Etica e media, servono regole per un Paese a cultura fragile

Caro direttore, non sono giorni facili per il nostro Paese in emergenza COVID-19, ma se l’Oms si è congratulata con il governo per le misure “risolute e veloci”, non si può dire lo stesso per il virus della disinformazione che ha generando un’epidemia delle menti: i servizi sensazionalistici hanno favorito un isterismo diffuso di cui i media si sono resi complici, salvo poi lamentare – dagli stessi schermi e dalle stesse pagine – il rischio economico della psicosi di massa.

Le fake news hanno presa tanto più in un Paese nel quale l’emergenza sull’analfabetismo funzionale è seria. In Italia un 15enne su 20 è in grado di comprendere un testo letto. La media Ocse è di 1 su 10, mentre gli studenti che hanno difficoltà con gli aspetti di base della lettura sono 1 su 4: non identificano l’idea principale di un testo di media lunghezza. La povertà educativa e culturale del Paese rende ancor più complesse fasi come queste: epidemia, panico, complessità e assenza di strumenti idonei a valutare correttamente le notizie.

Manca una guida condivisa all’uso corretto dei media e dell’informazione in questo caso scientifica, che coinvolga media, istituzioni e cittadini. È necessario sia lavorare sull’educazione del cittadino del XXI secolo per contrastare il rischio di una barbarie culturale, sia promuovere una nuova carta etica per la nostra informazione che però non rimanga nel ristretto campo degli addetti ai lavori, a maggior ragione in un’epoca in cui ciascuno di noi rispetto ai media è ormai in qualche modo “prosumer”, produttore e consumatore al tempo stesso di contenuti informativi. Mi auguro che su questo tema si apra un dibattito pacato e costruttivo con il mondo dell’informazione, con quello dell’istruzione, con gli esperti digitali e le sue comunità civiche digitali.

*Luigi Gallo, Presidente della Commissione Cultura Scienza e Istruzione della Camera dei Deputati

“Ma lei è stato a Pechino?” “Dottore, siamo in carcere”

Dell’Apocalisse Covid-19 manca l’esplosione dell’epidemia, ma qui segue la cronaca dei suoi più dettagliati preparativi. A Codogno, dove scarseggiano informazioni sul contagio e mascherine, i cittadini le scambiano in catene di solidarietà. Genova contro l’esaurimento scorte disinfettante: all’università il rettore ha ordinato di produrlo direttamente al dipartimento Farmacia. A Palermo scuole chiuse, ma 500 ragazzini ammassati a sentire l’ultimo disco di Elettra Lamborghini. A Rebibbia, ai detenuti in carcere da anni, viene chiesto se hanno recentemente compiuto viaggi in Cina.

Sta arrivando il giorno del giudizio, ma intanto è scoccata l’ora dello sciacallo. Furto di mascherine denunciato dalla direttrice dell’Asl4 di Lavagna. Più virale del Covid-19 e delle sue bufale è la paura stessa di contrarlo: la Gdf a Napoli, ringraziata pubblicamente dal ministro dell’Economia Roberto Gualtieri, ha sequestrato migliaia di dispositivi di prevenzione venduti a prezzi stellari. Seguiranno però giorni ancora dorati per ladri, mitomani, complottisti.

Aumentano le guarigioni, rallenta il Corona, ma l’infezione della stupidità rimane feconda. Corona è un complotto della Cia contro i cinesi, del Kgb contro gli americani, del Mossad contro tutti. Sono teorie da centinaia di migliaia di click psicotici in Rete, forniti da persone che si allontanano ancora meno di prima dai loro monitor. Questa è l’era del terrapiattismo, dei no vax e del diavolo, che ha vinto “con il grande inganno del Corona. Pub aperti, chiese chiuse, dove siamo finiti?”. La rabbia dei Papaboys contro le ordinanze regionali che vietano raduni religiosi condanna le nuove forme di fede al tempo del contagio: parroci-rider porta a porta, messe sullo schermo e dio in streaming.

Siamo in deficit. Di lucidità e di anticorpi contro un immotivato, letale panico. Si starnutiscono isterie di massa, si tossiscono fake news, si assorbono psicosi mentre gli esperti ribadiscono ovvietà: l’influenza colpisce maggiormente i già cagionevoli, ma è l’Italia intera ad apparire all’estero come un enorme organismo fragile. Borse a picco. E se il Covid-19 è assente, puoi sempre creare un virus a tua immagine e somiglianza su Plague Inc, videogioco da 130 milioni di utenti. La Cina lo ha dichiarato illegale, in Gran Bretagna i produttori si sono chiesti perché.

Nel Lodigiano in quarantena, con i medici di base in isolamento, solitudine dei malati che attendono le domiciliari. Zona rossa e un solo eroe in camice bianco: per l’emergenza è stato inviato un solo dottore con in dotazione solo due mascherine, denuncia l’Ordine dei Medici. Altri medici, quelli Senza Frontiere e una barca, la Ocean Viking, nonostante abbiano rispettato tutti i protocolli indicati, rimangono ancorati a Pozzallo. “Mettere in quarantena navi di ricerca e soccorso è come fermare le ambulanze durante l’emergenza” ha detto il capo della missione Michael Fark.

Al centro della scena tv e della pagina dei giornali rimane il solito sensazionalismo predatorio della stampa e della politica. Soffiano insieme su una paura ormai più grande del fenomeno stesso. All’ansiogeno carnevale di celebrità in maschera chirurgica ha sfilato anche Attilio Fontana, governatore della Lombardia, però con quella sbagliata perché “queste sono quelle che ci restano”. Deliri spaziali, inestirpabili, virali. “È bene che l’informazione giunga corretta riguardo il terrenavirus”. È l’ultimo battesimo dell’infezione, coniato da Renzo Tondo, Gruppo Misto, alla Camera dei deputati dove, riporta Adnkronos, è sparita dai lavandini l’Amuchina e il gel disinfettante dai bagni. È rimasto solo l’avviso solitario dell’Organizzazione Mondiale della Sanità su come lavarsi le mani, ma evidentemente manca quello su come estirpare una ben più antica malattia dei politici italiani, più mortale del Covid-19, ma solo per il Paese che governano.

Per frenare l’epidemia non serve il maltempo

Cambia il tempo, dopo settimane di siccità e tepori eccessivi. La perturbazione atlantica in arrivo lunedì porterà finalmente piogge anche battenti in Liguria, Lombardia, Nord-Est e al Centro, seguite da un rinforzo dei venti nord-occidentali martedì. La prima decade di marzo dovrebbe poi trascorrere in un’atmosfera vivace e con temperature intorno alla normalità. Basterà questo a frenare la propagazione del coronavirus?

In verità già nei giorni precedenti l’innesco dei focolai virali c’erano state vigorose sventagliate di correnti atlantiche che avevano rimescolato e ripulito l’inquinata aria lombarda, il 4-5, 10-11 e 18-19 febbraio, e non sembrano essere state rilevanti per il contagio. Nelle ultime settimane le zone con la maggiore diffusione della malattia, l’estremo Est asiatico – Cina e Corea del Sud – i Paesi del Golfo Persico e l’Italia, mostrano contesti climatici molto diversi. A differenza dell’asciutto inverno padano, a Wuhan, zona originaria del virus, negli ultimi 50 giorni è piovuto circa un giorno su quattro, con quantità anche importanti (totale di 241 millimetri d’acqua). In Giappone la zona più colpita è la settentrionale isola di Hokkaido, la più fredda, dove sta nevicando quasi tutti i giorni: a Sapporo la temperatura media di questo febbraio è stata -2 °C. Inoltre, sebbene con numeri minori, il virus è segnalato pure nei desertici Emirati Arabi, dove non piove dal 12 gennaio e pochi giorni fa c’erano 35 °C, così come nell’equatoriale Singapore, sotto frequenti scrosci di pioggia, umidità soffocante e temperature costantemente tra 24 e 34 °C nell’ultimo paio di mesi. In febbraio la temperatura media a Codogno è stata di 7 °C mentre a Singapore di 28 °C.

Almeno per quanto ne sappiamo ora non sembrano esistere evidenze che il Coronavirus sia correlabile con la situazione climatica locale o stagionale. Marc Lipsitch, docente di epidemiologia alla Harvard T.H. Chan School of Public Health, sostiene che per quanto sappiamo dei virus simili del passato, il loro contenimento più che alle condizioni stagionali (pare perdano di vitalità in ambiente caldo mentre sono agevolati in aria fredda e secca) è stato dovuto prevalentemente alle efficaci e severe misure di confinamento sanitario nelle zone focolaio. Ma ogni nuovo virus ha un comportamento a sé, e sperare che pioggia o caldo lavorino a nostro favore è per ora un’ipotesi molto labile. Anzi, ricordiamo che pioggia e freddo potrebbero invece facilitarne la diffusione in quanto predispongono alla frequentazione di luoghi chiusi e affollati, che è poi uno dei fattori principali per i quali tanto il virus attuale, quanto le altre influenze invernali, si diffondono per contatto tra le persone. Più che effetti del clima sul virus, sarà forse il virus a influire sul clima, facendo diminuire drasticamente le emissioni di CO2 dai trasporti e dai consumi, ma sarebbe stato meglio raggiungere l’obiettivo in maniera programmata e consapevole, senza incaricare un’epidemia di far collassare l’economia in poche settimane…

In Cina il Corona circolava già da fine ottobre

È uno sforzo senza precedenti quello per comprendere la dinamica di diffusione dell’epidemia di Coronavirus e, quindi, arginarla. Gli scienziati italiani stanno fornendo contributi chiave per svelare le tante tessere che ancora mancano del puzzle Covid-19. E a farlo in tempi rapidissimi è stato il gruppo guidato da Gianguglielmo Zehender, del Dipartimento di scienze biomediche e cliniche Luigi Sacco dell’Università di Milano. Lo stesso che qualche settimana fa ha isolato il Coronavirus-19 da pazienti italiani. La loro ricerca è appena stata accettata dalla rivista internazionale Journal of Medical Virology.

“Dalla nostra ricostruzione filogenetica del virus, emerge che l’epidemia ha avuto origine tra fine ottobre e novembre”, spiega Zehender al Fatto. Lo studio ricostruisce quello che potremmo chiamare l’albero genealogico del virus, a partire dalle sequenze geniche pubblicate dai ricercatori cinesi che per primi hanno isolato il virus da pazienti infetti nella regione di Wuhan. Le hanno rese note il 7 gennaio scorso, informando così l’Oms del fatto che si trattava di un nuovo tipo di Coronavirus. Si sa, infatti, molto poco di questo virus. E le notifiche dei casi positivi – come accade per ogni epidemia, specie se causata da patogeni sconosciuti – avvengono in ritardo rispetto al momento in cui il virus ha contagiato le prime persone in Cina nella regione di Wuhan.

Sono due gli elementi imprescindibili per capire come evolverà l’epidemia. Per prima cosa bisogna datare il reale inizio dell’infezione: serve a comprendere la dinamica di diffusione del virus e gli spostamenti. E, poi, vanno previste le traiettorie geografiche su cui si muoverà il virus. L’altro elemento cruciale è stabilire quanto il virus è efficiente nel trasmettere l’infezione da uomo a uomo. C’è un numero che lo esprime, il cosiddetto Basic Reproductive Number (R0). Indica quante persone suscettibili al virus è in grado di infettare, da solo, un paziente contagiato. Cioè, quanto velocemente l’epidemia procederà, specie in un contesto in cui sembra che la maggior parte dei contagiati non venga intercettata dai sistemi di sorveglianza nazionali, perché sviluppa sintomi lievi o nulli.

Lo studio del gruppo di Milano fornisce anche un’altra informazione importante. “Abbiamo osservato che, a partire da dicembre, il virus ha aumentato di molto la propria capacità di trasmettersi da uomo a uomo”, spiega Zehender. Che aggiunge: “Vediamo che oggi un singolo paziente contagiato ha la probabilità di trasmettere il virus a 2,6 persone. All’inizio, cioè tra ottobre e novembre, questo numero era inferiore a 1”. Prima di dicembre, la capacità del virus di trasmettersi da uomo a uomo era molto più bassa di ora. Perché? I ricercatori fanno solo ipotesi, non hanno ancora elementi per stabilire la ragione. “Il cambiamento – spiega Zehender – può dipendere da tanti fattori, che non conosciamo. Trattandosi di un virus che ha come serbatoio iniziale il pipistrello, può darsi che fosse meno capace, inizialmente, di infettare l’uomo”. Potrebbe, cioè, nel tempo essersi adattato meglio al nuovo ospite, l’uomo, e diventare così più bravo a colonizzarlo. Oppure, i primissimi casi potrebbero essere apparsi in regioni poco densamente popolate e poi, spostandosi su altre più dense, il contagio può essere avvenuto più rapidamente. Un’altra possibilità ancora è che abbia contagiato, da dicembre, sottopopolazioni più fragili, dal punto di vista del contagio. “Non possiamo saperlo”, dice Zehender.

Il prossimo step del gruppo sarà quello di effettuare l’analisi genetica delle popolazioni del virus isolate da pazienti italiani per tracciarne, se esistono, differenze con quello isolato dai pazienti cinesi. Differenze che potrebbero fornire indicazioni su quando esattamente il virus è arrivato in Italia. Il gruppo, impegnato h24 sul Covid-19, conta meno di dieci persone, di cui la maggior parte precaria.

“Abbiamo perduto validi ricercatori in questi ultimi dieci anni, per mancanza di fondi che ci permettessero di rinnovare i contratti”, aggiunge Zehender. Un capitale di conoscenza di cui l’intera società civile ne coglie l’importanza durante emergenze come il Covid-19, ma che si costruisce in decenni di tempi di “pace” investendo in ricerca pubblica, non tagliando i finanziamenti come hanno fatto tutti i governi italiani nell’ultimo decennio.

Stop a eventi e saloni, cede pure Ginevra. E intanto rallenta il comparto pubblicità

Prima Facebook che cancella la conferenza degli sviluppatori, in pratica l’incontro più importante per il social network di Mark Zuckerberg. E va bene, è stato solo l’ultimo annullamento in ambito tecnologico, iniziato con il Mobile World Congress di Barcellona. Ieri, però, anche l’inizialmente ottimista Svizzera ha deciso di annullare il salone dell’auto di Ginevra previsto dal 5 al 15 marzo, dopo aver più volte escluso l’evenienza e messa di fronte ai suoi primi 15 casi di contagio. Secondo le stime, l’evento avrebbe portato tra i 200 e i 250 milioni di franchi svizzeri di introiti, con 160 marchi auto coinvolti a cui ora resta ben poco da fare se non attendere.

La cancellazione delle fiere, dei congressi e dei convegni danneggia le aziende anche in potenza, quindi non solo in termini di organizzazione ma anche di immagine e pubblicità. Gli investimenti negli eventi, negli allestimenti, negli spot, nelle brochure, nelle sponsorizzazioni, nei programmi editoriali e nelle pubblicità in tv, online e sui giornali si riducono, vengono o perduti o sospesi o rimandati perché potrebbero, oltretutto, risultare poco efficaci o in alcuni casi controproducenti. Gli annunci che erano stati programmati diventano spesso mail che, seppur lette, passano in secondo piano rispetto alle informazioni sull’emergenza. Nel migliore dei casi, c’è chi si organizza con le trasmissioni in streaming o le conference call. Nel peggiore, le aziende (si pensi a quelle tecnologiche che hanno le catene produttive in cina) sono così in difficoltà che questo diventa l’ultimo dei loro problemi. Uno scenario che gli addetti ai lavori raccontano con un pizzico di preoccupazione ma anche come una conseguenza naturale e non così inedita. Il calo della pubblicità c’è ogni volta che si presenta una emergenza di qualsiasi tipo. O meglio, ogni volta che c’è una situazione di incertezza, sia essa climatica, politica, etica o di sicurezza.

Quando ci sono eventi straordinari, l’attenzione delle persone è focalizzata su quelli, nel caso specifico sulle preoccupazioni per il coronavirus, e quindi investire sulle pubblicità potrebbe essere inutile, soprattutto se i prodotti e i servizi sponsorizzati non sono generi di prima necessità o essenziali per far fronte all’emergenza. In sintesi: chi mai vorrebbe prenotare una vacanza in questo momento? O chi vorrebbe andare in giro ad acquistare un’auto nuova? L’insicurezza genera un crollo della fiducia che ha impatto anche sul portafogli. Meglio aspettare un periodo di maggiore calma per ricominciare a spingere sugli acquisti. Oltre l’indifferenza, poi, l’altro rischio è che gli spot (e quindi il brand) risultino fuori luogo, generando così anche un danno d’immagine. La speculazione è dietro l’angolo, in una situazione di iper presenza dei media anche una sola campagna di marketing sbagliata può avere conseguenze irreversibili; basti pensare alla storia del marchio di birra “Corona” che starebbe crollando in Borsa e nelle vendite per l’assonanza con il nome del virus e per la conseguente ironia scatenata dai meme online, in un contesto, va detto, di crisi generale. Un paradosso, dunque: nel momento in cui i siti internet sono in sovraccarico per il numero di contatti e in cui la tv è presa d’assalto per la sete di informazioni generata dai cittadini preoccupati, fare pubblicità spinta rischia di essere controproducente. Il problema, però, è che i giorni e i mesi persi raramente si recuperano: al massima si programmerà una nuova campagna al termine dell’emergenza.

Gli italiani, intanto, si rivelano dei curiosi (o degli ansiosi) compulsivi: nelle classifiche di Google Trends, che mostrano quali siano le ricerche più comuni sul web da parte degli utenti, negli ultimi giorni e a partire da metà febbraio, l’Italia risulta essere sempre ai primi posti per il termine “coronavirus” (podio che perde se la ricerca avviene con il termine Covid-19).

La Gig Economy non è immune: i rider in difficoltà

È martedì sera e sta per iniziare la partita tra Napoli e Barcellona, ottavi di Champions League. Un appuntamento che tiene incollati davanti al televisore oltre sei milioni di persone in Italia. Luca, che a Milano consegna il cibo a domicilio in motorino, si prepara ad affrontare una serata proficua. Ma non è una giornata come le altre: da 48 ore al Nord si è diffusa la psicosi del Coronavirus e, in questo clima di sfiducia generale in cui si preferisce ridurre al minimo il contatto con gli altri, in tanti rinunciano a ordinare. Risultato: il Napoli strappa un pareggio, mentre Luca torna a casa con soli tre pasti consegnati, contro i sette del martedì precedente.

Guadagni più che dimezzati, perché le piattaforme del food delivery applicano il sistema dei pagamenti a cottimo, nonostante la Cassazione abbia stabilito il diritto dei rider a essere retribuiti in base alle ore. Negli ultimi tempi, tra l’altro, le app hanno anche ridotto le fasce con il minimo garantito. Che il virus stesse portando il trend degli ordini in discesa Luca lo aveva intuito già da lunedì. Quando, poco dopo le prime notizie sui contagi in Lombardia, è stato chiamato solo per quattro ordini a differenza degli otto presi in carico sette giorni prima. Come si traduce in euro questa perdita? Il fattorino fa i conti: “Mentre lunedì scorso ho incassato 70 euro lordi – afferma – questa volta mi sono fermato a 35. Molto poco: sono stato a disposizione per sei ore e ho messo 10 euro di benzina”.

Dove la paura ha preso il sopravvento sulla prudenza, c’è chi ha assaltato i supermercati e ha fatto scorte di cibo in casa. Si evitano interazioni con gli sconosciuti, rider inclusi. “Molti locali e ristoranti restano chiusi, in particolare quelli cinesi”, nota Luca. Non è irrilevante: secondo uno studio della stessa JustEat, quella cinese è la quarta cucina più amata a domicilio in Italia. Per dire, gli unici piatti che i clienti delle piattaforme da noi apprezzano più dei famosi involtini primavera sono la pizza margherita, la diavola e le patatine fritte. Nel 2019, a Milano la cucina tipica del Paese orientale è cresciuta del 190%. Ora però la cronaca racconta altro. “Sono passato l’altro giorno da un ristorante cinese – dice Luca – e mi hanno detto che sono passati da una media di 25 ordini a soli cinque”. Quello che raccontano questi ragazzi, che anche in questi difficili giorni sfrecciano per il capoluogo lombardo, è una situazione che va da un estremo all’altro: “Vediamo il menefreghismo totale e quelli completamente in paranoia”, dice Fred, anche lui rider per JustEat.

“Avvertiamo un timore nei nostri confronti – ammette – visto che andiamo in strada”. Atteggiamenti che, in effetti, appaiono in contraddizione: “La gente che fa la spesa nei centri commerciali rischiando di contagiarsi invece di farsela portare a casa da un corriere”. Quindi hanno deciso di adottare qualche precauzione per smorzare l’ansia: “Io tendo il sacchetto con il cibo tenendolo da sotto, così i clienti possono prenderlo senza problemi dai manici. E abbiamo chiesto a molti locali di chiudere il sacchetto”. Tutte cautele che, per il momento, non stanno bastando a convincere i più scettici. Anche Fred sta vedendo erosi i suoi guadagni: “Sto perdendo tra il 50 e il 60%. Lunedì scorso avevo fatto sei consegne, questo lunedì mi sono fermato a tre. Le strade sono vuote, i ristoratori innervositi. Prima facevo in bici comodamente 450 euro lordi a settimana, adesso sto aumentando le ore di lavoro ma arrivo a fatica a 300. Conosco persone di Deliveroo abituate a fare fino a 120 euro al giorno che ora stanno portando a casa la metà”. Chi non si arrende resta in sella fino alle 13 ore al giorno, e a volte non basta. Giuseppe, è passato dai 75 euro di lunedì 17 ai 15 euro del 24. “Speriamo che nel fine settimana questa situazione rientri” dice speranzoso.

A JustEat, tuttavia, non risultano variazioni sul numero di ordini, mentre Deliveroo e Glovo non si sono espresse. Nel frattempo, ancora una volta la gig economy sta scaricando il rischio d’impresa sull’ultimo anello della catena. “Chiamiamo in causa la responsabilità delle aziende – ha detto Mario Grasso della UilTucs – e chiediamo al governo di intervenire anche a favore dei lavoratori autonomi delle zone gialle”.

Cig e ferie forzate, ecco chi si approfitta del contagio

C’è l’Alitalia che prova ad approfittare del coronavirus per mettere in cassa integrazione ben 4 mila persone. Ci sono grandi aziende, come Vodafone e Abb che tentano di far pagare ai dipendenti – attraverso il consumo delle ferie – le giornate di stop alle attività dovute all’emergenza sanitaria. C’è soprattutto il pressing di tante categorie affinché il governo, in un momento così difficile, introduca ammortizzatori sociali generosi per dare il via libera a esuberi. E il colosso mondiale dei viaggi Expedia che fa cadere proprio in questa fase l’annuncio di una sforbiciata da 3 mila posti di lavoro in tutto il mondo. Nel mondo del lavoro, non c’è solo la novità positiva delle aziende italiane che, finalmente, stanno scoprendo i vantaggi dello smart working. Il timore è che oltre ai danni diretti dei quali si sta parlando – cioè le difficoltà non prevedibili causate dal virus – possa cogliere questa fase concitata come pretesto per far entrare in tagli ai costi e ricorsi massicci ai sussidi. L’annuncio dell’Alitalia ha fatto nascere più di un dubbio. L’obiettivo della compagnia è usare la cassa straordinaria (quella prevista per le grosse crisi e non per le flessioni transitorie) fino alla fine di ottobre per 3.960 dipendenti. Ai 1.175 previsti inizialmente vuole aggiungerne 2.785 per gli imprevisti legati all’emergenza. “Numeri assolutamente inaccettabili e immotivati nonostante il coronavirus”, ha detto Fabrizio Cuscito della Filt Cgil. Tutte le imprese che si ritengono colpite, in modo diretto o indiretto, attendono dunque il decreto con gli ammortizzatori sociali in deroga.

Nel frattempo, il modo in cui sono state gestite le giornate con la produzione ferma ha creato malumori. Ieri, per esempio, era prevista la chiusura di molte sedi italiane della Vodafone. Una scelta definita dalla Slc Cgil “di dubbia pertinenza con l’emergenza”. Il tentativo è stato indurre i lavoratori a utilizzare un giorno di ferie. Il sindacato si è opposto a questa impostazione, perché di fatto avrebbe costretto gli addetti a pagare di tasca propria, con la rinuncia a un futuro giorno di riposo, le conseguenze di una decisione aziendale che tra l’altro non dipendeva da disposizioni delle autorità. La situazione è rientrata. “La chiusura è stata confinata a chi aveva residui di ferie. Diciamo che, da parte di un grande gestore, questa cosa poteva essere evitata, ma penso sia solo stata comunicata male in un primo momento”, spiega Riccardo Saccone della Slc. Simile la mossa dell’Abb. La multinazionale dell’elettrotecnica ha avviato il telelavoro per gli impiegati delle sedi lombarde, mentre lunedì e martedì ha tenuto gli operai a casa. “Hanno detto di non andare al lavoro – ha raccontato Mirco Rota della Fiom – poi hanno chiamato le rappresentanze sindacali per fare l’accordo e coprire con giornate di ferie. Abbiamo detto no, l’azienda non ha facoltà di tenere fermi per sua scelta i lavoratori e non pagarli”.

L’Italia, ora, è un coro di imprese che preparano l’assalto alla cassa integrazione. Ci sperano nel turismo, nella ristorazione, nello spettacolo e anche le scuole private. “È importante che arrivi un ammortizzatore per i lavoratori che oggi sono sprovvisti di tutele, come quelli delle piccole aziende – fa notare Stefano Franzoni, segretario aggiunto UilTucs –. Con uno strumento generalizzato, è chiaro che c’è il rischio anche di un uso strumentale e bisognerà vigilare”. Restando nel turismo, ma guardando fuori dall’Italia, il sito di viaggi Expedia ha scelto un tempismo perfetto per annunciare il taglio di 3 mila lavoratori nel mondo. Il 2019 è andato male, la concorrenza è dura da combattere: serve una cura dimagrante da 500 milioni di dollari l’anno. Un annuncio molto doloroso, buttato nel mezzo dell’epidemia potrebbe sembrare più giustificabile.

Due infermiere col virus erano tornate in corsia

Giovedì due infermiere dell’ospedale di Codogno sono state rimandate a casa perché trovate positive al coronavirus: erano state sottoposte al tampone e nel frattempo avevano continuato a lavorare. Sette risultati positivi sono arrivati, poi, a lavoratori del pronto soccorso che erano stati messi in quarantena perché in servizio nei giorni in cui il 38enne Mattia, considerato il “paziente 1” è stato trattato nel nosocomio. Altri dipendenti sono tornati a lavorare in attesa dell’esito del test. “Quando è arrivato il risultato positivo del paziente 1 in un primo momento ci hanno messi in isolamento a casa – racconta un’operatrice –, poi sono cambiate le direttive e ci hanno detto che dovevamo tornare al lavoro anche se aspettavamo ancora il tampone”. Perché? “Perché se non andiamo a lavorare noi, l’ospedale chiude”.

Ricapitoliamo. Tra domenica 23 e lunedì 24 ai lavoratori del pronto soccorso entrati in contato con il “paziente 1” è stato fatto il tampone e sono stati messi a casa in quarantena. Tutto è cambiato mercoledì 26 febbraio, quando la Direzione Generale della Azienda socio-sanitaria territoriale di Lodi ha diffuso “a tutto il personale” l’aggiornamento della procedura per il Covid-19.

Il documento cita due “nuove direttive Ministeriali e Regionali” del 22 e 23 febbraio, una riguardante la “sorveglianza degli operatori” e l’altra le “dotazioni di Dispositivi di Protezione Individuale”. Camici, guanti e mascherine. E giù una serie di prescrizioni sull’impiego degli operatori sanitari nella struttura. Le più interessanti sono contenute in un diagramma di flusso che spiega come il dipendente che è venuto in “contatto” con il Covid-19, ove “asintomatico” (non presenti cioè i sintomi della malattia) e in “attesa di tampone” sia “ammissibile” al lavoro. “In assenza di sintomi e in attesa dell’esecuzione e dell’esito del tampone non è prevista l’interruzione dal lavoro”, si legge. Di qui la chiamata in servizio di alcuni operatori che sono rientrati in corsia nei giorni scorsi. Per loro la direttiva prevede, poi, una lunga serie di prescrizioni sull’utilizzo di Dispositivi di protezione individuale: copricapo, camici monouso, occhiali visiera, soprascarpe, doppi guanti. E poi le maschere Ffp3 e Ffp2, le due tipologie considerate sicure contro la trasmissione del virus.

Giovedì, nel frattempo, sono arrivati i primi risultati dei tamponi fatti ai lavoratori del pronto soccorso: su 25, sette sono stati trovati positivi ma nessuno di questi era tornato a lavorare. Al Fatto risulta però che due infermiere di un altro reparto giovedì sono state mandate a casa perché il loro tampone era tornato positivo dall’ospedale Sacco di Milano, ma dal giorno in cui erano state sottoposte a prelievo avevano continuato a lavorare.

Quello stesso giorno la Direzione sanitaria ha chiesto ai vari reparti l’elenco degli infermieri in malattia, in autoisolamento e quelli rimasti a casa per decisione del medico competente.

“La situazione è tale che la dirigenza sta richiamando anche chi è a casa in malattia”, racconta ancora la dipendente. La riorganizzazione dopo la chiusura del pronto soccorso, prosegue: “Mercoledì è stato chiusa la rianimazione, è stato fatto di nuovo il tampone a tutti gli infermieri. Ieri il reparto è stato sanificato per poterli far rientrare di domenica”, prosegue. Momenti di forte pressione in cui i dipendenti hanno fatto fronte comune: “Fuori siamo considerati appestati, ma i miei colleghi sono degli eroi. Chi era fuori dai reparti ha dato una mano: spostamento dei malati nei corridoi, facchinaggio, quello che c’era da fare hanno fatto”.

Dai risultati dei tamponi emerge un’altra indicazione. Uno degli operatori risultati positivi era in ferie dal 14 febbraio, quindi non era in servizio quando tra il 16 e il 20 nella struttura di Codogno si è più volte recato il “paziente 1”. Questo può significare che, se non è venuto in contatto con il virus altrove, potrebbe averlo preso in ospedale. Il che conferma quanto raccontato alcuni giorni fa al Fatto da un medico di base di Castiglione d’Adda, Comune compreso nella zona rossa: “Il virus circola nelle nostre zone almeno dal 12 o dal 13 febbraio”.

Verso 1000 contagi, 4 morti. Allarme Iran: “211 vittime”

Le scuole rimarranno chiuse in Lombardia, anche se è possibile l’avvio di programmi di e-learning e insegnamento a distanza. Dovrebbero riaprire in parte del Veneto, dove il governatore Luca Zaia ieri spingeva in questo senso e aspettava con una certa impazienza il via libera da Roma. Riapertura probabile domani in Piemonte, in Liguria e in Emilia-Romagna oltre che in Campania, in Trentino-Alto Adige, a Palermo e a Taranto. Vedremo nelle Marche visto che il governatore Ceriscioli insiste. Il governo si è preso un giorno in più, l’ha annunciato il presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Oggi il provvedimento che dovrebbe essere controfirmato dai governatori per evitare altre scenette da federalismo disordinato e un po’ cialtrone.

I contagi crescono ancora: erano 888 alle 18 di ieri, quando la Protezione civile ha fatto il punto. Oltre il 30 per cento in più rispetto a giovedì sera. La curva continua a impennarsi, si viaggia verso i mille. Alle 18 si contavano anche 46 guariti (e 21 morti); degli 821 in trattamento 345 sono ricoverati, 47 in terapia intensiva e 412 in isolamento a casa. I morti ieri sono stati 4, tre in Lombardia e uno a Piacenza anche se residente nel Lodigiano. Non erano giovanissimi, un 77enne e tre over 80, tutti con diverse patologie. Come ha ricordato il capo della Protezione civile, Angelo Borrelli, sarà l’Istituto superiore di sanità ha certificare che il nuovo Coronavirus è la causa dei decessi.

La mappa dei contagi resta quella che era, non ci sono cioè nuovi focolai e la concentrazione resta fortissima in Lombardia, 531 casi per lo più (85%) nelle province di Lodi, Pavia, Cremona, Bergamo. È un dato che si conferma anche in base al rapporto con i tamponi effettuati: in Lombardia sono stati 4.835, molti meno del Veneto che ne ha fatti 7.414 per un totale di 151 risultati positivi, per lo più attorno al focolaio di Vo’ Euganeo e all’ospedale di Treviso; dato di poco superiore a quello dell’Emilia-Romagna che ne ha 145, in larga parte a Piacenza e con appena 1.277 test praticati. Dunque non è vero che i contagi aumentano solo facendo più tamponi, dipende dove, quando e a chi.

Aumenta la preoccupazione a livello internazionale con gli Usa che potrebbero elevare a livello 3 (su quattro) il warning sui rischi dei viaggi in Italia. E soprattutto sarebbero 211 i morti in Iran, molti di più dei 34 indicati da Teheran: il dato è stato diffuso dalla Bbc. L’Iran, dove lavora un numero significativo di cinesi, ha chiuso il Parlamento e sospeso la preghiera del venerdì. Il direttore generale dell’Organizzazione mondiale della Sanità Tedros Adhanom Ghebreyesus, nel briefing a Ginevra sull’epidemia, ha detto che “il livello di rischio di diffusione globale è stato elevato a molto alto”. Fuori dalla Cina siamo a 4351 casi in 49 Paesi e 67 vittime. “Danimarca, Estonia, Lituania, Olanda e Lituania – ha detto ancora Adhanom Ghebreyesus – hanno registrato i loro primi casi, tutti hanno legami con l’Italia. Sono 23 i casi ‘esportati’ dall’Italia in 14 Paesi, 97 quelli ‘esportati’ dall’Iran in 11 Paesi”. In Cina 329 nuovi casi, il dato giornaliero più basso dell’ultimo mese.

Dopo la Francia, anche la Germania ha raddoppiato i contagi dichiarati, da 30 a 60, in un giorno. In parte legati all’Italia, in parte no. “Quello che abbiamo visto in Veneto e Lombardia è uno scenario simile a quello che si vedrà negli altri Paesi europei”, ha detto ieri Bruno Ciancio dell’Ecdc, il Centro europeo di prevenzione e controllo delle malattie di Stoccolma.

Sos ospedali lombardi: “Rischiamo il disastro”

All’ottavo giorno dall’emergenza per il Covid-19 molto si chiarisce. Oltre a Veneto, Emilia Romagna, Marche, oggi il vero dramma si vive in Lombardia. Qui i contagi sono 513 distribuiti per l’85% nelle province di Lodi, Cremona, Bergamo e Pavia. Il 10% riguarda il personale sanitario. Anche alcuni medici di famiglia che sono un’emergenza nell’emergenza nella zona rossa, in particolare a Lodi: quattro in quarantena, sostituti da volontari e uno contagiato. Il Covid-19 si diffonde e gli ospedali sono al collasso. Quelli di Lodi, Bergamo e Cremona. Così il punto stampa ieri in Regione Lombardia è andato in scena in un’atmosfera lugubre. Presenti non più solo gli assessori, ma buona parte di medici e ricercatori che in questi giorni sono in prima linea. Verso le 15 c’era stata una riunione con il presidente Fontana dalla quale il messaggio uscito è stato: contenere il virus, aumentare le restrizioni, mantenere le zone rosse, e tenere le scuole chiuse. A otto giorni dalla scoperta del paziente 1 l’allarme non diminuisce. E le voci non della politica, ma di chi vive il virus ogni minuto svelano la realtà. Antonio Pesenti, direttore del Dipartimento emergenze del Policlinico di Milano, ha spiegato: “Questa malattia non è una banale influenza, e un’alta percentuale di pazienti richiede ricoveri in terapia intensiva”. Di più: “Le proiezioni ci fanno prevedere un disastro sanitario” perché “questo virus impatta sulle strutture sanitarie, richiede impegno e isolamento, la Lombardia ha tutta la tecnologia e tutte le competenze per trattarlo, ma il principale provvedimento è contenere l’epidemia”.

Il virus corre veloce. Al momento, ha spiegato il professor Massimo Galli del Sacco di Milano, ogni contagiato può infettare altre 2,5 persone. “Scordiamoci – ha spiegato Galli – che sia una situazione che possa essere velocemente risolta. Abbiamo un numero di infezioni locali molto alto che hanno iniziato a manifestarsi molto prima del caso di Codogno”. Il virus dunque è in Italia da diverse settimane se non da mesi. Ancora Galli: “Per un’epidemia di questa scala l’organizzazione messa in campo è ai limiti di tenuta per la gestione dei pazienti”. I letti della terapia intensiva sono quasi terminati. In totale la Lombardia ne ha 900. Le parole di Galli fanno prevedere un allargamento delle zone di contenimento verso l’area metropolitana di Milano già oggi zona gialla. “Alcuni ospedali sono in crisi, in questa realtà non ci si può limitare agli interventi sulla zona rossa, ma bisogna pensare concretamente alcune misure che portino l’intera area metropolitana fuori dai guai”.

Lodi: Gli ospedali, dunque. Oltre a Codogno, tre restano in crisi. Il primo è Lodi nella cui provincia si registra il 34% dei contagi. In città i contagi sono 51. Ne ha parlato l’assessore alla Sanità, Giulio Gallera: “La situazione è grave, ogni giorno, da quando è esplosa l’emergenza, arrivano cento pazienti al pronto soccorso con un quadro compromesso. Non esistono più i codici verdi. Vengono presi e la situazione si aggrava velocemente con la necessità di ventilazione assistita”. Giovedì erano cento le persone in coda.

Cremona: Non solo Lodi, anche Cremona rappresenta un focolaio rilevante. Ne ha parlato ieri Angelo Pan, infettivologo dell’Asst di Cremona. “Ci siamo trovati di fronte – ha spiegato – a un evento epidemico rapido e che ha provocato infezioni polmonari complesse, molto difficili da gestire, siamo sul fronte, qui a Cremona è il focolaio più colpito”. A ieri i contagi nella provincia erano 91. L’ospedale è stato rivoluzionato. “La struttura – ha spiegato Pan – è stata riorganizzata con ben tre reparti dedicati a fronte di iniziali 12 posti di malattia infettiva”.

Bergamo:C’è poi Bergamo e l’area della Val Seriana. Qui i casi superano i 20 con quattro vittime. Il volano è stato il pronto soccorso di Alzano Lombardo. Il direttore delle malattie infettive all’ospedale papa Giovanni XXIII Marco Rizzi ha spiegato: “La trasmissione è iniziata dall’ospedale di Alzano, in cinque giorni abbiamo registrato un numero crescente di casi, i cento posti disponibili non ci bastano più, e i 19 di terapia intensiva sono tutti occupati, l’epidemia è cresciuta rapidamente nel focolaio di Nembro”. La strada è in salita. E più che le cure, oggi conta la salute pubblica e dunque la limitazione della diffusione. “Una medicina amara da inghiottire, ma non ci sono alternative”, è la conclusione del professor Massimo Galli.