Intorno al 1956, in Italia. Lo spirito e i valori della Resistenza sono naufragati nella Guerra fredda. La democrazia è forma, non sostanza. E ogni mezzo è lecito per combattere il Partito comunista e l’avanzata del movimento dei lavoratori: dalle repressioni poliziesche alle stragi, dalle infiltrazioni nei gruppi e nei partiti di sinistra all’apporto di Cosa Nostra. In nome della lotta al comunismo, notano Ennio Carretto e Bruno Marolo nel saggio Made in Usa, gli americani, le destre, una gran parte della Democrazia Cristiana, gli industriali, i servizi segreti, hanno premuto “per il salvataggio dei militari e dei burocrati fascisti, riciclati al vertice del nuovo Stato repubblicano”. È in questo contesto che prende anima e corpo Quel delitto del ’56 (Oltre Edizioni). È il nuovo romanzo di Mario Quattrucci, classe 1936, romano nato a Velletri, poeta e narratore di valore (autore di Memoria che ancora hai desideri e altri racconti e della serie del commissario Marè, usciti per i tipi di Robin–Biblioteca del Vascello) a lungo dirigente del Pci.
Questo racconto, una storia vera rimossa per oltre mezzo secolo, scrive l’autore, “ha avuto una lunga incubazione, ho rimuginato per molti anni nel mio foro interiore. La decisione di metterlo finalmente su carta è giunta dopo i recenti e poi recentissimi nuovi revisionismi e attacchi alla Resistenza”.
Lo scrittore Diego Zandel nella prefazione spiega che è la storia “di un fattaccio vero avvenuto a Roma nell’inverno del ’56, di una Roma imbiancata di neve, e del quale nulla riportano né è rimasto nelle cronache: il ritrovamento nei pressi di una sezione del Pci del cadavere di un uomo ammazzato, per altro, a quanto pare, portato simbolicamente lì, dopo essere stato ucciso da un’altra parte”. Una provocazione dei servizi segreti, com’è accaduto altre volte? Oppure c’è dell’altro? Magari l’eliminazione di una spia da parte di un militante comunista, poi fuggito dietro la Cortina di Ferro, com’era successo a Torino, nel 1947, con l’uccisione del fascista Alberto Raviola?
Nella realtà il delitto è avvenuto in Romagna, non a Roma. L’ambientazione nella capitale rende la vicenda più emblematica. Perché, ricorda Zandel, i “motivi sono politici. Non voglio anticiparli, perché sono gli elementi misteriosi del ‘caso’ e quelli, straordinari e coraggiosi, che spiegano anche la titubanza, i timori dell’autore di mettere in piazza, sì, mettere in piazza, un omicidio che è fortemente rappresentativo del contesto del tempo, condizionato dalla situazione internazionale della Guerra fredda con gli inevitabili riflessi di politica interna, quando l’impressione generale era che, con il governo Tambroni, appoggiato dal Movimento Sociale Italiano, ci fosse, dopo la caduta del fascismo, un ritorno della destra al potere”.
Quattrucci ricostruisce, indaga, fa parlare la memoria che si credeva perduta, si confronta con la propria storia e con la Storia, risolve il caso in omaggio al padre Vincenzo, maresciallo maggiore dei carabinieri, antifascista. Chi è il morto? Un doppiogiochista, racconta Quattrucci, che “durante l’occupazione, in Romagna, aveva fiancheggiato fascisti repubblichini e tedeschi, e aveva consegnato ai brigatisti neri e ai nazisti non solo partigiani combattenti ma loro familiari. Poi aveva preso contatto col solito Servizio d’intelligence americano”. Il nome vero, ancora oggi, lo scrittore–detective non lo vuole rendere noto (preferisce chiamarlo Egidio Neri), per rispetto a qualcuno dei protagonisti che forse è in vita, o magari perché il caso non venne mai risolto. Chi eliminò il preteso Neri, facendone ritrovare il cadavere nei pressi di una sezione del Pci? L’ammazzato “era opera degli Affari Riservati, o di altro ramo dei servizi segreti, si trattava d’una provocazione ordita contro i comunisti”? O, se non “era opera di quelli”, allora era stato qualche compagno? In quel caso, “sarebbero stati dolori. E un’altra cosa, capì: che o così o cosà la Resistenza per il Pci, non solo non era stata vinta ma non era mai finita. E se una parte di loro pensava che andava fatto alla vecchia maniera questo era un dramma, anzi una tragedia”. Al di là del nome dell’esecutore materiale del delitto, il mandante va cercato nel contesto politico di quel momento.
In Italia, rammenta Quattrucci, “dalla fine della guerra, opera un servizio informazioni clandestino… In che senso clandestino? Vorrai di’ segreto… Nel senso che non è ufficiale, regolare, istituzionale. Un servizio segreto clandestino creato niente meno da quel criminale di guerra ex capo del Sim che è il generale Roatta. Nientemeno… E questo tal servizio agisce sotto il controllo degli americani e utilizza una quantità di persone senza scrupoli, che lavorano nell’ombra e nel disprezzo di ogni regola democratica, fregandosene della volontà popolare e della Costituzione. E s’interfaccia con alcuni pochissimi big del governo e della Dc”. Con quale funzione? “Ma è chiaro! Impedire per sempre ai comunisti di tornare al governo o anche solo di avere peso nella politica italiana; destabilizzare e mettere in crisi i sindacati; e infine mettere fuori legge il Pci”. La “cosa grave”, però, come dice uno dei protagonisti di Quel delitto del ’56, “specialmente per noi, è che il servizio di cui parliamo… Che nome ha? Non ce l’ha. Quegli amici hanno rintracciato alcune carte, lacerti di corrispondenze, appunti, memorandum… Hanno trovato che si parla di un Noto Servizio, altrove di Anello… La cosa grave, dicevo, è che poggia su tre basi potenti: la Confindustria; i servizi segreti americani; l’Arma più il Servizio Segreto Militare”.
Di lì a qualche anno, dopo il piano “Solo” del generale De Lorenzo, con la strage di piazza Fontana la strategia della tensione del “Noto Servizio” avrebbe toccato l’apice della devastazione.