifascista. Chi è il morto? Un doppiogiochista, racconta Quattrucci, che “durante l’occupazione, in Romagna, aveva fiancheggiato fascisti repubblichini e tedeschi, e aveva consegnato ai brigatisti neri e ai nazisti non solo partigiani combattenti ma loro familiari. Poi aveva preso contatto col solito Servizio d’intelligence americano”. Il nome vero, ancora oggi, lo scrittore–detective non lo vuole rendere noto (preferisce chiamarlo Egidio Neri), per rispetto a qualcuno dei protagonisti che forse è in vita, o magari perché il caso non venne mai risolto. Chi eliminò il preteso Neri, facendone ritrovare il cadavere nei pressi di una sezione del Pci? L’ammazzato “era opera degli Affari Riservati, o di altro ramo dei servizi segreti, si trattava d’una provocazione ordita contro i comunisti”? O, se non “era opera di quelli”, allora era stato qualche compagno? In quel caso, “sarebbero stati dolori. E un’altra cosa, capì: che o così o cosà la Resistenza per il Pci, non solo non era stata vinta ma non era mai finita. E se una parte di loro pensava che andava fatto alla vecchia maniera questo era un dramma, anzi una tragedia”. Al di là del nome dell’esecutore materiale del delitto, il mandante va cercato nel contesto politico di quel momento.

In Italia, rammenta Quattrucci, “dalla fine della guerra, opera un servizio informazioni clandestino… In che senso clandestino? Vorrai di’ segreto… Nel senso che non è ufficiale, regolare, istituzionale. Un servizio segreto clandestino creato niente meno da quel criminale di guerra ex capo del Sim che è il generale Roatta. Nientemeno… E questo tal servizio agisce sotto il controllo degli americani e utilizza una quantità di persone senza scrupoli, che lavorano nell’ombra e nel disprezzo di ogni regola democratica, fregandosene della volontà popolare e della Costituzione. E s’interfaccia con alcuni pochissimi big del governo e della Dc”. Con quale funzione? “Ma è chiaro! Impedire per sempre ai comunisti di tornare al governo o anche solo di avere peso nella politica italiana; destabilizzare e mettere in crisi i sindacati; e infine mettere fuori legge il Pci”. La “cosa grave”, però, come dice uno dei protagonisti di Quel delitto del ’56, “specialmente per noi, è che il servizio di cui parliamo… Che nome ha? Non ce l’ha. Quegli amici hanno rintracciato alcune carte, lacerti di corrispondenze, appunti, memorandum… Hanno trovato che si parla di un Noto Servizio, altrove di Anello… La cosa grave, dicevo, è che poggia su tre basi potenti: la Confindustria; i servizi segreti americani; l’Arma più il Servizio Segreto Militare”.

Di lì a qualche anno, dopo il piano “Solo” del generale De Lorenzo, con la strage di piazza Fontana la strategia della tensione del “Noto Servizio” avrebbe toccato l’apice della devastazione.

Pesca illecita e senza regole. Il mare nostrum è svuotato

Che vi piacciano i ristoranti o i sushi bar, che vi sfamiate a scatolette o cuciniate come dei veri chef, se non siete vegetariani o vegani c’è un alimento che difficilmente manca dalla vostra tavola: il pesce. L’Italia è prima nell’Unione Europea per consumi con 28 chili a testa all’anno: il triplo rispetto ai 9 chili del 1961 e il 40% in più rispetto alla media mondiale. Secondo la Fao, l’organizzazione agroalimentare dell’Onu, nel 2015 il pesce rappresentava un sesto delle proteine animali consumate dall’umanità e forniva a 3,2 miliardi di persone un quinto del loro apporto pro capite di proteine animali. Nonostante il continuo aumento dei pescherecci, dalle reti ormai arriva però meno della metà del pesce consumato. Il problema, come in altri settori, è la sostenibilità dei consumi umani che stanno letteralmente desertificando i mari. A questo fenomeno si somma un altro fattore devastante: la pesca di frodo. Le stime sono molto variabili e difficili da verificare: secondo numerose fonti la pesca illegale, non dichiarata e non regolamentata (Inn) “vale” tra il 10 e il 22% del pescato globale in volume, ovvero tra 11 e 26 milioni di tonnellate l’anno, per un fatturato annuo compreso tra 10 e 23,5 miliardi di dollari. La razzia non devasta solo l’ecosistema: impoverisce molte comunità costiere dei Paesi più poveri e sfrutta i lavoratori. Contro questo crimine globale molti Stati e organizzazioni internazionali, tra i quali l’Unione Europea, stanno realizzando forme di contrasto sempre più dure, come rivela un recente rapporto del Centro studi del Parlamento europeo. Secondo le ultime stime della Fao, rese note il 14 febbraio, l’anno scorso il pescato mondiale ha registrato un dato in linea con quello del 2018 a 177,8 milioni di tonnellate, frenato dalla riduzione degli scambi mondiali. Eppure nel mondo il numero dei pescherecci continua ad aumentare: negli ultimi settant’anni è passata da 1,7 a 3,7 milioni di barche, il 70% delle quali a motore. Il problema è che, secondo gli ultimi dati Fao che risalgono al 2015, il 33,1% degli stock ittici mondiali è sfruttato oltre le soglie sostenibili per la biologia e, nonostante ciò, un 10% del pescato viene ributtato a mare e un altro 12% trasformato in farina per gli allevamenti.

L’acquacoltura invece ha continuato a crescere con la produzione stimata in aumento del 3,9% sul 2018: il pesce di mare ormai rappresenta solo il 45% dei consumi globali e la sua quota continua a diminuire. Dopo una crescita del 4% nel 2018, il valore commerciale della pesca globale nel 2019 è calato dell’1,42% a 160,5 miliardi di dollari. Nel 2016 gli allevamenti ittici rappresentavano il 47% della produzione totale che saliva al 53% esclusi gli usi non alimentari. In quell’anno il fatturato globale del settore ittico era stato stimato in 362 miliardi di dollari, di cui 232 miliardi provenienti dall’acquacoltura.

Il fatto è che il mondo ha sempre più fame di pesce. Tra il 1961 e il 2016, i consumi alimentari globali di pesce sono cresciuti del 3,2% l’anno, più della crescita della popolazione (1,6% annuo) e dei consumi di carne (+2,8% l’anno). A livello mondiale, il consumo annuo pro capite di pesce dovrebbe raggiungere i 21,3 chili a persona nel 2028 rispetto ai 20,3 del 2016-18. Pesce e derivati sono tra i prodotti alimentari più commercializzati al mondo: tra otto anni il volume dell’export del settore potrebbe rappresentare il 36% della produzione totale, 31% esclusi gli scambi all’interno della Ue.

L’obiettivo 4 dell’iniziativa 14 dell’Agenda per lo sviluppo sostenibile, adottata nel 2015 dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite, sollecita specificamente la comunità internazionale a “regolare efficacemente la raccolta e porre fine alla pesca eccessiva, illegale, non dichiarata e non regolamentata e alle pratiche di pesca distruttive” entro il 2020. Un programma purtroppo non realizzato che è stato prorogato al 2030. Eppure le principali organizzazioni internazionali stimano che un terzo delle catture globali provenga dalla pesca illegale, non dichiarata e non regolamentata (Inn). Un’attività criminale che impoverisce gli stock ittici e distrugge gli habitat marini, ma vale sino a 23,5 miliardi di dollari l’anno. Per alcune specie di pesce, le catture illegali sono addirittura il triplo di quelle legali. Secondo un recente studio di Global Financial Integrity, un’organizzazione di ricerca senza scopo di lucro, la pesca illegale è il sesto maggior mercato criminale del mondo.

La pesca di frodo non ha solo risvolti ambientali: distorce la concorrenza e svantaggia i pescatori onesti a favore dei criminali, sottraendo risorse a milioni di comunità costiere in tutto il mondo anche grazie alla corruzione delle autorità di controllo che dai porti arriva sino ai governi. Non solo: la pesca Inn si basa spesso sullo sfruttamento disumano di personale proveniente da Paesi poveri che viene allettato dalla promessa di un lavoro decente ma una volta in mare viene ridotto in schiavitù. La pratica del trasbordo del pescato consente di rifornire i pescherecci e portare a riva le catture mentre la nave-fattoria può restare al largo con i suoi schiavi per mesi, talvolta addirittura per anni senza mai sbarcare. Alcuni rapporti di Greenpeace dimostrano la presenza di queste pratiche inumane specialmente nei mari dell’Asia sudorientale.

Il fenomeno a tutt’oggi coinvolge 26 Paesi, 23 dei quali sotto osservazione per mancato rispetto delle norme contro la pesca di frodo. Sette sono nell’Asia meridionale e orientale, sei nel Pacifico centro-occidentale, altri sei nei Caraibi, cinque nell’Africa occidentale e uno nell’Oceano Indiano occidentale. Altri tre Paesi sono stati dichiarati fuorilegge. Ma ci sono anche 24 Stati che ne sono usciti, accettando di sottostare alle regole internazionali stabilite dall’Onu e dalla Fao e ai controlli condotti da Usa, Ue e altri Paesi.

Chi ci governa impari dalle epidemie del passato

La Torre civica di Este è sempre quella che si vede sullo sfondo nel gran quadro di Giovan Battista Tiepolo che sta sull’altare del vecchio duomo: lì circondata dai cadaveri di una peste che santa Tecla sconfigge con le preghiere che eleva al Padreterno, oggi nella zona rossa di un coronavirus che ha invece tirato nella polvere tutti i santoni della politica italiana. Da Boccaccio a Manzoni a Camus, oggi riscopriamo giustamente i grandi classici della peste: che ci permettono di rimettere le cose in prospettiva. La Peste Nera del Trecento (che giunse dal nord della Cina…) fece oltre 20 milioni di morti in un’Europa, un terzo abbondante degli abitanti. Quella del 1656 si portò via solo a Napoli 240.000 persone (su 450.000). E non parliamo della pandemia della Spagnola nel 1918, che fece oltre 50 milioni di morti in tutto il mondo. Se, per fortuna, le proporzioni non sono paragonabili nemmeno di lontano, questa lunga storia di epidemie ha lasciato una scia di immagini, testi, memorie che oggi possono aiutarci a individuare costanti, a fare paragoni, a misurare i nostri tic e le nostre inadeguatezze.

Un episodio di una grande stampa romana del 1656, per esempio, ci mostra Mario Chigi, il fratello del regnante papa Alessandro VII, mentre accorre di persona, in carrozza, a controllare che le porte di Roma siano ben chiuse, e sorvegliate da armati. Si aveva ben chiaro, allora, che un’epidemia governata male poteva costare molto cara al potente di turno, foss’anche il papa. Proprio in quell’occasione il cardinale gesuita Sforza Pallavicino scrisse che le storie dovrebbero parlare meno delle gesta dei condottieri nelle guerre (le quali “non profitto arrecano al genere umano considerato tutto insieme”), e più del modo in cui i governanti affrontano tali “accidenti calamitosi”, perché in queste battaglie contro le pestilenze si combatte “non da una parte degli uomini contro un’altra, ma da tutta l’umana specie universale contro il più orrendo nemico che infierisca a suo sterminio”. È qua, aggiunse, che ”si manifesta il valore di chi regge i popoli”: perché la ragione vera per cui accettiamo che qualcuno comandi su tutti noi “con tanta larga mercede di preminenza ed entrate” è proprio perché poi ci difendano contro “essi contro essi fatti sinistri”. Non so se il cardinal Pallavicino troverebbe in salute il patto sociale che unisce gli italiani di oggi ai loro governanti, caduti uno dopo l’altro sul banco di prova del virus: quelli centrali che hanno bloccato, soli al mondo, i voli con la Cina; quelli leghisti che hanno dato una tale prova di incapacità (basterebbe il profluvio di tamponi a casi asintomatici) da stroncare non solo l’economia dei loro governati, ma anche (felice eterogenesi dei fini!) ogni idea di autonomia differenziata. Certo Pallavicino avrebbe apprezzato l’agudeza barocca di un ministro della Salute il cui più visibile contributo alla crisi è il calzantissimo cognome: Speranza. E avrebbe forse pure intravisto, nell’iconografia dell’impareggiabile governatore lombardo che indossa con tanta abilità una mascherina (di quelle completamente inutili), l’estrema derivazione di quelle meravigliose tute dei medici barocchi, fornite di lunghi nasi da riempire di balsami anti-contagio (quella che vedete è un raro esemplare originale, tedesco del 1700 circa). L’immagine straniante di uno di quei medici compare sul frontespizio di un’opera celebre (e dal titolo assai attuale…) del grande Ludovico Antonio Muratori: il Governo della peste (1714). Vi si legge che “tutte le terre e città invase dalla Peste, sanno e saprebbero dire onde sia proceduto il principio della loro infezione: cioè dall’aver trascurate le debite diligenze, e dal non aver fatto osservare le leggi prudentemente stabilite in somiglianti pericoli e disordini”. Tutto, cioè, sta nelle regole: che per essere scrupolosamente osservate, devono essere chiare e credibili. E dunque non dovrebbero, per dire, chiudere scuole e musei a Bologna, e lasciarli aperti e gremiti a Firenze: che sono di fatto un’unica città divisa in due parti collegate in mezz’ora da treni stracarichi di gente. Tra tante ragioni di sconcerto, almeno una consolazione: Muratori doveva davvero avere doti profetiche, perché sembra aver intravisto con tre secoli d’anticipo il mitico dottor Burioni: “Essendo i medici in concetto di aprir molto la bocca, bisogna star cauti in credergli tutto”. E poi si dice che studiare la storia non serve.

“Il rifiuto della morte peggiora il contagio”

Con Franco Cardini cominciamo a chiacchierare di pestilenze e quarantene e la prima cosa che commentiamo è la decisione, presa dalle autorità ecclesiastiche, di non dire messa. “Hanno fede in Dio ma forse hanno più fede nel virus”, osserva il professore, emerito di Storia presso l’Istituto di Scienze Umane e Sociali di Firenze, oggi assorbito nella Scuola Normale di Pisa. “Nei Promessi Sposi il cardinal Federico Borromeo – uomo intelligente e che sapeva benissimo che il contagio aveva la forza di propagarsi per quanto le cognizioni scientifiche del tempo non fossero naturalmente quelle di adesso – non poté evitare che si organizzasse una grande processione con l’urna di cristallo con il corpo di San Carlo. Il tutto avvenne per le vie di Milano con gran partecipazione di popolo, una cerimonia molto pietosa e partecipata…”

Dopodiché?

Il contagio peggiorò!

In quei secoli che chiamiamo erroneamente bui i popoli hanno avuto a che fare con le pestilenze. Si reagiva come oggi?

Le differenze riguardano ovviamente le conoscenze mediche. Ma le reazioni erano più o meno simili. Stiamo parlando però di persone la cui concezione della vita era ancora equilibrata, gente che sapeva che bisogna morire. Morte e malattie erano più comuni, più vicine. La modernità ha portato con sé una sorta di diffusa volontà di potenza che confligge col nostro pur vantato razionalismo: la morte si rifiuta, si nega, si dissimula, si eufemizza, si nasconde grazie a un complesso sistema di segregazione sociosimbolica per cui gli ammalati vengono nascosti e i funerali travestiti il più possibile da eventi non luttuosi. Nel Medioevo e nella prima età moderna, fino al Settecento, si reagiva viceversa ostentando: penso ai trionfi della morte, alle danze macabre. Era un modo di rassegnarsi, ma anche di “addomesticare la morte” che oggi, negata, torna “selvaggia”; lo sanno bene gli pasicanalisti. Nell’Europa cristiana, l’epoca delle grandi epidemie va dalla metà del Trecento alla metà del Seicento, secoli che corrispondono alla “piccola glaciazione”. Il picco è stato tra il 1347, quando arrivò la yersinia pestis a Messina con le navi genovesi che portavano il grano dal mar Nero, e il 1351-52. La fase endemica dura ancora oggi: negli ospedali dell’Asia centrale ci sono ancora reparti con ammalati di peste, che non suscitano allarme perché si sa come curarli e come circoscrivere il contagio.

C’era più enfasi o più rimozione?

Le notizie delle infezioni circolavano attraverso i canali commerciali. Ma appena arrivavano evaporavano nella maniera classica! Cioè all’inizio non ci si voleva credere, si minimizzava riducendo il tutto a episodi irrilevanti o causati da nemici politici. Del resto a metà del Trecento i tartari dell’orda d’oro che assediano la città di Caffa sul Mar Nero, a cui arriva tutto il grano dell’Ucraina, non sapevano che la peste è causata da un bacillo che si annida nello stomaco delle pulci e che le pulci abitano sui topi; pensavano semmai che le malattie contagiose si propagassero nell’aria. Ma tenevano d’occhio segnali come l’invasione dei topi, empiricamente associati al contagio.

E quindi che accadde?

I tartari praticavano una sorta di guerra batteriologica contro Caffa, enclave genovese, caricando le balestre con i cadaveri dei morti di peste. E così i genovesi si ammalarono, ma non se ne accorsero subito. Fecero in tempo a partire da Caffa navi con marinai già ammalati. In più, nonostante le “ordinanze” del tempo che prevedevano che a bordo delle navi ci fosse un certo numero di gatti, i topi resistevano nascosti nei carichi di grano e sbarcavano in Europa. Nelle cronache tre-seicentesche un continuo, periodico ripresentarsi del contagio in forma acuta: periodi di malatia endamica, che si trasformavano di tanto in tanto in epidemie fino a giungere alle vere e proprie pandemia, come nel 1348 e nel 1630 delle epidemie. Fino a quella del 1630, che ebbe uno dei focolai a Milano, come sappiamo bene da Manzoni.

Anche Boccaccio racconta della peste nel Decameron.

Sì, la differenza con Manzoni è che lui era un testimone diretto e probabilmente l’aveva anche contratta, guarendone. È vero che Manzoni racconta la peste milanese senza averla vista, però è altrettanto vero che aveva studiato bene il fenomeno sulle fonti storiche (scrivendo in merito anche un buon saggio, “La storia della colonna infame”) e aveva assistito ad altre epidemie, come quelle di vaiolo e di colera.

La spagnola nel 1918 ha fatto più morti della Grande guerra.

Si, anche se la medicina era già molto progredita non erano preparati ad arginare un’epidemia come quella. Come si sa la spagnola non c’entra nulla con la Spagna. Ma la reazione classica , allora come oggi, consiste in un primo tempo nel non credere nel contagio, poi di cercare ad ogni costo un responsabile magari istericamente individuato è addossare la colpa a gente che non c’entra. L’istituzione di un legame tra il contagio e gli stranieri, quelli che venivano da fuori, era spontanea e spesso favorita dal bisogno di trovare un capro espiatorio. Nel Trecento di parlava di ebrei che avvelenavano i pozzi; nel Seicento dei famosi “untori”. E poi c’era sempre la grande risorsa: il diavolo, le streghe. Si tratta di pregiudizi e di leggende antiche: quella dell’ebreo che avvelena i pozzi risale probabilmente già al VI secolo, cioè alla peste cosiddetta “di Giustiniano”. Anche Manzoni, nella Storia della colonna infame poi riversata nei Promessi Sposi, racconta di come si credesse che gli untori fossero inviati dal re di Francia contro gli spagnoli, perché era in atto la Guerra dei Trent’anni (1618-1648).

E oggi, che cos’è che non abbiamo imparato?

L’equilibrio tra la prudenza e la capacità di dominare le paure. Oscilliamo tra sottovalutazione e sopravvalutazione dei fenomeni infettivi, tra noncuranza ed eccesso di autotutela. Con questa epidemia dovremo fare i conti tra un po’ di tempo. Nel frattempo non riusciamo a reagire razionalmente. O non ci preoccupiamo affatto o ci preoccupiamo troppo: in entrambi i casi facciamo un errore.