Corsa all’Anac, il burocrate Busia sorpassa il pm Tartaglia

Sull’Anac senza guida dalle dimissioni del presidente Raffaele Cantone quattro mesi fa, si sta giocando una partita sottotraccia mentre la politica è affaccendata nell’emergenza coronavirus; negli ultimi giorni si sono impennate le quotazioni di Giuseppe Busia, avvocato, classe 1969, burocrate di lunghissimo corso, da vent’anni dentro il Palazzo: nel 2007 fu nominato da Francesco Rutelli vicecapo di gabinetto al ministero della Cultura. E rischia di sfumare, invece, una candidatura che a inizio anno pareva poter mettere d’accordo tutte le forze politiche di maggioranza: Roberto Tartaglia (in foto), classe 1982, già pm a Palermo nel pool dei magistrati impegnati sulla Trattativa Stato-mafia, un’inchiesta e un processo non da poco da sostenere a neppure 40 anni. Tartaglia oggi è consulente della commissione bicamerale Antimafia presieduta da Nicola Morra (M5S). Un magistrato per sostituire un altro magistrato come Cantone.

Ma la zampata del Gattopardo è in agguato. Giuseppe Busia oggi è impegnato con un incarico amministrativo, segretario generale dell’Autorità per la privacy. Nel 2018 Busia è già stato in predicato di passare a Palazzo Chigi, sempre come segretario generale. La nomina non fu fatta, nonostante, come raccontò il Fatto quando era ancora in ballo (9 giugno 2018) “il legame fra Giuseppe Conte e Busia è professionale e, per semplificare, confessionale. Anche Busia frequenta Villa Nazareth, il collegio universitario dove si formano le menti del cattolicesimo democratico e dove pure Conte è cresciuto. Busia non è estraneo al sistema di rapporti di Guido Alpa, l’ex capo del consiglio forense, mentore del premier”. Sfumato Palazzo Chigi (anche se per un breve periodo ne è stato consigliere giuridico a titolo gratuito) dopo un anno e mezzo dovrebbe arrivare il riconoscimento per la pazienza di Busia: l’Autorità nazionale anticorruzione.

Il risiko Agcom porta fino alla Camera

Un risiko che tocca quasi tutti i palazzi e i potentati che contano, dalla Camera al Senato alle segreterie dei partiti fino, secondo le fonti meglio informate, al Colle più alto, il Quirinale dove quando si parla di Authority l’attenzione è sempre altissima.

In gioco ci sono le nomine all’Agcom, l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, che potrebbero trovare una definizione il 5 marzo, giorno che il presidente della Camera, Roberto Fico, ha proposto alla sua omologa del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati, per chiudere la partita. Solo che i giochi sono in alto mare, con le polemiche ancora accese sulla ultima delibera varata dal collegio in prorogatio che ha rifilato alla Rai una multa da 1,5 milioni di euro entrando a gamba tesa sull’autonomia dell’azienda e delle sue redazioni: il Movimento 5 Stelle, tanto per dire, ha chiesto l’audizione del presidente di Agcom, Angelo Maria Cardani, mentre la Rai impugnerà la delibera che avrebbe leso la sua libertà editoriale e il direttore del Tg2, Gennaro Sangiuliano è sul piede di guerra per difendere il suo operato censurato dall’Autorità.

Il tutto mentre impazza il toto nomine per il nuovo collegio (presidente nominato da Palazzo Chigi e quattro membri eletti dal Parlamento) che fa litigare le forze politiche.

Fosse per il Pd la partita sarebbe già chiusa: i dem un candidato forte ce l’hanno, Antonello Giacomelli, deputato e già sottosegretario alle Telecomunicazioni. Nome non sgradito a Forza Italia, il cui leader Silvio Berlusconi, è risaputo, ha sempre cercato di disegnarsi l’Authority a sua immagine e somiglianza. Un rischio che viene ventilato anche in queste ore da non pochi parlamentari già infastiditi dallo spazio concesso al padrone di Mediaset che per la quota che gli spetta vorrebbe insediare una dirigente del Mise da lui molto apprezzata, Laura Aria. E allarmati dal sicuro sostegno alle aziende berlusconiane del commissario che la Lega reclama per sé anche se non vuole farne il nome. Certamente non sarà ostile all’ex Cav. il candidato su cui punta il Movimento 5 Stelle, Emilio Carelli, deputato pentastellato ed ex direttore di Sky Tg 24, per tanti anni ai vertici del Tg5.

Con i nomi in alto mare, ci si azzuffa anche sui criteri. Come emerso nell’ultima riunione dei partiti di maggioranza, per i paletti messi dalla capogruppo del Misto Loredana De Petris che ha sparigliato le carte chiedendo che tra i nominati all’Agcom non ci siano parlamentari in carica o politici di lungo corso. Stop che ha infastidito soprattutto il Pd, aperto invece sull’altra questione sempre da lei posta, della rappresentanza di genere.

Una quadra difficile da trovare, mentre un nome si fa largo per la presidenza Agcom che spetta a Palazzo Chigi: quello del vicesegretario vicario della Camera, Giacomo Lasorella. Una candidatura raccontata da autorevoli fonti come benedetta da Ugo Zampetti, segretario generale del Quirinale e per lungo tempo titolare della stessa carica a Montecitorio. In caso di nomina, Lasorella libererebbe la sua attuale posizione a beneficio di Costantino Rizzuto Csaky, uno degli attuali quattro vicesegretari, che si troverebbe così sulla rampa di lancio per raccogliere l’eredità dell’attuale segretaria generale, Lucia Pagano.

Mose, un commissario “denuncia” gli altri due

Vista la natura dell’opera, si può dire che un maremoto si è abbattuto sulla amministrazione straordinaria del Consorzio Venezia Nuova, voluta dall’Autorità Nazionale Anticorruzione nel 2014, pochi mesi dopo gli arresti per le tangenti del Mose. Uno dei tre amministratori, Vincenzo Nunziata, ha presentato una segnalazione al prefetto di Roma, titolare delle nomine, segnalando “aspetti problematici nella gestione del Consorzio”. Di che cosa si tratti al momento non è dato sapere, ma sicuramente riguarda aspetti di “legittimità” e di “economicità” nella gestione, che fino a novembre era nelle mani solo degli altri due commissari. Ovvero del vice avvocato generale dello Stato Giuseppe Fiengo e del professor Francesco Ossola, docente al Politecnico di Torino.

Nel 2015 erano stati scelti dal prefetto di Roma, dopo che Anac aveva proposto di commissariare il Cvn dove per anni avevano fatto il bello e il cattivo tempo l’ingegnere Giovanni Mazzacurati e tre grandi imprese, Mantovani, Condotte e Grandi Lavori Fincosit, poi travolte dalle accuse di corruzione. Inizialmente gli amministratori straordinari erano tre, ma il terzo, Luigi Magistro, si era dimesso nel maggio 2017.

Così Fiengo e Ossola si sono occupati in coppia della gestione del Consorzio fino a pochi mesi fa, in quanto rappresentanti dello Stato che aveva deciso di mettere fine, in nome della legalità e della trasparenza, al periodo marcato da sprechi, intrallazzi e incapacità di far avanzare l’opera nei tempi previsti. Il commissario Nunziata è stato nominato il 18 novembre scorso. Il 14 febbraio ha scritto al prefetto di Roma Gerarda Pantalone e per conoscenza al presidente dell’Anac, segnalando “aspetti problematici nella gestione” del Cvn.

Il prefetto “ha ravvisato, in relazione alla delicatezza delle questioni evidenziate, l’esigenza – condivisa con Anac – di disporre i necessari approfondimenti e verifiche, affinché sia garantito il completamento dell’opera nei tempi fissati, in un quadro di legittimità ed economicità”. Le parole sembrano scelte con cura per alludere a sospetti di violazioni di norme (ma non di rilevanza penale, altrimenti la denuncia sarebbe finita alla Procura della Repubblica) e a eventuali disfunzioni amministrativo-finanziarie.

Il prefetto ha così nominato un collegio di monitoraggio e verifica composto da cinque persone: il prefetto Lucia Volpe (distaccata alla presidenza del Cdm), per Anac la segretaria generale Angela Lorella Di Gioia e il capo segreteria del presidente Federico Dini, poi il dirigente Giovanni Logoteto dei servizi ispettivi della Ragioneria dello Stato e la dirigente delle Infrastrutture, Maria Grazia Di Cesare.

È una vera commissione d’inchiesta. La traccia che dovrà seguire è contenuta nella denuncia di Nunziata, che proprio due giorni fa si era dissociato dagli altri due amministratori non firmando la lettera con cui veniva comunicato ai sindacati che in cassa non ci sono più soldi per gli stipendi. I rilievi di Nunziata riguarderebbero da una parte aspetti gestionali (la richiesta di cassa integrazione per 250 dipendenti, anche di Comar e Tethis, due società collegate) e operativi (il mancato pagamento delle aziende, perché i soldi sono stati utilizzati per gli stipendi), dall’altra la mancanza di liquidità, dovuta anche al fatto che gli introiti pari al 12 per cento sul valore delle commesse che dovevano servire per le attività del Cvn da alcuni anni non vengono più computati. Fiengo e Ossola hanno scritto al prefetto di Roma chiedendo di conoscere i contenuti della denuncia.

Per il futuro del Mose è una nuova tegola, dopo l’annuncio di cassa integrazione e l’ultimatum delle imprese non pagate da mesi, che minacciano di bloccare i cantieri nonostante il super-commissario Elisabetta Spitz abbia assicurato che i soldi per completare l’opera ci sono.

Toscana, la Lega manda in tilt il centrodestra

“Matteo (Salvini, ndr) ormai la Toscana la considera persa…”. Nella voce irritata di un dirigente toscano di Fratelli d’Italia è racchiuso il momento del centrodestra e l’atmosfera di sospetti che ruota intorno alle prossime regionali di maggio: “Che Salvini stia davvero rispettando il patto del Chianti con Renzi, candidando un mezzo sconosciuto in Toscana in cambio della destituzione di Conte?” si chiedono da settimane ai vertici di Forza Italia e Fratelli d’Italia in regione.

Per “patto del Chianti” si intende l’accordo di inizio dicembre – smentito da entrambi ma confermato da fonti leghiste e renziane – tra i due Matteo, Renzi e Salvini, nella villa fiorentina di Denis Verdini che prevedeva un do ut des inconfessabile: l’ex sindaco di Firenze avrebbe fatto cadere il governo Conte e in cambio il leader del Carroccio gli avrebbe assicurato un candidato debole contro il renzianissimo Eugenio Giani in Toscana. E, se a livello nazionale balena l’idea di un inciucio in nome dell’emergenza Coronavirus, anche a Firenze serpeggiano i sospetti.

A due mesi dalle elezioni, infatti, non solo le forze di centrodestra non hanno ancora un candidato da opporre a Giani ma soprattutto non si sono ancora messe a un tavolo per discuterne. Fino a poche settimane fa il candidato in Toscana sarebbe spettato alla Lega ma la sconfitta alle Regionali in Emilia-Romagna e l’ascesa di Fratelli d’Italia in tutti i sondaggi hanno spostato il bilancino a favore del partito di Giorgia Meloni. Eppure, fanno sapere dal Carroccio, “l’ultima parola ce l’ha sempre Matteo Salvini” perché la Lega “a livello nazionale ha più del 30% ed è di gran lunga la prima forza della coalizione: decidere senza di noi è impossibile”. Da mesi i coordinatori regionali di Forza Italia, Stefano Mugnai, e Fratelli d’Italia, Giovanni Donzelli, chiedono al Carroccio di mettersi intorno a un tavolo e discutere ma, prima le elezioni in Emilia, poi il voto sulla nave Gregoretti e oggi l’emergenza virus hanno permesso a Salvini di prendere ancora tempo. Ma gli alleati non ci stanno: “Salvini ha capito che in Toscana si ripeterà lo stesso risultato dell’Emilia Romagna perché qui il centrosinistra non ha fatto disastri – dice al Fatto un esponente noto del centrodestra toscano a taccuino chiuso – eppure stiamo mancando di rispetto agli elettori: avevamo detto loro che il candidato sarebbe arrivato a novembre, siamo a marzo e non è ancora uscito. Questo ha compattato il centrosinistra che, per paura di perdere, ha lanciato Giani. Adesso sarà difficile”. E che si sia arrivati a un redde rationem nel centrodestra, lo dimostra anche il deputato e coordinatore di FdI in regione Giovanni Donzelli che si sfoga con il Fatto: “Il malumore c’è, inutile negarlo, fortunatamente Giani non è partito in quinta ma dobbiamo farlo anche noi altrimenti rischia di essere tardi”. Il sospetto di Forza Italia e Fratelli d’Italia è che Salvini alla fine, dopo aver rimandato la decisione per settimane, dia il proprio assenso per un nome di basso profilo da contrapporre a Giani: dopo il ritiro del sindaco di Grosseto Antonfrancesco Vivarelli Colonna, negli ultimi giorni si fanno i nomi dei consiglieri regionali Jacopo Alberti (Lega), Paolo Marcheschi (FdI) o dello stesso Mugnai (Forza Italia). Tutti candidati più o meno sconosciuti: una partita persa, ancora prima di giocarla.

Liguria, deciderà Rousseau. Ma il Pd chiede altri accordi

Su cosa fare in Liguria si voterà su Rousseau, la prossima settimana. Tra mercoledì e giovedì, dicono, anche se le trattative tra i giallorossi non sono ancora chiuse, e allora non è escluso che si vada anche più lunghi. Invece per la Campania la partita resta ingarbugliata, con tendenza al peggioramento. Cronache dal tavolo sulle Regionali tra M5S e Pd, quello tra il capo politico reggente dei grillini, Vito Crimi, e il vicesegretario dem, il ligure Andrea Orlando. Aperto mercoledì scorso, e non giovedì come era inizialmente trapelato. Ma Crimi in questi giorni ha sentito anche il segretario del Pd, Nicola Zingaretti. Comunque un modo per preparare il faccia a faccia con Orlando, in cui ha voluto parlare quasi esclusivamente di programmi, per la Liguria.

La regione dove l’assemblea degli attivisti a Genova del 17 febbraio scorso ha chiesto a grande maggioranza di votare sulla piattaforma web Roussesu un’eventuale apertura ad altre forze politiche, cioè innanzitutto al Pd, per le elezioni di maggio. Anche se il M5S ha già una sua candidata governatrice, la consigliera regionale Alice Salvatore. E salvo cataclismi il voto arriverà. Tanto che stanno già scrivendo il quesito con cui chiederanno agli iscritti liguri di autorizzare una trattativa con altre “forze civiche” su tre o quattro punti fondamentali per il M5S: dal rilancio della sanità pubblica a misure contro il dissesto idrogeologico, fino alla lotta contro la “cementificazione” e al caso Gronda, il progetto di raccordo autostradale per Genova di cui i 5Stelle chiedono una profonda revisione per renderlo “meno impattante” (la cosiddetta mini-Gronda). Crimi ne ha parlato con Orlando, a lungo. E il dirigente dem gli ha chiesto un quesito “neutrale”, non ammiccante al no insomma (vecchio nodo delle votazioni su Rousseau). Soprattutto, gli ha offerto di intese anche in altre regioni, nelle Marche e soprattutto in Campania. Ma Crimi ha preso tempo. Difficile ragionare delle altre caselle, almeno ora. “Comunque l’incontro è stato interlocutorio, non c’è ancora nulla di deciso” sostengono dai vertici del Movimento. Tradotto, anche sulla Liguria bisognerà almeno risentirsi, o tenere un nuovo incontro.

Intanto però Crimi si è mosso, e i parlamentari locali hanno gradito. “Il fatto che abbia visto Orlando è un ottimo segnale” sostiene il deputato Marco Rizzone. E il suo collega Simone Valente, ex sottosegretario, va più in là: “Il voto su Rousseau ormai mi pare inevitabile, gli attivisti si sono espressi chiaramente”. Certo, poi c’è il nodo del candidato. Con il giornalista del Fatto Ferruccio Sansa che resta la prima ipotesi. Gli altri nomi circolati “sono civici ma di fatto troppo vicini al Pd” ragiona un’alta fonte grillina. Casomai qualche 5Stelle pensa a un piano b. se Sansa cadesse nei veti incrociati (sul suo nome ci sono resistenze dalla Salvatore e da alcuni big del M5S, ma al Pd pare andare bene). E la Campania? Delle regioni messe sul tavolo da Orlando è la più strategica. Ma il Pd a tutt’oggi non riesce a far fare un passo di lato a Vincenzo De Luca. E senza questo passaggio, un accordo è impossibile. Eppure il M5S ha già fatto il suo, con il passo di lato della capogruppo Valeria Ciarambino, che ha lasciato spazio alla candidatura del ministro dell’Ambiente Sergio Costa. “Un ottimo nome, ma troppo a 5Stelle, e così è ancora più difficile convincere De Luca a non correre” dice una fonte di governo del Pd. Per questo i dem vorrebbero rilanciare proponendo il ministro dell’Università Gaetano Manfredi (Orlando lo avrebbe anche ventilato a Crimi).

Ma per il M5S non si può prescindere da Costa. “Stiamo lavorando, si può ancora fare” insistono dall’ala più trattativista del Movimento. Con il presidente della Camera Roberto Fico che resta il primo pontiere. Però è tutto complicato. Innanzitutto per Crimi, il reggente che deve tenersi in equilibrio.

La guerra di Scala dei Turchi: ambientalisti vs ambientalisti

Dovrebbe essere Patrimonio dell’Umanità, ma si è trasformata negli ultimi anni in una specie di lite di condominio. È Scala dei Turchi, la celebre parete di roccia bianca a picco sul mare lungo la costa di Realmonte (Agrigento), bene dichiarato giovedì “di proprietà demaniale” dalla Procura di Agrigento, che ha posto i sigilli sulla roccia. Ora indaga per occupazione di suolo pubblico e danneggiamento al patrimonio archeologico, storico e artistico nazionale il 74enne Ferdinando Sciabarrà, colui che fino a oggi era considerato (o si considerava) il proprietario della grande e fragile marna bianca: “Le visure catastali non costituiscono titoli costitutivi della proprietà”, recita il fascicolo a carico del pensionato, ex dipendente della Camera di commercio.

È l’epilogo di una storia che da sei anni vede la Scala dei Turchi al centro di una battaglia i cui protagonisti non sono solo il Comune di Realmonte e il supposto proprietario della Scala, ma anche – su opposte fazioni – due associazioni ambientaliste, animate non solo da sani principi ispirati alla tutela di un bene patrimonio dell’Umanità, ma anche, forse, dall’allettante prospettiva di una possibile (e proficua) gestione del sito turistico.

Ma andiamo con ordine. La bagarre per accaparrarsi la gestione della preziosa scogliera, visitata da migliaia di turisti ogni anno, è iniziata nel 2014, quando l’allora sindaco di Realmonte, Piero Puccio, scopre attraverso le visure catastali che l’area della Scala sarebbe di proprietà di un privato e non del Comune.

Dopo alcuni mesi comincia il braccio di ferro con il nuovo sindaco Lillo Zicari e una guerra giudiziaria che, pochi mesi fa, era arrivata tra le polemiche a un accordo: Sciabarrà cedeva definitivamente al Comune di Realmonte la Scala in cambio del 70% dei “diritti d’immagine” per i futuri 70 anni. Il consiglio comunale del piccolo comune (4 mila abitanti) blocca l’accordo a gennaio, in piena campagna elettorale (si vota a maggio), quando la questione Scala dei Turchi è diventata anche politica. “Molti consiglieri della maggioranza e della minoranza avevano detto prima di sì all’accordo – spiega il sindaco Lillo Zicari – ma adesso la vicenda, a pochi mesi dalle elezioni, è politica. Io ho deciso di non ricandidarmi, speravo di chiuderla perché questa discussione mi ha portato i capelli bianchi”. A liberare da ogni compito il primo cittadino è arrivata adesso la Procura di Luigi Patronaggio, che ha svelato quelle che potremmo chiamare le “verità nascoste” sulla proprietà, esplorando archivi e documentazioni storiche riportando il bene al demanio pubblico.

Ma torniamo alle associazioni ambientaliste. Da una parte della barricata si è sempre schierata MareAmico, associazione che oggi esulta per il sequestro disposto della Procura, ma che nel 2016 appoggiava apertamente il pensionato Sciabarrà, al punto di affiancarlo durante la conferenza stampa in cui si annunciava l’accordo con il Comune per la gestione del bene in cambio degli introiti dei biglietti (3 euro ciascuno), introiti comunque mai concretizzatisi.

Negli anni non sono mancate le liti tra l’associazione e il sindaco Zicari, sfociate anche in un concitato consiglio comunale in cui il primo cittadino accusava MareAmico di “atti denigratori” contro la Scala dei Turchi. Nel 2016, infatti, l’associazione denunciò una l’aggressione da parte di una presunta ruggine che avrebbe deteriorato la marna, fenomeno in realtà naturale che tuttavia veniva imputato all’abusivismo: “È la normale azione degli agenti atmosferici” spiega il sindaco Zicari.

A opporsi a MareAmico è stata anche Legambiente (già gestore di altri beni in Sicilia, come l’Isola dei conigli) schieratasi prima contro la privatizzazione, poi contro l’accordo tra sindaco e privato sui diritti d’immagine, E ora, da vincitrice, si toglie qualche sassolino dalle scarpe: “Esprimiamo grande soddisfazione per le conclusioni a cui è giunta la Procura di Agrigento – dichiara Gianfranco Zanna, presidente di Legambiente Sicilia –. Speriamo che adesso abbia il buon gusto di tacere e, magari, farà mea culpa, chi, facendo finta di fare una battaglia per la tutela di questo meraviglioso sito, si era già adoperato, sottobanco, per organizzare un proprio, privato, business a scapito della collettività, vera e unica proprietaria di questo bene naturalistico e culturale”.

“Parole fuori posto, deciderà il vescovo”

“La Calabria non è tutta connivente con la ’ndrangheta”. A monsignor Nunzio Galantino, presidente dell’amministrazione del patrimonio della Sede apostolica, ieri non è ancora arrivata l’eco delle parole di don Marco Larosa, il parroco di Sant’Eufemia d’Aspromonte che si è dichiarato “super partes” tra gli arrestati accusati di mafia e lo Stato. “Non conosco la persona, ma se è come dice lei la mia storia parla per me”. Galantino guidava la diocesi di Cassano allo Jonio in quel terribile gennaio 2014 del brutale assassinio del piccolo Cocò Campolongo, 3 anni; nel giugno successivo il vescovo ottenne la visita in Calabria di papa Francesco che pronunciò parole storiche: “La ’ndrangheta è adorazione del male. E il male va combattuto, bisogna dirgli di no. La Chiesa deve sempre più spendersi perché il bene possa prevalere. I mafiosi sono scomunicati, non sono in comunione con Dio”.

Monsignore, oggi c’è un prete a Sant’Eufemia che invece si dichiara “super partes” ai microfoni di una tv locale.

Non sarà la parola fuori posto di un prete a far diminuire o screditare l’impegno della Chiesa calabrese contro la ’ndrangheta. Sappiamo bene da che parte stare. La questione, se quelle parole possono essere giuste o sbagliate, non si può neppure discutere.

Secondo lei quindi è un caso isolato quello di Sant’Eufemia?

Ripeto che non ho avuto modo di ascoltare le parole che mi riferisce in questo momento. Ma se così è io dico che i vescovi di Calabria si sono più volte espressi in maniera netta e chiara. È bene, per capire cosa pensa la Chiesa della ’ndrangheta, far riferimento alle loro parole e a fior di sacerdoti in prima linea ogni giorno anche a rischio della propria vita.

Infatti, parole come quelle di don Marco Larosa non rischiano di danneggiare un così prezioso lavoro?

Non può essere danneggiato da una tale sciocchezza il lavoro di preti come don Pino de Masi (sacerdote di Polistena e referente di Libera per la Piana di Gioia Tauro, ndr) e don Giacomo Panizza (fondatore del Progetto Sud di Lamezia Terme, ndr). I nomi che le faccio, come vede, esprimono anche una certa qualità, un notevole spessore umano. Quindi in Calabria abbiamo quantità e qualità dalla parte della lotta contro le ’ndrine. Aggiungo: non solo nella Chiesa. Anche tra i laici c’è chi sta in trincea, chi rischia la pelle. È importante non dimenticarlo. Perché la lotta delle persone che non appartengono alla Chiesa può essere ancora più difficile.

Che cosa evoca la parola ’ndrangheta?

Illegalità. Sopruso. Sofferenza di persone costrette a vivere in un sistema di violenza e intimidazione.

Saranno presi provvedimenti contro don Larosa per quelle affermazioni?

Il vescovo di Oppido Mamertina, Francesco Milito, è molto più impegnato di me nella lotta alle mafie. Compete a quella diocesi, non a Roma. Sono sicuro che deciderà per il meglio quando avrà verificato l’accaduto.

A Sant’Eufemia clan e omertà. E il prete dice: “Io super partes”

“Sono super partes”. Le parole del parroco di Sant’Eufemia d’Aspromonte, don Marco Larosa, arrivano come pugno nello stomaco il giorno dopo la maxi-inchiesta Eyphemos della Dda di Reggio: 65 persone arrestate ta cui sindaco, vicesindaco, presidente del consiglio comunale, un consigliere d’opposizione e un dirigente. Tutti sarebbero stati in combutta con la cosca Alvaro di Sinopoli, un paesino che se non fosse per quel chilometro di statale, con gli uliveti e il cimitero nel mezzo, sarebbe attaccato a Sant’Eufemia. Una ’ndrangheta che controlla il respiro delle persone, gli appalti e pure il palazzo comunale dove è già arrivato il commissario prefettizio. Ma quando Agostino Pantano, giornalista della tv locale LaC, si presenta alla porta del parroco, don Larosa davanti alle telecamere commenta così la notizia degli arresti: “Sono super partes”.

È sconcertato il procuratore Giovanni Bombardieri: “Se pensiamo al forte e deciso messaggio lanciato da papa Francesco, dalla Piana di Sibari qualche anno addietro, di scomunica dei mafiosi e di netto no alla ’ndrangheta, sconcerta sentire affermazioni che mettono sullo stesso piano organizzazioni criminali mafiose e istituzioni. Nella lotta alla ’ndrangheta – rincara la dose Bombardieri – non ci sono parti, ci sono le istituzioni che contrastano un male, come definita la mafia calabrese dal Santo Padre, che va combattuto, allontanato”.

Ieri pomeriggio don Larosa non era in casa. Una donna si affaccia: “Lo trovate in chiesa, al paese vecchio”. È il giorno delle “quarantore eucaristiche” e il parroco sta pregando davanti all’altare. Dietro di lui, tra i banchi della chiesa dei Santi Cosma e Damiano ci sono sette fedeli, sei donne e un uomo. Lo aspettiamo ma la preghiera è lunga e decidiamo di avvicinarci. Non ha voglia di parlare ma una cosa però la dice: “La mia frase è stata fraintesa. Quel servizio è stato manipolato, montato e smontato come hanno voluto”. Prova a raddrizzare il tiro: “Io condanno il comportamento della ’ndrangheta”, ma subito dopo ci ricasca: “Sto cercando di insabbiare la cosa perché altrimenti si creano troppi fraintendimenti. Mi fido del lavoro della magistratura, che faccia le sue indagini. Noi le aspettiamo. Ci sono delle famiglie che stanno soffrendo”. La famiglia degli Alvaro di Sinopoli, ad esempio. E “insabbiare”, quindi, usa questa parola. Un altro scivolone è dietro l’angolo e arriva puntuale: “Il mio silenzio voleva tutelare il lavoro della magistratura e le famiglie coinvolte. La comunità sta pregando perché il Signore possa toccare i cuori di chi sta svolgendo le indagini e possa consolare quelli di chi sta soffrendo”. Un ragazzo e una signora all’uscita della chiesa: “Se vuole Dio speriamo di uscirne. Hanno unito le rose con le ortiche. Ci sono famiglie sconvolte e amici distrutti”. Questo è il clima. E in piazza è anche peggio: “Tra gli arrestati c’è gente che non c’entra niente”. E ancora: “È una bufera. Il sindaco era un finanziere, mentre il vicesindaco è un maresciallo dell’esercito”.

Chi indifferente non lo è proprio è Giuseppe Pentimalli, professore di latino e in passato più volte sindaco col Pci. Ci ospita nel suo studio. È nauseato dall’atteggiamento dei suoi concittadini: “Il comune sarà sciolto per mafia, ma qui si preoccupano più di alcuni soggetti arrestati. C’è una mentalità omertosa nei confronti di queste persone. Questa è la realtà tragica purtroppo. C’è stato un mutamento generazionale a Sant’Eufemia da venti anni a questa parte. A livello antropologico prima c’era una contrapposizione tra Sant’Eufemia civile e Sinopoli arretrata. Adesso la gente si preoccupa degli scagnozzi. Parliamoci chiaro, il paese di Sant’Eufemia subisce la peggiore feccia umana”. Ma ha sentito l’ex sindaco Pentimalli cosa afferma addirittura il prete? “È una figura incolore e scialba. Pensi che morì un mio amico e i parenti mi pregarono di dire qualcosa. Non l’ho potuto fare perché avrei dovuto scrivere il testo e sottoporlo alla censura di don Larosa. Mi ha impedito di parlare”.

“Bugie sulla morte di mia figlia: solo la prescrizione li ha salvati”

Doveva essere una semplice operazione di appendicite come un’altra. E invece Federica Monteleone, 16 anni e una passione sconfinata per il giornalismo, da quella sala operatoria non è mai uscita: il black out dell’ospedale “Jazzolino” di Vibo Valentia del 19 gennaio 2007, le fu fatale. Eppure per quella morte, la prescrizione ha avuto la meglio in tre dei quattro filoni dell’inchiesta giudiziaria. Se nel primo gli otto imputati tra medici, anestesisti e dirigenti della Azienda Sanitaria Provinciale sono stati condannati fino alla Cassazione, la tagliola della prescrizione ha interrotto tutti gli altri tre processi: quello nei confronti di quattro operatori sanitari (già assolti in primo grado per “non aver commesso il fatto”), di altri otto imputati che dovevano rispondere di calunnia e falsa testimonianza ma soprattutto quello nei confronti dell’ex procuratore di Vibo Valentia, Alfredo Laudonio, accusato di omissione e favoreggiamento. Secondo la Procura di Salerno, l’ex pm non aveva comunicato tempestivamente quanto avvenuto al suo sostituto di turno e di non aver sequestrato subito la sala operatoria. “La prescrizione non dovrebbe esistere – dice oggi a tredici anni di distanza la madre Mary Sorrentino, 55 anni compiuti – perché così non si ottiene mai giustizia”.

Signora Sorrentino, qualche colpevole sulla morte di sua figlia c’è.

Sì, è vero ma gli unici che alla fine sono stati ritenuti colpevoli sono l’anestesista e gli ingegneri che hanno messo in piedi quella sala operatoria priva di ogni norma di sicurezza. Praticamente, secondo la giustizia italiana, mia figlia Federica è stata uccisa a livello tecnico e non sanitario. E tutti gli altri?

Prescritti.

Esatto, la prescrizione ha bloccato tutto. Non è possibile, non è giusto.

Come mai, secondo lei?

Secondo me, se si arriva a processo davanti a un giudice non si può arrivare mai alla prescrizione, soprattutto per un caso di omicidio. Oltretutto, poi, in un caso in cui è stato contestato l’omicidio colposo quando invece doveva essere volontario, quindi senza prescrizione possibile.

Perché?

Be’, perché tutti conoscevano i rischi di quella sala operatoria priva di ogni norma di sicurezza. Per cui, se tu medico accetti di operare in quella sala operatoria e poi muore qualcuno, non possono non accusarti di omicidio volontario. È come se in una strada di paese ci fosse il limite a 50 chilometri orari, io decido di andare a 100 e uccido una persona: quello è omicidio volontario. Se invece vado a 30 e rispetto la legge, è chiaro che sarebbe omicidio colposo. La differenza esiste ed è grossa.

Qualcuno ha commesso errori e depistato le indagini?

Sì, sicuramente. Dopo 13 anni a livello giudiziario alla fine non si sa ancora chi ci fosse con mia figlia durante il black out: secondo me non c’era nessuno perché Federica era una ragazza sana con un fisico da atleta e sarebbe bastato pochissimo per tenerla in vita. E invece morì a sedici anni e le indagini sono state depistate perché qualcuno non voleva far sapere cos’era successo.

Perché si è arrivati alla prescrizione?

Perché si rinviano udienze da un anno all’altro, perché ci sono troppi processi e perché ci sono pochi giudici. Tra un’udienza e l’altra passavano sei, sette mesi: non è possibile, poi è chiaro che così si arriva alla prescrizione.

Cosa propone?

La prescrizione dovrebbe essere fermata al processo: è un danno sia per gli imputati sia per i danneggiati: in Italia assistiamo a persone che se la sono cavata con la prescrizione pur avendo colpe molto gravi e così, tu, Stato italiano, non mi dai la possibilità di arrivare alla giustizia. Per me la prescrizione non deve esistere, mai. Loro non si rendono conto che quando si uccide una persona, in realtà ne vengono uccise molte altre: tutti noi familiari siamo morti che respirano, come dico sempre io. Mia figlia aveva la grande passione per il giornalismo e avrebbe voluto diventare una grande reporter di cronaca nella vita. Ha avuto anche tre premi perché collaborava con un giornale online della scuola, amava spaziare dalla cronaca ai temi più leggeri. Per ricordarla, abbiamo da subito creato una fondazione in suo nome che aiuta i più svantaggiati: Federica amava aiutare gli altri.

La legge sulle Intercettazioni e le mille fake news sul Trojan

Siamo tutti intercettabili e il trojan che viene inoculato dentro a cellulari e pc, tecnicamente un captatore informatico, secondo i parlamentari di Forza Italia e Lega potrà spiarci in maniera indiscriminata. Fine della vita privata. Giovedì, quando la maggioranza alla Camera ha convertito definitivamente in legge il decreto del governo, dai banchi dell’opposizione si è sentito di tutto, tranne quello che prevede la normativa.

Riccardo Molinari, capogruppo leghista si è detto convinto che siamo diventati come l’Europa dell’Est ai tempi del comunismo: “È impensabile utilizzare lo stesso strumento per chi mette una bomba in nome di Allah e per il postino o l’infermiere che commettono una leggerezza. L’estensione a tutti dell’utilizzo del trojan assomiglia molto al modello Ddr utilizzato dalla Stasi per mettere in galera chiunque”. Non è da meno la capogruppo di Forza Italia, Mariastella Gelmini: “Oggi viene inaugurata la stagione nella quale i trojan diventano uno strumento ordinario di indagine, la stagione della pesca a strascico. Il governo vuole prendere a sberle la vita privata delle persone”. È intervenuto anche il forzista Francesco Paolo Sisto, già avvocato di Silvio Berlusconi: “Si legittima l’uso del trojan anche nei confronti di soggetti che mai saranno indagati”. C’è pure un quotidiano molto allarmato, Il Riformista: “Il Mostro a 5 Stelle che ti spia pure a letto”, articolo di Deborah Bergamini, deputata di FI, già consulente per le comunicazioni di Berlusconi a Palazzo Chigi.

Ma davvero ci ritroveremo tutti con un trojan che ci trasforma in registratori viventi? Poteva già essere usato per indagini su mafia e terrorismo e da quando c’è la legge Spazzacorrotti, in vigore dal primo gennaio 2019, anche per i pubblici ufficiali accusati di reati corruttivi con pene dai 5 anni in su. Con la legge approvata giovedì, ma in vigore dal primo maggio (si è preso tempo per dotare tutte le procure di archivi telematici) il trojan si può usare anche per incaricati di pubblico servizio accusati sempre di reati corruttivi che prevedono una pena sempre non inferiore a 5 anni. L’uso del captatore informatico è consentito pure nelle private dimore “previa indicazione delle ragioni che ne giustificano l’utilizzo”.

Non è neppure vero che ci potrà essere un uso a piacimento delle intercettazioni a “strascico”, cioè quelle autorizzate per un determinato reato e poi utilizzate per un altro emerso durante le registrazioni. La nuova legge prevede che tutti i tipi di intercettazioni, quindi anche quelle con il trojan, possano essere utilizzate in procedimenti diversi da quelli per cui sono state disposte solo se sono “indispensabili” e “rilevanti” per l’accertamento del nuovo reato e solo se questo reato prevede l’arresto in flagrante o rientra tra quelli gravi (articolo 266 codice di procedura penale) come spaccio, usura e reati corruttivi con pena sopra i 5 anni. È vero, però, che è una maglia un po’ più larga rispetto a quanto stabilito dalla Sezioni Unite della Cassazione: si possono utilizzare le intercettazioni per un reato diverso solo in caso di connessione con il reato originario e autonomamente intercettabile, oppure se prevede l’arresto in flagrante. La nuova legge, dunque, accantona il vincolo della connessione, ma lascia gli altri paletti della Corte di Cassazione .