Una colonna di fumo nero è salita dalla Gare de Lyon nel tardo pomeriggio di ieri, in pieno centro di Parigi: auto, scooter, cassonetti sono stati dati alle fiamme, la stazione dei treni evacuata per metà. I disordini erano attesi tanto che la polizia aveva vietato ogni tipo di raduno intorno all’Arena di Bercy: nel palazzetto dello sport che può accogliere fino a 20 mila persone, si teneva il concerto di Fally Ipupa, star della musica nella Repubblica democratica del Congo. Ma l’artista detto “El Meravilloso”, 42 anni, è anche un noto sostenitore del regime di Kinshasa, vicino al presidente Felix Tshisekedi e al suo predecessore, Joseph Kabila, rimasto al potere dal 2001 al 2019. Ad accogliere Fally Ipupa e i suoi fans c’era la diaspora congolese, un centinaio di oppositori al regime: “Con la loro musica manipolano un popolo intero, mentre sgozzano e violentano donne e bambini. Eppure possono esibirsi in Francia come se niente fosse”, ha detto uno di loro alla France Presse. Una rissa è scoppiata tra campi opposti. Almeno 23 persone sono state fermate. I pompieri sono stati chiamati per spegnere gli incendi. Il concerto è stato mantenuto con stretti criteri di controllo all’ingresso. Fally Ipupa non si esibiva a Parigi da più di dieci anni. Aveva già dovuto rinunciare nel 2011 e nel 2017. Sempre nel 2017 il concerto di un altro musicista congolese, Héritier Watanabe, in programma all’Olympia, sala mitica dei Grands Boulevards, era stato annullato.
“Colpevoli” di aborto Trenta anni di galera se la gravidanza va male
Trent’anni di prigione per omicidio, attualmente scontati, sette. Sara del Rosario Rogel aveva 22 anni il 7 ottobre 2012 quando viene arrestata a seguito di una brutta caduta e in sofferenza ostetrica con conseguente lacerazione e sanguinamento. La polizia la ferma in ospedale per presunto omicidio del feto che portava in grembo. Accusa confermata l’anno dopo, il 12 settembre 2013 dal Tribunale di Cojutepeque, dipartimento di Cuscatlan, El Salvador. In Salvador l’aborto è vietato in ogni sua forma, il che include la spontanea perdita del feto, nel caso in cui, come per Sara, i giudici sospettano che un po’ le donne se lo siano cercato. Ora l’Onu, con il dossier del Gruppo di lavoro sulle detenzioni arbitrarie esige che il Paese di Nayib Bukele abolisca questa pratica “disumana” e liberi le decine di donne in carcere per “interruzione spontanea di gravidanza”.
Perché Sara non è l’unica vittima. Berta Margarita Arana, residente in una zona rurale del Salvador, nessun grado di istruzione, impiegata domestica, nel 2013 soffre un’emergenza ostetrica. Non riesce ad arrivare in ospedale e partorisce in casa. Il giorno dopo, mentre è al pronto soccorso per essere visitata, viene arrestata. Gli agenti sono sicuri che la giovane donna abbia commesso un crimine: tentato omicidio, reato di cui viene ritenuta colpevole anche dal Tribunale di Ahachapan il 2 luglio del 2014 e condannata a 15 anni. Berta è ancora in carcere, anche lei, secondo l’Onu, “privata arbitrariamente della libertà”, essendole stata impedita qualsiasi forma di sconto di pena in virtù delle sue origini e condizioni di donna indigente e per di più proveniente da un altro paese, il Guatemala, senza peraltro documenti. Fattori che secondo l’agenzia delle Nazioni Unite mettono la donna in una situazione di disparità e svantaggio anche più delle altre.
Non va meglio a Evelyn Beatrize Hernandez, oggi in libertà vigilata, che il 6 aprile 2016, all’età di 18 anni, ignorando di essere incinta, ha un aborto. Accompagnata da sua madre al pronto soccorso, “al posto di assisterla dal punto di vista medico, viene arrestata arbitrariamente e accusata di omicidio aggravato”. Giudicata dallo stesso Tribunale di Sara, anche Evelyn viene condannata a 30 anni il 5 luglio del 2017. Ma il tortuoso percorso giudiziario della ragazza non finisce qui. E dopo il ricorso in appello e l’annullamento della sentenza da parte della prima camera penale di Cojutepeque per insufficienza di prove, per Evelyn viene disposto un nuovo processo. Il 19 agosto 2019, lo stesso Tribunale la assolve, ma il 6 settembre la Procura ricorre in appello. La difesa di Evelyn ricusa i giudici, nodo che tuttora è ancora irrisolto. Per l’Onu si tratta “di persecuzione e criminalizzazione ai danni di Evelyn”.
La richiesta delle Nazioni Unite alle Istituzioni salvadoregne è che liberino le donne e le risarciscano per i danni loro arrecati, oltre a svolgere un’inchiesta “esaustiva e indipendente di tutte le detenzioni, perché vengano puniti i responsabili”. Si tratta di una decisione inedita per El Salvador che “rappresenta un precedente”. “È la prima volta infatti – ha spiegato la leader del movimento femminista salvadoregno “Associazione cittadina per la depenalizzazione dell’aborto”, Morena Herrera – che l’Onu si pronuncia con chiarezza circa la condizioni di detenzione di queste donne e le diverse forme con cui vengono violati i loro diritti fondamentali: quali la presunzione di innocenza, il giusto processo e l’equo accesso alla giustizia”.
Secondo l’associazione, dal 1998 al 2019 sono state detenute arbitrariamente 181 donne per ragioni legate all’aborto e a problemi durante la gravidanza. Le denunce contro le donne vengono presentate dai medici per timore di dover rispondere di complicità per averle assistite. “Un sistema fondamentalista”, secondo Herrera perché applicato su donne giovani, vittime di violenza di genere o di povertà.
Capodimonte, il museo diventa un circo texano
Mentre agli Uffizi il direttore tedesco Eike Schmidt chiariva che, in fatto di prestiti, non intende rispettare nemmeno le regole che egli stesso si era liberamente dato, il direttore franco-americano di Capodimonte, Sylvain Bellenger, viola allegramente perfino la legge. Il Codice dei Beni culturali, all’articolo 66, vieta infatti che le opere che appartengono al fondo principale dei musei escano dal territorio della nazione: ed è questo senza alcun dubbio il caso di capolavori celeberrimi come l’Antea di Parmigianino, la Danae di Tiziano, la Pietà di Annibale Carracci, la Giuditta e Oloferne di Artemisia Gentileschi, l’Atalanta e Ippomene di Guido Reni, il San Girolamo e il Sileno ebbro di Ribera. È l’intera identità di Capodimonte: ma nessuno tra coloro che visiteranno il museo nei prossimi mesi se ne potrà accorgere. Perché tutto questo ben di Dio, è appena volato a Forth Worth, Texas: qua, al Kimbell Art Museum, apre domenica Flesh and Blood. Italian Masterpieces from the Capodimonte Museum. Già dal titolo (peraltro di rara volgarità) appare evidente che non si tratta di una mostra, ma di un vero e proprio trasloco di un museo (come quelli che, talvolta, si danno quando un museo è costretto a chiudere per lavori di anni): ed è peraltro la seconda tappa di questa transumanza, visto che molte delle opere sono già state esposte dal 17 ottobre al 26 gennaio scorsi a Seattle. Come un incredibile luna-park della storia dell’arte, il tendone smontato a Seattle si rimonta ora in Texas, con un acrobata d’eccezione giunto da Napoli solo per questa tappa: la Flagellazione di Caravaggio!
Su quest’ultima opera si potrebbe eccepire che non può appartenere al fondo principale di Capodimonte, perché è al museo solo in deposito, appartenendo al Fondo Edifici di Culto del ministero dell’Interno, possessore della chiesa napoletana di San Domenico Maggiore, da cui proviene. È allora interessante ricordare chi sia l’attuale capo del Fec: il solito Eike Schmidt, nominato da Matteo Salvini negli ultimi giorni del Papeete. L’unica volta in cui Salvini si è scordato del suo spaventoso ‘prima gli italiani’ ha fatto questo bel capolavoro: concentrare nelle mani di una sola persona l’incontrastabile potere di prestito del meglio del patrimonio culturale della nazione.
Come sempre, a Napoli, i problemi italiani emergono con evidenza drammatica. E mentre in queste ore si moltiplicano sulla rete le reazioni di sconcerto per la mostra texana, ci si chiede come il comitato scientifico abbia potuto consentire, e come la comunità degli storici dell’arte e degli intellettuali napoletani possa rimanere silente. Sotto il profilo penale c’è da auspicare che la procura di Napoli (guidata da Gianni Melillo, notoriamente assai sensibile in fatto di patrimonio culturale) possa valutare questa arbitraria spoliazione. Ma è evidente che il problema è culturale, e poi politico: davvero pensiamo che una valorizzazione moderna possa consistere in questi umilianti tour da paese straccione, un circo cui nessun museo serio penserebbe mai di potersi ridurre?
“Barbarie nazista”: il tedesco Schmidt in difesa di Marini
Nel giorno in cui sul Fatto lo storico dell’arte Tommaso Montanari (dimessosi nei giorni passati insieme con l’intero comitato scientifico degli Uffizi per via del prestito arbitrario delle gallerie fiorentine del Ritratto di Leone X di Raffaello in occasione della ventura esposizione alle Scuderie del Quirinale) denuncia con rammarico e ricostruzione scientifica l’imminente chiusura a Pistoia della Fondazione-Museo dedicata al pittore Marino Marini, proprio il direttore degli Uffizi Eike Schmidt sposa in qualche modo la medesima causa.
Il direttore tedesco si reca, infatti, nella provincia toscana in occasione del Festival del Giallo, probabilmente accogliendo un invito del sindaco Alessandro Tomasi, eletto da Fratelli d’Italia ma che viene da CasaPound. Dopo essere intervenuto alla cerimonia iniziale della rassegna letteraria, Schmidt visita il Museo Marino Marini e dichiara che quella per mantenere i capolavori del pittore in città “è una battaglia doverosa, che non si può non combattere e alla quale diamo una mano più che volentieri”. Ma poi prosegue con la foga che gli conosciamo usuale: “Strappare le opere di Marino dal museo che porta il suo nome, dove esse dialogano naturalmente con gli affreschi del palazzo storico del Tau in cui sono accolte, è una barbarie paragonabile ai furti d’arte nazisti durante la Seconda Guerra mondiale […]: cioè niente di meno che campagne di spoliazione dei territori delle loro opere”.
Cosa starebbe accadendo? Chiusi i conti bancari a essa intestati e uscita dal circuito dei musei civici, la Fondazione Marini di Pistoia stava abbandonando la città (salvo poi arrivare un vincolo pertinenziale a bloccarla, varato dal soprintendente Andrea Pessina). Tuttavia, sebbene la notizia di una possibile dipartita abbia toccato una certa sollevazione popolare (che ha innescato il sorgere del comitato “Nessuno tocchi Marino”), i vertici della Fondazione hanno fatto ricorso al Tar per il vincolo e sospeso le attività; inoltre, il suo enorme patrimonio parrebbe dover confluire a Firenze nel nuovo Museo Marino Marini che sorge nella Chiesa di San Pancrazio. Se tale transumanza fosse incontrollata, già denunciata dal professor Flavio Fregonzi, si potrebbero aprire scenari di truffe, falsi e attribuzioni farlocche, come ha spiegato Montanari. Da par suo, Schmidt dichiara che la Toscana tutta è ricca di bellezze e opere d’arte che vanno mantenute nel loro genius loci: “Firenze non può rimanere un’isola, occorre fare conoscere ed esaltare i tesori dei territori”.
Alle accuse – non così tanto velate – del direttore degli Uffizi, Patrizia Asproni (presidente della Fondazione Marini San Pancrazio in cui dovrebbe confluire il patrimonio pistoiese) preferisce non rispondere direttamente. “Per correttezza” precisa, poiché “la questione riguarda la fondazione di Pistoia e il suo presidente”. Anche Barbara Cinelli, membro del Consiglio di amministrazione della fondazione di Pistoia, non replica a Schmidt, poiché spiega: “In questo paese c’è libertà di parola, ognuno dice quello che vuole”. In più, “contribuirei soltanto ad aumentare il polverone, e mi sembra ce ne sia già tanto, perché tutti si sentono legittimati a parlare”. E promette che “presto, non appena ci organizzeremo, ci sarà un’altra voce e verrà ascoltata anche l’altra versione, per adesso ci sono state soltanto delle esternazioni e io, invece, non voglio fare delle esternazioni”.
“Temptation Island”, a quando il falò tra Sardine e Benetton?
Qualcuno insinua che siano finite. E invece no, le Sardine sono avanti, bruciano le tappe e risalgono la corrente meglio dei salmoni. Dopo aver detto prima no alla tv, noi andiamo solo nelle piazze, nella vita vera, poi vediamo, in qualche salotto buono sì e in qualcun altro cattivo no, vorrei e non vorrei, adesso nelle piazze si vedono sempre meno, ma in compenso sono andate dalla De Filippi per la prima puntata di Amici. “Faremo qualcosa di forte”, ha assicurato Mattia Santori, ma dopo Fontana con la mascherina è dura fare qualcosa di più forte. Maria, ben contenta di ospitarle nel suo Telepaese dei Balocchi. Forse avrebbe preferito issare Santori e Jasmine Cristallo sul trono di Uomini e donne insieme a Tina Cipollari; avrebbe preferito averli a Temptation Island per un bel falò di confronto con Luciano Benetton. Ma ogni cosa a suo tempo, siamo solo all’inizio, i muri si rompono uno per volta. Intanto, via l’ultimo cartongesso che separava i talent show dai talk show, il sedicente amore per la polis dalla sfrontata esibizione di sé. In questo, bisogna dire grazie alle Sardine: i politici ormai sono tutti “amici di Maria” in pectore, aspiranti cantanti o ballerini. “C’è un problema di rappresentanza” dice Santori, e per risolverlo va da Maria De Filippi, che quei problemi notoriamente li risolve, da Costantino Vitagliano a Gemma Galgani, da Marco Carta a Clizia Incorvaia. Il pane e le rose, si diceva una volta. Ma anche qui le Sardine sono avanti: le piazze e le pedane.
La paura del virus fa più danni dell’epidemia
“Esiste un’unica forma di contagio che si trasmette più rapidamente di un virus. Ed è la paura”.
(Dan Brown)
Con l’arrivo del caldo o del vaccino, quando anche quest’epidemia – come tante altre che l’hanno preceduta – sarà stata debellata, forse riusciremo a riflettere più serenamente su tutti i virus di cui ha rivelato la presenza. Il virus endemico della vulnerabilità e precarietà della condizione umana, innanzitutto. E quindi della paura esistenziale, la paura di ammalarsi e di morire, che si può esorcizzare con la fede o con la ragione. O magari, con tutte e due insieme. E poi, il virus di un Paese sfibrato, insicuro, smarrito; esposto alla psicosi collettiva e al contagio del panico. Diviso fra Nord e Sud, politica e scienza, governo e Regioni, destra e sinistra, maggioranza e opposizione. Un popolo perennemente sull’orlo di una crisi di nervi.
Si può discutere quanto si vuole, allora, sulle responsabilità del sistema mediatico nell’amplificazione e percezione di questo fenomeno. Sull’informazione più o meno corretta. Sull’allarmismo o sul disfattismo di certi titoli di giornale, compilati con la disinvoltura e la spregiudicatezza dei quotidiani sportivi. Sulle notizie false, incontrollate e contraddittorie diffuse in particolare dai social. Sul richiamo alla moderazione rivolto dal presidente Conte alla Rai, un premier che s’è speso in prima persona su tutte le reti giorno e notte, a rischio di alimentare lui stesso la psicosi. Nessuno può sottrarsi a un onesto esame di coscienza, nella consapevolezza che nella nostra società della comunicazione le parole e le immagini volano come bombe a mano.
Ma, prima o poi, tutti i virus vengono al pettine. E dovremo fare i conti perciò con le nostre fragilità, le nostre aspettative, i nostri bisogni. Occorrerà risolvere in primo luogo il nodo del rapporto fra il governo centrale e le Regioni, nel campo della salute come in altri, per superare almeno nelle situazioni d’emergenza quel decentramento e quel malinteso federalismo con cui nel 2001 il centrosinistra riformò improvvidamente il Titolo V della Costituzione, affinché il “principio di sussidiarietà” non degeneri nella pratica dell’irresponsabilità e non inneschi un processo di disgregazione nazionale.
In secondo luogo, bisognerà ritrovare la rispettabilità e l’autorevolezza della politica, come antidoto al populismo, alla demagogia, all’autoritarismo. A cominciare dalla necessità di ristabilire una relazione più autentica e diretta fra elettori ed eletti, rappresentanti e rappresentati, nel segno dell’alternanza e della governabilità. Quella Grande Riforma, insomma, che invochiamo da tempo per ammodernare l’apparato dello Stato e la nostra struttura istituzionale. “Vaste programme”, come avrebbe detto il generale De Gaulle, dopo aver dichiarato “Mort aux cons!”, morte agli idioti.
Vista dall’estero, l’epidemia di coronavirus ha trasformato di colpo gli italiani negli appestati d’Europa. Gli untori di manzoniana memoria, i nuovi monatti. Il nostro è diventato all’improvviso un lazzaretto, un Paese insicuro e pericoloso: tanto da indurre qualche inconsapevole autolesionista a titolare in prima pagina “Italia? No grazie”. Di tutto ciò, risentiranno purtroppo il turismo, l’economia, il lavoro.
Eppure, siamo stati noi per primi a isolare il coronavirus, e ora anche il ceppo italiano, aprendo la strada così alla ricerca del vaccino. E siamo stati noi a guarire la turista cinese, prima malata d’Italia. Ma dobbiamo esserne grati agli scienziati, ai medici, ai tecnici di laboratorio, agli infermieri, agli uomini e alle donne in divisa che sono rimasti in prima linea a proprio rischio e pericolo.
Se ho il covid-19 il mio vicino deve saperlo?
Ci sono due interessi da tutelare nella diffusione delle notizie sui malati di coronavirus. Da un lato il diritto alla riservatezza garantito ai malati e dall’altro il diritto alla salute della collettività che vuole conoscere i rischi di contagio.
In Italia le autorità e i giornali hanno pubblicato iniziali, età, luogo di nascita, residenza e il lavoro dei malati, permettendo di individuarli, come è accaduto per il “paziente uno”. Altre volte hanno pubblicato il nome intero come è accaduto al medico del medesimo paziente uno, ricoverato lui stesso. Anche il Garante della Riservatezza italiano, Antonello Soro, ha ammesso che in casi come questi il diritto alla privacy soffre eccezioni.
Quel che è successo il giorno di San Valentino rende bene l’idea del differente atteggiamento canadese. Il 14 febbraio il sindaco di un paesino del Veneto, pensando di fare l’interesse della sua collettività, ha divulgato in chat nome e indirizzo di una bambina di 8 anni contagiata dal nonno. Lo stesso giorno, il 14 febbraio 2020, una 30enne di ritorno dall’Iran volava da Montréal a Vancouver su Air Canada e poi andava in auto nella regione di Fraser, est di Vancouver. Quando si è saputo che era positiva al virus e che aveva contagiato probabilmente pure un 40enne, le autorità non hanno voluto rivelare i nomi né la città di residenza. Hanno solo avvertito i passeggeri seduti tre file avanti e dietro e l’equipaggio dell’aereo, chiedendo loro di auto-monitorarsi, se lo ritenevano, mettersi in quarantena. Nessun obbligo. Poi le autorità hanno avvertito tutte le scuole di Maple Ridge, Pitt Meadows e Tri-Cities che la trentenne (probabilmente una docente) aveva avuto contatti con persone che frequentavano le scuole di quella zona. A quel punto, i genitori della zona hanno chiesto qualche particolare in più sulle scuole frequentate dai contatti della donna. La dottoressa Bonnie Henry, agente sanitario provinciale, ha risposto che non aveva intenzione di condividere informazioni come quelle sulle scuole frequentate dai contatti della malata. La ragione? “Non dobbiamo perdere la fiducia delle persone che potrebbero non ammettere di essere malate per paura di essere penalizzate”. Le autorità hanno rassicurato tutti sostenendo di avere chiamato “chiunque fosse stato in stretto contatto con la donna di 30 anni”. Tanto basta. “Identificare la scuola potrebbe rendere le persone che la frequentano un ‘target’”.
Quindi non è solo la privacy del malato e dei suoi contatti a essere in ballo – secondo l’impostazione canadese – ma in seconda battuta l’afflusso dei dati da parte dei malati e quindi la corretta informazione sul rischio contagio e alla fine la salute di tutti i cittadini.
Non è solo questa la differenza tra Canada e Italia.
Il monitoraggio del rischio è di fatto “privatizzato” e affidato (complice anche il diverso sistema sanitario) ai singoli cittadini, non allo Stato. Le autorità contattano chi sia stato “in stretto contatto con qualcuno a cui è stato diagnosticato Covid-19” ma poi, come spiega il bollettino della Fraser Health i contatti suddetti, una volta informati, “dovrebbero considerare di rimanere a casa per 14 giorni dopo il loro ultimo incontro” e monitorare da soli la propria situazione. Tutti i cittadini (non solo i contatti del malato, non solo chi è stato in Cina o è in contatto con i cinesi) poi sono invitati a stare a casa con “sintomi come febbre e tosse”.
Tutto è rimesso alla coscienza dell’individuo. Il presunto malato si rivela alle autorità che, in caso positivo, non lo danno in pasto ai media ma si fanno dire i suoi contatti e li raggiungono a uno a uno per consigliare loro di monitorarsi e mettersi in quarantena. In Italia le limitazioni alla riservatezza sono maggiori. Eppure, sarà per la sfortuna o per l’eccesso di zelo con i tamponi, allo stato il Canada, che vanta un’alta popolazione di origine cinese, ha avuto undici casi e l’Italia più di 400.
La Medicina basata su Confindustria
Ci troviamo nella paradossale situazione per cui alle persone comuni – insipienti di epidemie, modelli matematici, profilassi sanitaria e protezione civile – occorre esercitare un surplus di ragionevolezza, mentre la cosiddetta classe dirigente, variamente formata da élite e compagini castali (governanti, virologi, padroni di ogni ordine e grado) si lascia andare all’emotività e si rimangia il giorno dopo quello che ha sostenuto pervicacemente il giorno prima.
Ora, ragionando autonomamente – anche perché se diamo retta a questi, moriamo tutti entro una settimana non di Covid-19 ma di esaurimento nervoso – non possiamo non notare la sterzata comunicativa degli ultimi tre giorni. Al numero crescente di contagiati da Covid-19, prima comunicati dalle Regioni e pubblicati in tempo reale sui siti di informazione, si è sostituto il numero ufficiale dei soli casi gravi; il presidente Mattarella interviene contro “paure irrazionali e immotivate”; Conte arruola consulenti contro la “psicosi”; il Corriere apre col lapalissiano titolo: “Virus, crescono anche i guariti”, che a rigor di logica vuol dire che crescono i contagiati, ma per fortuna non muoiono tutti (non vi sentite già più tranquilli?).
Cos’è successo? A pagina 4 del Corriere ci pare di ravvisare la chiave di “sol” che detta la nuova altezza a cui d’ora in poi andranno uniformate tutte le note sul pentagramma del Coronavirus: i mali del Paese, dice il presidente di Confindustria Francesco Boccia a Federico Fubini, non sono i virus che causano la polmonite e mandano la gente all’altro mondo, ma “il non saper fare sistema, non valutare gli effetti collaterali per l’economia e la società di alcune scelte che facciamo e i danni che subisce l’immagine dell’Italia nel mondo”. A quanto pare il conteggio dei morti e degli intubati ha un po’ stancato, anche perché “l’export e il turismo hanno pesanti contraccolpi”. Seguono strazianti aneddoti: “Lo sa che l’altro giorno un nostro presidente di categoria ha avuto difficoltà a arrivare in un hotel in Germania?”. Non vogliamo nemmeno immaginare il dramma, ma possibile che non ci sia una soluzione? Certo che c’è: “Secondo noi di Confindustria – dice Boccia – bisogna lavorare al più presto alla dotazione infrastrutturale del Paese con regole iper-semplificate”. In effetti, quale migliore momento di un’epidemia per semplificare le regole sugli appalti e mettersi a costruire un po’? (Nota di colore: “basta allarmismi”, tuona il capo di quel Centro Studi che aveva predetto recessione, calo del Pil, disoccupazione e pioggia di locuste nel caso avesse vinto il No al referendum del 2016).
Sopra a Boccia, in alto, c’è un bell’appello con cui un’alleanza di imprese-banche-negozi-sindacati (Abi, Coldiretti e tutti Conf possibili oltre a Cgil, Cisl, Uil) invita il governo “ad abbassare i toni nella gestione dell’emergenza sanitaria”, “disinnescare l’allarmismo” e “tornare alla normalità” e magari, perché no, “cogliere il momento per costruire un grande piano di rilancio degli investimenti nel Paese che contempli misure forti e straordinarie per riportare la nostra economia su un percorso di crescita”. Insomma, una bella pagina del “fare” per sconfiggere la sindrome cinese.
Sarà per questo che quel che era quasi l’Ebola ora è un’influenza banalissima (“Ho preso solo una tachipirina”, testimonia una ex-positiva intervistata) e chi chiede di informarsi disturba, fa salire lo spread, fa crollare la Borsa (per ironia del destino, la parola “spread” indica sia la diffusione del virus che il famigerato differenziale). Insomma, o Confindustria è terapeutica e antivirale, e al posto della Medicina basata sull’evidenza avremo la Medicina basata su Confindustria; o c’è una nuova narrazione che è necessario imporre per non turbare i suscettibili mercati, le cui prefiche sono già al pianto greco demartiniano.
L’incontrovertibile dato che l’influenza normale non stermina interi nuclei famigliari (come ha fatto Covid-19 in Cina) e non manda in terapia intensiva sportivi di 38 anni disturba l’operoso nord, la cui Sanità è all’eccellenza (in passato anche di ruberie, oggi pure di creazione di focolai infettivi), e la capitale morale, dove il sindaco Sala, siccome hanno protestato i baristi dello spritz, ha invitato governo e Regione a emanare un’ordinanza un po’ più blanda: riapriamo tutto, se dobbiamo morire tanto vale divertirsi un po’.
Per carità, forse erano eccessivi quei titoli, allarmistiche le 16 teofanie televisive di Conte in una domenica sola e eccessive le corse al supermercato per accaparrarsi scatolame come sotto i bombardamenti: ben vengano i messaggi tranquillizzanti degli esperti. Solo non vorremmo, ecco, che la salute, diritto fondamentale dell’individuo e interesse della collettività stabilito dalla Costituzione, venisse dopo gli interessi di banche, imprese, padroni e baristi della movida.
Mail box
Panico da infezione: tempi duri per l’informazione corretta
Caro direttore, il virus è in Italia e questo anche grazie alla forte disinformazione che giornali, giornalisti e televisione hanno distribuito allegramente, sottovalutando il problema e arrivando a ridicolizzare chi, invece, temeva che la cosa potesse essere veramente seria. E la cosa non è seria, ma grave. Nella mia vita di ricerca scientifica per anni ho collaborato con i microbiologi ed ho imparato a rispettare e temere i microorganismi. I virus possono essere anche peggiori dei batteri e adesso ne stiamo avendo una dimostrazione. L’ignoranza è una brutta bestia, ma l’ignoranza coniugata alla fede diventa micidiale. Da un punto di vista statistico, chi ha maggiore probabilità di incontrare un soggetto proveniente dalla Cina fra un italiano qualsiasi e un cinese residente in Italia? La risposta è ovvia e il razzismo, tanto invocato dagli stolti, non c’entra nulla. Ma la fede politica oltre che rimbecillire rende cechi. E così, oggi, abbiamo il primo caso conclamato in Italia e altri ne avremo anche perché la popolazione non è stata, evidentemente, resa edotta nel modo giusto: meglio spaventati che malati, o morti. Non spreco altre parole. Se dovessi seguire il mio istinto e la mia rabbia avrei voglia di augurare gli eventuali guai solo a coloro che hanno volutamente sottovalutato il problema, ma del male degli altri non so che farmene anche se una punizione, chi sbaglia gravemente, se la merita tutta.
Marcello Scalzo
L’irresponsabilità mediatica di alcuni nostri politici
Gentile direttore, in questi giorni di grave apprensione per le notizie che ci giungono sulla diffusione, anche nel nostro Paese, del coronavirus, noi cittadini gradiremmo ricevere dai mezzi di comunicazione esclusivamente informazioni e approfondimenti da parte di scienziati e medici in merito alle caratteristiche e all’evoluzione del virus e, soprattutto, sulle misure di prevenzione e di contenimento della diffusione, messe in campo dal governo e dalle autorità regionali e locali. Dobbiamo purtroppo assistere all’ennesima dimostrazione di irresponsabilità politica e pochezza etica da parte di “politici”, quali Matteo Salvini, che non perde occasione per attaccare strumentalmente le misure adottate dal governo e dalla Protezione Civile, al solo scopo di trarre un momentaneo beneficio in termini di sondaggi, diffondendo però sfiducia e panico. In paesi più “civili” del nostro, in circostanze simili è prassi consolidata da parte dei leader dell’opposizione, dare il massimo appoggio e solidarietà al governo impegnato ad intraprendere misure d’emergenza. Povera Italia!
Luigi Alfredo Ferramosca
Il Papa nella terra dei fuochi, un caso senza precedenti
Il Papa sarà nella terra dei fuochi in Campania il 24 maggio, un evento storico senza precedenti, per la delicata situazione di quel territorio. Non possiamo dimenticare le decine di bambini morti di cancro. Abbiamo bisogno di norme più severe e di grande mobilitazione su tematiche come ambiente e salute in questo paese.
Massimo Aurioso
Almeno la Cina investe sulle fonti rinnovabili
La “China Three Gorges New Energy”, compagnia cinese specializzata nello sviluppo di energia pulita, ha avviato la costruzione di 25 centrali a fonti rinnovabili, un investimento di 58 miliardi di yuan (8,3 miliardi di dollari). Gli impianti saranno costruiti in 14 province. L’iniziativa giunge in un momento in cui il paese, colpito dall’epidemia coronavirus, che ha creato un ingente immobilismo produttivo, cerca di riavviare il lavoro, combattendo l’inquinamento. Credo che possa essere un’idea da emulare.
Marco Grasso
Immigrazione, la nuova geografia religiosa italiana
Caro direttore, con i fenomeni migratori in Italia si è sviluppato un pluralismo religioso. I musulmani superano gli ortodossi che sono seguiti dai cattolici giunti da diverse parti del mondo. Meno consistenti numericamente la comunità dei sikh, le comunità buddiste provenienti dai paesi asiatici e la comunità induista. Altre piccole comunità fanno riferimento al nuovo cristianesimo del sud del mondo, di tipo carismatico. Alla rete capillare delle 28.000 parrocchie cattoliche italiane, seguono le parrocchie ortodosse (486 nel 2015); i centri di preghiera musulmani (quasi 800); le comunità ortodosse in Lombardia, Lazio, Veneto,Emilia-Romagna. Nella transizione demografica, da circa mezzo secolo, sta cambiando la geografia religiosa italiana.
B. P.
DIRITTO DI REPLICA
In riferimento all’articolo “Il Mose è al verde: 250 a rischio cassa integrazione” (Il Fatto Quotidiano, 28 febbraio 2020, p.14) l’Autorità nazionale anticorruzione precisa che i commissari straordinari del Mose non sono stati “individuati dall’Anac”, come riportato. L’Autorità, in linea con quanto stabilito dal decreto 90/2014 (art. 32), si è limitata a proporre alla Prefettura di Roma “la nomina di uno o più amministratori straordinari” del Consorzio Venezia Nuova. Senza quindi scegliere i nominativi dei commissari né il loro numero.
Paolo Fantauzzi, portavoce Anac
Il ricorso non è più possibile dopo un decreto di archiviazione
Cara redazione, sulla giustizia leggo sempre con interesse tutti gli interventi o le interviste che fate a Di Matteo, Caselli, Gratteri, Esposito, ecc. Ora vorrei tanto un parere su una questione per me urgente e sulla quale ci sono opinioni diverse: è possibile fare “ricorso in Cassazione avverso un decreto di archiviazione”? Vi sarei davvero grata di una risposta.
Gentile Alessandra, un tempo valeva l’art. 409, comma 6, codice di procedura penale, che ammetteva – in alcuni specifici casi di nullità – il ricorso per Cassazione verso l’ordinanza di archiviazione (fattispecie formalmente diversa dal decreto, ma solo per le modalità con cui si svolge il procedimento). Il comma 6 è stato però abrogato dalla legge 103 del 23.06.2017, la c.d. Riforma Orlando, che nel contempo ha introdotto un nuovo articolo, il 410 bis. Il quale (dopo aver elencato le nullità del decreto e dell’ordinanza di archiviazione) stabilisce che in ambedue i casi si può fare reclamo (termine che sostituisce ricorso) “al tribunale in composizione monocratica, che provvede con ordinanza non impugnabile”. Non impugnabile, vale a dire che ulteriori gradi di giudizio, Cassazione compresa, sono esclusi. Ma non finisce qui.
Lo scopo della Riforma Orlando era appunto quello di ridurre le vie di accesso alla Suprema Corte. Che invece proprio su di un “reclamo” contro un’ordinanza di archiviazione è stata chiamata a pronunziarsi. Si sosteneva che vi era stata una specifica e precisa violazione del diritto di difesa, con profili di possibile illegittimità costituzionale. La VI sezione della Cassazione, con ordinanza n. 17535 del 23.03.2018, ha dichiarato inammissibile il ricorso a essa presentato (pur prospettandone una certa fondatezza nel merito) proprio per il “non impugnabile” dell’art. 410 bis. Ma ha indicato alla persona offesa ricorrente un possibile rimedio nel caso di “difetto di contraddittorio”, e cioè la richiesta di revoca del provvedimento di archiviazione allo stesso giudice che lo ha emesso. Un rimedio, secondo alcuni, di non facile praticabilità in concreto, per cui la strada così tracciata potrebbe anche avere ulteriori sviluppi, fino alla Consulta. Ma allo stato degli atti, direi, adire la Cassazione non è possibile.