Tentata rapina: minore ucciso da un carabiniere

Alle 15.30 il sangue sul marciapiede di via Generale Orsini 28 a Napoli è rinsecchito, il cordone biancorosso spezzato dal vento. Il parcheggiatore abusivo continua la sua attività come se niente fosse. Una coppia a bordo di una Smart si ferma e gli consegna una moneta. Lui, barba hipster, ad occhio avrà 20 anni, forse meno. “Qui c’è stato l’omicidio? Se il ragazzo stava facendo una rapina con un ferro ha sbagliato, ma non si ammazza ‘nu criaturo in quel modo…”.

Il ferro è la pistola, una Beretta finta identica a quella vera, basta un coltellino per estrarre il tappo rosso. Il criaturo è il ragazzino di 15 anni che l’impugnava, Ugo Russo, ucciso nella notte tra sabato e domenica da un carabiniere in borghese di 23 anni, fuori servizio, che ha reagito a un tentativo di rapina del suo Rolex esplodendo diversi colpi con la pistola d’ordinanza. Lui dice tre o quattro, dice di aver sparato dopo essersi qualificato e dopo aver ascoltato il rumore dello ‘scarrellamento’ della finta Beretta puntata alla tempia. Mentre il complice del rapinatore, un 17enne sentito dagli inquirenti nella notte e poi fermato ieri sera, ne avrebbe ricordati due. Secondo una prima ricostruzione, il carabiniere aveva parcheggiato lì perché voleva fare una passeggiata sul lungomare con la fidanzata. Lei aveva fatto in tempo a scendere dall’auto, Russo e il complice sarebbero arrivati in scooter. Per avere certezze su quel che è accaduto dopo, bisogna attendere autopsia e perizia balistica. “È stato un omicidio, gli ha sparato alle spalle mentre scappava”, ha gridato il padre, Vincenzo Russo, alle telecamere di tv e siti web. L’avvocato della famiglia, Antonio Mormile, oggi andrà dal pm titolare del fascicolo, Simone De Roxas, per formalizzare la richiesta di acquisizione dei filmati di videosorveglianza. Su via Orsini ci sarebbero almeno due telecamere, una all’angolo con via Marino Turchi, l’altra che si affaccia su via Raffaele De Cesare, dove c’è uno dei due ingressi della Regione Campania. Dista solo 170 passi dal luogo dell’omicidio.

Mentre il sangue era ancora fresco, nel ventre di Napoli si è scatenata la guerriglia. Alla notizia della morte del ragazzo, originario dei Quartieri Spagnoli, parenti e amici hanno devastato il pronto soccorso dell’ospedale Vecchio Pellegrini, dove era stato ricoverato in condizioni disperate. Il dvd della videosorveglianza è stato acquisito dai carabinieri del nucleo investigativo, ai quali la procura guidata da Giovanni Melillo ha affidato l’inchiesta. E poco dopo la distruzione del pronto soccorso, riaperto ieri sera grazie a un enorme sforzo del personale sanitario coordinato dal manager dell’Asl Napoli 1 Ciro Verdoliva, due persone a bordo su uno scooter hanno raggiunto la caserma del comando provinciale dei carabinieri e dall’ingresso di via Morgantini e hanno sparato quattro colpi contro una finestra. Una minaccia agli investigatori, un avvertimento al complice del ragazzo, forse entrambe le cose. Il carabiniere non è stato formalmente indagato, ma è stato sentito col difensore. Ascoltata anche la fidanzata. L’iscrizione avverrà oggi: un atto dovuto, per consentire al militare, in servizio nel bolognese, di nominare consulenti di fiducia per gli atti istruttori irripetibili. Solo in queste ore avremo l’ufficialità dell’ipotesi di reato, se omicidio colposo, eccesso di legittima difesa, o altro.

Ugo Russo avrebbe compiuto 16 anni ad aprile e lavoricchiava come muratore e come garzone di fruttivendolo. È morto nel borgo di Santa Lucia, dove si condensano le contraddizioni di Napoli: da un lato gli alberghi a cinque stelle del lungomare, gli studi legali, le case di lusso; di fronte il quartiere Pallonetto dello spaccio di droga confezionata dai bambini, come raccontò un’ordinanza del 2017. Qui basta attraversare un marciapiede per passare dal Paradiso all’Inferno. O viceversa.

“Noi, segregati in hotel. Neanche ci curano”

Doveva essere una vacanza, ma è diventato un incubo. Lorenza Frasca assieme a suo marito e alle due figlie, rispettivamente di 21 mesi e 5 anni, sono bloccati da lunedì nell’hotel H10 Costa Adeye Palace a La Caleta, a sud di Tenerife, senza ricevere indicazioni dalla Farnesina. L’allarme del governo spagnolo è scattato dopo il primo caso positivo al Coronavirus. Si tratta del medico piacentino, a cui si sommano altri 4 contagi. La polizia federale da lunedì piantona tutte le uscite. Gli italiani in totale sono 34. La loro sorte è nelle mani dell’esecutivo spagnolo. “Non ci hanno fatto il tampone – racconta Lorenza Frasca – e dall’Italia non riceviamo alcuna risposta”.

Qual è la situazione in hotel?

C’è tensione. Ieri le prime scene di panico nel ristorante. L’incubo è iniziato lunedì mattina: è stato messo sotto la porta della stanza un foglio in cui ci vietavano di uscire. L’albergo è stato circondato dalla polizia. Siamo stati rinchiusi in camera fino a mercoledì. Ci hanno dato un termometro. Misuriamo la temperatura tre volte al giorno. Tra gli italiani siamo gli unici ad avere due bambine piccole. Non abbiamo sintomi. Finora non ci hanno fatto il tampone. Abbiamo delle mascherine, ma non servono a nulla. Sono delle veline di stoffa.

Dalla Farnesina cosa vi hanno risposto?

Siamo riusciti a sentirla solo i primi giorni. Ora non ci risponde più. Ci è stato detto di parlare con il console onorario dell’isola. Lui ci chiama costantemente. Ma non ha potere decisionale. Avevamo il volo per Roma ieri. Lo abbiamo perso a nostre spese, perché Alitalia non ha ricevuto indicazioni dal governo per il rimborso.

Di cosa avete bisogno?

Abbiamo chiesto da subito di fare la quarantena in Italia. Viviamo a un chilometro dall’ospedale Spallanzani di Roma. Il governo spagnolo ci ha comunicato che fino all’11 marzo dovremo restare qui. Ma il governo italiano tace. Chiediamo di fare il tampone. Le bambine non dormono più. La mia paura è che ci prelevino nel cuore della notte, come hanno fatto con gli altri. Chi si occuperà delle mie figlie se succede? Se continuano a tenerci qui è sicuro che ci ammaliamo. Non c’è garanzia che chi incontriamo non sia già stato contagiato.

Quanti siete in albergo?

All’inizio eravamo 1000. Chi è arrivato lunedì è stato mandato via. Ora siamo 600. Domani 116 inglesi torneranno a casa. Il loro governo ha fatto di tutto per farli rimpatriare. C’è un presidio medico in tenda e la polizia dappertutto. Ho girato un video per mostrare la situazione ma mi hanno sequestrato il telefono per cancellarlo, dicendomi che se lo rifaccio mi arrestano.

I contagiati sono già 1577, ma si litiga per il calcio

Mentre i contaggi da Coronavirus in Italia aumentano, i dirigenti calcistici sembrano più preoccupati per le partite che saltano. Non si placano infatti le polemiche per la decisione di rinviare al 13 maggio cinque partite della 26sima giornata, fra cui il big-match scudetto fra Juventus e Inter. E ieri il consiglio della Lega A ha ufficializzato la decisione “di convocare un’assemblea urgente il 4 marzo per esaminare le conseguenze dei provvedimenti governativi relativi al coronavirus sul calendario delle partite”.

“I deceduti avevano più di 75 anni e altre malattie”“

Intanto 83 sono le persone guarite. Trentuno sono invece i decessi in Lombardia, “tutti con più di 75 anni” e “affetti da altre malattie”, mentre nella Regione i casi positivi di Coronavirus salgono a 984. I dati li ha forniti l’assessore alla salute della Lombardia Giulio Gallera. Di coloro che sono risultati positivi, 106 sono in terapia intensiva, mentre i positivi asintomatici sono 375. E non c’è solo la Lombardia. In tutta Italia il “totale delle persone contagiate è di 1577”, ha spiegato il capodipartimento della Protezione Civile Angelo Borrelli. In Emilia Romagna per esempio, su 1.795 test refertati, 285 sono risultati positivi, mentre i decessi salgono a otto: ai cinque già avvenuti se ne sono aggiunti altri tre. Si tratta di tre uomini di 79, 76 e 74 anni, tutti già affetti da altre patologie.

Il decreto firmato ieri: le nuove misure

Intanto ieri il premier Giuseppe Conte ha firmato il decreto per il contenimento e la gestione dell’emergenza. Ci sono di fatto tre fasce. Per dieci comuni della Regione Lombardia (come Casalpusterlendo, Maleo, Bertonico) e per Vò (Veneto) si applicano alcune misure come “divieto di allontamento” o di accesso a questi comuni, (tranne per personale sanitario e forze di polizia), mentre gli eventi sportivi, religiosi e di carattere culturale sono sospesi, come pure i viaggi di istruzione fino al 15 marzo. Scuole chiuse come anche “tutte le attività commerciali, ad esclusione di quelle di pubblica utilità, dei servizi essenziali”. Sospesi anche concorsi pubblici.

Le misure per Emilia-Romagna, Lombardia, Veneto e per le province di Pesaro e Urbino e Savona prevedono invece “la sospensione degli eventi e delle competizioni sportive” fino all’8 marzo. “Resta consentito – è scritto nel decreto – lo svolgimento dei predetti eventi e competizioni (…) all’interno di impianti sportivi utilizzati a porte chiuse”. Divieto di trasferta per i tifosi provenienti da queste Regioni e province. Scuole chiuse fino all’8 marzo. L’apertura dei luoghi di culto, invece “è condizionata all’adozione di misure organizzative tali da evitare assembramenti di persone, tenendo conto delle dimensioni e delle caratteristiche dei luoghi, e tali da garantire ai frequentatori la possibilità di rispettare la distanza tra loro di almeno un metro”. Stesso principio per musei, bar e ristoranti.

E ancora. Nelle sole province di Bergamo, Lodi, Piacenza e Cremona invece sabato e domenica resteranno chiusi gli esercizi commerciali “presenti all’interno dei centri commerciali e dei mercati”. Mentre in Lombardia e nella sola provincia di Piacenza chiuse anche palestre e centri benessere.

Parroco in Francia: chiusa San Luigi dei Francesci

Per il problema del Covid-19 è stata chiusa anche la chiesa di San Luigi dei Francesi a Roma. Il motivo: un prete di 43 anni, di base nella capitale e che è rientrato in Francia in auto nei giorni scorsi, è risultato positivo al Coronavirus. Intanto sempre a Roma, all’ospedale Spallanzani, è ricoverata la donna di Fiumicino risultata positiva al virus dopo un viaggio nel Bergamasco, con il marito e uno dei figli, anche loro positivi, mentre è risultato negativo il secondo figlio della coppia. Test eseguiti anche su chi ha avuto contatti con questa famiglia: nessuno è risultato positivo.

Inghilterra, 12 nuovi casi. Contagiato Sepulveda

Ma vediamo cosa succede nel resto nel mondo. In Inghilterra si contano 12 nuovi casi di contagio: è il più importante incremento in un solo giorno finora registrato nel Regno Unito, dove il bilancio dei contagi ora è salito a 35. Dei nuovi casi, sei erano stati di recente in Italia, due in Iran. Proprio in Iran, i decessi per Coronavirus sono stati 54, mentre la quota di contagiati è passata a 978. In Francia si contano 130 casi, 12 i guariti, due i decessi.

Ed è notizia di ieri che Luis Sepulveda e la moglie Carmen Yanez sono risultati positivi al virus. I due hanno presentato i primi sintomi due giorni dopo il rientro da un festival letterario a Póvoa de Varzim, in Portogallo.

Ma mi faccia il piacere

Dilemmi esistenziali. “In tavola. Voi lo mangereste mai un topo o un pipistrello?” (“sondaggio” su sito web di Libero, 29.2). Mangiato un’altra volta pesante, eh?

Uomini e topi. “… si riesce persino a distinguere fra un leghista serio, Luca Zaia (e basta), e un Cazzaro Verde” (Marco Travaglio, il Fatto quotidiano, 27.2). “Li abbiamo visti tutti i cinesi mangiarsi i topi vivi” (Luca Zaia, Lega, presidente Regione Veneto, 28.2). Due pirla al prezzo di uno.

Immunodeficienza/1. “Se la situazione degenera è possibile che prenderemo misure come a Wuhan” (Attilio Fontana, Lega, presidente Regione Lombardia, In mezz’ora, Rai3, 23.2). “Questo virus è poco più di una normale influenza” (Fontana, 25.2). “La collaborazione con il governo è ottima” (Fontana, 24.2 ore 13.15). “Le parole di Conte sono inaccettabili e per certi versi offensive. Parole in libertà” (Fontana, 24.2, ore 22.46). “Il governo inizia a essere fuori controllo” (Fontana, 25.2). Facciamo tre.

Immunodeficienza/2. “Il video con la mascherina lo rifarei” (Fontana, Repubblica, 28.2). Cioè: si leva la prima o ne mette due, una sull’altra?

Immunodeficienza/3. “Richiamiamo i medici dalla pensione” (Fontana, 1.3). E mandiamoci lui.

Il Conte Ciano. “Conte usa parole quasi fasciste ed evoca i pieni poteri, si dimetta” (Riccardo Molinari, capogruppo Lega alla Camera, 25.2). Chi si crede di essere, Salvini?

Non chiama. “Ad oggi non ho più sentito Conte… Sono stato ad aspettare la sua telefonata per darmi appuntamento, ma non l’ho più sentito” (Lorenzo Fioramonti, ex ministro dell’Istruzione, ex M5S, Un giorno da pecora, Rai Radio1, 27.2). Strano che il premier non trovi un’oretta per chiamare Fioramonti, invece di occuparsi delle solite cazzate.

Terrenovirus. “Voglio che si sappia chiaramente, i cittadini devono sapere di cosa stiamo parlando. É bene che i cittadini conoscano la realtà. É bene che la informazione giunga corretta e non sia offuscata o ottenebrata dalla pur importante e preoccupante situazione derivata dal Terrenovirus” (Renzo Tondo, deputato Noi con l’Italia, dibattito alla Camera sul decreto Intercettazioni, 25.2). Giusto: se c’è un nuovo virus in circolazione, gli italiani devono sapere. Incluso il medico curante dell’on. Tondo.

Aridatece Cuffaro. “Se i turisti arrivano dal Nord sarebbe bene che non arrivassero” (Nello Musumeci, centrodestra, presidente Regione Sicilia, 26.2). Furbo, lui: così adesso arriveranno da tutto il resto del mondo.

Il Verano Illustrato. “Sanità distrutta, nazione infetta” (copertina dell’Espresso con tre uomini in tuta sterile e mascherona, 1.3). Poi tutti a domandarsi da dove nascerà mai tutto quel panico.

Condonavirus. “Salvini: ‘Stop alle cartelle in tutta Italia. Vanno sospesi subito gli adempimenti fiscali’” (La Verità, 29.2). Lui ci prova sempre. Poi magari ci spiega con quali soldi paghiamo gli stipendi ai medici e agli infermieri.

La pulce con la tosse/1. “Quando la politica riprenderò la sua vita normale, renderò ufficiali decisioni che altrimenti avrei già preso” (Ivan Scalfarotto, Iv, sottosegretario agli Esteri dopo la minaccia di dimissioni stoppate da Renzi, Repubblica, 1.3). Ma fai pure anche subito.

La pulce con la tosse/2. “I politici soffrono di una strana malattia, il sondaggismo” (Matteo Renzi, leader Iv, Corriere della sera, 29.2). Ora che lo danno sotto il 3%, gli stanno sul cazzo pure i sondaggi.

Triplo salto carpiato. “Ennesima prova, l’immigrazione porta malattie. Esportiamo la polmonite. Italiani portano il Covid in Arabia, Africa e Brasile” (Lorenzo Mottola, Libero, 29.2). Giusto: fermiamo subito i barconi carichi di italiani in partenza da Lampedusa.

Codice a sbarre. “Che vergogna Cecchi Gori dietro le sbarre a 78 anni”, “Andare in carcere a 78 anni: scoppia il caso Cecchi Gori” (Luca Fazzo, il Giornale, 1.3). Per la cronaca, Cecchi Gori (condannato definitivamente a 8 anni e 6 mesi), è in ospedale, piantonato dalla polizia penitenziaria. Che vergogna.

Il titolo della settimana/1. “Il salone di Ginevra non teme le malattie” (Libero, 28.2). “La Svizzera cancella il salone di Ginevra” (Il Messaggero, 29.2). Temeva le malattie.

Il titolo della settimana/2. “Nessun allarme Coronavirus, ma bisogna informare bene” (Antonio Lamorte, Il Riformista, 22.2). Se lo dice Lamorte, siamo in una botte di ferro.

“J’accuse” sotto accusa: tutti contro Polanski

Uno stupratore che vince è peggio di uno stupratore che partecipa? L’attrice Adèle Haenel e la regista Céline Sciamma hanno abbandonato indignate i César allorché Roman Polanski in lizza con J’accuse è stato premiato miglior regista.

Nel 1977 negli Stati Uniti Polanski si dichiarò colpevole di “rapporto sessuale extramatrimoniale con persona minorenne”, la tredicenne Samantha Geimer, un reato per cui è ancora ricercato dall’Interpol; altre donne l’hanno incolpato, ultima l’8 novembre del 2019 la francese Valentine Monnier, che l’ha accusato di averla picchiata e violentata nel 1975, quando era diciottenne, nel suo chalet di Gstaad, ma dopo quarantaquattro anni il fatto, mai prima denunciato, risulta prescritto. Il redde rationem agli Oscar del cinema francese, i César appunto. Il voltaggio è metaforico, a partire dai titoli: miglior film Les misérables, anche per il pubblico; miglior regista Polanski, per J’accuse; un solo premio, fotografia, su dieci candidature per Ritratto della giovane in fiamme, diretto da Sciamma e interpretato da Haenel.

Per Polanski è la quinta volta, per il regista esordiente dei Miserabili Ladj Ly un trionfo trascurato. Alla vigilia, sulla scorta della querelle, l’Académie des arts et techniques du cinéma, che assegna i premi, aveva dato le “dimissioni collettive”; nessun membro di cast & crew de L’ufficiale e la spia (J’accuse) ha partecipato alla cerimonia; scontri tra femministe e forze dell’ordine all’esterno del Salle Pleyel di Parigi; l’associazione Osez le Féminisme a tappezzare i muri con lo slogan “Violanski”; Brad Pitt a declinare il César d’onore, non accadeva dal 1976.

Dentro, non solo non si separa l’artista dall’uomo, ma nemmeno si distingue il palco dal tribunale, il palmarès dalla sentenza. Haenel, che recentemente ha accusato il cineasta Christophe Ruggia di molestie quando era poco più che dodicenne, e Sciamma si alzano e calamitano l’attenzione globale: Polanski vince in contumacia, loro perdono e se ne vanno, accompagnate da altri partecipanti. In realtà, vincono anche loro: il “vergogna” esploso in sala, l’opposizione – letteralmente – plateale, il successivo “Bravo la pédophilie” della Haenel che diventa video virale.

Al di là dell’indubbio effetto scenico, non sarebbe stato più coerente, giacché le accuse a Polanski non sono di ieri l’altro né la possibilità che vincesse – all’ultima Mostra di Venezia ha conquistato il Gran premio della giuria – remota, non presenziare alla cerimonia, boicottandola a monte? La reazione di Haenel e Sciamma spostando l’attenzione sul verdetto – artistico – non solo fustiga l’artista più che l’uomo, addirittura pare sanzionare il vincente più che il partecipante. J’accuse sul palco, altri j’accuse in platea: dove ci porta questo specchio riflesso, che ne è del cinema tout court? Il 3 marzo del 2018 l’Accademia degli Oscar decise di escludere Polanski tra mille polemiche, l’altro ieri i César che l’hanno premiato e vessato insieme hanno fatto meglio? Dall’opacità della gestione amministrativa alla disparità di genere (4.700 membri, per il 65 per cento uomini), l’Accademia è tutto fuorché irreprensibile, e deve essere rivoltata dalle fondamenta, ma l’epilogo dei César lascia altri strascichi: per il suo produttore Alain Goldman “sostenere Polanski non significa sostenere lo stupro”, per la Francia condannare lo stupro significa condannare J’accuse?

Le “Favolacce” italiane conquistano Berlino. E Germano miglior attore

Miglior attore a Elio Germano, straordinario protagonista di Volevo nascondermi di Giorgio Diritti, e miglior sceneggiatura ai fratelli D’Innocenzo per le loro stupefacenti e nerissime Favolacce. La 70ma Berlinale porta in trionfo i due italiani in concorso confermando il grande apprezzamento internazionale per il nostro cinema e soprattutto per i giovani talenti. “Lo dedico ad Antonio Ligabue che vive qui con noi, dentro di me. E dedico il premio a tutti gli storti, gli sbagliati del nostro tempo”. Il film, che era in programmazione per l’uscita italiana in questi giorni ma è stato rimandato per precauzioni epidemiche, uscirà prossimamente per 01 Distribution. È programmato invece nelle sale per il 16 aprile con Vision Distribution, Favolacce, la prodigiosa opera seconda dei gemelli Damiano & Fabio D’Innocenzo che, emozionatissimi, hanno ringraziato tutti “soprattutto i bambini del nostro cast” e si sono scambiati un meraviglioso gesto d’affetto fraterno “ti ringrazio fratello mio, ti amo” ha detto uno, mentre “l’altro” ha reagito con un commosso “Mortacci tua!”,

mettendo tutti d’accordo e con un Jeremy Irons presidente di giuria che lo ha letteralmente acclamato (“è un film sulla responsabilità della coscienza di ciascuno di noi, ovunque”), l’Orso d’oro è volato in Iran, nelle mai dell’assente – perché prigioniero dissidente in patria – Mohammad Rasoulof per il suo toccante Sheytan vojud nadarad (There Is No Evil). A riceverlo i suoi cast & crew in lacrime, che non solo glielo hanno dedicato ma hanno ribadito quanto fosse un suo diritto essere a Berlino, sottolineando il rischio di tutti coloro che hanno partecipato a questo film. Opera politica importante ma umanissima, indubbiamente personale e molto bella, divisa in quattro episodi interlacciati, mette in evidenza la contraddizione tra le leggi di un regime e la coscienza del singolo cittadino, in particolare legata alla pena di morte per i dissidenti politici. Ovazione per la cineasta americana Eliza Hittman vincitrice col suo notevole dramma sull’aborto Never Rarely Sometimes Always, e gradimento per il premio alla regia al maestro sudcoreano Hong Sangsoo (The Woman Who Ran) nonché per il premio alla miglior attrice andato all’intensa Paula Beer protagonista dell’ottimo Undine del tedesco Christian Petzold. Complessivamente il bilancio della prima edizione del “nostrano” Carlo Chatrian si è tradotta in un successo.

Febbre a 90° a Roma: “Grazie a Falcao ho imparato l’amore”

Con Sandro Bonvissuto l’appuntamento è all’una di notte fuori da Candido, la trattoria dove lavora come cameriere da 20 anni. Sedie ribaltate sui tavoli, orario di chiusura. Si fa incetta di birre in bottiglia, si sale in macchina e si attraversa una Roma letargica fino a San Giovanni, casa sua. Poi si sta tre ore appoggiati al tavolino della cucina a svuotare le suddette bottiglie, a parlare di letteratura, di vita e di pallone; da Carver e Faulkner fino a Falcao e Cristante, dal Divino al mediano.

Sandro è un uomo di quasi 50 anni con una criniera di capelli rasta legati a cipolla dietro la nuca, due occhiaie disegnate come solchi dall’aratro del lavoro pesante, un sorriso e un’ironia che ti si appiccicano addosso, diventano tue in automatico. Soprattutto, quello che sgobba in trattoria fino all’una, a tempo perso è uno scrittore fenomenale.

Ha appena pubblicato il suo secondo libro per Einaudi, La gioia fa parecchio rumore. Una gemma, a metà tra una storia d’amore e un saggio su una malattia bellissima e incurabile, degenerativa: il tifo per la Roma. Un romanzo di formazione romanista. C’è il rito di iniziazione (una retrocessione sfiorata), l’educazione alla felicità (un signore con la maglia numero 5 che viene dal Brasile) e si chiude un attimo prima della tragedia, la finale di Coppa dei Campioni. Quella finale, contro il Liverpool, il 30 maggio 1984.

Cosa è successo dopo quella partita? “No fratè no. Non me lo chiedere. Siamo tornati a casa dopo due giorni. Mia madre ha chiamato i carabinieri, un altro po’ ci arrestavano per vagabondaggio”. Una roba indelebile: “Il primo giugno era il mio compleanno. Mia madre mi fa: ‘Non ce pensà, amore di mamma… è la festa tua, ti ho fatto la torta’. Ho preso la torta e l’ho buttata”. Ride, ma al tempo stesso è molto serio, una maschera romana: “Io non c’ho mai avuto 14 anni. E lo sai perché? Lo sai di chi è la colpa?” Della Roma. “Della Roma! Hai detto bene”. Va avanti da solo, come in psicanalisi: “Il 30 maggio 1984 è l’origine di tutti i miei problemi. Tutti! Quando litigo con una donna, io lo so che m’ha lasciato per quello. Tutte le cose più stronze che ho fatto in vita mia, le peggiori, sono colpa di quel giorno”. Sospira, definitivo: “Abbiamo perso la finale di Coppa dei campioni. In casa. Ai rigori”.

Questo trauma terrificante – forse incomprensibile ai sani di mente – resta fuori dal libro. Dentro queste pagine invece si sente solo il rumore, parecchio, della gioia. Dell’amore: per la famiglia, per quegli anni 80 che erano bellissimi, per la città, per la vita. “È una storia sull’amore – conferma Bonvissuto. Il calcio è solo l’ennesima prospettiva da cui guardare l’amore. Ed è un libro sui legami familiari. Io sono stato al mondo come mi hanno insegnato loro: vive davvero solo chi ama. L’etica è questa. Il tifo è una forma di amore collettiva. Si va allo stadio, si sta insieme, si diventa comunità”. Come nella scena incredibile – una delle più belle – di un popolo che si mette in moto per andare ad accogliere Lui: migliaia di romanisti a Fiumicino per Paulo Roberto Falcao, un calciatore brasiliano che nessuno aveva mai nemmeno visto giocare.

Sandro ne parla come fosse ancora lì: “Tutta quella gente, tutto quell’amore. Assurdo. Regà, è il 10 agosto. Fateve una vita. Annate al mare. C’era gente che giocava a racchettoni, a pallone, chi tagliava il cocomero, chi s’era portato la sdraio, chi aveva lasciato la moglie in macchina… il 10 agosto, alle 10 di mattina. La gente non se ne andava più. Stavano tutti là per amore”.

Prima dell’ultima birra, è il momento dell’esorcismo. Bisogna parlare di un dramma che si credeva impensabile, e invece assume una forma sinistra, domenica dopo domenica: lo scudetto alla Lazio. Bonvissuto sgrana l’ennesima perla di saggezza romanista: “Alla penultima giornata c’è Roma-Juve. Noi semo così stronzi che quel giorno vinciamo 4 a 1, mica siamo come loro”. Cioè i laziali, che nel 2011 persero apposta contro l’Inter per scongiurare lo scudetto ai cugini. Un attimo dopo Sandro ride già. Brinda: “Bevite sta biretta… Vivi tranquillo. No, non ce la possono fare. E poi pure se fosse…”. Se fosse? “Manco te ne accorgi. Sono pochi. Mezza giornata ed è finito tutto. So’ come i rosci… ce n’è al massimo uno per comitiva.”

“Con Cecchi Gori abbiamo sciato sopra i coccodrilli. Sellers e De Sica? Che liti”

Fonzie in Happy Days, alla fine degli anni Settanta, salta uno squalo tigre con gli sci d’acqua: da lì è iniziata la crisi della serie tv perché la scena venne giudicata troppo irreale dai fan.

Maria Grazia Buccella e il suo fidanzato di allora, Vittorio Cecchi Gori, qualche tempo prima, e in vacanza, avevano tentato la stessa sorte, senza salto, ma con gli sci ai piedi, “peccato che a pelo d’acqua c’erano dei coccodrilli”. E? “Non lo sapevamo, ma a un certo punto abbiamo visto i bagnanti sbracciarsi e urlare verso di noi. Disperati. Noi niente, non capivamo, pensavamo a una sorta di isteria collettiva. (Ride, a lungo). Eravamo un po’ incoscienti; quante ne abbiamo combinate”.

Maria Grazia Buccella è icona inconsapevole, preferisce sottrarre che aggiungere, sminuisce invece di illuminare, smussa ogni angolo della sua vita privata e professionale, ma non rinuncia al sorriso e alla gentilezza: “In realtà sono stata solo un’attrice fortunata circondata da grandi attori e da belle persone come Vittorio”.

Cecchi Gori è di nuovo nei guai.

Situazione assurda, perché non è in carcere ma ricoverato in ospedale; in questi anni gli è successo di tutto, povero amico mio.

Siete molto legati.

Ci conosciamo da quasi sessant’anni, e ancora oggi ci frequentiamo spesso, spesso andiamo a mangiare insieme e magari gli chiedo qualche consiglio.

Conosciuti, come?

Durante le riprese de Il gaucho (uscito nel 1964): atterro in Argentina per le riprese, scendo dalla scaletta, e trovo proprio lui ad aspettarmi. Da quel momento è nato tutto, ci siamo immediatamente fidanzati; veramente due matti, insieme abbiamo girato il mondo, e per allora non era comune né semplice.

Due matti…

In Messico abbiamo provato la marijuana, la vendevano ovunque e a quel tempo era come bere una grappa da noi, anzi dell’acqua; una sera al ristorante non siamo stati in grado di ordinare, ogni volta che arrivava il cameriere scoppiavamo a ridere, e ci nascondevamo dietro il menù; la scena è durata, credo, un paio di ore, ma non ne sono certa, la percezione del tempo era completamente dilatata.

Perfetto.

Una notte mi sono addormentata per terra e non ricordo neanche il motivo; sì, mi sono veramente divertita e lui è stato perfetto compagno di goliardia.

Però vi siete lasciati.

Due ragazzini, e per una lunga fase è scattato il classico tira e molla, anche perché l’ambiente era lo stesso, e magari ci ritrovavamo per una partita di tennis a casa di Tognazzi.

Prima ha detto: “Sono stata un’attrice fortunata”.

È la verità, visto quanto sono sbadata e le mie difficoltà con la memoria.

Però ha vinto un Nastro d’Argento nel 1968…

Se è per questo negli Stati Uniti mi avevano offerto di restare, di studiare all’Actors Studio, con la promessa di venir scritturata poi per alcuni programmi televisivi e film a Hollywood.

E invece?

Avevo solo 18 anni e i miei non erano contenti: non riuscirono a metabolizzare una scelta così importante e in così poco tempo. Quindi ripresi l’aereo, e addio.

Come mai gli Stati Uniti?

Un’amica di mia madre era nel giro dei concorsi di bellezza e, all’improvviso, nel giro di una settimana organizzò un viaggio negli States per partecipare a Miss Universo. Partii da sola. Dovevo ancora compiere diciotto anni.

Coraggio o incoscienza?

Non lo so, ma dalla provincia di Trento mi ritrovai immersa in una realtà stupenda, con l’Actors Studio materializzato davanti alla mia vita.

Quanto ha ripensato a quel “no”?

Da subito: ancora oggi è un interrogativo che fa parte di me; la fortuna è aver strappato tante belle soddisfazioni anche in Italia.

È una delle poche attrici ad aver recitato con i cinque fenomeni del cinema italiano: Sordi, Manfredi, Tognazzi, Mastroianni e Gassman.

E non mi spiego il motivo, è incredibile; (sorride) avevo un debole professionale per Vittorio: quando parlava lui, restavo in silenzio per cercare di carpire pure le virgole del suo pensiero; (sorride ancora) ho lavorato anche all’estero…

Con Peter Sellers nel film di Vittorio De Sica, “Caccia alla volpe”.

Una tragedia quei due.

In che senso?

Non si sopportavano, non riuscivano a incrociare la loro visione artistica e umana, così era guerra perenne.

A che livello?

Alcune scene dovevamo girarle a Capri, ma si rifiutarono di salire sullo stesso motoscafo.

Addirittura.

Eccome! Per questo si crearono due gruppetti, ben separati anche nelle traiettorie delle imbarcazioni: una circumnavigò l’isola da sinistra e l’altra da destra.

Esagerati.

Peter Sellers era noto per il suo caratteraccio e De Sica non era uno qualunque, giustamente non poteva accettare certi capricci: ogni giorno accadeva qualcosa, ed era divertente. Ah, pure Gregory Peck non era secondo in quanto a carattere, e alla fine il film con lui è saltato.

La causa?

Per la pioggia; eravamo in Svizzera, ma in venti giorni non ha mai smesso, fino a quando il produttore si è arreso: “Basta, mi costa troppo, non ne posso più”.

Dalla provincia veneta al mondo.

Già Roma per me era magnifica e magica, quasi esotica: via Margutta la amavo, ci passeggiavo e mi stupivo della bellezza, poi ero circondata da personaggi magnetici per il loro fascino.

Tipo?

Ho debuttato al cinema con Alberto Sordi, ed ero talmente emozionata da dimenticarmi di entrare in scena: tutti mi aspettavano, e io niente, poi Sordi è stato carino nel voler provare le battute, solo per cercare di mettermi a mio agio.

Sedotto da lei.

Allora il cinema era pieno di belle donne, non solo io: da Marisa Allasio a Silvana Pampanini…

La Pampanini era proprio ne “Il gaucho”.

Ed era perennemente un personaggio pubblico, sempre perfetta e presa nel ruolo della diva: ogni suo arrivo si tramutava in apparizione, senza lasciare spazio all’errore.

“Il gaucho” non andò benissimo.

Forse perché Gassman era ancora associato al suo personaggio ne Il sorpasso, oppure la storia di emigranti e attori falliti era poco seducente per quegli anni di boom economico.

Con Gassman ha recitato pure ne “L’Armata Brancaleone”.

E con Vittorio non potevi sbagliare nulla, o si incavolava, ma il bello era assistere ai perenni confronti tra lui e Mario Monicelli, due personalità straordinarie, con un codice artistico comune, che alla fine trovavano sempre la mediazione che li soddisfaceva.

Lei sembra sempre spettatrice…

Io ho visto e conosciuto dei fenomeni, attori stupendi, e non mi riferisco solo agli uomini, la stessa Monica Vitti è stata molto importante per me.

Monica Vitti.

Donna decisa, consapevole della sua bellezza e della sua bravura davanti alla macchina da presa; (resta in silenzio un paio di secondi) quanto era bella…

Anche lei, è stata copertina di “Playboy”…

Per ben due volte, e dopo la prima uscita, per molto tempo, non sono più potuta tornare a casa: mio padre era inferocito, mamma più aperta.

Che famiglia era?

Borghese, papà era presidente dell’azienda del turismo europeo, e girava continuamente il continente; quando uscì Playboy mamma gli nascose la rivista e dopo papà fece finta di non aver visto, ma non mi rivolse comunque la parola.

Quando oggi rivede quelle foto?

Mi piacciono, sono belle, mi riportano a una fase piacevole, e poi allora non mi sono sentita costretta, né ho provato imbarazzo. Il nudo non mi infastidiva.

Altro periodo storico.

Rispetto a oggi senza dubbio: in qualche modo siamo tornati indietro; la copertina di Playboy era ambita dalle donne dello spettacolo.

Prima di diventare attrice, cosa amava?

Giocare a pallone: ero brava, ma l’unico modo per poter scendere in campo era vestirmi da maschietto. Quando ho compiuto quattordici o quindici anni ho smesso a causa del seno evidente. Chinaglia mi prendeva in giro.

Lo ha frequentato per un periodo.

Che tipo esuberante! Era capace di uscire pure alla vigilia di una partita, senza poi risentirne in campo. Godereccio al massimo.

Come mai a un certo punto la sua carriera si è interrotta?

Per problemi di salute sono uscita dal giro, e ho deciso di tornare negli Stati Uniti.

E lì?

Nei primissimi anni Ottanta ho cambiato totalmente vita: ho iniziato a lavorare come traduttrice per un quotidiano.

Niente più riflettori.

In quella fase non mi mancava, poi con il tempo ho ricominciato con il teatro, ma recitare dal vivo mi creava qualche intoppo a causa delle mie distrazioni; (ride) mi piace il palco ma sono proprio svaporata di natura.

La “svaporata” era il suo personaggio negli anni Sessanta.

Infatti ero io, non mi dovevo sforzare troppo, e per questo mi assegnavano quasi sempre delle parti brevi, e il secondo, terzo, quarto ciak mi salvava.

Mentre il teatro.

Ho causato situazioni tremende: come le ho detto prima, mi dimenticavo di entrare in scena, ed Enrico Montesano è stato una delle mie vittime, oppure Renato Rascel incazzatissimo.

Per cosa?

In uno spettacolo non ho chiamato la battuta ed è rimasto chiuso dentro l’armadio. Inferocito.

Lei al contrario è molto mite.

Amo sorridere, non mi piace vivere di nervosismi o di contrasti.

Cosa le dà fastidio?

Dipende dallo stato d’animo, ma in generale non sopporto le persone indisponenti o chi e ne approfitta, e per questo voglio bene a Vittorio.

In particolare?

È una delle persone più generose mai conosciute, e fa parte del mio pantheon famigliare.

Contro l’Iraq l’Iran ha scoperto l’amor di patria

Anche l’Iran ha la sua Stalingrado. È Khorramshahr, città portuale della provincia del Khùzestàn adagiata sulla sponda orientale dell’Arvand (Shatt al-‘Arab in arabo), il fiume che nasce dalla confluenza tra Tigri ed Eufrate e che, in quel tratto, segna il confine tra Iran e Iraq.

Il 22 settembre del 1980 l’Iraq invase l’Iran. Khorramshahr fu la prima città persiana assediata. Gli iracheni riuscirono a conquistarla dopo settimane di combattimenti casa per casa. Le truppe iraniane esigue, mal equipaggiate, inesperte si comportarono in modo eroico prima di capitolare. Ancora oggi i segni della guerra sono visibili tra le vie del centro. A pochi passi dal mercato, sul fiume dove i giovani pescatori arabo-iraniani squamano il pesce che arriva dal Golfo Persico, ci sono case distrutte. Sembra che le bombe vi abbiano fatto visita la settimana scorsa. La guerra può anche finire con la firma della pace ma i conflitti durano a lungo.

Saddam Hussein attaccò il Khùzestàn con la scusa di liberare gli arabo-iraniani che abitavano la regione. In realtà era la provincia più ricca dell’Iran e lo è ancora. Fa parte della mezzaluna fertile, l’area del mondo che va dall’alto Egitto al Golfo Persico passando per la Mesopotamia, e che per molti rappresenta la culla della civiltà. In Kùzestàn gli agricoltori coltivano cereali da millenni, i pastori nomadi pascolano le capre e i tecnici del ministero del Petrolio supervisionano le attività estrattive. Greggi e greggio potremmo dire: la ricchezza del passato, quella del presente e la grande speranza del futuro.

Lo scorso anno nella regione è stato scoperto l’ennesimo giacimento di petrolio. Si parla di 53 miliardi di barili, il secondo campo petrolifero del Paese dopo quello di Ahvaz che è il terzo più grande del mondo.

Khorramshahr confina con Abadan, altra città bombardata dai cannoni iracheni per via della sua immensa raffineria. Scrive lo scrittore Ryszard Kapuscinski: “Il petrolio contagia la mente, annebbia la vista, corrompe i cuori”. A volte penso che per la Persia, terra di cultura e poeti tra i più raffinati della storia, i pozzi siano stati una maledizione.

 

La prima guerra della Cia

La raffineria di Abadan apparteneva all’Anglo-Iranian Oil Company (l’attuale British Petroleum). Nel 1953 il Premier Mossadeq (un nazionalista laico, non un mullah) la nazionalizzò. Sosteneva che il petrolio e l’industria per raffinarlo dovessero appartenere al popolo iraniano. Per questo fu deposto da un colpo di Stato promosso dalla Cia e dai servizi segreti britannici. La stessa Cia che autorizzò Saddam a invadere l’Iran.

Erano tempi difficili per la Persia. Lo Scià era fuggito e il Paese era in preda ad una guerra civile. Il grano scarseggiava e l’esercito era allo sbando per via delle epurazioni dei vertici accusati di essere il braccio insanguinato dello Scià. Il trionfo della Rivoluzione islamica non era affatto scontato ma poi ci hanno pensato gli americani a favorirne il successo. È stata l’invasione irachena a forgiare un’intera generazione di rivoluzionari iraniani diventati poi classe dirigente del Paese. È stato Saddam Hussein, con il beneplacito dell’ex presidente Usa Jimmy Carter e di quello dell’ex Unione sovietica Lonid Brežnev, a compattare l’opinione pubblica iraniana attorno al governo islamico.

L’invasione dell’Iran da parte irachena fu una delle rarissime occasioni in cui, durante la Guerra Fredda, Usa e Urss si trovarono dalla stessa parte della barricata. Mosca temeva che la rivoluzione islamica dilagasse nelle repubbliche sovietiche a maggioranza musulmana mentre Washington sperava di rimettere le mani sul petrolio persiano.

L’Iran respinse le forze irachene nonostante l’inferiorità di mezzi. Vi riuscì grazie al sacrificio di centinaia di migliaia di giovani convinti di difendere non solo la nazione ma l’esistenza stessa del mondo sciita.

 

Il patriottismo persiano

Ma ai più fervidi religiosi si unirono centinaia di migliaia di iraniani spinti solo dal patriottismo. Molti di loro non vedevano di buon occhio né Khomeini né l’islamizzazione della società. Ciononostante si sentivano persiani, sotto attacco e dovevano difendere la Patria dall’invasione straniera.

Questo spirito in Iran è ancora oggi fortissimo. I confini dell’Iran, a differenza di quelli di molti altri paesi dell’area, non sono frutto di una mappatura colonialista. L’Iran non è l’Iraq. Storia diversa, territorio diverso, attaccamento alla Patria diverso. Questo i marines lo sanno perfettamente. Sanno che attaccare l’Iran significherebbe per loro andare incontro ad un Vietnam mediorientale e nessun Presidente degli Stati Uniti, ancor meno in campagna elettorale, potrebbe mai permetterselo.

A Qom ho conosciuto Abbas, sessant’anni anni, laurea in architettura conseguita in Italia e quattro figli nati e cresciuti in Puglia. Nel 1982 prese un aereo per Teheran. Aveva tre mesi liberi prima della sessione successiva e ne approfittò per andare al fronte come volontario e partecipare alla riconquista di Khorramshahr. “Io non cercavo la guerra, mi faceva male al cuore sparare contro altri musulmani ma dovevo difendere la nostra Patria e la nostra fede”.

Ad Ahvaz le immagini del comandante Ali Hashemi sono dappertutto. Lungo le strade, sui cavalcavia, sulle pareti dei palazzi che si affacciano sulle rotonde della città. Ali Hashemi era un pasdaran ed era arabo, per questo riusciva a infiltrarsi tra le linee irachene per mandare informazioni in Iran. Nessuno riuscì mai a scoprirlo. Era l’incubo di Saddam Hussein il quale non si spiegava perché molti arabo-iraniani difendessero la Persia invece di passare con gli iracheni. Ali Hashemi venne ucciso poche settimane prima della fine della guerra a Majnoon Island, in territorio iracheno. Il corpo venne riconsegnato ai familiari ventidue anni dopo, in seguito alla caduta di Saddam Hussein per mano statunitense. Oggi riposa in un piccolo mausoleo in costruzione all’ingresso del cimitero di Ahvaz. Di fianco a lui c’è la tomba del generale Jabbar Daryavi, morto nel 2014 mentre combatteva l’Isis sul fronte siriano.

Mohammad Hossein, il figlio di Ali Hashemi, mi ha invitato a casa per un tè. Lì ho conosciuto la mamma del comandante. Indossava un chador nero, teneva in mano un tasbih, il “rosario sciita” e continuava a versare lacrime per suo figlio caduto in battaglia trentadue anni fa. “Il dolore che provo ancora oggi per la morte di mio figlio è pari all’orgoglio di aver donato la sua vita all’Islam”. Non è compito mio giudicare sentimenti così intensi e diversi da quelli che si proverebbero nel nostro mondo. È mio compito registrare una realtà e riproporla senza filtri. Persone che ragionano come la signora Hashemi ve ne sono molte in Iran. La “generazione del fronte”, formatasi in risposta all’invasione irachena, esiste ancora e tornerebbe in prima linea in caso di attacco nordamericano. E anche coloro i quali, non senza ragioni, sono oggi in primissima linea nelle proteste contro l’attuale governo iraniano, partirebbero volontari se il loro Paese fosse sotto attacco. Perché la maggior parte dei persiani, anche quelli che non confidano minimamente nella Guida Suprema confidano ancor meno nelle “nobili” intenzioni occidentali. Chiedono un cambio, ma vogliono decidere loro come e dove cambiare.

Il patriottismo persiano ha trovato nutrimento dal colpo di stato promosso dalla Cia nel 1953, dalle bombe di fabbricazione statunitense sganciate dai caccia iracheni sulle città iraniane, dall’Airbus Iran Air con a bordo 290 passeggeri (di cui 66 bambini) abbattuto “per errore” nel 1988 da un missile terra-aria partito dall’incrociatore Vincennes della US Navy e dall’assassinio del generale Qasem Soleimani lo scorso 3 gennaio.

 

La forza della rivoluzione

La Rivoluzione islamica ha trovato nei suoi primi anni di vita linfa vitale proprio nell’ostilità di Washington. Khomeini non era un socialista, probabilmente detestava l’Urss atea e materialista più degli Stati Uniti d’America. Eppure avallò una riforma agraria perché senza la distribuzione della terra ai contadini e la conseguente creazione di migliaia di cooperative agricole in Iran si sarebbero mangiati il fango durante la guerra. I mullah hanno sempre ritenuto sacra la proprietà privata eppure sostennero progetti di nazionalizzazione perché sotto attacco iracheno era necessario centralizzare la produzione industriale.

Ripeto, senza le ingerenze statunitensi non è detto che il Governo islamico esisterebbe ancora. Eppure ancora oggi l’ingerenza, l’ostilità e le minacce nordamericane sono benzina nei motori sempre più inceppati del governo degli Ayatollah.

Oggi l’Iran è un attore strategico della regione ed è questo che Israele non riesce ad accettare. Ma se ci è diventato è perché gli Stati Uniti hanno eliminato o indebolito i principali avversari di Teheran nella regione. Saddam Hussein e i talebani erano acerrimi nemici dell’Iran. Gli Usa hanno spazzato via il primo e fiaccato i secondi. Come possono oggi sorprendersi della forza politico-militare della Persia?

Hanno creduto di abbattere la Rivoluzione islamica con le sanzioni. È avvenuto il contrario. l’Iran produce il 97% dei farmaci di cui ha bisogno; ha raggiunto l’autosufficienza cerealicola e vende elettricità ai paesi limitrofi. In Iran si fabbricano le centrifughe per arricchire l’uranio e gli ingegneri persiani sono tra i massimi esperti mondiali in reverse engineering.

Si non potes inimicum tuum vincere, habeas eum amicum: “Se non puoi sconfiggere il tuo nemico, fattelo amico”. Oggi a Washington sono troppo orgogliosi per fare propria questa lezione ma l’Europa dovrebbe ricordarsi che spesso è stato il pragmatismo a garantirne le principali conquiste. L’islamofobia e la russofobia spingeranno Teheran e Mosca sempre più tra le braccia di Pechino è questo è contro i nostri interessi.

Se l’Unione Europea iniziasse a fare gli interessi degli europei e non quelli nordamericani sarebbe una grande conquista. La stessa esistenza dell’Europa dipende dal coraggio e dall’autonomia che sarà capace di dimostrare nei prossimi 10 anni. Non c’è molto tempo. La Cina è vicina, ma lo è anche Teheran. Sarebbe ora di avere la lucidità di comprenderlo.

(2 – continua)

Ex capi di Mossad e Shin Bet contro Bibi

Sesso, bugie e videotape. Non è un remake del film della fine degli anni Ottanta ma quello che sta investendo gli elettori israeliani chiamati domani al terzo voto – in meno di un anno – per eleggere la Knesset. La politica israeliana è entrata in un pericoloso circolo vizioso, la macchina del fango ben orchestrata dai seguaci del premier Benjamin Netanyahu non risparmia nessuno ma si concentra sul suo principale avversario, l’ex capo di Stato maggiore Benny Gantz. Dichiarazioni abilmente manipolate di uno degli strateghi della campagna elettorale di Gantz sono “improvvisamente” arrivate alle tv, grazie al rabbino Guy Havura, che nella sua sinagoga guida da giorni le preghiere perché Bibi raggiunga i 61 seggi alla Knesset, la maggioranza minima per governare. La macchina del fango via Facebook è andata anche oltre, diffondendo la fake news secondo la quale esisterebbe un video di Gantz nudo e in pose sconvenienti. È davvero difficile immaginare il militare tutto d’un pezzo come l’ex generale spingersi a atti simili. Il video non esiste, ma per due giorni la notizia è stata fatta circolare. Nemmeno il procuratore generale Avichai Mandelblit – che in passato da avvocato difese la moglie di Netanyahu dalle accuse di maltrattamenti ai domestici – si è salvato, colpevole di aver dato il via libera ai tre processi che Bibi deve affrontare per corruzione, frode e abuso di potere.

Processi dai quali sarà immune solo se, dopo il voto, sarà ancora premier. Netanyahu, che è un formidabile animale politico, sta giocando il tutto per tutto. Ma questa spregiudicata campagna gli sta facendo perdere consensi anche nel suo elettorato abituale: i militari, la polizia, fino ad arrivare allo Shin Bet (il servizio segreto interno) e al Mossad. In un video girato durante una cerimonia per commemorare la scomparsa di Eli Cohen (la più famosa spia israeliana che si infiltrò in Siria negli anni Sessanta, poi smascherata e giustiziata in piazza a Damasco) sei ex capi del Mossad e dello Shin Bet definiscono Netanyahu “pericoloso per la democrazia”. Tamir Pardo, Efraim Halevy e Shabtai Shavit, (Mossad), Yuval Diskin, Carmi Gillon e Ami Ayalon (Shin Bet) hanno parlato tutti contro Netanyahu, descrivendolo come un uomo pericoloso, che sta mettendo a rischio il Paese e usa informazioni riservate per scopi personali. Lo conoscono bene, perché tutti hanno prestato servizio sotto di lui. I Gatekepeers – li chiamano così in Israele gli ex capi della sicurezza – non sono i soli usciti allo scoperto. Numerose petizioni firmate da centinaia di ufficiali dell’esercito e piloti della IAF sono arrivate al presidente Rivlin per chiedergli di non incaricare Netanyahu di formare un governo dopo il voto, visti i processi che dovrà affrontare dal prossimo 17 marzo. Sono i numeri che stanno provocando l’isteria nello schieramento di Netanyahu. Gli ultimi sondaggi dicono che l’Alleanza di destra ha riguadagnato qualcosa ma resta inchiodata ai 56-58 seggi; stabile quella guidata da Benny Gantz tra i 56 e i 57 seggi. In crescita è invece la Joint Arab List, gli arabi d’Israele, che tocca i 15 seggi (ne aveva 12). L’uomo del destino appare anche per questo voto Avigdor Lieberman – capo di Yisrael Beitenu, il partito degli immigrati dell’Est Europa, con 7 seggi. Senza l’ex amico e alleato di Netanyahu, non si trova una maggioranza.