Un inverno con tre gradi di troppo: il più tiepido dal 700

In Italia – Nella settimana che ha visto diffondersi il Coronavirus anche da noi, il vento da Nord-Ovest quanto meno ha ripulito l’aria dall’inquinamento, e dal Piemonte al Veneto le Pm10 sono scese sotto la soglia critica di 50 microgrammi al metro cubo. Ancora anomale le temperature, primaverili a causa del foehn: surreale atmosfera lunedì 24 febbraio, con 25 °C a Domodossola e nel Varesotto, e 25,8 °C ad Aosta, record per il mese nella serie dal 1974. Poi il fronte freddo nord-atlantico di mercoledì ha bruscamente riportato i termometri alla normalità con un tracollo anche di oltre 20 °C, temporali e grandinate precoci e copiose al Nord-Est, come a Udine. Giovedì, 15 cm di neve, normali a fine febbraio, hanno imbiancato il fondovalle aostano, dove solo tre giorni prima si stava in mezze maniche; piogge intense in alta Toscana. Ma per le statistiche della stagione i giochi ormai erano fatti: con quasi 3 °C di troppo, al Nord-Ovest l’inverno 2019-20 si è chiuso ieri come il più tiepido da quando esistono le misure meteorologiche, a Torino dal 1753. All’osservatorio di Pontremoli (Massa-Carrara) sono rimasti invece insuperati i precedenti primati degli inverni 2006-07 e 2013-14, ma la sostanza non cambia: il riscaldamento globale galoppa.

Nel mondo – Notizie analoghe arrivano anche dal resto d’Europa. Inverno più mite nella serie dal 1900 in Francia, dal 1874 in Danimarca, dal 1756 a Stoccolma (con circa 6 °C sopra media, e 1,1 °C di distacco dal vecchio record dell’inverno 2007-08) e in una quarantina di altre località svedesi, in seconda posizione in Austria e in Germania dopo il caso del 2006-07. Caldo record tra domenica 23 e lunedì 24 febbraio in Francia, massime di 19,8 °C ad Annecy e 25,1 °C a Nîmes. In pianura la neve quasi non si è vista, e a Belgrado un’imbiancata è giunta tardivamente mercoledì 26. Le continue burrasche oceaniche d’altra parte hanno scaricato ingenti precipitazioni sul Nord Europa, spesso in forma di pioggia anziché neve: 158 mm nel trimestre a Kiruna (Lapponia), mai così tanto dal 1898. Nel Regno Unito, finito un febbraio tra i più bagnati da sempre (tre volte la piovosità media in Inghilterra nord-occidentale), i suoli non ce la fanno a ricevere altra acqua, e gli scrosci della tempesta “Jorge” stanno causando nuove inondazioni dopo che già nei giorni scorsi era straripato il fiume Severn (livello di 5,48 metri a Bewdley, a pochi centimetri dall’evento storico del novembre 2000); esondato anche lo Shannon in Irlanda. Colpita da alluvioni pure l’Indonesia, oltre 35.000 abitanti evacuati nell’area di Giakarta, e nove vittime, mentre una straordinaria “calima”, tempesta di polvere sahariana, ha invaso le Canarie nello scorso weekend bloccando il traffico aereo e conferendo all’atmosfera un aspetto marziano. Domenica 23 una valanga di ghiaccio e roccia da 400.000 metri cubi, staccatasi dal Nevado Salkantay (6271 m, Perù), ha fatto traboccare il lago Salkantaycocha scatenando un’alluvione a valle (Glof, Glacial Lake Outburst Flooding), a pochi chilometri da Machu Picchu: almeno 4 vittime e 13 dispersi. Bufere di neve intorno ai Grandi Laghi a fine febbraio, ma in quest’inverno, finora, Philadephia non ha ricevuto che 1 cm di manto, e peggio di così andò solo nel 1973. Il rapporto “A future for the world’s children?”, diramato dall’Oms, dall’Unicef e dalla rivista medica The Lancet, denuncia l’insidia costituita da cambiamenti climatici, degrado ambientale, malnutrizione, conflitti e migrazioni per i bambini soprattutto di Paesi dal Mali alla Somalia, su cui ricadono gli effetti delle emissioni-serra delle nazioni ricche. Il Coronavirus non va sottovalutato, ma non dimentichiamo altre minacce ancora più minacciose anche se dallo sviluppo in apparenza più lento.

Coronavirus, la paura della paura

Una influenzina si aggira per l’Italia, per l’Europa e sconvolge il mondo. Forse è un male di stagione, forse è una epidemia, forse è una pandemia. Lascia poche vittime nelle corsie degli ospedali specializzati e rigorosamente isolati (troppo isolati, una follia, qualcuno ti dice). Ma, predicono altri che sembrano altrettanto informati, potrebbero fare molte più vittime, anzi tenetevi pronti al peggio, non vedete i segni?

Una regione, la Lombardia, chiude tutto, facendosi criticare per il pessimismo, e subito si ammala l’assistente del presidente, e il presidente, che pure sta già celebrando la ripresa di Milano, decide di comparire con la mascherina anti-infettiva davanti ai suoi elettori. Dalla rete si ride di chi chiude fiere, ristoranti, teatri e negozi. E si insultano coloro che con deliberata negligenza lasciano passare l’infezione per non disturbare gli affari. Ti domandano se non c’è un governo e la risposta è: sì c’è, ma ha di fronte una strada vuota, senza precedenti o modelli del che fare. E ha, alle spalle, consulenti che, a ogni infuriata reazione di folla (la parte che dice “influenzina”) fanno un accenno di passo indietro e professano comprensione. E l’opposizione, c’è una opposizione? Certo che c’è, con una precisa e appassionata missione: dichiarare delitto economico contro l’Italia ogni precauzione (che naturalmente ferma viaggi, eventi, arrivi di persone e versamenti di danaro nel gigantesco shopping di cui beneficia in tempi normali l’Italia). E dichiarare delitto sanitario contro l’Italia ogni allentamento delle precauzioni elencate qui sopra, e di altre che, in un altro momento, erano sembrate eccessive.

La situazione italiana è però complicata da altri fattori. Il primo è il giornalismo molle. Appena il pericolo è stato fatto notare con vigore dai medici, i giornali hanno sentito subito il dovere di usare una titolazione allarmante, in modo da far capire che da un evento così non si sfugge tanto facilmente, richiede mano ferma. Ma quando l’opinione pubblica (settore “influenzina”) ha alzato la voce per dire che non si poteva trasformare l’Italia in un lazzaretto e non si doveva screditarla nel mondo come “infettiva”, i titoli dei grandi giornali ci hanno subito annunciato che “Milano riapre”, “L’Italia riparte”, “Torna la fiducia” e persino che “I due cinesi sono guariti”. Occorre osservare che il comportamento di coloro che intendono risolvere un dramma aggiustando le notizie, in Italia è strettamente “bi-partisan”. Tanto che lo stesso giorno Salvini riusciva a dire la stessa rassicurante affermazione di Conte – “Stiamo per farcela” – ma intesa come insulto al governo e trionfo della creativa visione leghista che non cede alla paura.

Quanto alla libera rete di destra, visto che la sinistra sembra impegnata per una volta a riparare la barca, ha scelto la risata. Circolano con successo le prese in giro delle misure “tampone” (“per forza, se fai il tampone a tutti, qualcuno ci casca”), delle misure “isolamento” narrate come fantascienza e delle pratiche prima consigliate e poi sconsigliate dagli esperti, tipo guanti, mascherine e continua disinfezione. Dunque se appaiono deboli gli anticorpi fisici degli italiani, appaiono deboli anche gli anticorpi politici e quelli mediatici. Alzi la testa dal feroce campo di battaglia “influenzina vs. pandemia” e ti accorgi del rischio che stiamo correndo.

Coloro che hanno davvero paura e coloro che sghignazzano su questa paura, una contrapposizione culturale un po’ misteriosa che non corrisponde esattamente a “governo” e “opposizione”, ma anzi mischia le carte: si fanno vivi, oltre che in rete, in Parlamento, e possiamo ascoltarli nelle trasmissioni di Radio Radicale. Potete seguire l’oratore o l’oratrice lungo i sentieri di un libero fantasticare. Come si vede, qualunque cosa sia “Coronavirus”, la vera paura non sta nella natura ancora non chiarita del male, mite e sfuggente, da cui si guarisce però si ricade (fatto raro) e a causa del quale si muore – ti rincuorano – solo se vecchi. La vera paura sta, almeno in Italia, nella accanita lotta fra i seguaci di due virus. Uno si cura chiedendo che tutti si mettano insieme in un governo unico forte, virile abbastanza da buttare via l’amuchina e affidarsi al libero scambio. È un sovranismo senza frontiere dove poi, tornata la pace, celebreremo i caduti del Salone del Mobile. Tutto, ma mai spaventare clienti e turisti. L’altro impone limitazioni e disagi e insiste alla vecchia maniera nel seguire i soli percorsi noti della medicina: lavarsi le mani, evitare la folla, chiudere momentaneamente le scuole e, se necessario, accettare la noiosissima quarantena. È qui che si gioca il nostro destino: chi vincerà, i sovranisti socievoli che brindano alla rinascita di Milano, anche se il governatore indossa la mascherina, o il ministro della Salute che suggerisce di fidarsi di virologi di competenza mondiale e dei medici di famiglia? Come vedete siamo tornati in pieno alla brutta e pericolosa guerra dei vaccini.

Giornali e Matteo lodano Eni, altra tegola su Descalzi alla Camera

“Descalzi è stato nominato per la prima volta quando a palazzo Chigi sedeva Renzi, con grande indignazione del M5s, che fece fuoco e fiamme; sembra che queste critiche siano ora state messe a tacere, e che sia sufficiente la svolta ‘green’ che Descalzi potrebbe dare all’Eni”. Dopo quella di Rossella Muroni, di Leu, arriva una seconda interrogazione parlamentare che potrebbe complicare la riconferma di Claudio Descalzi all’Eni. L’ha presentata il deputato Gregorio De Falco, ex M5s ora passato al gruppo misto.

De Falco chiede al premier e al ministro dell’Economia Gualtieri “se non ritengano di evitare la nomina di persone su cui si addensano ombre di condotte non certo eticamente commendevoli”, visto che Descalzi è imputato per corruzione internazionale e che società riconducibili alla moglie hanno avuto 300 milioni di appalti da Eni. Nel frattempo Descalzi prosegue la campagna di comunicazione, ieri ha invaso tutti i giornali – ricoperti per mesi di pubblicità – per presentare i conti e l’ennesima svolta “green”. Di inchieste e conflitti di interesse non si parla (giusto un accenno su Repubblica, per ribadire la propria correttezza). “Eni ha fatto un lavoro straordinario”, ha detto Renzi

Le bufale di Palazzo Chigi per avere l’Air Force Renzi

Con grande sprezzo del pericolo a Palazzo Chigi sfidarono perfino l’evidenza per assecondare Matteo Renzi che voleva a tutti i costi il suo aereo di Stato, l’Airbus Etihad A340-500. Il compito ingrato fu svolto da Claudio De Vincenti, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, stretto collaboratore di Renzi. L’11 settembre 2015 De Vincenti scrisse una sorprendente letterina alla ministra della Difesa e collega di partito Pd, Roberta Pinotti, per indurla a sponsorizzare l’aereo.

Alcuni giorni fa il Fatto ha dato notizia di questa missiva e ora è in grado di svelare tutte le gravi incongruenze che essa contiene. Il primo ad accorgersi di questa sfilza di inesattezze tecniche e a segnalarle alla Guardia di Finanza insieme ad altri documenti inseriti in un dossier fu il manager aeronautico Gaetano Intrieri, a quei tempi (estate 2018) consulente del ministro dei Trasporti, Danilo Toninelli. Da quelle carte partì l’inchiesta sull’aereo di Renzi della Procura di Civitavecchia ormai arrivata alla fase finale.

Prima inesattezza: De Vincenti sostiene che gli A319 della flotta di Stato sono vecchi e costosi, quindi vanno sostituiti con un moderno A340-500. La verità è che i 3 Airbus A319 della flotta di Stato furono acquisiti rispettivamente nel 2001, 2002 e 2005 e quindi hanno all’incirca la stessa età dell’areo di Renzi che è del 2006. I 3 A319 fanno tuttora parte della flotta di Stato come risulta dai registri aeronautici e svolgono egregiamente il loro lavoro. Una differenza profonda tra le due classi di velivoli c’è: mentre gli A319 sono aerei ottimi, premiati da uno straordinario successo commerciale perché consumano poco, l’aereo di Renzi è un bidone succhiacarburante di cui Airbus ha costruito appena 41 esemplari per poi pensionarlo. Secondo argomento inesatto usato da De Vincenti: il sottosegretario fa capire che è necessario un salto di qualità tecnologico e nella sicurezza della trasmissione dati da bordo dell’aereo di Stato e preme perché venga acquisito l’A340-500 che sarebbe un aereo più sicuro dal punto di vista delle comunicazioni. Ma al Fatto risulta che sia il sistema di comunicazione ACARS per i messaggi brevi da aereo a stazioni di assistenza sia SATCOM, che è la rete satellitare più usata dagli aerei per fonia e dati web, non hanno niente a che vedere con il tipo di aereo. I kit di montaggio si adattano sia agli A319 sia all’aereo di Renzi. L’ultimo e sorprendente svarione della lettera di De Vincenti riguarda i costi: ci vorrebbero 200/300 milioni di euro per acquistare l’Airbus A340-500, scrive il sottosegretario. Nello stesso periodo, però, sulla piazza di Londra veniva trattato dalla società di lessor per cui lavora Intrieri, un aereo gemello all’Airbus renziano al prezzo di 7 milioni di dollari, 31 volte meno del prezzo sparato da De Vincenti. Non è ancora chiaro come e perché il sottosegretario abbia potuto inanellare tante inesattezze in una lettera di appena 34 righe. Di sicuro è che De Vincenti scriveva alla ministra della Difesa su mandato di Renzi: “… è intendimento del Presidente del Consiglio garantire al Paese… la disponibilità di un servizio di volo basato su una piattaforma della classe Airbus A340-500”. Sulla genesi delle inesattezze è possibile avanzare solo ipotesi. La prima: non essendo un tecnico del ramo, De Vincenti butta lì quelle righe senza sapere che cosa sta scrivendo. È però difficile che un sottosegretario si esprima senza consultare chi gli sta sopra e i tecnici. Seconda ipotesi: De Vincenti ha sintetizzato ciò che gli veniva chiesto supportandolo con valutazioni tecniche fornite da persone di cui non poteva non fidarsi.

Terza ipotesi: la missiva è classificata “riservata/segreta” e forse il sottosegretario riteneva che mai sarebbe stata resa nota. I pm di Civitavecchia stabiliranno quale ipotesi sia più ragionevole e se ce ne siano altre da prendere in considerazione. La lettera di De Vincenti fu acquisita dai pm il 12 settembre 2018: tre giorni dopo uscì il primo articolo di una campagna di stampa che costrinse Intrieri alle dimissioni. Prima di andarsene, il consulente lasciò copia di quel dossier nel suo ufficio al Ministero. Al Fatto risulta che negli archivi il dossier non c’è più: scomparso.

La strana peste dell’untore globale

Ora che siamo gli untori d’Europa, conviene a giovani – come consiglia qualche saggio Preside – e a vecchi ridurci con il Boccaccio “in luoghi in contado” per distrarci dal contagio e meglio comprenderlo.

Non tanto per vagare nella lunga storia della “morte epidemica” (Tucidide, Boccaccio, Manzoni, Camus, Saramago tra i più noti), ma per osservare quali comportamenti essa secerna nella specie umana: sembra, ad esempio, che sia largamente cresciuta la solidarietà, rispetto ai tempi di Tucidide, che osserva descrivendo la peste di Atene: “Se per timore non volevano recarsi l’uno dall’altro, morivano abbandonati, e molte case furono spopolate per la mancanza di qualcuno che prestasse le cure necessarie; se al contrario si accostavano alle persone, morivano per il contagio, e in particolar modo quelli che cercavano di agire con generosità”. I don Ferrante manzoniani pure sono diminuiti: “Al primo parlar che si fece di peste, don Ferrante fu uno de’ più risoluti a negarla, e che sostenne costantemente fino all’ultimo, quell’opinione; non già con ischiamazzi, come il popolo; ma con ragionamenti, ai quali nessuno potrà dire almeno che mancasse la concatenazione. […] His fretus, vale a dire su questi bei fondamenti, non prese nessuna precauzione contro la peste; gli s’attaccò; andò a letto, a morire, come un eroe di Metastasio, prendendosela con le stelle” (I Promessi Sposi, cap. XXXVII).

Sembrano invece in aumento gli eroi che hanno attraversato impavidi palestre, nevi, jet lag, che hanno difeso il mito produttivo della Cina e vogliono al più presto tornarci; a costoro è difficile – non ne han tempo – far leggere Camus, spiegare che “salute” è bene men duraturo che saggezza, che l’ignoranza è terribilmente contagiosa: “Il male che è nel mondo discende quasi sempre dall’ignoranza, e la buona volontà può procurare altrettanti guasti che la cattiveria, se essa non è illuminata. Gli uomini sono in genere più buoni che cattivi, ma non è qui il problema; essi non sanno, chi più chi meno: ed è ciò che si chiama virtù o vizio, il vizio più disperato essendo quello dell’ignoranza che crede tutto sapere” (La peste). Certo si misura, in queste settimane, lo iato incolmabile – prodotto dalle società del “consumo ubiquo” – che c’è oggi tra l’individuo, un essere ormai senza “geografia propria”, e le nazioni, statiche, che arrancano per chiudere frontiere permeabili e invarcabili solo per chi appartenga alla schiera dei profughi, i soli davanti ai quali possano erigersi barriere. Eppure, curiosamente, il vocabolario che usiamo per il contagio è ancora totalmente geografico, da gioco delle celebri battaglie – mentre tutti schizzano dappertutto – con accerchiamenti, valli, contenimenti; mentre esso è più strisciante – e sempre più prescinde da focolai riconoscibili – tanto che meglio lo si descrive con il visionario Cecità di Saramago: “Ed era arrivato alla conclusione, dopo cinque minuti a occhi chiusi, che la cecità, senza alcun dubbio una terribile disgrazia, avrebbe comunque potuto essere relativamente sopportabile se la vittima di una simile sventura avesse mantenuto un ricordo sufficiente, non solo dei colori, ma anche delle forme e dei piani, delle superfici e dei contorni, supponendo, è chiaro, che la suddetta cecità non fosse di nascita. Era arrivato persino al punto di pensare che il buio in cui i ciechi vivevano fosse in definitiva soltanto la semplice assenza di luce, che ciò che chiamiamo cecità fosse qualcosa che si limitava a coprire l’apparenza degli esseri e delle cose, lasciandoli intatti al di là di quel velo nero. Adesso, però, si ritrovava immerso in un biancore talmente luminoso, talmente totale da divorare, più che assorbire, non solo i colori, ma le stesse cose e gli esseri, rendendoli in questo modo doppiamente invisibili”.

Non siamo, bene inteso, a questo punto: ma è bene immaginare i comportamenti di una società ove i contagiati fossero più numerosi di quelli reputati sani: la scissura tra “intatti” e malati cadrebbe, dovrebbero immaginarsi tante forme intermedie di ausilio “impuro”, uscendo dall’improprio affanno di isolare l’untore. Queste accelerazioni di contaminazioni reciproche mostrano bene che l’ultima forma dell’utopia del “falansterio” è proprio il “lazzaretto” del corpo malato del mondo e della natura che ci avvolge. Il groviglio infausto delle megalopoli che abitiamo è stato ben descritto da Calvino nelle Città invisibili, in quella Leonia che è il nostro presente: “Il pattume di Leonia a poco a poco invaderebbe il mondo, se sullo sterminato immondezzaio non stessero premendo, al di là dell’estremo crinale, immondezzai d’altre città, che anch’esse respingono lontano da sé le montagne di rifiuti. Forse il mondo intero, oltre i confini di Leonia, è ricoperto da crateri di spazzatura, ognuno con al centro una metropoli in eruzione ininterrotta. I confini tra le città estranee e nemiche sono bastioni infetti in cui i detriti dell’una e dell’altra si puntellano a vicenda, si sovrastano, si mescolano”.

L’epidemia di Coronavirus non può essere disgiunta da altre epidemie, solo perché queste ultime sono (per ora) circoscritte tra i reietti: la mancanza d’acqua o la pozzanghera infetta; né, per converso, la caccia al rifugio sarà mai sicura perché, appena trovato, arriverà – anzi è già arrivato – quell’ “altro me stesso” più veloce, avido di “paradisi artificiali”. Pochi sono gli aggiramenti, a parte quello, tanto squisitamente italico, dell’ironia: “Essere superstiziosi è da ignoranti, ma non esserlo porta male” (Eduardo De Filippo). La prima cura, forse, non è quella di cercare le “radici del male” (su cui ha meditato Bronisław Baczko in Job, mon ami; trad. it. Roma, Manifestolibri, 2000); bensì la fatica di assumere che il contagio non finirà presto, così da agire instancabili e rassegnati, fermi e privi di illusioni come i medici della Peste di Camus, nonché la maggior parte dei nostri medici: “E se si annunciava loro un buon risultato, davano a vedere d’interessarsi, ma accoglievano la notizia con quell’indifferenza distratta che si immagina propria dei combattenti delle grandi guerre, dediti soltanto a non cedere nel loro dovere quotidiano, non sperando più né nell’operazione decisiva né nel giorno dell’armistizio”. Ecco, il vero problema oggi – già segnalano i virologi più attenti come i sociologi meno incantatori – di fronte ai costanti “peggioramenti”, dal clima alle epidemie, è proprio di decidere quale consideriamo per noi essere la “tregua”.

A chi importa se muoiono i vecchi

È evidente che è per pura osservanza liturgica alla statistica che continuiamo a contare i numeri dei morti da Covid-19. Da quando si è imposto il protocollo burocratico di “non alimentare la psicosi” sottolineando l’evidenza che a morire sono più che altro gli anziani (con o senza malattie pregresse), ci siamo rincuorati con letizia.

L’unico studio pubblicato, cinese, rivela che del virus che ha fatto finora 2.933 morti le persone sopra gli 80 anni hanno il 24,8% di probabilità di morire, quelli tra i 70 e gli 80 anni l’8%, e giù a scendere.

La regola così placida e rasserenante che ci si ammala gravemente e si muore solo se si è vecchi è contraddetta da alcune evidenze (in Cina, medici morti nel pieno della maturità; in Italia, il 38enne di Codogno sano e sportivo intubato in condizioni gravi); e dentro questi dati, e dentro quelli futuri relativi a Paesi dove non c’è la Sanità pubblica e gratuita (pensiamo agli Usa), bisognerebbe discriminare tra gli anziani che guariscono perché in grado di pagarsi le cure e quelli che muoiono per strada, come alcune immagini dalla Cina già testimoniano. Ma è significativo che il sistema dei media e quindi il discorso pubblico si sia subito adeguato a questo nuovo linguaggio: i morti non vengono più indicati come “persone” o “vittime” da Covid-19, ma come “anziani”, come si trattasse di una categoria a parte e tutto sommato trascurabile.

Il Capo della Protezione civile Borrelli ha detto in più occasioni: “Erano ultra settantenni malati”. Non è il caso di farla troppo lunga: sarebbero morti lo stesso, un destino a cui evidentemente qualcuno sente di poter sfuggire.

Il sospiro di sollievo stride col fatto che la nostra è una società che invecchia progressivamente: i 37 miliardi sottratti alla Sanità pubblica in dieci anni e i 5 milioni di poveri sono indicatori rilevanti in questo avvilente conteggio di morti alla spicciolata, che magari, fossero stati più in salute, non sarebbero morti.

Nell’Occidente moderno ai vecchi è toccato un destino crudele: dall’eliminazione degli improduttivi sterminati dai nazisti insieme ai disabili col programma di eugenetica Aktion T4, si è giunti all’etica-estetica pubblicitaria che vuole gli anziani performanti, giovanili, e dunque in grado di lavorare (la maggiore considerazione cosmetica si paga con l’alta età pensionabile), salvo poi oltraggiarli come parassiti che “ci hanno rubato il futuro” e gioire se a morire per il virus sono più che altro loro.

Questo nichilismo forse ci aiuta a farci sentire al sicuro nell’emergenza, protetti dalla biologia e dall’anagrafe; ma certo non ci salverà nel lungo termine.

Mortalità all’1%: forse Covid-19 è meno letale di quanto appare

Quanto è davvero letale l’epidemia causata dal Coronavirus-19? È la domanda che le autorità di tutto il mondo si stanno ponendo da settimane. I decessi, mostrano le prime stime, sarebbero inferiori all’uno per cento, meno di un’influenza stagionale. A dirlo sono i ricercatori del Centre for Global Infection MRC all’Imperial College di Londra con un report da poco pubblicato. I risultati suggeriscono anche che nelle prime settimane dall’origine dell’epidemia, il numero dei contagi effettivi nella provincia cinese di Hubei potrebbe aver superato il milione. Sebbene, avvertono i ricercatori, le stime ottenute attraverso modelli matematici dell’epidemiologia siano ancora preliminari e conservino un ampio margine d’errore.

Il parametro per valutare la gravità di un’epidemia è la percentuale di decessi sul numero di contagiati. Sembra facile, invece è un calcolo complesso e soggetto a errori. Le nazioni si organizzano in modi diversi per stabilire chi sottoporre al tampone, via via che il timore di una pandemia cresce, anche in base al carico che i sistemi sanitari si trovano a dover gestire. Nel caso siano nelle aree dove ci sono grossi focolai (come a Wuhan, in Cina) oppure no. In più, utilizzano criteri diversi per diagnosticare i casi di contagio.

I ricercatori hanno stimato la percentuale di mortalità su 3 diverse sotto-popolazioni di persone notificate come contagiate in diverse aree del mondo, dall’inizio dell’epidemia alla prima settimana di febbraio. Il primo gruppo riguarda i casi di contagio riportati nella provincia di Hubei in Cina (dove l’epidemia ha avuto origine e si sono verificati i focolai più importanti) fino al 5 febbraio scorso. Qui la percentuale di mortalità fino a quel momento appare altissima, il 18%. Stimano anche che durante le prime settimane, in Cina, per selezionare i casi da ammettere al controllo col tampone, si dava priorità ai pazienti con polmonite grave. Quindi le statistiche non includono probabilmente un gran numero di contagiati con sintomi lievi. I ricercatori stimano che solo 1 su 19 dei reali contagi nell’area di Hubei sia stata notificata fino al 5 febbraio. Il che significherebbe che almeno un milione di contagiati mancherebbero alla conta. “È un dato che non stupisce – spiega Pierluigi Lopalco, epidemiologo all’Università di Pisa –. Si tratta di dati relativi alle primissime settimane, quando ancora non erano state prese misure di contenimento drastiche come invece poi hanno fatto i Cinesi. Poi bisogna considerare che i casi che vengono notificati in un certo momento, in realtà si sono contagiati circa due settimane prima di essere scoperti, per via del tempo di incubazione”. Quindi il report, con i dati fino alla prima settimana di febbraio, fotografa la situazione nella provincia di Hubei prima che venissero messe in atto misure di contenimento.

“Sappiamo che in assenza di misure di contenimento, il numero di contagiati raddoppierebbe ogni due giorni. pertanto, nell’area di Hubei, che conta circa 60 milioni di persone, è facile raggiungere il milione di contagiati nelle prime settimane. Ora – spiega ancora Lopalco – sappiamo che, dopo le misure di contenimento adottate a Wuhan, che sostanzialmente obbligano la popolazione a non uscire di casa, la situazione è cambiata”.

Il secondo gruppo di persone analizzate dai ricercatori dell’Imperial College di Londra, riguarda cittadini fuori dalla Cina che hanno viaggiato da o verso la Cina fino all’8 di febbraio. Persone che sono state sottoposte a tampone in paesi diversi da quello asiatico dove sono stati ammessi al test per il Covid-19 non solo i pazienti affetti da polmonite, ma anche quelli con sintomi lievi e che hanno compiuto di recente un viaggio in Cina. Lo stesso vale per il terzo gruppo, quello dei rimpatriati dalla Cina verso il Giappone e la Germania, dove il tasso di mortalità appare appena dello 0,5%. In media, dunque, si ha l’1% di mortalità per tutti i casi di contagio notificati nel mondo ai primi di febbraio. “Il tasso di letalità di Wuhan non ci dice nulla su quello in Italia o altrove – sottolinea Lopalco – Questa discussione non ci dà l’informazione che serve per valutare la gravità dell’epidemia. Il numero a cui dobbiamo guardare è quello degli ospedalizzati in terapia intensiva, perché ci dice quanto è realmente grave la situazione. Le morti dipendono anche dall’efficienza del sistema sanitario. Per questo è necessario investire, anche in Italia, in ulteriori posti letto per la terapia intensiva”. E concentrarsi sulle indicazioni che vengono degli infettivologi per ridurre il numero di persone che un singolo paziente contagiato è in grado di infettare. Stando agli ultimi risultati, in Italia è intorno a 2,6. “Bisogna riportare quel numero a uno”, conclude Lopalco. A quel punto l’epidemia si arresterebbe.

Il virus fa sparire il privato, ma il Ssn è stato massacrato

C’è un fantasma che s’aggira nel dibattito sul Coronavirus: è il Servizio sanitario nazionale (Ssn). Avete notato? La risposta all’emergenza, la gestione delle cure ospedaliere e per chi è isolato a casa, più in generale la risposta alla popolazione: tutto è affidato alla sanità pubblica, del privato non c’è traccia, non serve, sta per conto suo. Forse è allora il caso di ripensare, proprio alla luce del coronavirus, le scelte politiche fatte negli ultimi dieci anni sul Ssn: minori finanziamenti, prestazioni orientate al “mercato”, meno presenza territoriale senza sviluppare forme di assistenza alternative, grande spazio lasciato al privato. I dati che leggerete qui di seguito vengono da due report del 2019: Lo stato della sanità in Italia dell’Ufficio parlamentare di bilancio (Upb) e Il definanziamento 2010-2019 del Ssn della Fondazione Gimbe.

Partiamo da una domanda: come sta la sanità pubblica? Bene, ma non benissimo. Bene, perché il nostro Servizio sanitario è universale, nella media (ma le medie si sa…) discretamente efficiente e meno costoso di “altri sistemi, basati su mutue e assicurazioni pubbliche (Francia o Germania) o su una preponderanza del privato (Usa)”. D’altra parte, i tagli di questo decennio hanno comportato “conseguenze sull’accesso fisico ed economico (alle cure, ndr), soprattutto durante la crisi, e uno spostamento di domanda verso il mercato privato”, scrive l’Upb, che in prospettiva può mettere a rischio l’universalità del servizio.

I soldi. La Fondazione Gimbe ha calcolato che “nel decennio 2010-2019 tra tagli e definanziamenti al Ssn sono stati sottratti 37 miliardi di euro”. Detto in altro modo, “il finanziamento pubblico del Ssn è aumentato complessivamente di 8,8 miliardi, crescendo in media dello 0,9% annuo, tasso inferiore a quello dell’inflazione media annua pari a 1,07%”. Tradotto: anche se apparentemente la spesa cresce in termini reali (cioè tenuto conto dell’aumento dei prezzi) si tratta di un taglio. L’anno della svolta, ci dice l’Upb, è il 2011: da allora la spesa sanitaria sale meno dei prezzi. E qui va ricordato che l’inflazione del settore “sanità” è assai più alta di quella calcolata per le famiglie: un’indagine della Camera nella scorsa legislatura stimò al 2% annuo solo quella per la tecnologia farmaceutica.

E gli altri? Scrive l’Upb: “Il Ssn spende in media 2.545 dollari per ogni cittadino, un importo molto lontano dai 5.289 dollari della Norvegia e dai 5.056 della Germania (gli 8.949 dollari degli Usa includono la spesa delle assicurazioni individuali obbligatorie)”. Per la Fondazione Gimbe, la crescita della spesa pubblica sanitaria in Italia nel decennio è la più bassa dell’Ocse tolte Grecia e Lussemburgo. Anche in rapporto al Pil la spesa pubblica in Italia è inferiore alla media Ocse.

Le due vittime. I due settori più colpiti dai tagli sono i posti letto ospedalieri e il personale. Calcolandoli ogni mille abitanti, ad esempio, i posti letto negli ospedali sono passati “da 3,9 nel 2007 a 3,2 nel 2017 contro una media europea diminuita da 5,7 a 5”, scrive Upb, che nota: “A causa dell’insufficienza dei servizi territoriali e della ridotta disponibilità di posti letto si è determinato un problema di affollamento e difficile gestione dei servizi di emergenza, soprattutto nelle grandi città e in alcune stagioni dell’anno”. Quanto al personale: i dipendenti a tempo indeterminato del Ssn sono diminuiti in dieci anni di 42.800 unità (scarseggiano soprattutto gli infermieri). Col blocco dei contratti, è un taglio “in valore assoluto di 2 miliardi tra 2010 e 2018”. La conseguenza è stata “una dilatazione degli orari di lavoro” che, insieme ad altri fattori, “ha alimentato il disagio nel personale”. Il blocco del turn over infine ha comportato un aumento dell’età media: “Da 43,5 anni nel 2001 a 50,7 nel 2017”.

Spesa privata. L’Upb: i ticket e altre forme di “compartecipazione alla spesa” hanno aumentato “la quota di cittadini che hanno rinunciato a visite mediche per il costo eccessivo, passata, secondo Eurostat, dal 3,9% nel 2008 al 6,5 nel 2015”. Calcolando solo il 20% più povero si passa “dal 7,1% nel 2004 al 14,5 nel 2015”. Nel frattempo la spesa privata per la salute “aumentava in media da 710 dollari pro capite a 776 (dal 2,1 al 2,3% del Pil)”.

Due Ssn. Sono “ampi i divari territoriali che mettono a rischio l’erogazione dei Lea (livelli essenziali di assistenza) sul territorio”. Ad esempio nessuna Regione del Sud assicura i Lea (ma neanche Lazio, provincia di Bolzano, Valle d’Aosta e, per la prevenzione, Friuli Venezia Giulia). “In Italia le differenze dovute a variabili socio-economiche sono superate da quelle geografiche”. Insomma, chi sta messo peggio sono i poveri del Sud. Le mancanze in alcune zone, però, si riflettono su tutto il Paese, perché anche i malati viaggiano: la “mobilità sanitaria interregionale”, grazie ai rimborsi che comporta, sposta fondi dal Centro-Sud verso il Nord, in particolare Lombardia, Emilia-Romagna e Veneto (1,2 miliardi nel 2017 secondo la Fondazione Gimbe). Questo, oltre a spostare ricchezza verso chi non ha bisogno, crea un anomalo affollamento in alcune aree del Paese.

Rischio dissoluzione. Ticket, lunghe liste d’attesa, mancanza di prestazioni sul territorio tendono “a spostare la domanda verso il privato” e “nello stesso senso vanno le agevolazioni fiscali concesse alle misure di welfare aziendale. Queste misure favoriscono un sistema categoriale-corporativo alternativo al pubblico (…) Assecondare questa tendenza e continuare nella compressione del finanziamento del Ssn potrebbe mettere in discussione l’universalità del sistema”. E poi? “Nel medio-lungo periodo il mercato privato tende a farsi più aggressivo, sfruttando i margini di prezzo resi disponibili”. E se non avete capito pensate alle mascherine o all’Amuchina.

“Tra dicembre e gennaio più polmoniti anomale”

Se da un lato l’emergenza sanitaria è da nove giorni una continua rincorsa, dall’altro la ricerca prosegue h 24 per capire meglio e di più Sars Cov 2, il virus che provoca il Covid-19. L’ospedale Sacco di Milano è in prima linea. La professoressa Maria Rita Gismondo qui dirige il laboratorio di microbiologia, virologia e bio-emergenze. A più di una settimana dall’epidemia non ha dubbi: “Nel nostro Paese il virus si è diffuso in modo silente almeno dall’inizio di gennaio”. Il che non esclude una presenza anche a dicembre. “E questo è il motivo – spiega – per il quale ancora non è stato trovato il cosiddetto paziente zero”, la cui identità e dislocazione si perdono in un periodo di tempo molto più vasto dei primi giorni di febbraio, quando, secondo le testimonianze, il paziente uno ha cenato un paio di volte con un amico rientrato da Shangai il 21 gennaio scorso e poi risultato negativo al doppio tampone. Insomma, se, come illustra un nuovo studio dell’università Statale di Milano e del Sacco inviato all’Oms, in Cina il Sars Cov 2, dopo il passaggio dai pipistrelli all’uomo, ha iniziato a girare tra ottobre e novembre, appare ragionevole ipotizzare che molti casi di polmonite verificatisi in Italia e nella zona del Basso Lodigiano già dopo Natale possano essere contagi concreti da Covid-19. Molti di questi episodi sono stati ricordati nei giorni scorsi da alcuni medici di base che hanno anche sottolineato una crescita esponenziale. “Certo – prosegue la professoressa – già a fine dicembre noi abbiamo iniziato a lavorare sulla base di strane polmoniti cinesi segnalate dall’Oms”. Approccio scientifico e non di emergenza, visto che in Italia il primo caso conclamato porta la data del 20 febbraio, ore 21 all’ospedale di Codogno. Tra dicembre e gennaio, però, “in Italia molte polmoniti anomale sono state trattate non con la chiave di ricerca del Covid”. Non è un errore si badi. Dice la professoressa Gismondo: “In quel momento avevamo sintomi influenzali simili al Covid, per di più concentrati in un picco stagionale normale”.

In quelle date Sars Cov 2 non era un’emergenza conclamata nemmeno in Cina. Cercare adesso gli anticorpi sui quei presunti pazienti di Covid può essere una strada, spiega Gismondo, “certamente affascinante ma non percorribile ora. Primo perché allo stato non abbiamo una immunologia completa del virus e quindi non sappiamo quanto gli anticorpi resistano nel corpo umano, secondo l’indicazione prioritaria è quella di mappare il viaggio italiano di Sars Cov 2”. Un lavoro decisivo e già molto avanzato. “Oggi ci interessa più scoprire l’itinerario del virus, cosa che stiamo facendo raccogliendo e studiando i genotipi di Cov 2 per fare la sequenza totale del virus e paragonarla con quella messa già in rete dai colleghi cinesi, poi in base alle mutazioni rilevate si traccia la mappatura”. Attraverso questo lavoro di filogenesi e dunque di ricostruzione a ritroso, si capirà, tra le tante cose, se il ceppo lodigiano e quello veneto sono, come pare ormai da giorni, collegati. “È un lavoro utilissimo – dice ancora la professoressa – che bisognerebbe fare certamente a livello europeo, proprio oggi ho lanciato questa proposta ai colleghi di altri paesi e credo che sarà recepita”. Questo permetterà di capire anche se il Sars Cov 2 cinese è identico a quello italiano o se i contagi autoctoni registrati in Lombardia sono frutto di una continua mutazione del virus. “A livello di ipotesi – prosegue la professoressa – la popolazione cinese ha mostrato in questi mesi di contagio una maggiore permeabilità dal punto di vista dei recettori delle vie aeree”, cosa che ha provocato una epidemia di massa soprattutto nell’area di Hubei e nella città di Wuhan. Ora bisognerà capire come reagisce la popolazione italiana a questo nuovo virus. Di certo, conclude la professoressa Maria Rita Gismondo, “tra meno di due settimane sapremo molto di più sul focolaio lombardo”, e cioé quello nato e sviluppato tra le province del Basso lodigiano dove, ad oggi, si concentra la buona parte dei contagi da Covid 19. Le ultime cifre aggiornate ieri dall’unità di crisi di Regione Lombardia parlano di 615 tamponi positivi su un totale di 5.723 (il 12%), mentre sono 256 i pazienti in ospedale, di questi 80 in terapia intensiva, i decessi sono saliti a 23, 4 solo ieri. Cifre importanti che consigliano, ha spiegato ieri l’assessore alla Sanità Giulio Gallera, di adattare un intero ospedale per le persone affette da Covid-19. L’obiettivo è quello di mettere a riparo da un possibile contagio tutti gli altri pazienti già ricoverati.

L’Italia è a 1.128 contagiati. Scuole chiuse in 3 regioni

L’epidemia di Coronavirus ha superato gli 85 mila contagi nel mondo. In Italia, secondo gli ultimi dati forniti ieri dalla Protezione civile si contano 1.128 casi. Di questi, sono 1.049 le persone attualmente infette, 50 quelle guarite e 29 i decessi. Otto le vittime di ieri, record in un solo giorno dall’inizio dell’incubo in Italia: sei in Lombardia e due in Emilia-Romagna, tutte persone anziane con importanti patologie pregresse. Tra i nuovi contagi, sono tre quelli registrati nel Lazio e uno in Calabria, il primo nella regione del Sud.

L’Istituto superiore di sanità ha infatti confermato la positività di un uomo a Cetraro (Cosenza) e della donna di Fiumicino rientrata da Bergamo. Secondo i primi tamponi effettuati dallo Spallanzani, di Roma risultano positivi al Coronavirus anche il marito della donna e uno dei figli. L’intera famiglia si trova ora ricoverata allo Spallanzani dove ieri mattina è stato invece dimesso Niccolò, il diciassettenne di Grado rientrato da Wuhan il 15 febbraio. Bloccato in Cina per la febbre, il ragazzo, tornato in Italia, è risultato negativo ai test e ha terminato il periodo di quarantena. “Ringrazio tutti. Quello che mi sento di dire, avendo vissuto questa esperienza, è che con le dovute precauzioni si possono evitare i contagi”, è stato il primo messaggio di Niccolò appena uscito dal nosocomio romano. “È contento, sono stati 14 giorni duri, ma sapevamo che era assistito e che sarebbe finita bene – hanno riferito i genitori ai cronisti davanti all’ospedale – ripartirà per la Cina appena la situazione sarà tranquilla”.

Ad essere maggiormente colpite dall’epidemia si confermano le regioni Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna con, rispettivamente, 552, 189 e 213 casi. Critica resta anche la situazione nella provincia di Savona, l’unica, secondo il governatore della Liguria Giovanni Toti “su cui bisogna ancora mantenere una stretta osservanza” perché qui c’è “un vero e proprio cluster di contagio”. Intanto è in corso il trasferimento dagli hotel di Alassio delle comitive di piemontesi e di lombardi che verrà completato entro questa sera. A preoccupare i governatori, che oggi si sono riuniti in videoconferenza con il premier Giuseppe Conte, è anche l’emergenza negli ospedali, in particolare quelli lombardi. Per risolvere la pressione sugli ospedali di Lodi e Cremona la Regione Lombardia sta lavorando con il governo per inserire nel decreto, che da oggi prenderà il posto delle singole ordinanze, la “possibilità di assumere pensionati sia medici che infermieri”.

Non ci sarebbe invece un’emergenza di posti letto in terapia intensiva in Emilia-Romagna, secondo quanto riferito dal governatore Stefano Bonaccini che si è detto pronto ad aiutare gli ospedali in difficoltà nelle altre regioni. Ma ad allarmare è anche l’impatto economico che il coronavirus avrà sull’economia italiana: sia per le restrizioni previste dai decreti che per le misure di contenimento dell’epidemia adottate all’estero che penalizzeranno l’export e il turismo del nostro Paese. “Abbiamo bisogno di misure straordinarie, bisogna essere tempestivi ed efficaci”, ha detto l’assessore al Bilancio della Lombardia Davide Carlo Caparini, definendo “insufficienti” le misure prese dal governo.

Capitolo chiusura delle scuole: il problema è stato affronta ieri dal premier Conte nel vertice alla Protezione civile. Continua lo scontro con la Regione Marche e il governatore Luca Ceriscioli che però si arrende: da domani scuole aperte. Il premier invita alla calma: “Il Comitato tecnico scientifico è al lavoro, per le tre regioni interessate adotteremo misure di prudenza che si distingueranno dalle altre”. Il punto è se prolungare ulteriormente la chiusura delle scuole di Lombardia, Emilia Romagna e Veneto: di sicuro i cancelli non si apriranno (almeno) per un’altra settimana, mentre in Liguria le lezioni saranno regolari da domani, tranne a Savona che, come il Piemonte, farà suonare le campanelle solo mercoledì. Decisioni che incontrano il parere favorevole della Federazione medici pediatri. La strada per la normalizzazione, però, è ancora lunga come spiega Silvio Brusaferro, presidente dell’Istituto superiore della sanità: “L’effetto delle misure che sono state adottate la scorsa settimana non si potrà vedere prima di 8-10 giorni, perchè ci vogliono circa 14 giorni per capire l’effetto nel tempo esattamente dato dal tetto di incubazione. Quindi i casi che noi oggi segnaliamo sono casi che molto verosimilmente, nella stragrande maggioranza, hanno contratto l’infezione prima che adottassimo queste misure”.