“Bimbi cittadini”, una riforma alla tedesca

Travolti dal disastro demografico, siamo sempre di meno, noi italiani d’Italia: 55 milioni appena. Ma invece di rendere più agevole l’attribuzione della cittadinanza, paradossalmente la scoraggiamo. Uno straniero non comunitario che voglia diventare italiano deve aspettare infatti 14 anni: dieci di residenza regolare prima di fare domanda (in Francia ne bastano cinque, nel Regno Unito sei, in Germania otto) più quattro graziosamente concessi dal primo decreto Sicurezza alla burocrazia per partorire il provvedimento. Siamo prigionieri di una legge sullo ius sanguinis, la 91 del 1992, tra le più arretrate ormai d’Europa e del mondo avanzato. È venuto il momento di allentare il suo giogo.

Ancora due settimane di audizioni alla commissione Affari costituzionali della Camera, guidate dal presidente Giuseppe Brescia, e poi potrà iniziare il dibattito sulla riforma. Difficile scalfire il totem dei dieci anni di residenza prima della domanda, ma sarebbe saggio ridurli a otto per i non comunitari già in possesso del permesso di lungo soggiorno, che comporta cinque anni di residenza regolare, un reddito non inferiore all’assegno sociale e l’aver superato un test di italiano. I quattro anni regalati alla burocrazia vanno assolutamente riportati a due, che già costituiscono un record di lunghezza.

Ma è per i bambini nati in Italia da famiglie già integrate, e per i ragazzi arrivati invece da piccoli, che la riforma non può più tardare. L’aspettano un milione di giovani, italiani di fatto ma non di diritto. Oggi debbono risiedere in Italia per 18 anni senza interruzione dalla nascita, e poi fare anche domanda, perché la cittadinanza non viene attribuita loro automaticamente. Va mantenuto il principio cardine della riforma approvata dalla Camera nel 2015 e abortita al Senato all’antivigilia di Natale del 2017: è italiano il bambino nato in Italia, se almeno un genitore ha il permesso di lungo soggiorno: e sono ormai il 63 per cento degli immigrati non comunitari a possederlo.

Un errore fatale è stato quello di etichettare come ius soli questa proposta: ha fatto credere che anche il “figlio di uno sbarco” diventasse istantaneamente cittadino e che l’Italia si trasformasse nella “più grande sala parto del Mediterraneo”. Chiamiamola invece riforma “dei bambini cittadini”. Oppure, “cittadinanza alla tedesca”. Già, perché da vent’anni la Germania è più avanti di noi: la cittadinanza è concessa infatti ai bimbi nati da genitori stranieri con almeno otto anni di residenza. In un seminario organizzato da Tito Boeri alla Camera alla fine dello scorso ottobre, il professor Helmut Reiner, dell’Università di Monaco, ha elencato i benefici effetti di quella riforma: sono cresciute ad esempio del 40 per cento le iscrizioni alle Superiori dei figli degli immigrati, che hanno migliorato del 30 per cento la loro performance in tedesco, matematica e inglese.

C’è poi un secondo principio su cui la riforma punta e che merita una riflessione: il cosiddetto ius culturae. Oggi si tende anzi a parlare soltanto di questo, forse per far dimenticare il flop dello ius soli. Si tratta dunque di concedere la cittadinanza a ragazzi non nati, ma arrivati in Italia da piccoli e che abbiano frequentato un ciclo quinquennale di studi da noi: un’innovazione unica, in Europa. Che però va resa inattaccabile. Si potrebbe inserire anche qui il requisito del possesso di un permesso di lungo soggiorno per almeno un genitore. L’età massima dell’ingresso in Italia va probabilmente abbassata rispetto ai 12 anni indicati in varie proposte di legge, i cicli scolastici previsti vanno superati con tanto di esame, e non può assolutamente bastare un corso triennale di formazione professionale, che serve a imparare un mestiere, per diventare italiani. La mediazione politica è necessaria, se si vuole che un principio rivoluzionario come lo ius culturae diventi un giorno legge.

L’Italia ha bisogno di sostegno: anche con più flessibilità

In Italia il nuovo ceppo di coronavirus è arrivato in un momento particolarmente difficile. La terza economia dell’eurozona era già in una fase di contrazione alla fine del 2019. La necessità di proteggere la salute pubblica tramite operazioni di quarantena dei malati e di chiusura delle attività economiche rischia ora di spingere il Paese nella quarta recessione dalla crisi del 2008. La diffusione del virus nelle ricche regioni del Veneto e della Lombardia nel Nord Italia è diventata la più ampia del mondo occidentale.

Come risposta il governo ha preso la ragionevole decisione di mettere completamente in quarantena 11 città. A Milano, la capitale finanziaria e affaristica del Paese, le scuole, gli uffici e le attrazioni turistiche sono state chiuse completamente (…) Chiusure e restrizioni nei trasporti colpiscono le catene di approvvigionamento al centro dell’economia moderna

Sfortunatamente per l’Italia, l’epidemia è al centro di aree del Nord altamente produttive e che sono integrate nelle catene europee di approvvigionamento, provvedendo a componenti vitali delle industrie tedesche. L’export è stato una delle principali fonti della crescita italiana dal 2008 – non solo nell’ingegneria ma anche nella moda, nel cibo di alta qualità che stanno invece soffrendo del declino della domanda cinese. Anche il turismo sarà colpito. I tentativi di contenere il virus potrebbero rappresentare un problema immediato, ma la debolezza economica dell’Italia è di più lunga data. La crescita media annuale pro-capite dall’inizio del millennio è praticamente pari a zero. Sono in molti a far risalire la stagnazione alla mancanza di autonomia della Banca centrale e di una sua propria moneta: l’euro ha impedito però un deprezzamento complessivo che potrebbe aiutare a ripristinare la competitività. Eppure i problemi sono ancora più profondi. (…) L’istruzione è in ritardo rispetto ai corrispettivi europei: solo il 28% degli italiani di età tra i 25 e i 34 anni possiede la laurea mentre la cifra sale al 41 per cento in Francia e al 32 per cento in Germania. Il sistema legale e la burocrazia rimangono sclerotizzate. L’alto debito pubblico rende difficile il ricorso alla spesa pubblica anche per compensare la durezza delle riforme del mercato del lavoro. L’euro, in ogni caso, ha aiutato a ridurre il costo del debito. Il rendimento di un’obbligazione italiana a 10 anni è oggi di solo lo 0,99%.

La politica fiscale non può fare molto per prevenire lo choc di capacità produttiva causato dal virus. La spesa pubblica, però, può rappresentare una fonte alternativa di domanda per coloro che richiedono supporto, imprese e lavoratori. Bruxelles deve estendere la flessibilità sulle regole di bilancio che Roma ha richiesto gli venisse permessa.

La Banca centrale europea dovrebbe monitorare la situazione più da vicino. Una politica monetaria più espansiva e tagli ai tassi di interesse possono sostenere le aziende che hanno bisogno di finanziamenti a basso costo per fare fronte alle chiusure o alla cancellazione di contratti. (…) L’Italia ha bisogno di spazi per fare fronte a quella che è una sfida per tutta l’Europa. Se questo significa ampliare il deficit di bilancio, che sia. Il rischio più grande sarebbe di non contenere il virus (…).

 

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Virus, la falla tra Stato e Regioni

Ci vorrebbe un Tacito per eternare l’immagine simbolo di questo momento schizoide: il presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana che annuncia in diretta Facebook la positività al Coronavirus di una sua collaboratrice armeggiando scompostamente con una mascherina chirurgica nel tentativo di infilarsela, forse per proteggere noi dal virus che si trasmette attraverso la linea Adsl, o forse credendo che aleggi nell’aria del Pirellone, dentro cui egli si isola stoicamente fino all’estremo sacrificio.

Fontana aveva polemizzato col governo perché Conte aveva esplicitato una ovvietà, ossia che se un ospedale diventa un focolaio di infezione evidentemente è saltato qualche punto del protocollo. Posto che sull’assenza di una circolare univoca circa l’uso dei dispositivi di protezione nei pronto soccorso prima del 22 febbraio Fontana può avere qualche ragione (ma sono comunque le Regioni che decidono come spendere i soldi che il governo mette a disposizione con la Finanziaria), il sottotesto è che il governo è colpevole di epidemia perché non ha accolto la proposta di quattro governatori della Lega di mettere in quarantena gli alunni di ritorno dalla Cina, misura che, come s’è visto, si sarebbe rivelata del tutto inefficace a fermare un virus che è arrivato comodamente in prima classe addosso a manager della Brianza e del Veneto. Per salvare i cittadini dal chiuso morbo, Fontana ha anche disposto chiusure di bar e locali, dove pare che il virus si diffonda preferibilmente tra le 18 e le 6 del mattino, salvo poi fare marcia indietro per le proteste degli esercenti; intanto il sindaco di Milano Beppe Sala riapriva tutto e pubblicava un video di autopromozione commissionato da “100 brand della ristorazione” con claim #milanononsiferma e frasi come “Abbiamo ritmi di vita impensabili ogni giorno” (come fosse un vanto).

Gli annali terranno traccia di altri “governatori” creativi, tra cui quello delle Marche Ceriscioli (Pd), che ha chiuso le scuole e vietato le manifestazioni pubbliche contro il parere del governo e della Protezione civile, tanto che l’esecutivo ha dovuto ricorrere al Tar. Ieri Ceriscioli (in odore di ricandidatura alle Regionali) ha rincarato l’ordinanza chiudendo luna park, sagre, discoteche, e lasciando aperti mercati rionali e centri anziani (bizzarro: dei tre contagiati nelle Marche, due sono 80enni). Anche De Luca ha chiuso scuole e università di tutta la Campania per due contagiati “non autoctoni”, mentre De Magistris “sanifica” tutta Napoli e il sindaco di Saronno chiude il mercato per evitare i “1200 decessi” che paventa in base a calcoli suoi.

Ma da dove viene questo caos in una materia così delicata? Viene dalla mancata applicazione di un articolo della Costituzione, il 117 del Titolo V: “Lo Stato ha legislazione esclusiva nelle seguenti materie: dogane, protezione dei confini nazionali e profilassi internazionale”. La profilassi internazionale è esattamente il caso di specie.

A gettare fumo negli occhi concorre Matteo Renzi, con un tweet di speciale irrilevanza: “Quanto al coordinamento Stato Regioni: era nella Riforma 2016. Ma chiamarono ‘deriva autoritaria’ ciò che era solo buon senso. E ora vediamo i danni dell’anarchia”.

In realtà, come abbiamo ripetuto allo sfinimento quando lui e la Boschi andavano in Tv a dire che con la vittoria del Sì i malati di tumore e i bambini diabetici avrebbero avuto finalmente le stesse cure in tutte le regioni, la riforma non toccava la competenza dello Stato per la determinazione dei Lea, livelli essenziali di assistenza, né la tutela della salute, che era ed è in effetti materia di legislazione concorrente tra Stato e Regioni, spettando però allo Stato la determinazione dei “principi fondamentali”, quale è la profilassi internazionale. Non bastasse, l’art. 120 stabilisce che “il Governo può sostituirsi a organi delle Regioni, delle Città metropolitane, delle Province e dei Comuni nel caso… di pericolo grave per l’incolumità e la sicurezza pubblica”.

Il Coronavirus ha rivelato una falla che non è solo costituzionale: è anche culturale e identitaria. Il federalismo, perseguito anche dal centrosinistra, ha aumentato le disparità tra regioni ricche e regioni sofferenti; in materia di Sanità, le Regioni hanno sempre più privilegiato il privato a danno delle strutture pubbliche (lo ha fatto tra gli altri Zingaretti nel Lazio); la trasformazione degli ospedali in “aziende ospedaliere”, con a capo dei manager chiamati a far quadrare i bilanci, è stato il chiodo nella bara.

Era scontato che di fronte a un’emergenza nazionale non si sapesse cosa fare. Il governo ha il diritto e il dovere di avocare a sé tutte le misure di profilassi per contenere la diffusione del virus, e i governatori che fanno di testa loro e si producono in gag di dubbia riuscita stanno semplicemente agendo in modo incostituzionale.

Non dite ai leghisti i dati sulla Rai

Della Lega si può dire tutto, meno che i suoi esponenti non abbiano il senso dell’umorismo. Un umorismo talmente riuscito che risulta divertente pure quando i leghisti vorrebbero invece esser seri. Ieri per esempio i parlamentari del Carroccio in Commissione Vigilanza Rai hanno scritto un comunicato per criticare le 16 apparizioni tv di Giuseppe Conte di domenica scorsa, giorno clou dell’emergenza Coronavirus: “Non vorremmo che la tv pubblica, al servizio di tutti i cittadini, fosse diventata Tele-Conte”. Lamentele che riportano alla mente la celebre scenetta di qualche anno fa negli studi di Ballarò, quando l’allora premier Silvio Berlusconi ebbe a dire che la sinistra aveva in mano “le televisioni” (Mediaset compresa, evidentemente, oltre alla solita Rai). Anche perché basta guardare i dati Agcom di gennaio per tranquillizzare i leghisti: nei programmi Rai, Salvini ha parlato 151 minuti, il doppio di Zingaretti (74) e 5 volte Di Maio (32). Non solo: tre soli leghisti (Salvini, Giorgetti e Borgonzoni, peraltro in campagna elettorale) hanno parlato quasi quanto tutto il Pd e tutto il Movimento 5 Stelle messi insieme. Però loro la chiamano Tele-Conte.

L’avvocato di Pop Bari è advisor di chi la compra

Cosa c’è di meglio, per valutare se partecipare al salvataggio di una banca, di chiedere una consulenza agli avvocati che hanno seguito tutte le principali partite legali di quella stessa banca? Chi meglio di loro conosce ogni vicenda e sa trovare in un batter d’occhio tutte le carte?

Dev’essere stata questa la ragione che ha spinto MedioCredito Centrale (Mcc) ad affidarsi all’avvocato Michele Crisostomo e ai suoi colleghi dello studio legale associato Riolo Calderaro Crisostomo e Associati (Rccd) per la due diligence sulla Popolare di Bari, commissariata il 13 dicembre da Banca d’Italia. D’altronde Crisostomo, 48 anni, da Bari ha scalato le vette della professione sino a risultare tra i papabili, a ottobre scorso, per la presidenza di Tim poi andata a Salvatore Rossi. Quanto allo studio Rccd, fondato nel 2009, si occupa di finanza, fusioni e acquisizioni, ristrutturazioni del debito, contenzioso e “procedimenti amministrativi” nei confronti di Consob, Banca d’Italia e Ivass, cioè di gestire a livello legale le sanzioni ricevute dai clienti, come la Pop Bari.

Che Crisostomo e lo studio Rcc, poi Rccd, siano stati gli avvocati di fiducia della Bari lo ha scritto il Gip Francesco Pellecchia il 24 gennaio nel decreto sulle misure cautelari nei confronti Marco e Gianluca Jacobini, Elia Circelli e Vincenzo de Bustis. Secondo Pellecchia tra fine 2013 e l’aprile 2014 lo studio Rcc fu advisor legale della banca pugliese nella “descrizione, analisi e verifica del contenzioso e delle passività potenziali” di Tercas durante la due diligence che portò la Bari ad acquisire la disastrata banca abruzzese con il benestare di Bankitalia.

Lo stesso Crisostomo il 14 maggio dell’anno scorso ha vinto per la Bari la causa civile avviata al Tribunale dell’Aquila da Fondazione Pescarabruzzo, ex azionista di Tercas. Sempre Crisostomo e il suo studio, con altri, difesero Tercas, incorporata in Pop Bari, davanti al Tribunale Ue impugnando la decisione del 23 dicembre 2015 con cui Bruxelles contestava l’intervento volontario del Fondo interbancario dimostrando che il sostegno a Tercas non era aiuto di Stato. Ancora Crisostomo e il suo staff hanno gestito per l’istituto le sanzioni ricevute da Consob nel 2018, stavolta però perdendo il 2 settembre scorso in appello a Bari, e nel 2014 quelle alla Bari e alla sua controllata Cr Orvieto. L’onnipresente studio Rccd ha assistito la Bari anche in alcune operazioni di cartolarizzazione di crediti.

Secondo Crisostomo “lo studio Rccd – come altri fra cui quelli coinvolti nell’attuale ristrutturazione – ha assistito negli ultimi anni la Popolare di Bari in alcune operazioni straordinarie e contenziosi. Il nostro studio ha vinto, a fianco di Mef e Banca d’Italia, la causa contro la decisione della Commissione Ue di configurare come aiuto di Stato l’intervento del Fondo interbancario in Tercas: ciò ha permesso di riscrivere il modo per salvare le banche italiane evitando il bail in. Anche in virtù di questa esperienza il nostro studio è stato chiamato da Mcc come consulente nell’investimento nella Bari, che ci ha riconosciuto l’accurata conoscenza delle tematiche rilevanti per l’operazione. Gli incarichi ricevuti dalla Bari non creano per il nostro studio alcuna situazione, attuale o potenziale, di conflitto di interessi nel ruolo di consulenti di Mcc nel potenziale investimento nella Popolare né, tantomeno, si pone una questione di opportunità perché agiamo non contro la banca ma per salvarla”.

Chi siamo noi per dubitare della sapienza giuridica dell’avvocato Crisostomo? Resta il fatto, apparentemente inusuale per noi inesperti, che un avvocato e il suo studio associato redigono per un terzo valutazioni su un cliente il cui contenzioso loro stessi hanno gestito sino all’altroieri. Un po’ come venire pagati da qualcuno per offrirgli un giudizio su sé stessi e il proprio lavoro.

Il governo minaccia Tim con i “poteri speciali”

Quasi un quarto di secolo dopo un’oscena privatizzazione, il futuro di Telecom Italia (Tim) è sempre incagliato tra la gestione della rete e il ruolo dello Stato e del mercato. Il tempo per gli indugi sta per finire. Il Cda di Tim ha calato la carta – i miliardi del fondo Kkr – per spingere il governo alla chiarezza: rete nazionale unica per la banda ultralarga a controllo pubblico oppure lasciata al mercato? Il governo si prepara a un feroce scontro con la multinazionale italiana della telefonia perché vuole riprendersi la rete con una complessa operazione che coinvolge Open Fiber, la società al cinquanta per cento tra Cassa Depositi e Prestiti e la quotata Enel.

Il consiglio di Tim e l’amministratore delegato Luigi Gubitosi hanno accolto con soddisfazione l’offerta del fondo americano Kkr, interessato a investire nella rete secondaria (il tratto, quasi tutto in rame, per portare internet dalle cabine di strada a casa degli utenti) mettendo miliardi nella nuova azienda. Per obbligo di legge, come anticipato dal comunicato del Cda, Tim dovrà notificare la trattativa con Kkr alla struttura di Palazzo Chigi che gestisce i poteri speciali, il famoso “golden power”, che consente al governo di bloccare operazioni sulle società strategiche per la sicurezza e l’economia nazionale. Tim punta alla rete unica incorporando Open Fiber e con il sostegno dei capitali di Kkr, senza perdere il comando. Il governo e per estensione il ministero del Tesoro e Cassa e Depositi e Prestiti – che si trova nel conflitto di interessi di azionista sia di Tim (9 per cento) sia di Open Fiber (50 per cento) – vogliono fermare gli americani che diranno la loro sul valore reale di Open Fiber. Siccome Kkr mira a una quota di minoranza con un obiettivo meramente finanziario, sarà complicato per il governo esercitare i poteri speciali contro un fondo americano.

Dall’estate scorsa, Tim è immersa in una estenuante negoziazione con gli azionisti di Open Fiber, la società della fibra ottica messa in piedi dalla Cdp e dall’Enel di Francesco Starace per esaudire il desiderio di Matteo Renzi di costruire una rete alternativa a quella dell’ex monopolista. Il progetto però è abbastanza arenato, e il governo non sa che cosa fare di una società che nel 2018 ha fatturato 100 milioni (contro 20 miliardi di Tim) perdendone altrettanti, e un anno fa ha stipulato con un consorzio di banche una linea di credito da 3,5 miliardi (che ora vuole, e deve, ricalibrare). Il piano di Gubitosi è semplice: scorporare la rete in una nuova società da fondere con Open Fiber per creare un operatore unico che affitta l’infrastruttura agli operatori, ma sotto il controllo azionario di Tim. Questa ipotesi, come detto, non piace a Cdp e nemmeno a Palazzo Chigi, che teme di ricreare l’ennesima condizione di monopolio con Tim (un problema per gli investimenti da fare). Ma soprattutto perché Gubitosi non vuole riconoscere a Open Fiber la supervalutazione necessaria a Cdp e Enel per non fare brutta figura. La mossa, quindi, sancirebbe il fallimento – di cui si intravedono i segnali – di Open Fiber. La Cdp di Fabrizio Palermo, azionista di entrambe le società, si muove contro Tim sostenuto dai Cinque Stelle.

Tim iscrive in bilancio la sua rete a 15 miliardi e Open Fiber è valutata poche centinaia di milioni di euro. I gran capi di Enel e Cdp vogliono che a Open Fiber, seppur acciaccata, sia riconosciuto il valore di un radioso avvenire. Però il Cda di Tim ha preso in contropiede la politica: il fondo Kkr pare pronto a spendere sino a 4 miliardi per la rete. Ma il governo insiste con l’attendismo, reputa un bluff l’annuncio di Gubitosi e aspetta. Più che poteri speciali, qui va in scena guerre stellari.

Caso Antoci, il duello: Iena contro deputato

Caso Giuseppe Antoci: il presidente del Parco dei Nebrodi dal 2013 al 2018, vittima di un attentato fallito grazie all’auto blindata e alla scorta la notte tra il 17 e 18 maggio 2016. La commissione Antimafia dell’Assemblea siciliana presieduta da Claudio Fava, ha approvato tempo fa una relazione in cui non si esclude che quell’attentato possa essere una “simulazione”. Le Iene

sono andate (servizi mandati in onda nelle ultime due puntate) da Fava per intervistarlo al riguardo. Ne è nata una polemica tra Fava, che ha attaccato il giornalista Gaetano Pecoraro parlando di ‘intimidazione’ e la trasmissione di Italia1.

 

Gaetano Pecoraro: “Un vero mascariamento”

“La relazione Fava è calunniosa e piena di buchi”

 

“Non c’è niente da fare, i politici fanno sempre male le interviste se non sono fatte come dicono loro”. A Gaetano Pecoraro, giornalista de Le Iene, non va giù la reazione di Claudio Fava, il presidente della commissione siciliana Antimafia, all’intervista mandata in onda tra ieri sera e la scorsa settimana su Italia1. “Ha sostenuto che lo avrei aggredito verbalmente e addirittura intimidito”.

Secondo lei è stato, invece, l’onorevole Fava a essere scorretto?

Ha registrato la nostra conversazione senza avvisarmi che lo avrebbe fatto e poi ne ha diffuso il contenuto, sostenendo che lo avrebbe messo a disposizione di giornalisti e pm. Avrebbe potuto dirmi che stava registrando e sarebbe stato corretto.

E come si spiega l’atteggiamento che denuncia?

L’onorevole Fava sposta l’attenzione su di me, su me e lui, per non parlare del merito della questione: l’attentato subito da Giuseppe Antoci nel 2016. Attentato subito per il protocollo con cui Antoci nel 2014 ha introdotto l’obbligo della certificazione antimafia per l’assegnazione di tutti gli affitti dei terreni nel Parco dei Nebrodi, rompendo le uova nel paniere alla cosiddetta mafia dei pascoli. Per la prima volta si è toccata la partita delle ingentissime somme dei fondi europei.

Cosa contestate a Fava e al lavoro della commissione?

Hanno realizzato un mascariamento, sport che in Sicilia ha la stessa tradizione dello sci a Courmayeur. Proporre tra le ipotesi dell’attentato quella di una simulazione è calunnioso. Sostenere che non ci sia certezza che si sia trattato di un attentato mafioso è calunnioso.

Però nella relazione si legge che in ogni caso Antoci è vittima, anche nell’ipotesi di una simulazione dell’attentato l’allora presidente ne sarebbe stato inconsapevole.

È un mascariamento. Come mai l’onorevole Fava ha pensato di pubblicare sui social la sua replica al nostro lavoro il giorno in cui sui giornali la famiglia di Antoci era raccontata come vittima di un’altra intimidazione? La figlia, 16 anni, mentre stava in pizzeria con le amiche nel Messinese, è stata avvicinata da un trentenne che ha insultato lei e suo padre.

Dare la responsabilità di questo fatto all’onorevole Fava, converrà, è forse troppo?

Giuseppe Antoci mi ha telefonato dopo l’episodio, in lacrime. È chiaro che tutto questo è causa del clima che si è creato. Ma ripeto il punto è il merito della questione: la relazione della commissione Antimafia siciliana è piena di buchi ed errori.

Ne scelga uno.

Ad esempio nella mia intervista Fava sostiene di non aver mai avuto degli “anonimi”. Ma nella seduta 91 del 25 giugno 2019 chiede di acquisire degli “anonimi” per confrontarli con quelli già in possesso della commissione. Nel video sui social Fava mostra una mia foto mentre abbraccio Antoci. E allora? Cosa c’è di male? Abbraccio in quella foto una persona premiata dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella e incoraggiata dal capo della polizia Franco Gabrielli per l’impegno antimafia.

 

Claudio Fava: “Abbiamo toccato nervi scoperti”

“Non l’avete letta: l’attentato simulato è una delle ipotesi”

 

“Un’intervista prevede domande e risposte, tanto per cominciare”. Claudio Fava non ci sta a passare come il solito politico. Proprio lui, una lunga e prestigiosa carriera da giornalista cominciata alla corte di suo padre, la leggenda della lotta alla mafia Pippo Fava, ucciso dalla Cosa nostra catanese il 5 gennaio 1984. “L’incontro con Le Iene non prevedeva domande e risposte, ma affermazioni del giornalista Pecoraro che per altro nulla hanno a che fare con l’inchiesta della commissione e la relazione approvata dall’Assemblea regionale siciliana”.

Ha sostenuto di essere stato aggredito, conferma?

Le immagini parlano da sole. È stata tutto tranne che un’intervista.

Le Iene elencano buchi ed errori della relazione.

Il collega ha dimostrato di non aver neppure letto la relazione con la dovuta attenzione. La relazione tocca nervi scoperti dopo quattro anni di una vicenda, l’attentato ad Antoci, archiviata senza troppe conseguenze e polemiche.

La commissione non esclude che quell’attentato possa in realtà esser stato una simulazione. Le Iene non sono d’accordo.

La commissione formula tre ipotesi: attentato mafioso, avvertimento e simulazione. La simulazione è una delle tre ipotesi, ma viene scritto che in tutte e tre queste ipotesi Giuseppe Antoci è comunque vittima. Nel caso della simulazione, dunque, vittima inconsapevole. Queste tre ipotesi sono un interrogativo che la commissione regionale Antimafia pone alla magistratura; quindi, se qualcuno riterrà ci saranno gli elementi per svolgere una nuova indagine e chiarire questa vicenda che non è stata ancora chiarita. La relazione, aggiungo, è il risultato di una trentina di audizioni e sei mesi di lavoro della commissione in cui è emerso un quadro fortemente contraddittorio. E ricordiamo che nel decreto di archiviazione del gip si legge che “non è stato possibile accertare il movente”.

Nessuna autocritica sul suo atteggiamento nell’intervista de Le Iene?

Direi proprio di no, non ho tentato di sottrarmi. Gli ho anzi dato un’ora e mezza del mio tempo. Ripeto le interviste prevedono delle domande e delle risposte. Non c’erano domande ma solo affermazioni col punto esclamativo. Se devo dirla tutta credo proprio che tutto questo sia strumento inconsapevole di intimidazione. Il messaggio è chiaro: di questa storia non dovevate e non dovete occuparvi.

Perché? Cosa non le torna?

Per esempio l’eccessiva adrenalina e il vittimismo, anche da parte dello stesso Giuseppe Antoci. Dovrebbe essere felice, considerato che è comunque individuato come vittima in ognuna delle tre eventualità, se si scoprisse che quel 17 maggio 2016 non ha rischiato davvero la vita.

Il Mose è al verde: 250 a rischio cassa integrazione

Precipita la situazione economica del Consorzio Venezia Nuova, gestito dai commissari nominati dopo lo scandalo Mose, che nel 2014 scoperchiò il colossale giro di tangenti creato da Giovanni Mazzacurati e dalle grandi imprese concessionarie. Non ci sono più soldi e si profila la cassa integrazione della durata di 10 mesi per i 250 dipendenti non solo del Cvn, ma anche di Comar e Thetis, due società collegate. Il che significherebbe il blocco dell’opera da quasi 6 miliardi di euro non ancora completata. La comunicazione è stata data con una lettera firmata solo da due dei tre commissari straordinari, il professor Francesco Ossola e l’avvocato Giuseppe Fiengo. Anche il nome del terzo commissario, l’avvocato Vincenzo Nunziata, è riportato in calce alla lettera, ma manca la sua firma. Probabilmente un segnale di difformità di vedute o di presa di distanze, visto che Nunziata fu nominato solo lo scorso novembre, mentre gli altri due (individuati dall’Anac) sono impegnati nel Consorzio dal 2015.

La lettera è stata inviata ai sindacati, al prefetto di Roma Gerarda Pantaleone, al commissario straordinario Elisabetta Spitz e al provveditore interregionale per le opere pubbliche Cinzia Zincone. “In relazione ai mancati pagamenti, più volte richiesti al Provveditorato, gli organismi commissariali si trovano nella condizione di non poter procedere al pagamento ai dipendenti degli stipendi maturati a partire dal mese di marzo, limitando i versamenti ai soli contributi previdenziali”. In alcuni casi l’orario sarà azzerato, in altri ridotto al 60 per cento. Fissato un incontro con i sindacati il 4 marzo per le procedure di cassa integrazione.

La notizia piomba in un mese convulso. Dopo l’acqua alta eccezionale di novembre, il ministro alle infrastrutture Paola De Micheli aveva assicurato che i soldi per finire il Mose ci sono. A gennaio le piccole imprese subentrate ai tre colossi (Mantovani, Grandi Lavori Fincosit e Condotte) coinvolti nello scandalo avevano scritto alla commissaria Spitz dicendo che se non avessero ricevuto i pagamenti per i lavori fatti, dopo febbraio si sarebbero fermate. I loro rappresentanti hanno incontrato ieri Fiengo e Ossola, discutendo dei 10 milioni di euro destinati al pagamento delle imprese che i commissari hanno in parte utilizzato per gli stipendi del Consorzio. Inoltre, i rappresentanti sindacali hanno incontrato la Spitz. “Abbiamo avuto rassicurazioni che sono disponibili le risorse per il completamento del Mose. Si è anche impegnata a darci, entro martedì, formale conferma delle risorse necessarie per il pagamento degli stipendi dei circa 250 lavoratori”. Se non sarà così minacciano scioperi. Il Mose rischia, quindi, la paralisi, nonostante le prime prove di sollevamento delle paratie abbiano dato esito positivo. Un ulteriore collaudo è previsto per il 3 marzo, ma potrebbe saltare per mancanza di risorse e da qui a luglio il fabbisogno per proseguire è di 80-100 milioni di euro.

“L’ho accoltellato finché non si è tolto di dosso”

“Ho estratto il coltello e ho iniziato a… tre volte” e poi “l’ho accoltellato altre volte fino a che non mi si è tolto di dosso”. È il 5 settembre 2019 quando l’americano Finnegan Lee Elder – accusato con l’amico Gabriel Natale Hjorth dell’omicidio del vicebrigadiere Mario Cerciello Rega – ammette davanti alla madre quanto avvenuto la notte del 25 luglio a Roma. Il colloquio tra i due, nel carcere di Regina Coeli, è stato registrato e ora è agli atti del processo appena iniziato contro i due americani. È la prima volta dal giorno dell’omicidio che madre e figlio si guardano negli occhi. Leah Lynn Elder dopo aver esortato il figlio a dire la verità, gli chiede il perché quella notte abbia tentato di comprare droga. “Lui voleva la cocaina quella sera… (incomprensibile)”, dice Finnegan, riferendosi all’amico Natale. Però poi la mamma chiede: “Torniamo a quella sera, se non ne vuoi parlare va bene…”. E così comincia il racconto di Finnegan (molte frasi sono state trascritte agli atti come “incomprensibili”).

La madre gli chiede se “avesse compreso di esser stato fermato da un carabiniere” e Finnegan risponde: “No, ha fatto tutto Gabe (Natale, ndr), visto che io non parlo italiano… (incomprensibile)… io ero sdraiato sul letto… (incomprensibile)… non avevo voglia di riuscire…”. Alla fine però lasciano l’albergo. “Eravamo a un paio di isolati dal luogo dell’incontro – continua poi il racconto – e stavamo camminando… (incomprensibile)…. Ed è a quel punto che abbiamo visto questi due sconosciuti che venivano nella direzione opposta, parlando tra loro ma guardando noi, allora noi abbiamo cambiato direzione…”.

Poco dopo, la conversazione continua così.

Finn: “Adesso, e un attimo dopo mi sono girato e il tizio grosso mi ha aggredito, mentre quello più piccolo…

Leah: Ma è stato tipo da dietro o ti stavi girando?

F: No, mi stavo girando quando mi ha aggredito… (incomprensibile)… detto di mettermi a terra. Ha visto che non ubbidivo e ha iniziato a … (incomprensibile)…. Allora ho estratto il coltello e ho iniziato a…

L: Quante volte?

F: Tre volte; ha allungato la mano, quando si è reso conto che non aveva le manette, ha cercato di afferrare il mio coltello e girarlo contro di me, a quel punto ho cambiato mano e l’ho accoltellato altre volte fino a che non mi si è tolto di dosso…

Come con Finnegan, sono stati registrati anche i colloqui in carcere dell’altro arrestato, Gabriel Natale. Il 5 agosto incontra il padre Fabrizio e lo zio Claudio. Annotano i carabinieri: “Natale addossa la responsabilità dell’accaduto a Elder Finnegan Lee, definendolo una persona violenta”.

Durante il colloquio, però, Natale parla anche di altro: “Riferisce di aver ricevuto la visita dell’onorevole Ivan Scalfarotto, al quale ha accennato dei maltrattamenti subiti in carcere, ma non dei tagli presenti sul suo corpo, notati pure dal parlamentare, in quanto ha accettato il suggerimento del responsabile delle guardie carcerarie di non raccontare determinate vicende”. Sono stati svolti accertamenti, anche dopo che alla direttrice del carcere di Regina Coeli alcuni diplomatici statunitensi avevano riferito di “comportamenti non proprio ortodossi nei confronti di Natale”. Accertamenti che, stando a una relazione depositata al pm titolare del fascicolo, hanno escluso qualsiasi tipo di violenza in carcere.

I pizzini di Buzzi al Pd: “Sostenevo il partito e pagavo tutti in nero”

“Se Bettini non avesse sbagliato scelta”, candidando nel 2008 a sindaco di Roma Francesco Rutelli invece di Nicola Zingaretti, “non saremmo tutti qui: voi a leggere, io a scrivere”. Parla di politica Salvatore Buzzi, del suo rapporto con i politici e, soprattutto, del Pd “il mio partito di riferimento”. Lo fa nel libro Se questa è mafia (Mincione) curato dal giornalista del quotidiano romano Il Tempo Stefano Liburdi, in uscita il 6 marzo.

Buzzi noto come il “ras delle cooperative” romane, condannato a 18 anni di carcere nell’inchiesta sul “Mondo di Mezzo” (già Mafia Capitale), pena che ora andrà rimodulata, perché il 22 ottobre 2019 la Cassazione ha stralciato per tutti gli imputati l’accusa di associazione mafiosa. Buzzi, da dicembre ai domiciliari, domenica presenterà il volume presso la sede storica del Partito radicale con l’ex deputata Rita Bernardini e il direttore del Tempo Franco Bechis.

Fra gli episodi raccontati dal fondatore da Buzzi: un convegno del Pd romano organizzato al Teatro Quirino il 28 e 29 novembre 2014, pochi giorni prima del suo arresto. Una “conferenza di organizzazione” del partito romano, ricorda Buzzi, “organizzata dal segretario Lionello Cosentino per rilanciare il partito che non si trovava in sintonia col sindaco Marino, un grillino ante litteram”. “Dovevo necessariamente passare – si legge nel libro – perché gli uomini del Pd romano mi avevano chiesto un contributo straordinario di 5.000 euro in nero per pagare alcune spese relative all’organizzazione”. L’ospite d’onore di quella convention era l’allora procuratore di Roma Giuseppe Pignatone, cui, secondo il libro, Buzzi non si presentò solo per timidezza nonostante gli inviti dei “compagni”: “Una cosa che rimpiango è questa: pensa se i dirigenti del Pd mi avessero presentato a Pignatone quel 29 novembre, il giorno prima il gip aveva emesso l’ordine di carcerazione”.

Buzzi effettua un excursus lungo le giunte romane di centrosinistra. A iniziare dalla vittoria di Rutelli nel 1993, “una svolta importante per la 29 giugno”, elencando fra i “molti nostri amici” l’attuale senatrice di Leu Loredana De Petris e l’ex deputato Pd Walter Tocci. Fino al 2008, quando a suo parere l’ex deputato Goffredo Bettini, molto influente nella politica romana, aveva compiuto un “errore oligarchico”: “Propose come candidato sindaco Rutelli, dopo che si era dimesso nel 2000”, mentre “candidò alle provinciali Zingaretti, che per tanti sarebbe stato l’uomo giusto al posto di Veltroni. E se Bettini non avesse sbagliato noi non saremmo tutti qui”.

Chiosa che Buzzi spiega più avanti con la necessità di coltivare nuovi rapporti con la destra ex missina che avrebbe sostenuto il neo sindaco Gianni Alemanno. Nel libro, infine, il “ras delle coop” parla anche della “faccia di bronzo” del Pd che “addirittura si è costituito contro me e i collaboratori della 29 giugno iscritti al partito”. Forse, riflette “perché a volte ho pagato gli stipendi degli impiegati della federazione romana? Ho sponsorizzato la campagna elettorale di decine di candidati e ho assunto centinaia di persone segnalate, ho fatto votare alle primarie per eleggere il segretario cittadino, nell’ottobre 2013 ben 220 persone”.