Travolti dal disastro demografico, siamo sempre di meno, noi italiani d’Italia: 55 milioni appena. Ma invece di rendere più agevole l’attribuzione della cittadinanza, paradossalmente la scoraggiamo. Uno straniero non comunitario che voglia diventare italiano deve aspettare infatti 14 anni: dieci di residenza regolare prima di fare domanda (in Francia ne bastano cinque, nel Regno Unito sei, in Germania otto) più quattro graziosamente concessi dal primo decreto Sicurezza alla burocrazia per partorire il provvedimento. Siamo prigionieri di una legge sullo ius sanguinis, la 91 del 1992, tra le più arretrate ormai d’Europa e del mondo avanzato. È venuto il momento di allentare il suo giogo.
Ancora due settimane di audizioni alla commissione Affari costituzionali della Camera, guidate dal presidente Giuseppe Brescia, e poi potrà iniziare il dibattito sulla riforma. Difficile scalfire il totem dei dieci anni di residenza prima della domanda, ma sarebbe saggio ridurli a otto per i non comunitari già in possesso del permesso di lungo soggiorno, che comporta cinque anni di residenza regolare, un reddito non inferiore all’assegno sociale e l’aver superato un test di italiano. I quattro anni regalati alla burocrazia vanno assolutamente riportati a due, che già costituiscono un record di lunghezza.
Ma è per i bambini nati in Italia da famiglie già integrate, e per i ragazzi arrivati invece da piccoli, che la riforma non può più tardare. L’aspettano un milione di giovani, italiani di fatto ma non di diritto. Oggi debbono risiedere in Italia per 18 anni senza interruzione dalla nascita, e poi fare anche domanda, perché la cittadinanza non viene attribuita loro automaticamente. Va mantenuto il principio cardine della riforma approvata dalla Camera nel 2015 e abortita al Senato all’antivigilia di Natale del 2017: è italiano il bambino nato in Italia, se almeno un genitore ha il permesso di lungo soggiorno: e sono ormai il 63 per cento degli immigrati non comunitari a possederlo.
Un errore fatale è stato quello di etichettare come ius soli questa proposta: ha fatto credere che anche il “figlio di uno sbarco” diventasse istantaneamente cittadino e che l’Italia si trasformasse nella “più grande sala parto del Mediterraneo”. Chiamiamola invece riforma “dei bambini cittadini”. Oppure, “cittadinanza alla tedesca”. Già, perché da vent’anni la Germania è più avanti di noi: la cittadinanza è concessa infatti ai bimbi nati da genitori stranieri con almeno otto anni di residenza. In un seminario organizzato da Tito Boeri alla Camera alla fine dello scorso ottobre, il professor Helmut Reiner, dell’Università di Monaco, ha elencato i benefici effetti di quella riforma: sono cresciute ad esempio del 40 per cento le iscrizioni alle Superiori dei figli degli immigrati, che hanno migliorato del 30 per cento la loro performance in tedesco, matematica e inglese.
C’è poi un secondo principio su cui la riforma punta e che merita una riflessione: il cosiddetto ius culturae. Oggi si tende anzi a parlare soltanto di questo, forse per far dimenticare il flop dello ius soli. Si tratta dunque di concedere la cittadinanza a ragazzi non nati, ma arrivati in Italia da piccoli e che abbiano frequentato un ciclo quinquennale di studi da noi: un’innovazione unica, in Europa. Che però va resa inattaccabile. Si potrebbe inserire anche qui il requisito del possesso di un permesso di lungo soggiorno per almeno un genitore. L’età massima dell’ingresso in Italia va probabilmente abbassata rispetto ai 12 anni indicati in varie proposte di legge, i cicli scolastici previsti vanno superati con tanto di esame, e non può assolutamente bastare un corso triennale di formazione professionale, che serve a imparare un mestiere, per diventare italiani. La mediazione politica è necessaria, se si vuole che un principio rivoluzionario come lo ius culturae diventi un giorno legge.