Devono vendere il giardino a causa dei debiti, venderanno il giardino a causa dei debiti. Anton Cechov è sempre avaro di coup de théâtre, ma non è questo il motivo della noia del suo Giardino dei ciliegi firmato dal blasonato Alessandro Serra, che, oltre alla regia, cura la drammaturgia, le scene, le luci e i costumi. Più che uno spettacolo di prosa, questo Cechov sembra un pezzo di teatro-danza: esteticamente raffinato, ma vuoto, a parte qualche citazione must-have del russo, tipo “la vita se n’è andata e io è come se non avessi mai vissuto”.
A detta dello stesso Serra, “non c’è trama, non accade nulla, tutto è nei personaggi. Una partitura per anime… un unico respiro, un’unica voce”. L’apparente assenza di azioni drammatiche legittima la regia a riempire i buchi con micro-azioni posticce: coreografie, risolini, partite a bocce, personaggi narcolettici, pirotecnici cambi di scena, pose e tableau vivant, giochi di luce e di prestigio, “rotture sintattiche, pianti, canti, apnee, russamenti, borbottii e filastrocche, e poi i suoni. Tutto concorre a una partitura musicale”, spiega sempre Serra. Tuttavia, è proprio la sovrabbondanza a contribuire all’effetto soporifero: più Cechov è ballerino, canterino, valzerino, più è noioso.
L’ensemble (Leonardo Capuano, Valentina Sperlì e altri) è molto affiatato e rispettoso del rigido, impeccabile disegno registico: anche la recitazione è così sottomessa alla confezione, la poetica all’estetica, la sostanza alla forma, tanto che la trama – ridotta all’osso – è al limite della comprensibilità. Di Cechov resta l’essenziale: l’inanità di Ljuba e compagni, l’indolenza e il fatalismo russi, per cui “a forza di non far niente ci si stanca a morte”. C’è chi va e chi viene, chi brama Mosca e chi Parigi, chi vagheggia ma non fa proprio nulla, solo aspetta che “il Signore lo aiuti”: sono forse già defunti, ombre, fantasmi, aspiranti suicidi, mancati suicidi, “mariti morti di champagne”, scialacquatori, lavativi, lagnosi. “Bisogna lavorare”, e nessuno lavora.
Sacrificate, invece, le “tonnellate di amore” care a Cechov e le tematiche sociali come l’emancipazione dei servi della gleba, che resta rumore di fondo, innocuo e buono solo per strappare due risate. Da un lato si è messo il freno a mano alla drammaturgia, dall’altro si è schiacciato l’acceleratore sugli effetti speciali, confezionando una Grande magia (complice il ruolo sovradimensionato della governante Carlotta) incantevole quanto insignificante: la fattucchieria di Cechov, se c’è, sta altrove, non certo nel travestimento, nelle fattezze o nella fattura della pièce. A parte due-tre momenti davvero magici (le palate di terra che risuonano come cannonate, le persone che si staccano dalla loro ombra sul muro…), questo Giardino è un esercizio di stile e di teatro illustrato, come certi libri con le figure tanto belli da sfogliare che si dimentica presto cos’hanno da dire.
Il giardino dei ciliegi
Di A. Cechov
Regia di A. Serra
Roma, Teatro Argentina, fino all’8 marzo; Casalmaggiore, Comunale, 22 marzo; Padova, Verdi, 25-29 marzo; Bologna, Arena del sole, 2-5 aprile; Cuneo, Toselli, 8 aprile; Lonigo, Comunale, 18 aprile