Gli americani vanno via ma la pace è ancora lontana

Adesso nessuno si aspetti che in Afghanistan scoppi la pace, dopo quasi 19 anni di guerra e lutti, centinaia di migliaia di vittime, militari, insorti, soprattutto civili. Anzi, c’è da temere che i nemici dell’intesa ieri siglata tra americani e talebani – e ce ne sono molti, in tutti i campi – rendano esplicito il loro dissenso con agguati e attentati: le città e le campagne dall’Afghanistan resteranno uno dei posti meno sicuri al mondo. L’accordo finalmente firmato a Doha, dopo vari rinvii e rialzi della tensione drammatici, a negoziati in corso, prospetta il definitivo ritiro dell’Afghanistan delle truppe Usa, che entrarono nel Paese, allora in mano ai talebani, che proteggevano al Qaeda, nell’ottobre 2001, dopo l’attacco all’America dell’11 Settembre.

Con i militari statunitensi, se ne andrà pure il contingente internazionale Nato, cui l’Italia dà un contributo essenziale. Il patto di Doha, subito definito “storico” dall’amministrazione statunitense, impegna Washington a ritirare le proprie truppe entro 14 mesi e a cominciare a farlo subito, riducendo il contingente da 14 mila a 8.600 uomini. L’intesa prevede anche uno scambio di prigionieri.

A riprova della diffidenza che persiste fra americani e talebani, il segretario di Stato Mike Pompeo ha avvertito che gli Stati Uniti “non esiteranno ad annullare l’accordo” appena concluso se i ribelli non rispetteranno a loro volta i loro impegni in tema di sicurezza: devono rompere con al Qaeda, ancora presente sul territorio afghano, insieme a miliziani dell’Isis in rotta da Iraq e Siria; e avviare, entro il 10 marzo, negoziati di pace con il governo di Kabul, rimasto estraneo alla trattativa andata ora in porto e condotta, per parte americana, dall’ambasciatore Zalmay Khalilzad. Nell’ultimo anno, l’intesa era parsa a più riprese vicina. In agosto, i talebani doveva addirittura essere ricevuti da Donald Trump a Camp David. Ma qualcosa era sempre andato storto in extremis. In una dichiarazione diramata ancor prima della firma, Trump espone, sia pure con qualche misura, il gran pavesi: “Se i talebani e il governo afghano saranno all’altezza degli impegni, avremo un percorso ben tracciato verso la fine della guerra in Afghanistan e per riportare a casa le truppe”. Per il magnate presidente, “l’intesa è un passo importante per una pace durevole in un Afghanistan nuovo, libero da Al Qaeda, dall’Isis e da ogni altro gruppo terroristico impegnato a colpirci”.

Quanto al popolo afghano, Trump lo invita “a cogliere questa opportunità per la pace e per un nuovo futuro del suo Paese”. Nel giorno delle primarie in South Carolina, il candidato Trump vuole evidenziare “progressi sostanziali” verso il mantenimento delle promessa elettorali “di porre fine a una guerra durata 19 anni e di portare a casa i ragazzi”. Ma gli sviluppi afghani presentano aspetti critici. Il New York Times nota che “gli sforzi americani per creare un sistema democratico nel Paese, così come per migliorare le opportunità per le donne e le minoranze, saranno messi a rischio se i talebani, che bandirono le ragazze dalle scuole e le donne dalla vita pubblica, torneranno a essere dominanti. La corruzione resta rampante, le istituzioni sono deboli e l’economia è pesantemente dipendente dagli aiuti americani e internazionali”. C’è pure l’incognita di quel che faranno il presidente Ashraf Ghani, appena riconfermato, e il suo governo, fin qui tenuti – come detto – ai margini del processo negoziale.

Paolo Liebl von Schirach, presidente del Global Policy Institute, un think tank di Washington, parla della “infelice conclusione della più lunga guerra nella storia americana”: “Non ci ritiriamo dopo avere vinto, ci ritiriamo dopo avere perso. L’America non ha negoziato da posizioni di forza con talebani mal ridotti e demoralizzati, ma ha negoziato una via d’uscita da una guerra che non poteva vincere contro un nemico implacabile. In sostanza, questa è una resa”.

Mi manda papà (Putin). L’Ateneo delle cyberspie è nelle mani di Katerina

Sta per essere inaugurato l’Istituto di Intelligenza artificiale dell’Università di Mosca (Mgu) e al suo vertice ci sarà una potente, misteriosa direttrice bionda: una cittadina russa nata a Dresda nel 1986, dove era di stanza suo padre, all’epoca funzionario del Kgb. Katerina Tikhonova è la figlia – o meglio la donna che in Russia tutti sanno essere la figlia – di Vladimir Putin.

Già vicerettore, Katerina, 33 anni, farà capolino alla punta della piramide del nuovo dipartimento dell’imponente Università della Capitale, dove già dirige la fondazione Innopraktika, organo con un budget che supera il miliardo di dollari e al cui tavolo della dirigenza siedono i signori dell’industria energetica della Federazione russa: Aleksey Likhachev, capo del gigante Rosatom, e Igor Sechin, amministratore di Rosneft. Adesso la Tikhonova gestirà un programma condiviso da nove dipartimenti di prossima apertura che hanno già ricevuto 4 miliardi di rubli, quasi 60 milioni di euro, in fondi statali. Il piano di ricerca è stato definito da Putin “uno degli strumenti più essenziali per la strategia nazionale”, come riporta il quotidiano Vedomosti.

Le due colonne su cui il Cremlino ha deciso di investire sono tecnologia dell’informazione e intelligenza artificiale, al centro di un progetto di legge sulla sperimentazione che presto finirà in visione alla Duma. “La Russia deve assicurarsi sovranità nel settore, chi lo domina sarà signore del mondo”.

Con queste parole Putin, parlando dello sviluppo dell’AI, promise agli studenti nel 2018 cascate di finanziamenti per le ricerche di strumentazioni potenzialmente letali nella guerra digitale delle fake news. Un esempio concreto: l’interferenza nelle elezioni 2016 – e in quelle previste quest’anno – di cui gli Stati Uniti accusano Mosca. Il fine dello sviluppo dell’intelligenza artificiale è la vittoria nelle guerre asimmetriche, operazioni di intelligence o cyberconflitti. Il Rdif, Fondo federale russo di investimenti diretti, che collabora con l’ateneo moscovita, è già stato impinguato da investitori di Asia, Medio Oriente ed Emirati. A capo di questo braccio tecnologico dello Stato, che fornirà nuovi dispositivi ai dipartimenti militari e dei servizi segreti, c’è la finora misteriosa figlia di Putin. Sciorinando algoritmi dei sistemi complessi della matematica applicata, la Tikhonova si era mostrata ai russi, truccatissima e paciosa, per la prima volta solo nel 2018 sul canale Rossija 1. È certo che si è sposata nel 2013 con Kirill Shamalov, figlio dell’oligarca Nikolay e amico di suo padre; non è certo se ha divorziato nel 2018. Chi l’ha ascoltata parlare con voce flemmatica nelle poche dichiarazioni rilasciate, dubita che Katerina sia capace di fare salti mortali abbracciata a un ballerino pallido come lei.

Eppure la giovane donna in passato è stata ballerina acrobatica e ha partecipato a una competizione della World Rock and Roll Federation. Katerina Assomiglia a sua sorella maggiore, Maria Vorontsova, nata a Leningrado nel 1985. Entrambe hanno frequentato il liceo tedesco di Mosca, dove tutta la famiglia si trasferì nel 1996. Quando pochi anni dopo la spia di Dresda diventò presidente della Russia, le sorelle finirono in un cono d’ombra e discrezione. Ricorsero a false identità per iscriversi all’università: Maria scelse biologia, Katerina fisica e matematica. Poi acquisirono nomi di copertura come fanno le spie, ma cambiarono solo il cognome.

Dopo apparizioni sporadiche nel periodo studentesco, le due si sono inabissate per sparire completamente dalla scena pubblica. La minore è tornata a galla prima dell’altra, ma anche Maria si è mostrata ai giornalisti l’estate scorsa. Ha parlato ai microfoni della tv Rossija 24, quando è divenuta socia di un’azienda medica da 634 milioni di dollari a San Pietroburgo: la Nomeko, abbreviazione di New Medical Company. Ricerca avanzata: quella artificiale, ma anche genetica.

Sono state amatissime dal loro padre “che le viziava”. A dirlo è stata anni fa Lyudmila Shkrebneva, ex moglie di Putin, da cui ha divorziato dopo 30 anni di matrimonio nel 2013. Amatissime ma non identificate: le figlie non sono mai state ufficialmente riconosciute dal presidente. Vere, ma mai confermate: in nessuna occasione Putin ha pronunciato i nomi di Katerina e Maria e ha smentito invece pubblicamente di avere avuto due figli con la ginnasta Alina Kabaeva, medagliata di ori olimpici e numerosi articoli di gossip. È la fidanzata di Putin, anche lei solo nelle supposizioni dei rotocalchi; ma in Russia una cosa diventa vera solo se la conferma ufficialmente il Cremlino.

’Ndrangheta, il vescovo attacca i giornalisti

Al numero del vescovo di Palmi e Oppido Mamertina risponde sempre la segreteria telefonica. “Volevo sentirla sulla vicenda di Sant’Eufemia D’Aspromonte. È intervenuto anche monsignor Galantino e volevo una sua dichiarazione”. Proviamo a inviare un messaggio ma il telefono del vescovo Francesco Milito è sempre staccato. Riusciamo a prendere la linea ma non risponde nessuno.

Eppure, bastava una sua parola per chiarire le polemiche sulle frasi inopportune pronunciate dal parroco di Sant’Eufemia, don Marco Larosa, all’indomani dell’arresto di 65 persone per mafia: “Sono super partes”, “sto cercando di insabbiare la cosa perché altrimenti si creano troppi fraintendimenti”. Monsignor Nunzio Galantino ieri le ha tacciate “come parole fuori posto” indicando, poi, Milito come il vescovo non solo competente a occuparsi della faccenda ma anche “molto più impegnato nella lotta alla mafia”.

Proprio per questo decidiamo di andarlo a trovare a Palmi. Ma nei locali della Curia, troviamo un cancello sbarrato e al citofono nessuno risponde come al telefono. Del vescovo non c’è traccia nonostante la certezza di alcuni passanti: “È in casa”. Da Polistena parla invece don Pino De Masi, referente di Libera per la Piana di Gioia Tauro: “Conoscendo don Marco Larosa e la sua timidezza… credo si sia spaventato: quelle parole sono frutto della paura delle telecamere. E non lo sto giustificando”. Don Giacomo Panizza a Lamezia Terme ha fondato Progetto Sud e da più di 20 anni riceve minacce e intimidazioni dalla ’ndrangheta per il suo impegno antimafia. L’ultima solo pochi giorni fa quando dalla sua cooperativa sono spariti un trattore e una falciatrice. “Quando il Papa dice che i mafiosi sono scomunicati – ricorda Panizza – si rivolge anche a noi sacerdoti che non dobbiamo aver dubbi. Non si possono salvare certi comportamenti. Si dà il perdono a chi lo chiede. Qui non c’è da fare i giudici. Però non possiamo stare zitti. E questo vale per tutti, per me, per il prete di Sant’Eufemia. E anche per il vescovo Milito”. Sono le 16 e, dopo quasi quattro ore dalla prima telefonata, le porte non si aprono ma arriva un sms sullo smartphone del cronista. È il segretario del vescovo che annuncia un comunicato della Diocesi secondo cui le espressioni (“super partes”, “insabbiare”) del sacerdote sono “improprie e non devono essere in alcun modo intese come atteggiamento di imparzialità”. Il vescovo Milito se la prende soprattutto con la stampa: “Non ci può essere nessun tentativo di strumentalizzare dichiarazioni, dandole in pasto ai social network, attribuendo al sacerdote o alla Diocesi omertà, indifferenza o peggio, connivenza”. Per la diocesi di Oppido Mamertina, quindi, la polemica è dovuta ai giornali. Più confusi che persuasi chiediamo ancora di parlare con il vescovo. “È tutto nel comunicato – ci rispondono con il solito sms –, buon fine settimana”. Un prete si avvicina mentre andiamo via. Ci parla a patto di non essere citato: “Don Larosa è una brava persona. È timido e si trova nel posto sbagliato: ha paura. Non doveva dire quelle cose ma la colpa è del vescovo che lo ha mandato allo sbaraglio. Ai giovani preti sta inculcando che la stampa è nostra nemica. Se ce la prendiamo col prete di Sant’Eufemia e non con Milito spariamo sulla croce rossa”. E stamattina monsignor Milito sarà alla parrocchia San Gaetano Catanoso di Gioia Tauro per le cresime. Chissà se ne approfitterà per pronunciare parole nette contro la ’ndrangheta e scongiurare qualsiasi ambiguità.

“Cecchi Gori in cella”. Anzi no: cronaca di un arresto urlato

“Cecchi Gori si trova ora a Rebibbia”. Sono le 10:32 e l’agenzia Ansa è perentoria: il 78enne ex produttore cinematografico sta dietro le sbarre: “I carabinieri del Nucleo investigativo – inizia così il lancio – hanno notificato a Vittorio Cecchi Gori un ordine di esecuzione per la carcerazione emesso dalla Procura Generale della Corte d’Appello di Roma per un cumulo di pena di 8 anni, 5 mesi e 26 giorni di reclusione”. L’ex senatore è stato infatti condannato definitivamente lunedì scorso a 5 anni e mezzo per il crac da 24 milioni di euro della casa di produzione Safin. Condanna che va ad aggiungersi ad altre già subìte in passato. Alle 10:59 l’AdnKronos conferma: “È stato portato a Rebibbia”.

E a quel punto si scatena l’indignazione. Il primo classificato, dimostrando ancora una grande freschezza, è Giuliano Ferrara: “Chiedo scusa – scrive su Twitter alle 12:37 – ma Vittorio Cecchi Gori è del 1942. È minimamente sensato imbastigliarlo”?

Alle 13:32 è la volta di Maurizio Turco e Irene Testa: “Se la pena deve tendere alla rieducazione – scrivono il segretario e il tesoriere del Partito Radicale – e la Costituzione è ancora valida, non ha senso oggi per Vittorio Cecchi Gori scontare una pena a otto anni nel carcere di Rebibbia, così come per qualunque altro detenuto”. Frattanto il Tg1 delle 13:30 rilancia la notizia dell’arresto chiudendo il servizio – dopo aver ricordato i fasti cinematografici e sportivi dell’ex senatore – con un elegiaco “la gloria ristretta dentro una cella”. A quel punto il mondo del cinema, che tanto ha avuto da VCG, si desta. Il primo è il regista Marco Risi: “Per una volta la penso come Giuliano Ferrara – dichiara –.Vittorio Cecchi Gori è stato male un anno fa, ha avuto un ictus. Questa cosa rischia di farlo stare veramente male lì dentro. Spero che riesca a starci, ma spero anche gli diano gli arresti domiciliari”.

Poi è la volta di Lino Banfi: “Sarei felicissimo se dessero i domiciliari – è il pensiero di nonno Libero –. Non è solo un fatto di età ma di salute. Andare in carcere può fargli solo male. Mi auguro di cuore per amicizia e perché sono più grande di lui di età che possa stare a casa. Hanno concesso i domiciliari a gente che ha fatto cose molto più gravi”. Gli fa eco Giovanni Veronesi poco dopo: “Vittorio Cecchi Gori – scrive il regista – è una persona malata. E bisogna avere un briciolo di accortezza prima di sbatterlo in carcere. Ci potrebbe anche rimanere. Da solo si è già punito nella sua vita. Per quanto riguarda la condanna per bancarotta fraudolenta io non so nulla nel merito ma credo sia pericoloso portarlo in carcere nelle sue condizioni”. Alle 14:58, però, l’Ansa corregge il tiro: “Vittorio Cecchi Gori – è il lancio d’agenzia –, è ricoverato all’ospedale Gemelli di Roma, dove si trova piantonato”.

Cecchi Gori è infatti ricoverato dal giorno in cui la Cassazione ha emesso la sentenza definitiva, secondo i suoi legali (che contestano anche il calcolo del cumulo di pena) le sue condizioni di salute sono assolutamente incompatibili con il carcere. Tutte cose che saranno valutate “al termine della degenza”, quando, in teoria, si aprirebbero davvero le porte del carcere. C’è ancora tempo per Christian De Sica, che si indigna per “il carcere a una persona vecchia e malata”, ma è una dichiarazione delle 15, praticamente contemporanea al chiarimento.

Equivoco chiarito? Macché. Poteva mancare Vittorio Sgarbi? No: “La vera epidemia – osserva Sgarbi – è la barbarie della magistratura che infierisce contro i vecchi trasformando lunghi processi e persino le assoluzioni in ergastolo. Non è tollerabile che un uomo malato di 77 anni venga portato in carcere. E non è tollerabile che la Procura ricorra in Cassazione contro l’assoluzione di Calogero Mannino”. Per Sgarbi Mannino sta bene su tutto.

“Raggi convinta dell’estraneità di Marra”

“Tutto si può dire tranne che Raffaele Marra non si sia attivamente e intenzionalmente adoperato ed impegnato per far conseguire al fratello un ruolo di prestigio nella struttura amministrativa capitolina”; mentre per quanto riguarda la sindaca di Roma Virginia Raggi “risulta comprensibile perché confidasse e fosse convinta dell’estraneità di Raffaele Marra alla nomina del fratello quale direttore della direzione Turismo”.

Sono le motivazioni della sentenza di primo grado con le quali i giudici dell’ottava sezione del Tribunale di Roma hanno condannato, a settembre scorso, Raffaele Marra a un anno e quattro mesi di reclusione per l’accusa di abuso d’ufficio in merito alla nomina (poi revocata) del fratello Renato a capo del Dipartimento Turismo. Per questa stessa vicenda, la Raggi è finita a processo per falso: per i pm avrebbe mentito nella dichiarazione al Responsabile anticorruzione del Campidoglio – che doveva rispondere all’Anac – quando ha affermato che nella procedura della nomina, Raffaele Marra aveva avuto “compiti di mero carattere compilativo”.

In primo grado la sindaca è stata assolta: per il giudice Roberto Ranazzi era ignara delle manovre dietro quella nomina. Aspetto riportato anche nelle motivazioni della sentenza di condanna di Raffaele Marra. E adesso queste 50 pagine diventano un’arma in mano ai legali della Raggi che ne chiederanno l’acquisizione nel processo d’Appello alla sindaca che inizierà il 16 marzo.

Per quanto riguarda Raffaele Marra, i giudici dell’ottava sezione scrivono che: “Nonostante la sua nota e palese posizione di conflitto di interessi, non si è disinteressato alla nomina del fratello Renato (…), ma tutt’al contrario, l’ha indotta, dapprima, convocando la riunione d’urgenza nel suo ufficio e poi, concretamente, indicando la disponibilità del fratello e l’inadeguatezza degli altri concorrenti candidatisi alla stessa posizione (…)”. Sono accuse che Marra ha sempre respinto, spiegando, anche il 22 dicembre 2018 in aula, di “essere stato un semplice notaio nella procedura d’interpello”. “Le risultanze probatorie non smentiscono questa affermazione” è scritto nelle motivazioni. È vero: Marra non ha mai deciso in prima persona quali soggetti nominare e dove collocarli, né ha mai effettuato pressioni per sponsorizzare questo o quell’altro nome”.

Tuttavia “l’unica eccezione ha riguardato il fratello”. Il suo “intervento in extremis”, scrivono i giudici, “è risultato decisivo per il convincimento dell’Assessore Meloni, il quale, quindi, ha in seguito espresso la propria indicazione alla Raggi, essendo stato influenzato nella sua determinazione da chi aveva, invece, l’obbligo di astenersi”.

Il tutto all’insaputa della sindaca, secondo i giudici. Che, in queste motivazioni, fanno riferimento ad un messaggio del 12 novembre 2016 quando, venuta a conoscenza dai giornali dell’aumento di stipendio di Renato Marra, scrive a Raffaele: “Sai bene che avrei subito attacchi. E non mi dici nulla?”.

Per il Tribunale, “questi messaggi provano inequivocabilmente l’inconsapevolezza della sindaca rispetto alla posizione di vantaggio che Renato Marra ha conseguito grazie all’intervento” del fratello. E ancora: “Analoga testimonianza ha offerto De Santis (Assessore al personale, ndr), destinatario della furiosa telefonata della Sindaca, quando lei apprese dai giornali dell’aumento stipendiale”. “I messaggi e la telefonata – scrivono i giudici – (…) smentiscono in maniera plateale il dominio e il controllo della sindaca sulla procedura d’interpello, quantomeno per ciò che riguarda Renato Marra”.

Un nuovo sacco di Palermo: arrestati capigruppo Pd e Iv

Di mattina stavano dietro una scrivania del Comune, di pomeriggio gestivano un comitato d’affari con consiglieri comunali, imprenditori e professionisti per indurre il Comune a lottizzare aeree edificabili in deroga al piano regolatore. E a confermare l’intreccio di affari e corruzione questa volta è un boss mafioso pentito, Filippo Bisconti, capo mandamento di Misilmeri e Belmonte, finito in carcere un anno fa nell’inchiesta Cupola 2.0, che frequentava lo studio di uno degli arrestati, circostanza che il presidente dell’Antimafia Nicola Morra definisce “inquietante”.

Alla vigilia del rimpasto di giunta un terremoto giudiziario scuote palazzo delle Aquile, sede del Comune di Palermo: con il blitz Giano Bifronte, così chiamato dal ruolo double face degli impiegati pubblici, Mario Li Castri e Giuseppe Monteleone, all’alba di ieri mattina carabinieri e guardia di finanza hanno disposto gli arresti domiciliari per i consiglieri comunali di Palermo Sandro Terrani, 51 anni, di Italia Viva, e Giovanni Lo Cascio, 50 anni, del Pd, entrambi della maggioranza che sostiene Orlando: il primo capogruppo e membro della commissione Bilancio, il secondo capogruppo e presidente della commissione Urbanistica. Le indagini sfiorano i fedelissimi di Orlando: il gip sottolinea “la strettissima contiguità che, nonostante le recenti vicende giudiziarie che lo hanno riguardato, continua a legare Li Castri all’assessore Emilio Arcuri”, firmatario della delibera incriminata, che Orlando, fino alla tarda mattinata di ieri, aveva confermato in giunta: “Ho firmato con il mal di pancia”, ammette Arcuri intercettato. E parlando con l’addetto stampa Pietro Galluccio aggiunge: “Sono deliberazioni che riguardano programmi costruttivi che si possono realizzare a norma di legge, tant’è che quando l’amministrazione comunale fece un bando, io ero allora nel cda di Amg con Mario Li Castri e ho detto: minchia, ma che c’era bisogno di fare il bando? Un privato se vuole si fa sotto, no? Di disturbare tutta questa pubblicità, non ne capivo il senso”.

Nel pomeriggio è stato lo stesso Arcuri, sembra non indagato, a fare un passo indietro, per “ragioni di sensibilità politica e al fine di evitare qualsiasi strumentalizzazione che possa nuocere all’operato di questa amministrazione”. Con i due consiglieri comunali, definiti dal gip Michele Guarnotta “del tutto inconsapevoli dell’importanza del ruolo rappresentativo loro attribuito e dediti a ricercare nuove occasioni di guadagno mettendo in vendita le proprie funzioni pubbliche”, sono stati arrestati i funzionari comunali Mario Li Castri, 56 anni, ex dirigente dell’area tecnica, e Giuseppe Monteleone, 59 anni, già capo dello Sportello Unico Attività Produttive, l’architetto Fabio Seminerio, 57 anni, e gli imprenditori Giovanni Lupo, 77 anni e Francesco La Corte, 47 anni, accusati, a vario titolo, di corruzione per atti contrari ai doveri di ufficio, corruzione per l’esercizio della funzione e falso ideologico in atto pubblico nel contesto di una lobby che “spingeva” tre progetti per la lottizzazione di aree industriali dismesse (via Maltese, via Messina Marine e via San Lorenzo) per realizzare 350 unità abitative che il consiglio comunale bocciò il 7 novembre scorso. “I miei… il mio guadagno c’è… – dice intercettato Monteleone – lì c’è la fine del mio guadagno… altri 100-150 mila euro, questi mancano, più 15mila euro di quel bastardo che appena lo vedo gli do un calcio nella palle”.

Per i funzionari Li Castri e Monteleone, scrive il gip, “sarebbe pericoloso per il buon andamento della macchina comunale continuare ad affidare funzioni di rilievo a due soggetti palesemente inclini a delinquere”. Precisazione non peregrina, visto che Mario Li Castri, già arrestato con Monteleone per corruzione (nel marzo 2018 sono stati condannati entrambi a due anni, in primo grado per una lottizzazione abusiva dove abitano), quand’era già stato rinviato a giudizio era stato nominato dirigente e membro del consiglio di amministrazione della società del gas Amg.

Mail Box

 

Riaprire subito le scuole potrebbe essere pericoloso

Sono un’insegnante di un Istituto scolastico della presunta isola felice del Nord Italia, ovvero del Friuli Venezia Giulia che, pur essendo confinante con il Veneto, sembra miracolosamente ancora indenne dal Coronavirus. Premesso che a mio avviso finora il governo ha svolto un buon lavoro, mi sorgono spontanee alcune osservazioni sull’inversione di marcia delle ultime disposizioni. L’impressione è che le autorità non abbiano una corretta percezione della vita scolastica, o che preferiscano tutelare l’immagine dell’Italia piuttosto che la salute pubblica. Le classi in cui insegno contano tra i 23 e i 25 alunni, assembrati in aule di ridotte dimensioni, inserite in un’unica grande struttura a cui afferiscono anche gli studenti delle secondarie. Oltre ai maestri e ai professori, ci sono tutti gli educatori, gli esperti delle attività extracurricolari, i collaboratori scolastici, i cuochi e il personale tecnico ausiliario: insomma una moltitudine di vite. Ora, se uno solo di questi individui avesse contratto il Cvid-19 negli ultimi 14-21 giorni, e ne fosse inconsapevole, lo trasmetterebbe in un istante a tantissime altre persone. Quello che mi chiedo è perché le autorità, che hanno sensatamente disposto la chiusura delle scuole durante la scorsa settimana, adesso vogliano vanificare gli sforzi riaprendole. Posso capire l’ansia di riaprire cinema, teatri, manifestazioni sportive e tutte le attività che producono profitti, ma i giorni di scuola si potrebbero recuperare a giugno.

Una maestra

 

Gallera in tv da Gomez, una figura imbarazzante

Ho assistito all’intervista di Peter Gomez sul Nove all’assessore alla sanità lombarda Gallera. Confesso che i termini usati dal politico, “tamponamenti” invece di tamponi e “bocchettoni” dell’ossigeno, mi sono sembrati alquanto inusuali per un addetto ai lavori. In seguito ho ricordato una sua polemica con l’allora Ministro della Sanità Lorenzin, relativa al concetto e al ruolo delle linee guida, anche queste inusuali, utilizzate in un reparto oncologico lombardo. La polemica, sia per i toni che per le motivazioni scientifiche addotte da Gallera, a mio giudizio erano risultate imbarazzanti, dando l’impressione di ignorare che le scelte cliniche nei paesi avanzati si basano esclusivamente sulle prove scientifiche. Credo che il Premier Conte abbia molte ragioni per criticare la gestione regionale della sanità che, considerando le future sfide, non può essere coordinata a livello nazionale se non europeo. Spero che questa triste stagione della regionalizzazione abbia fine quanto prima.

Gianpaolo Cordioli

 

Il Nord si sente respinto e l’Italia è sempre più divisa

Caro Travaglio, proprio il Nord più salviniano e razzista riceve l’onta di sentirsi respinto e ricacciato indietro. Forse le leggi di mamma natura rimettono le cose a posto? Di positivo c’è che la gente deve starsene un po’ più a casa, meno traffico, meno inquinamento, meno stragi del sabato sera, meno incidenti, meno rumore, meno droga nelle discoteche, insomma un po’ di sano silenzio che speriamo non sia inquinato dalle parole insensate dei nostri cazzari locali. Intanto l’Italia è sempre più divisa in due, anche dal Coronavirus.

Maurizio Dickmann

 

Salvini contro Conte, solo chiacchiere e distintivo

Mentre si placa la comunicazione panmediatica del Coronavirus, mentre l’Organizzazione mondiale della sanità parla di situazione sotto controllo, e mentre il bollettino italico annuncia che sono 45 i guariti, e in definitiva si sta gestendo dignitosamente l’epidemia, ecco che il solito cazzaro verde, Matteo Salvini, blatera sui social, in Tv, sulla stampa e allo stesso Presidente Mattarella, che occorre un governo di sicurezza nazionale al posto di quello in carica a guida Conte, per salvare il Paese. Se a ciò, si aggiunge anche un altro tassello al merito dei ricercatori italiani e segnatamente di quelli dell’ospedale Sacco di Milano, e cioè che è stato isolato il ceppo italiano del virus, ce n’è abbastanza per capire che l’interesse precipuo di Salvini è quello di frantumare lo sforzo unitario delle forze politiche messo in campo, e, soprattutto, quello di tornare a far parte di un governo con chicchessia, fregandosene allo stesso tempo delle sorti del Paese e del Coronavirus.

Luigi Ferlazzo Natoli

 

DIRITTO DI REPLICA

Con riferimento all’articolo pubblicato sul Fatto dal titolo “Gig e ferie forzate, ecco chi si approfitta del contagio”, Vodafone ritiene doveroso in un momento di massima attenzione nazionale aver avviato azioni di prevenzione e di tutela alla salute, cercando di limitare la concentrazione di persone nei luoghi di lavoro, in modo particolare nelle aree del cordone sanitario. L’azienda pertanto ha ritenuto di agire nell’interesse dei dipendenti con le seguenti misure: fruizione di una giornata di ferie arretrate, smart working per chi non disponeva di ferie arretrate, utilizzo delle ferie di competenza del 2020 per chi lo ritenesse utile.

Vodafone esprime rammarico per la stigmatizzazione delle misure adottate in un momento di emergenza nazionale, e ribadisce il suo impegno nel sostenere la prevenzione e la protezione della salute dei dipendenti, in pieno accordo con le misure adottate dalle autorità e in linea con il Ccnl di categoria.

Ufficio Stampa Vodafone

 

Grazie per la precisazione. L’articolo non voleva stigmatizzare le misure di precauzione adottate da Vodafone, che fa bene a prestare molta attenzione. Si faceva riferimento solo al fatto che, facendo usare a tutti un giorno di ferie, come inizialmente previsto, queste misure sarebbero state a carico dei lavoratori. Come già riportato nell’articolo, ci sembra che la decisione finale sia per fortuna andata incontro alle esigenze dei dipendenti.

Rob. Rot.

Il Decameron del coronavirus e la novelletta su Evo Morales

“In tanta afflizione e miseria della nostra città era la reverenda autorità delle leggi” che “era a ciascun licito quanto a grado gli era d’adoprare” e allora ce ne siamo andati in campagna e stavamo lì “ragionando dilettevoli cose” e godendoci l’amore ai tempi del coronavirus quando si decise “ciascuno di dire una sua novelletta” per passare il tempo. Dioneo, che ha l’abbonamento digitale al Washington Post, ha raccontato questa: c’è questo Evo Morales che governava in Bolivia da un po’ di anni e aveva rivinto le elezioni a ottobre, però l’opposizione di destra disse che c’erano stati i brogli e pure gli Stati Uniti dissero che c’erano stati i brogli e ci fu un bel coro sui brogli di Morales cui si unì la meglio stampa democratica del mondo. Per farla breve, l’opposizione cacciò il presidente col sostegno non puramente morale di esercito e polizia, arrestò qualche dirigente vicino a Morales e ne malmenò altri, si prese la presidenza e convocò nuove elezioni a maggio a cui però Morales, scappato all’estero, non potrà partecipare. E cosa ti va a leggere Dioneo sul Washington Post? Che due ricercatori del MIT, analizzati tutti i dati, dicono che non c’è “alcuna ragione per sospettare l’esistenza di brogli” a ottobre: Morales aveva davvero vinto con oltre il 10% di scarto, mentre “le analisi statistiche e le conclusioni” di chi lo accusò (l’Organizzazione degli stati americani) paiono “profondamente difettose”. Oh, noi si resta in giardino che ora Pampinea racconta quella di Guaidò e del Venezuela, però fateci sapere se qualcuno dice “golpe”.

Senza l’acqua delle piazze le Sardine moriranno

 

“La stagione delle piazze come l’abbiamo conosciuta a novembre forse finirà e forse è già finita”

Mattia Santori , Pesaro, 20 febbraio

 

Come possono una sardina, o le 6.000 Sardine (marchio ufficiale su Facebook) sopravvivere senza l’acqua delle piazze? Molto, molto più della esibizione narcisa nel mondo incantato di Maria De Filippi, del protagonismo mediatico che sembra averli tarantolati, delle liti su chi comanda, delle espulsioni, delle scissioni, la fine del movimento è in realtà un suicidio annunciato. Proclamare la “fine di una stagione” che doveva rivoluzionare la politica italiana e che non riesce neppure a superare i quattro mesi meteorologici è come votarsi spontaneamente all’auto-asfissia, gettarsi dal trampolino in una piscina vuota, fare harakiri per movimentare un happy hour. È incredibile come l’intuizione geniale di “una modalità di protesta pacifica e quasi pacifista, senza bandiere e senza proclami, attraverso non il dire ma il mostrare che siamo tutti sulla stessa piazza-barca” (Luciano Floridi) stia annegando in una progressiva insignificanza, abbagliata dai riflettori. In quel primo, sorprendente flash mob di piazza Maggiore a Bologna, a metà dello scorso novembre, c’era la risposta silenziosa di massa a Matteo Salvini che occupava il PalaDozza con l’arroganza padronale di chi sentiva la vittoria in tasca. Ma soprattutto, con uno straordinario ribaltamento della comunicazione il messaggio politico era nell’evento stesso, in quella piazza di trentamila persone, stipate come sardine. Che con la loro stessa presenza testimoniavano l’insopprimibile dissenso verso la politichetta becera degli insulti, del disprezzo per l’altro, delle aggressioni al citofono, amplificata dalla Bestia della propaganda leghista. Così che, in Emilia Romagna, la vittoria dell’educazione civica sulla maleducazione sovranista non fece altro che preannunciare il risultato elettorale di qualche settimana dopo. Pazienza se alla fine la dispersione del movimento dovesse coinvolgere solo i destini personali dei leaderini, forse troppo presto innalzati nel pantheon del Cambiamento e della Speranza. Sono giovani e svegli, e non mancheranno loro offerte dalla politica che vuole rifarsi una faccia. Andrà peggio ai tanti che al cambiamento e alla speranza hanno creduto sul serio riempiendo altri luoghi fino alla grande festa popolare di piazza San Giovanni a Roma. Ci hanno creduto ma ora che da un palco televisivo è arrivato il rompete le righe, come potranno crederci ancora?

La storia dell’uomo comincia con la cacciata dal giardino dell’Eden

Tra cambiamenti climatici e nuove epidemie, è particolarmente significativo uno dei testi biblici proposti in questa prima domenica del tempo di Passione (o Quaresima), denominata, secondo l’antica liturgia latina, Invocavit (“Egli mi invocherà e io gli risponderò”, Salmo 91,15). Si tratta del racconto di Genesi 3 che illustra la disubbidienza di Adamo ed Eva (cioè dell’umanità) nel giardino dell’Eden. Un racconto coerente con la mentalità e la comprensione che ne aveva l’antico Israele e che viene messo per iscritto per la prima volta probabilmente all’epoca del re Davide (950 a. C.).

Al centro di questo racconto c’è un albero che non può essere toccato, che è tabù: “Del frutto degli alberi del giardino ne possiamo mangiare; ma del frutto dell’albero che è in mezzo al giardino Dio ha detto: ‘Non ne mangiate e non lo toccate, altrimenti morirete’” (versetti 2 e 3). Dentro il giardino dell’Eden c’è un limite oltre il quale non è possibile andare. Perché? Perché è la garanzia che protegge la Terra dai ripetuti assalti dell’umanità che spesso, soprattutto in epoca moderna dato che ne ha gli strumenti tecnici, si eleva su di essa, legifera e domina senza pensare prima alle conseguenze del suo agire. Un limite che ricorda all’umanità che essa stessa appartiene a questa Terra e non ne è padrona, che essa stessa è tratta dalla Terra (Genesi 2: adama = terra; adam = terrestre), che la sua umanità, quindi, è intrisa più di Terra che di cielo.

Le conseguenze di non aver riconosciuto e rispettato questo limite (che per Genesi è “il peccato”) sono la sofferenza del vivere umano (“con dolore partorirai figli”, “mangerai il pane con il sudore del tuo volto”, versetti 16 e 18) e la cacciata dall’Eden (“Perciò Dio il Signore mandò via l’uomo dal giardino d’Eden”, versetto 23). Con questa espulsione comincia la storia umana. Prima la storia non c’era; o meglio, come diceva un grande teologo protestante tedesco-americano del Novecento, Paul Tillich, c’era uno stato di “trasognante innocenza”. Così, come l’espulsione e la separazione dall’utero materno dà inizio alla nostra esistenza storica, l’espulsione e la separazione dall’Eden dà inizio alla storia dell’umanità.

È questa esperienza che costringe l’essere umano a darsi da fare, a scegliere di vivere. Nascono le relazioni, la reciprocità e la creatività, ma anche l’aggressività. La nostra vita incomincia a sperimentare una costante tensione tra il “rimanere” e l’“andare”, tra l’“essere” e il “divenire”, tra il mantenere le antiche abitudini e la necessità di rinnovarle e rinnovarsi. È un processo lungo e complesso, non privo di difficoltà e di nostalgia per quella “trasognante innocenza” che sappiamo di avere perso una volta che abbiamo deciso di vivere.

Per questo siamo tentati di tornare nel grembo materno, nel paradiso dell’Eden, nelle vecchie abitudini e tradizioni. Ma “i cherubini, che vibravano da ogni parte una spada fiammeggiante”, (versetto 24) ce ne impediscono l’accesso e ci costringono a fare i conti con la nostra creaturalità. Il credente della Bibbia, dunque, sa che la vita umana è sotto il segno di questa duplice condanna (sofferenza e separazione), ma sa anche che non per questo è una vita abbandonata a se stessa: “Dio, il Signore, fece ad Adamo e a sua moglie delle tuniche di pelle, e li vestì” (versetto 21). La cura di Dio per l’umanità non finisce, il suo accompagnamento rimarrà costante, anche là dove ci sarà fatica, sudore, sofferenza, separazione, malattia e morte. Anche la relazione con Dio sarà caratterizzata dalla sofferenza e dalla separazione. Lo sapranno e la vivranno Abramo e Mosè, Elia e Giobbe, Isaia e anche Gesù, che arriverà a gridare sulla croce: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Marco 15,34). Sofferenza e separazione, ma anche accudimento e salvezza.

* Già Moderatore della Tavola valdese