Cechov ballerino è molto noioso

Devono vendere il giardino a causa dei debiti, venderanno il giardino a causa dei debiti. Anton Cechov è sempre avaro di coup de théâtre, ma non è questo il motivo della noia del suo Giardino dei ciliegi firmato dal blasonato Alessandro Serra, che, oltre alla regia, cura la drammaturgia, le scene, le luci e i costumi. Più che uno spettacolo di prosa, questo Cechov sembra un pezzo di teatro-danza: esteticamente raffinato, ma vuoto, a parte qualche citazione must-have del russo, tipo “la vita se n’è andata e io è come se non avessi mai vissuto”.

A detta dello stesso Serra, “non c’è trama, non accade nulla, tutto è nei personaggi. Una partitura per anime… un unico respiro, un’unica voce”. L’apparente assenza di azioni drammatiche legittima la regia a riempire i buchi con micro-azioni posticce: coreografie, risolini, partite a bocce, personaggi narcolettici, pirotecnici cambi di scena, pose e tableau vivant, giochi di luce e di prestigio, “rotture sintattiche, pianti, canti, apnee, russamenti, borbottii e filastrocche, e poi i suoni. Tutto concorre a una partitura musicale”, spiega sempre Serra. Tuttavia, è proprio la sovrabbondanza a contribuire all’effetto soporifero: più Cechov è ballerino, canterino, valzerino, più è noioso.

L’ensemble (Leonardo Capuano, Valentina Sperlì e altri) è molto affiatato e rispettoso del rigido, impeccabile disegno registico: anche la recitazione è così sottomessa alla confezione, la poetica all’estetica, la sostanza alla forma, tanto che la trama – ridotta all’osso – è al limite della comprensibilità. Di Cechov resta l’essenziale: l’inanità di Ljuba e compagni, l’indolenza e il fatalismo russi, per cui “a forza di non far niente ci si stanca a morte”. C’è chi va e chi viene, chi brama Mosca e chi Parigi, chi vagheggia ma non fa proprio nulla, solo aspetta che “il Signore lo aiuti”: sono forse già defunti, ombre, fantasmi, aspiranti suicidi, mancati suicidi, “mariti morti di champagne”, scialacquatori, lavativi, lagnosi. “Bisogna lavorare”, e nessuno lavora.

Sacrificate, invece, le “tonnellate di amore” care a Cechov e le tematiche sociali come l’emancipazione dei servi della gleba, che resta rumore di fondo, innocuo e buono solo per strappare due risate. Da un lato si è messo il freno a mano alla drammaturgia, dall’altro si è schiacciato l’acceleratore sugli effetti speciali, confezionando una Grande magia (complice il ruolo sovradimensionato della governante Carlotta) incantevole quanto insignificante: la fattucchieria di Cechov, se c’è, sta altrove, non certo nel travestimento, nelle fattezze o nella fattura della pièce. A parte due-tre momenti davvero magici (le palate di terra che risuonano come cannonate, le persone che si staccano dalla loro ombra sul muro…), questo Giardino è un esercizio di stile e di teatro illustrato, come certi libri con le figure tanto belli da sfogliare che si dimentica presto cos’hanno da dire.

 

Il giardino dei ciliegi

Di A. Cechov

Regia di A. Serra

Roma, Teatro Argentina, fino all’8 marzo; Casalmaggiore, Comunale, 22 marzo; Padova, Verdi, 25-29 marzo; Bologna, Arena del sole, 2-5 aprile; Cuneo, Toselli, 8 aprile; Lonigo, Comunale, 18 aprile

 

Mamma Gerini e la sua promessa del calcio

Claudia Gerini ha ultimato in Francia le riprese di Anna Rosenberg, un thriller psicologico tratto dal romanzo Fiché coupable e diretto da Michele Moscatelli incentrato sull’interrogatorio di una scrittrice da parte di un poliziotto (Christophe Favre) impegnato soprattutto a mortificarla. L’attrice romana tornerà presto sul set in Mancino naturale, un nuovo film di Salvatore Allocca ambientato nella provincia laziale in cui sarà la madre di un dodicenne che si rivelerà una promessa del calcio. La donna si impegnerà al massimo per valorizzare il talento del ragazzo, ma dovrà lottare strenuamente per fronteggiare problemi e difficoltà di ogni giorno.

Reduce dalle recenti riprese del film di Elisa Amoruso Maledetta primavera Micaela Ramazzotti si trova in questi giorni a Civitavecchia per interpretare Naufragi, un film diretto da Stefano Chiantini e realizzato da World Video Productions in cui divide la scena con un’immigrata africana. In tarda primavera, infine, reciterà nell’atteso Caravaggio diretto da Michele Placido con Riccardo Scamarcio protagonista.

Sergio Rubini sta ultimando con Carla Cavalluzzi e Angelo Pasquini il copione de I De Filippo, il suo nuovo film da regista realizzato da Pepito Produzioni in cui racconterà vita e opere dei tre fratelli napoletani Titina, Eduardo e Peppino, tutti destinati a diventare attori e autori/chiave del ’900.

Dopo il pluripremiato A ciambra il 36enne Jonas Carpignano gira a Gioia Tauro un nuovo lungometraggio di produzione italo-francese dal titolo A Chiara. Una ragazzina sveglia e dal carattere forte e deciso, Chiara, sarà costretta a vedere con occhi diversi la sua città quando suo padre dovrà partire per un lungo viaggio provocando un profondo cambiamento degli equilibri della sua famiglia.

Ridare vita a chi fu condannato a non invecchiare

Il titolo They Shall Not Grow Old potrebbe far pensare agli effetti del coronavirus sulla gente, ma tranquilli, qui non sono i vivi che muoiono, bensì i morti che ritornano in vita. Non è uno zombie-movie, però, trattasi di documentario sulla Grande guerra, come non l’abbiamo mai vista, come non li abbiamo mai visti e sentiti quei giovani mandati al macello. Dunque, il sottotitolo italiano: Per sempre giovani.

Alla regia Peter Jackson, che si fa perdonare gli Hobbit con un’operazione insieme avveniristica e umanista di assoluto, e commovente, valore. Il cineasta neozelandese utilizza la migliore tecnologia disponibile per fare di Storia vita, di comparse protagonisti, di soldatini uomini: restaura e colorizza le immagini di repertorio, in parte inedite, dell’Imperial War Museum, le converte in 3D e le lavora in post-produzione, estraendone l’invisibile, poi, vi associa le registrazioni sonore provenienti dagli archivi della Bbc.

Il risultato? Ecce homini, restituiti di carne e anima, sottratti non al destino ma all’oblio: si mostrano, ci parlano, interrogano non più le nostre nozioni, ma le nostre coscienze. Facendo come noi: mangiano, riposano, costruiscono relazioni, anelano un futuro migliore.

Jackson richiama a raccolta un esercito di giovanissimi condannati a non invecchiare: partiti per il fronte con tutto l’armamentario patriottico e un solo cambio di calzini, convinti che l’Impero Britannico avrebbe vinto facile e subito. Beata innocenza, ne sarebbero caduti più di un milione, e dall’ode di Laurence Binyon For the Fallen viene il titolo del documentario, tra i più sorprendenti, potenti e importanti degli anni Dieci. Un uomo di cinema e pace quale Ermanno Olmi – vi ricordate torneranno i prati? – ne sarebbe stato il più accorto estimatore, ma rimanervi indifferente è impossibile, sono cento minuti di aggiornamento esistenziale, perfino morale.

“Volevo attraversare le nebbie del tempo e portare questi uomini nel mondo moderno affinché potessero riconquistare per una volta ancora la loro umanità, piuttosto che essere visti sempre e solo nei vecchi filmati d’archivio”, dice Jackson, e l’obiettivo è raggiunto: i colori posticci rimandano al tavolo autoptico, le parole dei soldati echeggiano la sciagura, gli orizzonti di gloria questi fantasmi, al pari degli alti comandi, elevati solo nella criminosità.

Insomma, c’è molto di nuovo sul fronte occidentale, “possiamo vedere e ascoltare la Grande guerra proprio come chi l’ha vissuta” senza – letteralmente – mortificare quelle vite, quelle speranze. E torna in mente proprio il libro di Eric Maria Remarque: “La vita qui sul crinale della morte ha una linea straordinariamente semplice, si limita all’indispensabile; tutto il resto è addormentato e sordo: in ciò sta la nostra primitività, e in pari tempo la nostra salvezza”. They Shall Not Grow Old è al cinema il 2, 3 e 4 marzo: non perdetelo.

 

Nessuno tocchi Marino: Pistoia e Firenze in lotta

“I suoi cavalieri sono scesi in una lucida alba dal Partenone, per farsi più umani e cavalcare nelle vie degli uomini”. Le parole scritte da Filippo De Pisis nel 1941 per i primi Cavalieri del pistoiese Marino Marini (1901-1980) sono forse la miglior introduzione all’arte di questo scultore, raffinatissimo quanto capace di penetrare nell’immaginario collettivo. Un artista che ha saputo mettere in risonanza l’intera tradizione occidentale di forme plastiche con l’astrazione mentale del Novecento: un antico moderno, un classico tipicamente toscano.

Fino a oggi, oltre che nei principali musei del mondo, chi avesse voluto conoscere l’opera di Marini sarebbe dovuto andare a Firenze (dove, nella chiesa di San Pancrazio, sono esposte le opere monumentali) e nella natìa Pistoia, dove il convento del Tau era stato comprato apposta per ospitare i disegni, le opere più piccole e soprattutto il centro di documentazione con tutto il materiale necessario per le autentiche delle opere attribuite a Marini, richieste in gran numero da ogni parte del mondo. Tutto appartiene alla Fondazione Marino Marini (istituita nel 1983 per volontà della vedova dell’artista), che fino a poco fa (almeno fino alla splendida mostra Passioni visive, curata tra 2017 e 2018 da Flavio Fergonzi e Barbara Cinelli) ha fatto il suo lavoro. Oggi, però, questa alta eredità è in pericolo: e da domenica prossima il museo pistoiese chiuderà.

All’inizio dello scorso dicembre, è stato l’ex sindaco di Pistoia Samuele Bertinelli (un esponente onesto e colto del Pd, del tutto estraneo al potere renziano e infatti puntualmente osteggiato, per tutto il mandato amministrativo, dal suo stesso partito) a dare l’allarme ai suoi concittadini: nel più completo silenzio, la Fondazione stava abbandonando Pistoia. Chiusura di conti correnti, tentativi di cambiare lo Statuto (che fissa Pistoia come sede della Fondazione stessa), fuoriuscita dal circuito museale civico (atto voluto dal nuovo sindaco Tomasi, che viene da CasaPound ed è eletto da Fratelli d’Italia…), estromissione progressiva della cerchia dei più sinceri custodi dell’eredità dell’artista: fino al colpo clamoroso, la volontà di spostare a Firenze tutto il patrimonio del Tau, recidendo di fatto ogni legame con la città di Marino.

Nella sonnacchiosa e bellissima Pistoia, la notizia è deflagrata come una bomba: ma nonostante la mobilitazione (culminata nella nascita di un comitato “Nessuno tocchi Marino”), i vertici della Fondazione hanno tirato diritto, arrivando a licenziare i dipendenti pistoiesi del museo, e sospendendo tutte le importanti attività che legavano quelle opere alla città. Per fortuna, messo sull’avviso dalle manovre del cda della Fondazione, il soprintendente Andrea Pessina aveva varato fin da luglio un vincolo pertinenziale che àncora per sempre le opere al convento pistoiese: vincolo sul quale ora la Fondazione è addirittura ricorsa al Tar, con un atto che calpesta un secolo di amoroso sodalizio tra un artista e la sua terra.

Ma qual è il motivo di una virata così scellerata, e apparentemente incomprensibile? A Pistoia si sospetta, come sempre, dei fiorentini: ma nonostante l’intraprendenza aziendalistica della direttrice fiorentina Patrizia Asproni e l’imbarazzante silenzio di Dario Nardella, sarebbe sorprendente che si trattasse di uno scippo campanilistico, viste le dimensioni già ipertrofiche del patrimonio culturale fiorentino.

La chiave sembra da cercare nelle ferme dichiarazioni di protesta di Flavio Fergonzi, il più autorevole studioso di Marini, ordinario alla Normale e membro del Consiglio Scientifico della Fondazione (consiglio lasciato all’oscuro da tutta questa manovra). Pochi giorni fa, Fergonzi ha denunciato che la Fondazione ha prelevato da Pistoia e depositato in un luogo ignoto tutta la documentazione relativa alle autentiche: e cioè quell’archivio che, insieme alla frequentazione degli originali, permette di continuare a distinguere con rigore le vere opere di Marino. Un importantissimo materiale scientifico, ma anche una decisiva leva commerciale, che nelle mani sbagliate (o semplicemente se inaccessibile agli studiosi e allo stesso comitato scientifico della Fondazione) può diventare un pozzo senza fondo di attribuzioni farlocche da milioni di euro. Il terribile caso Modigliani sta lì ad ammonirci: la scia di truffe, falsi, inchieste e forse addirittura omicidi che ha sfigurato l’immagine del dolce e maledetto artista livornese parte proprio dal dirottamento del suo archivio.

Insomma, quella che sui giornali locali si sta raccontando come una faida da campanile tra pistoiesi e fiorentini potrebbe nascondere pericoli più gravi. Per questo la battaglia della Pistoia pulita, e legata al suo artista, non riguarda solo Pistoia, ma tutti coloro che vogliono continuare a vedere quei cavalieri scesi dal Partenone cavalcare nelle vie degli uomini, e non finir segregati in losche scuderie.

Roma amica di Nuova Delhi, lo vuole Trump

Il governo Conte 2, osservato da una giusta distanza, ha una differenza sostanziale col governo Conte 1: in politica estera l’Italia ha ridotto le sue pericolose ambiguità e si è ricollocata nei pressi degli Stati Uniti. Fin dal primo giorno. La frequenza dei rapporti con l’India, dopo le tensioni per i Marò, per esempio, sono un segnale che si rafforza con la visita del primo ministro Narendra Modi prevista a Roma per la seconda settimana di maggio, prologo al viaggio a Nuova Delhi di Luigi Di Maio, il ministro degli Esteri. Come dimostra la spettacolare trasferta di Donald Trump in India con in stiva la solita commessa di armamenti, l’unica industria che non conosce contrazioni, Washington nutre da tempo una collaborazione con l’India per arginare in quel pezzo di mondo la Cina e ha invitato gli alleati a orientare la bussola verso Nuova Delhi e non Pechino. Questa fu un’indicazione esplicita rivolta anche a Roma durante le trattative per l’adesione al memorandum per la cosiddetta “Nuova Via della seta”, firmato un anno fa dal governo Conte 1 con grosso, e forse eccessivo, sdegno degli americani. Al margine dell’assemblea generale delle Nazione Uniti di settembre, appena nominato, Di Maio ha incontrato il collega indiano Subrahmanyam Jaishankar, influente diplomatico con esperienze tra Pechino e Washington, ex segretario generale per un triennio nonché con un recente passato di presidente della multinazionale Tata.

In quell’occasione i ministri hanno parlato di una collaborazione per progetti comuni in Africa, dove i cinesi avanzano con investimenti nelle infrastrutture e nel commercio, e di “cooperazione” per la Difesa e l’aerospazio. Detta meglio: armamenti.

In dicembre, invece, Jaishankar ha partecipato a Roma, invitato dalla Farnesina, al forum sul Mediterraneo e poi ha incontrato sempre Di Maio e il premier Conte: “Noi non saremo una seconda Cina, non puntiamo alla manifattura. Esporteremo fuori quello che siamo dentro: il nostro approccio è molto diverso dai cinesi. Entro dieci anni saremo la terza economia del mondo, entro cinque la nazione più popolosa”, disse con orgoglio a un gruppo di cronisti. Con una postilla: l’economia cresce, l’inquinamento pure. E Jaishankar ricorda spesso che l’Italia può fornire agli indiani tecniche per “pulire il settore energetico con le rinnovabili”.

Perciò Di Maio andrà in India con una carovana di imprenditori italiani e senza il timore di innervosire gli americani. È curioso notare che Di Maio vicepremier e ministro dello Sviluppo economico era considerato, non a torto, troppo smielato con la Cina e poco attento al decoro atlantico, memorabile il biglietto di aereo di linea sventolato prima di decollare in direzione Pechino. Adesso da ministro degli Esteri non sventola più biglietti di aerei di linea e però volerà a Nuova Delhi e si prepara ad accogliere l’indiano Modi.

Modi il nazionalista: pace, amore e botte ai fedeli di Allah

Dopo una settimana di disordini e scontri tra hindu e musulmani nelle strade di Delhi, 33 morti e almeno 200 feriti, il primo ministro Narendra Modi ha rotto il silenzio via tweet affermando che “la pace e l’armonia sono fondamentali per la nostra etica”. Modi, dopo aver congedato il presidente Trump in visita di stato da giorni, ha dovuto occuparsi della questione. Il problema è che il primo ministro non è credibile agli occhi della popolazione islamica e, in questo frangente, neanche a quelli degli induisti che percepiscono i suoi tweet come un passo indietro, essendo stato proprio Modi il fautore del recente Citizenship Amendment Act che concede la cittadinanza indiana agli immigrati di Bangladesh, Afghanistan e Pakistan ma solo se di religione non musulmana.

Questa legge pubblicata lo scorso dicembre e, prima ancora, la rimozione dell’autonomia al Kashmir (Stato a maggioranza islamica, conteso dal Pakistan) sono state criticate anche dalla comunità internazionale e dalle organizzazioni per i diritti umani per il chiaro intento settario e discriminatorio. Ma è la questione della cittadinanza ad aver fatto scoppiare la frustrazione degli indiani musulmani e aizzato gli animi degli induisti più fanatici. Sono questi ultimi coloro che Modi conosce meglio di chiunque essendo il leader del partito induista Bjp al governo e soprattutto per aver costruito la propria carriera tra le fila della gioventù induista militante (una sorta di braccio armato del Bjp) sbandierando slogan diffamatori contro i cittadini indiani di religione islamica. “Faccio appello alle mie sorelle e ai miei fratelli di Delhi affinché mantengano la pace e la fratellanza in ogni momento. È importante che ci sia calma e che la normalità venga ripristinata al più presto”, ha aggiunto in seguito il premier, sempre via tweet. Ma la crisi richiede ben più di un appello alla fratellanza dell’ex venditore di chai di casta bassa arrivato al potere promettendo una politica ultranazionalista e ultrareligiosa. Riconfermato a furor di popolo per un secondo mandato l’anno scorso, il premier si è sentito autorizzato a portare avanti la propria agenda divisiva che ha prodotto questa inedita ondata di violenza, arrivata al culmine quando è stato appiccato il fuoco a una moschea della capitale domenica scorsa.

La situazione ha iniziato a precipitare già dieci giorni fa a Delhi a causa di un sit-in pacifico, organizzato per chiedere l’abolizione della legge sulla cittadinanza, subito bollato dai vertici del Bjp come atto eversivo. Le spranghe, i coltelli e persino le armi usate per colpire coloro che stavano partecipando all’iniziativa non hanno fatto però distinzione tra credenti.

Sono rimasti feriti infatti anche indiani di religione induista che partecipavano al sit-in perchè contrari a questa legge che gli intellettuali e gli attivisti accusano di violare il carattere laico della Federazione indiana.

Gli scontri si sono diffusi in molte aree di Delhi dove sono rimasti feriti anche passanti estranei alle proteste. Due giorni fa il governatore di Delhi, Arwind Kejriwal, ha chiesto di imporre il coprifuoco e di far intervenire l’esercito nelle aree orientali della capitale colpite dai disordini. I musulmani che vivono in India sono 200 milioni e costituiscono la minoranza religiosa più vasta.

L’opposizione, attraverso la voce della presidente del Partito del Congresso, Sonia Gandhi, chiede le dimissioni del ministro degli Interni Amith Shah.

Durante la scorsa notte c’è voluta un’ingiunzione dell’Alta Corte di Delhi perché gli agenti di polizia creassero un corridoio di sicurezza per permettere a 20 feriti, sino a quel momento trattati in un ambulatorio di quartiere, di essere trasferiti in ospedale. Un giudice della Corte Suprema ha criticato la polizia per aver voltato lo sguardo di fronte alle violenze degli induisti che sono le più gravi registrate a Delhi dal 1984.

“Gente semplice” di Slovacchia

Inizialmente doveva chiamarsi soltanto ‘Gente comune’, poi il nome si è articolato di più: ‘Gente comune e personalità indipendenti’ (Ol’ano). È il partito dalle mille anime – populista, liberale, conservatore, fautore della democrazia diretta – che potrebbe rappresentare la sorpresa delle elezioni slovacche. Si va alle urne domani.

I sondaggi indicano che Ol’ano, fondato nel 2011 dal magnate della stampa Igor Matovic (possiede una catena di testate locali), dovrebbe orbitare tra il 15 e il 20%, superando la dote raccolta nel 2012 (8,55%) e nel 2016 (11,03%). Un bottino che gli permetterebbe di contendere la maggioranza relativa a Smer-Sd, la formazione di matrice socialista-populista, guidata dal primo ministro Peter Pellegrini, che domina da 15 anni la politica di Bratislava.

Il processo per l’omicidio del giornalista investigativo Ján Kuciak, avvenuto il 21 febbraio di due anni fa, ha eroso il consenso di Smer-Sd: può perdere fino a dieci punti. In aula stanno emergendo le trame opache tra élite politica e oligarchie. Il presunto mandante dell’omicidio, Marian Kocner, più volte tirato in ballo nelle inchieste di Kuciak, è un affarista ben introdotto negli ambienti governativi. Smer-Sd è percepito sempre di più come il partito della corruzione. Di contro, Ol’ano è la formazione che più convince i tanti elettori che vorrebbero pulizia nel sistema. Matovic ha metodi irrituali, se non aggressivi, ma efficaci. Alcuni giorni fa i suoi militanti hanno acceso centinaia di candele sotto il palazzo del primo ministro. Rappresentavano le persone che a causa dei fondi depredati dall’esecutivo non hanno potuto ricevere cure mediche, e per questo sono morte.

Tra le altre iniziative forti prese in campagna c’è un sondaggio online – un esempio di democrazia diretta per Matovic – con cui si è chiesto ai cittadini di esprimersi su undici punti del programma. Tra questi, l’istituzione di una ricompensa in denaro per chi denuncia casi di corruzione, il taglio delle tasse per chi si reca alle urne e l’introduzione del voto elettronico. Matovic trae vantaggio dallo sgretolamento del consenso di Smed-Sd, come dallo scarso collante tra le forze liberali, i cui numi tutelari sono l’attuale presidente della repubblica Zuzana Caputová e il suo predecessore Andrej Kiska. Le differenze non sottili tra i partiti di questo campo – liberali classici, liberali conservatori, liberali verdi – non hanno permesso la nascita di un lista unica, e questo ha frustrato l’elettorato, disperdendo il capitale politico accumulato dai liberali nel periodo di massima mobilitazione di ‘Per una Slovacchia decente’. È il movimento civile di piazza nato spontaneamente per chiedere giustizia per Kuciak, lotta ai corrotti, stato di diritto e più europeismo.

Nel prossimo Consiglio nazionale, così si chiama il Parlamento slovacco, ci saranno molti partiti, forse una decina. Scenario molto frammentato. Servirà una coalizione ampia per governare. Ci si domanda cosa farà Matovic nel caso in cui gli spetterà il pallino dei negoziati: se sarà lui a pretendere il premierato (sembrerebbe di sì), e con quali soci. Di recente, Ol’ano ha rivisto la sua collocazione politica sganciandosi dal gruppo degli euroscettici di destra al parlamento europeo (quello di Fratelli d’Italia e dei polacchi di Diritto e Giustizia) e confluendo nel Partito popolare. Mossa che lascerebbe intendere la volontà di arrivare a un’intesa con i liberali, i quali però nutrono dubbi verso Matovic, la sua conversione centrista e la sua esuberanza populista.

Un’altra opzione, per Matovic, potrebbe essere corteggiare i partiti della destra radicale, anch’essi in ascesa. Il Partito popolare-Nostra Slovacchia (L’sns) di Marian Kotleba, noto per certe simpatie neonaziste, e ‘Siamo una famiglia’ (Sme Rodina) di Boris Kollár, estimatore di Matteo Salvini, dovrebbero ottenere un buon risultato elettorale, gravitando intorno alla doppia cifra o persino spingendosi oltre. Pure il Partito nazionale slovacco (Sns), molto empatico con la Russia di Putin, dovrebbe superare lo sbarramento del 5% stabilito per entrare in parlamento. Anche Peter Pellegrini, se sarà lui a gestire i negoziati per il governo, potrebbe giocare la carta dell’alleanza con una di queste forze, già praticata in varie legislature da Smer-Sd, compresa l’ultima: l’Sns è membro della coalizione. Un eventuale sbilanciamento a destra dell’assetto politico pone però interrogativi sulla collocazione geopolitica della Slovacchia, membro Nato e Ue. Tutte le destre sono infatti estremamente critiche verso la globalizzazione e i paradigmi euro-atlantici.

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Consip, Comin: “Mai sentito i giornalisti del Fatto”

In riferimento agli articoli sul “caso Consip”, non c’è nessun mistero. Come capita frequentemente nei casi di crisi di aziende o manager siamo stati contattati da un dirigente, credo proprio Francesco Licci, per valutare un supporto di strategia di comunicazione e di ufficio stampa per i vertici della Consip. Feci io stesso un incontro con il dottor Luigi Marroni nel suo ufficio presso la Consip. Arrivammo alla conclusione che un’attività professionale non sarebbe stata utile in quella fase. Non ho mai ricevuto da lui e da nessun altro alcun documento o carteggio, proprio perché non è mai stata attivata una collaborazione. Su quella vicenda non ho mai chiamato né il direttore Travaglio, né i giornalisti del Fatto Quotidiano. Ovviamente l’avrei fatto con loro e con altri, a fronte di un incarico ufficiale, in piena trasparenza, per argomentare le ragioni e il punto di vista di un mio cliente.

Gianluca Comin

 

Lo statista di Rignano: un “Principe” di nessuno

Caro Direttore, al contrario di quanto lei sostiene tra le righe del suo esilarante editoriale del 21 febbraio, io penso che nella follia di Matteo Renzi ci sia della logica. E che non bisogna neanche andare tanto lontano per capirla. Per anni, i cosiddetti giornaloni hanno dipinto l’ex-premier come un leader machiavellico, e in modo così intenso che, io credo, alla fine abbia iniziato a crederci anche lui; sebbene, purtroppo per chi ci è cascato, non sia per niente così. Le faccio un esempio semplicissimo tratto dal capitolo XXIII de Il Principe di Machiavelli, chiamato “Come si devono fuggire gli adulatori” (spero mi perdonerà la traduzione in italiano moderno): “Non voglio lasciare indietro un argomento importante e un errore dal quale i principi si difendono con difficoltà, se non sono assai abili o non compiano scelte oculate. E questi errori sono gli adulatori, dei quali le corti sono piene […]”. Le pare forse che il machiavellico statista di Rignano abbia scacciato gli adulatori dalla sua corte sostituendoli con dei saggi che lo consigliano bene? Lui non ascolta nessuno. La verità, io credo, sta da tutt’altra parte. Matteo Renzi non ha mai avuto un’idea originale in tutta la sua carriera politica, ha sempre copiato dagli altri: è venuto alla ribalta rubando le idee del M5S, quando la sorte sembrava favorire la sinistra si mise a sbertucciare i leader socialisti europei, nel momento in cui tutti pensavano che il mondo stesse andando a destra “non ha lasciato il fascismo ai fascisti” (per parafrasare Crozza). Adesso non sta facendo niente di diverso: ha visto l’enorme crescita di Salvini per merito del suo terrorismo mediatico ai danni del Conte 1 e sta facendo la stessa cosa con il Conte 2.

G. C.

 

Meno chiacchiere da talk, più lavoro sui vaccini

Gentile Redazione del Fatto Quotidiano siamo arrivati davvero all’esasperazione con questi ossessionanti programmi su tutte le reti televisive riguardanti il coronavirus.

Questa è gente che per mantenere il posto in televisione e per farsi notare approfitta di qualunque cosa, inventandosele in tutti i sensi, in tutti i modi e in tutte le maniere. La gente che si guadagna da campare con il sudore della propria fronte ha bisogno di sentire fatti risolutivi, poiché la sfortuna è sempre del pover’uomo. E proprio per essere troppo chiacchieroni che l’Italia è il secondo Paese al mondo, guarda caso dopo la Cina, con il maggior numero di persone contagiate. Proprio per non allarmare ulteriormente in modo esasperato, è il caso che la televisione informi la gente su quanto si sta facendo realmente nei laboratori di tutto il mondo, lavorando in collaborazione, per trovare il vaccino.

Ines e Antonio Di Gregorio

 

La fame di cultura dell’Iran nelle voci isolate degli artisti

Alessandro Di Battista dice cose che nessuno, a parte il giornale che lo ospita, osa dire. Il reportage sull’Iran del 25 febbraio è il frutto di uno sguardo coraggioso sulla “Persia” e vicende consimili. Andai in Iran nel 2018 per conferenze presso l’Università e il Teheran Museo of Contemporary Art, dove la splendida Biennale di Scultura ivi allestita era frequentata in modo appassionato da intellettuali, artisti, famiglie, e tantissime donne, che in Iran vedi ovunque, dall’Università agli aeroporti (bella differenza, ha ragione Di Battista, rispetto all’Arabia Saudita).

Mai mi è capitato di percepire tanta fame di cultura, tanto interesse intelligente per l’arte italiana e occidentale, che le ultime generazioni di artisti iraniani frequentano mescolandola alla propria sublime tradizione. Ora il Teheran Museum è chiuso, progetti di collaborazione Iran-Italia bloccati, produzioni di videoanimazione della loro ottima scuola languono in situazioni costrittive. Forse solo artisti come Shirin Neshat, o Barbad Golshiri, o Sima Shafti, possono raccontare, come auspica Di Battista, l’Iran “per intero”.

Eleonora Frattarolo

 

I NOSTRI ERRORI

Ieri, nell’articolo a pag. 15, “Mio padre è morto in barella, però nessun medico pagherà” abbiamo sbagliato a inserire la parola “medico” nel titolo, quando nessun dottore è mai stato imputato in quel procedimento. Ce ne scusiamo.

FQ

Filippo Magnini. Assolto dal Tas dall’accusa di doping, ma la macchia purtroppo resta

 

Gentile redazione, ho saputo ieri che Filippo Magnini è stato assolto dall’accusa di doping dal Tribunale arbitrale internazionale dello sport: è stata dunque annullata la squalifica a 4 anni comminata all’ex campione dalla giustizia sportiva italiana. Come è possibile questa discrepanza di giudizio, mi chiedo? Cosa dobbiamo pensare di Magnini: era davvero pulito o ci resterà sempre il dubbio sulla sua correttezza?

Annamaria Lievi

 

Montréal, Canada, 29 luglio 2005, una data scolpita negli annali dello sport italiano. E nella nostra memoria: Filippo Magnini vince i Mondiali nei 100 metri stile libero, la gara regina del nuoto, lasciandosi alle spalle tutti i più forti dell’epoca, dal sudafricano Schoeman a Michael Phelps, che sarebbe poi diventato l’olimpionico più decorato di tutti i tempi. Un trionfo storico. Ci piace ricordarlo così Magnini, “re Magno”, come lo avevano soprannominato i tifosi, “Filo”, come lo chiamano gli amici. E pure negli anni successivi, mentre lottava faticosamente per rimanere a galla contro avversari dai muscoli ipertrofici e i costumi gommati (che per un paio d’anni hanno “dopato”, loro sì per davvero, tutti i tempi), rivincendo persino un altro titolo mondiale. Rischiavamo di non poterlo fare. Nel 2018 il nuotatore pesarese era stato squalificato per uso o tentato uso di doping tra il 2015 e il 2016: quattro anni, il massimo della pena, confermata in appello. L’accusa era di aver chiesto e ottenuto dal nutrizionista Guido Porcellini sostanze illecite, di cui la giustizia penale non aveva mai trovato traccia, ma tanto era bastato a quella sportiva per emettere il suo verdetto di colpevolezza. L’Antidoping italiana aveva scritto una verità giudiziaria, che avrebbe lasciato un’ombra indelebile sul passato, anche su quei trionfi in un periodo lontano. Il Tas ne riscrive un’altra, che lo riabilita. Questo non cancella le circostanze emerse nel corso dell’indagine: le intercettazioni equivoche, la frequentazione quantomeno inopportuna con un medico che intanto è stato condannato. Una vicenda misera, su cui ognuno può conservare la propria opinione. Se Magnini sia caduto o meno in tentazione in un momento difficile della sua vita, quand’era ormai sul viale del tramonto e per chi è stato un campione è dura veder vincere gli altri, lo sa solo lui. Che si sia dopato o abbia tentato di farlo non c’è prova e questo resta. La sentenza del Tas, che è definitiva, non sporcherà una carriera che probabilmente non meritava di essere macchiata. E nemmeno i nostri ricordi, che ci sono cari.

Lorenzo Vendemiale

Contrordine Coronavirus: il panico è colpa vostra

Dice: “Riapriamo Milano”. Dice: “La prima malata: Ma quale paura? Stavo benissimo”. Dice: “Coronavirus, allarme eccessivo”. Dice: “L’Oms: Bene l’Italia, niente panico”. A leggere i giornali ieri mattina ci siamo domandati: ma chi sarà stato quel cialtrone che ha diffuso il panico? È tutto talmente business as usual che sulle prime pagine è tornata pure la fantascienza tipo il governo di unità nazionale Renzi-Salvini. Anche Libero, già portatore sano del titolo “Prove tecniche di strage”, ieri ci spiegava: “Virus, ora si esagera. Diamoci tutti una calmata”. Il Messaggero ci ammaestrava invece sui pericoli della “info-demia”: “La preoccupazione è che il continuo flusso di notizie sull’infezione stia creando un’ossessione collettiva”. Voi dite? Devono essere cambiati un bel mazzo di direttori nella notte perché sulla scrivania ci sono ancora i giornali degli ultimi giorni: roba pulp, e citiamo solo i titoloni d’apertura dei maggiori, come “Mezza Italia in quarantena”, “Il virus dalle zone rosse colpisce e contagia”, “Tutto il Nord ostaggio del virus”, “Nord, paralisi da virus”, etc. Tra un po’, siamo già rassegnati, dopo giorni di trasmissioni senza pubblico, eroiche interviste con mascherina dalla zona rossa, ossessivo conto dei morti, dei contagiati e dei loro parenti, cazzate a tema coronavirus sparse a ogni ora dei palinsesti, ci toccherà pure la predica anti-panico di quei succedanei del pensiero detti talk show. E vabbè, niente panico, anzi scusate se vi abbiamo spaventato dandovi retta, ci s’era dimenticati che non siete abituati.