L’inciucione non decolla. Salvini “muto” al Quirinale

Nei complotti e nelle trattative che agitano la politica dietro la cortina di fumo della quarantena autoimposta causa coronavirus, ci sono sostanzialmente due punti fermi. Primo: il patto tra Matteo Salvini e Matteo Renzi per far cadere Conte e dar vita a un governo di unità nazionale esiste e va avanti. Punto secondo: la sua realizzabilità resta dubbia, soprattutto per la contrarietà del Pd da una parte e di Giorgia Meloni dall’altra. Il film di ieri fa registrare varie scene clou.

Scena numero uno. Si svolge alla Camera, quando, davanti ai cronisti convocati per l’occasione, Matteo Salvini dichiara: “La Lega c’è per accompagnare il paese al voto e fuori dal pantano”. Un’apertura al governo di unità nazionale che Renzi evocava mercoledì pomeriggio in Senato.

Scena numero due. Sergio Mattarella e il leader della Lega si incontrano al Quirinale. Nei racconti che arrivano da entrambi i protagonisti il colloquio è interlocutorio. Il leader della Lega dice al presidente che serve un rilancio dell’economia. Senza parlare né di elezioni, né di un altro esecutivo. Di fondo, dunque, un tentativo di riaccreditarsi in maniera più istituzionale. Tanto che il presidente gli può suggerire: “Un governo c’è, dategli una mano”.

Scena numero tre. A Napoli c’è il vertice italo-francese, presieduto da Giuseppe Conte ed Emmanuel Macron. Per l’Italia partecipano i ministri Di Maio, Lamorgese, Franceschini, Guerini, Amendola, Bonafede, Gualtieri, Patuanelli, De Micheli, Costa, Manfredi e Azzolina. Tra un caffè da Scaturchio, una visita al Cristo velato, una foto al Vesuvio, i due firmano il Trattato del Quirinale e in una conferenza stampa a Palazzo Reale celebrano “il vertice del rilancio”. Ovvero il tentativo di andare avanti dopo i rapporti tempestosi degli ultimi mesi.

Prezioso per Conte il sostegno del presidente francese sul coronavirus. “Le frontiere restano aperte”, è il messaggio. Macron ironizza pure sulla richiesta di chiusura arrivata da Marine Le Pen (“Pare che il virus non si fermi ai confini…”) e richiama a una risposta europea, a cominciare da una maggiore flessibilità sui conti. Poi i due ribadiscono l’intenzione di “condividere le informazioni” e di non chiudere “a priori” i grandi eventi. Un Conte evidentemente sotto pressione sottolinea che più che pensare a governissimi è il caso di appoggiare con “responsabilità” quello che c’è di governo. E non si risparmia la polemica con la Lega: “Quegli stessi che ci dicevano chiedete tutto, oggi gli stanno dicendo di aprire tutto”. Sa perfettamente che se l’emergenza coronavirus sfugge ancora di mano al governo, l’esecutivo è a rischio.

Scena numero quattro. Milano, in serata Nicola Zingaretti arriva per l’aperitivo. Il messaggio è “No panic”. Il Pd non ci pensa proprio a un governo con Salvini. Per ora.

Scena numero cinque. Il flashback ci riporta a mercoledì sera, all’hotel The First Roma Dolce di via del Corso, dove si vedono i quarantenni di Forza Italia. La sintesi di ieri è di Mara Carfagna: “Il dovere di una politica seria è ammettere l’esistenza di un’emergenza economica potenzialmente molto più grave del previsto e aprire una nuova pagina di dialogo in nome dell’unità nazionale”. Se va così, i Responsabili di Conte si trasformano rapidamente in quell dei due Mattei.

Scena numero sei. È il balletto quotidiano di Renzi: dà la sua solidarietà al governatore leghista Fontana (attaccato dal resto della maggioranza per la diretta con la mascherina), poi fa smentire alla Boschi il governissimo. Ma è il suo passo di danza: avanti e indietro a ritmi ossessivi, tanto per confondere le idee.

Impaziente Zero

Breve dizionarietto per orientarsi nella jungla dell’epidemia.

Coronavirus. Vasta famiglia di virus noti dagli anni 60 per infettare uomini e animali con raffreddori o malattie respiratorie più gravi, cui appartiene anche l’ultima versione “Covid-19”. Nome derivante dalla forma a corona e non dai danni paragonabili a quelli fatti da Fabrizio Corona in carcere e fuori o da Mauro Corona in televisione.

Paziente zero. É il primo, misterioso soggetto infetto che ha portato il coronavirus in Italia, innescando i contagi a catena dalla Lombardia al Veneto eccetera. È molto più ricercato di Matteo Messina Denaro, ma un po’ meno difficile da trovare di un elettore di Italia Viva.

Impaziente Zero. Gli esperti l’hanno già individuato, ma per ora ne comunicano solo il nome (Matteo) e la professione (senatore), senza sciogliere la riserva sul cognome perché stanno testando ben due potenziali candidati che presentano sintomi analoghi, tipici di quando l’insuccesso dà alla testa: mitomania molesta, logorrea patologica, mania di protagonismo, ansia di presenzialismo, smania di rovesciare un premier più bravo di loro per mandare al governo almeno due soggetti infinitamente peggiori di lui, cioè se stessi.

Governissimo. Non potendo, date le circostanze, sfidare il ridicolo col classico “governo di salute pubblica”, i due Impazienti Zero lo usano per nobilitare il loro inciucio volto a placare il Poltronavirus e a frustrare il legittimo sollievo di molti italiani per non avere il Matteo maior al governo in un momento come questo (già bastandovi la presenza del Matteo minor).

Autonomia differenziata. Bizzarra teoria politica che chiede più poteri alle regioni, molto in voga da destra a sinistra finché non si è visto di cosa sono capaci le regioni già con i poteri attuali. Ovvero: il sonno della regione genera mostri.

Immunodeficiente. Termine da sempre usato per indicare un soggetto privo o carente di anticorpi. Ora però, dopo il video ovviamente “virale” del governatore leghista lombardo Attilio Fontana che entra in quarantena in diretta Facebook e indossa la mascherina (fra l’altro, sbagliata) pur essendo negativo al test del tampone, per giunta dopo aver dato del “cialtrone” al premier Conte che osava denunciare una falla nell’infallibile sistema sanitario lombardo, il significato potrebbe allargarsi a significati più atecnici.

Sanità lombarda. Meccanismo efficientissimo e incriticabile, in quanto perfettamente funzionante e oliato, come dimostrano i 6,6 milioni di tangenti intascati da Formigoni e la sua condanna a 5 anni e 10 mesi.

Ma soprattutto la sua scarcerazione dopo 5 mesi col plauso della Consulta.

Tamponamento. Incidente stradale fra due o più auto in fila. Ma ora anche test sul coronavirus, grazie all’assessore forzista lombardo Giulio Gallera, forse convinto che il tampone si applichi al mento. Vedi anche alla voce “Immunodeficiente”.

Contagio. Trasmissione del virus da un individuo all’altro per contatto diretto o indiretto. Tipo quando Peter Sellers, in Hollywood Party, infila la mano nel vassoio del caviale e poi corre a lavarsela, ma nel tragitto stringe e incaviala quelle di chiunque incontri; poi, quando finalmente l’ha lavata, reincontra tutti quelli che aveva appena incavialato, che lo reincavialano a propria volta. Ogni riferimento all’assistente infetta di Fontana che incontra Fontana, che incontra Speranza e Salvini, che a sua volta incontra Mattarella è puramente casuale.

Amuchina. Sostanza igienizzante ritenuta più taumaturgica dell’acqua santa e dunque oggetto di corse agli accaparramenti e conseguenti rincari fino a raggiungere prezzi da ambrosia. Nota anche perché Luigi Di Maio, non contento di dire “vàirus”, la ritiene una crasi di Amu e China (pronuncia “ciàina”) e la chiama “amuciàina”.

Caldo. Tutti lo attendono perché, dicono, farà calare l’epidemia. Ma non tutti i virus vengono per cuocere. In ogni caso, ce ne laviamo le mani.

Basta allarmismi. Ora lo dice persino Libero, che solo due giorni fa annunciava “Prove tecniche di strage” e ora denuncia sdegnato: “Virus, ora si esagera”. L’effetto, purtroppo, è opposto a quello sperato: se uno come Feltri minimizza, allora c’è davvero da preoccuparsi.

Peste. Termine evocato per sottrazione da chi, incluso il prof. Burioni, intende rassicurare la popolazione sul fatto che il coronavirus non è la peste. La tecnica ha funzionato finché il prof. Burioni non ha lanciato su Amazon il suo nuovo libro dal titolo “Virus, la grande sfida: dal Coronavirus alla peste” e non viceversa. Come dire che la peste (che fra l’altro viene da un batterio e non da un virus, ma fa niente) è dietro l’angolo. Seguiranno il colera e la lebbra.

Turismo. Se ce n’è tanto, è troppo e “uccide Roma e Venezia”. Se cala, è troppo poco e “uccide Roma e Venezia”. Urge numero preciso dei turisti che sarebbero perfetti per Roma e Venezia, please.

Promessi Sposi. Celeberrimo romanzo di Alessandro Manzoni, evocato da chi ha fatto le scuole alte a proposito della psicosi da coronavirus insieme al Decameron di Boccaccio, a La peste di Camus e a Cecità di Saramago. E con grande pertinenza, vista la presenza anche oggi del Conte (zio: “sopire, troncare…”), dell’Innominato, dei polli di Renzi, di don Rodrigo col Griso Giorgetti (“Questo inciucio s’ha da fare”), di Lucia Mattarella (“Non sono io che ho cercato guai, ma sono i guai che hanno cercato me”), di vari don Abbondio (tutto il Pd), dei gran cancellieri Ferrer (i governatori e le loro inutili gride manzoniane), col contorno di untori, monatti, bravi, nibbi, perpetue, monache di Lodi e Casalpusterlengo.

Che vita sarebbe senza il dolore? Il viaggio di Lewis nella valle del male

C’è forse solo una cosa, nella vita, più presente del dolore: l’acqua che forma il nostro corpo. Mentre di lei, però, sappiamo quasi tutto, del dolore sappiamo quasi nulla. Dopo morte, è la parola più odiata. Rimossa più che taciuta. Comprensibile, certo: a chi piace soffrire? Ogni volta che il dolore ci attanaglia, desideriamo solo una cosa: che passi. In fretta. E, così, non ci chiediamo mai che senso abbia né se e a cosa serva, qualcosa che occupa una parte tanto rilevante della nostra esistenza. Diario di un dolore – Adelphi, nell’intensa traduzione di Anna Ravano – è una lettura indispensabile. Per le domande che C. S. Lewis pone, più ancora che per le risposte, tutt’altro che banali, che suggerisce. Pagine preziose. Per chi conosce e anche per chi non conosce il dolore. Piaccia o no, una vita senza dolore – ammesso che esista – non sarebbe vita. È il dolore, infatti, la spinta più potente al manifestarsi della coscienza. È lui che ci costringe a porci le domande più importanti: significato, valore, destinazione finale del viaggio dell’esistere. Lewis non fugge il dolore per la morte dell’amata moglie Helen. Lo guarda negli occhi, senza abbassare lo sguardo. Lo ascolta, senza interromperlo. E riflette. Senza infingimenti, retorica, compiacimento, autocommiserazione. Il suo è un diario di viaggio senza tesi né meta. Del resto, “l’afflizione non è uno stato bensì un processo”: una lunga valle tortuosa, nella quale ogni curva può rivelare un paesaggio completamente nuovo. Pagine forti, sul filo teso tra sofferenza e verità, per evitare che la prima offuschi la seconda e fare in modo che la seconda aiuti a cogliere il senso della prima. Dolore come paura, angoscia, pigrizia, imbarazzo, isolamento, vergogna, infelicità – un’infelicità che non è semplicemente soffrire ma “pensare continuamente al proprio soffrire” – sospensione, tensione, frustrazione.

Chi è Dio? Un “Sadico Cosmico”? Un “idiota malevolo”? “Un pagliaccio che ti strappa di mano la scodella di minestra e un attimo dopo te ne dà un’altra colma della stessa minestra?” E dov’è? Come mai quando il nostro bisogno di lui è disperato troviamo solo “una porta sbattuta in faccia”, “il rumore di un doppio chiavistello all’interno” e “poi, il silenzio”? Che la sua casa sia vuota perché non è mai stata abitata? Non è successa, forse, la stessa cosa al Cristo del “Perché mi hai abbandonato?”. Ma se Dio non esiste, perché ci sembra così presente quando non lo cerchiamo? E se fosse un semplice surrogato dell’amore, non avremmo perso interesse per lui da un pezzo? E se il nostro castello di certezze è crollato al primo colpo, non sarà perché era un castello di carte? Forse Lui “ha sempre saputo che il mio tempio era un castello di carte. L’unico modo per far sì che lo capissi anch’io era buttarlo giù”. “Se H. non è – scrive Lewis – allora non è mai stata”.

Aveva ragione allora, per quel poco che ne capisco, Emanuele Severino a sostenere che il nulla non può diventare qualcosa e poi tornare a essere nulla. Il che postula l’eternità di ciò che è. È per questo che, nel silenzio che lasciano, certe voci risuonano ancora più forti?

Verdi innamorato degli alieni: il Rigoletto e la strega Azucena

Anticipiamo stralci dell’ultimo libro di Paolo Isotta, “Verdi a Parigi”, in libreria da oggi con Marsilio.

Il Trovatore succede immediatamente al Rigoletto. Ambedue i capolavori hanno a personaggio principale un estraneo, un alieno a ogni ordine sociale. Lui, infame, buffone e deforme. Lei, zingara: una razza per millennî vagante e posta ai margini di ogni categoria civile e culturale. E strega. Altrove ho scritto: quasi sempre in cielo stanno le madri di Verdi. L’eccezione è Azucena. Questo sol fatto le attribuisce un rilievo eccezionale nell’ambito di tutta l’opera di Verdi, del quale protagonista è simbolicamente sempre un Padre. E tuttavia. Primo: Azucena è una falsa madre. Secondo: ama davvero ella Manrico, come da tanti teneri accenti parrebbe? O non è ella un’anima diabolica, la quale, per intervalla insaniae, ama Manrico che – lo ripeto: a tratti – crede suo figlio? Anima diabolica ch’è invece concentrata solo sulla vendetta per la propria madre, come lei strega e arsa viva? E non è in realtà Manrico il solo strumento possibile della sua vendetta? Ella tale vendetta paga col rogo: ma può far sì che il Conte uccida il proprio fratello, ossia Garcia. Ella, che ha già compiuto un sacrificio umano, bruciando il suo proprio figlio: col che ha preparato la vendetta che ne segue…

Oltre che strega, Azucena è segnata da psicopatia: lo sdoppiamento della personalità: che la porta a nutrire a tratti un reale amore per Manrico – se fosse simulato, la sua psicopatia sarebbe diversa. Che l’amore per Manrico sia reale, lo mostra la meravigliosa melodia del II atto con la quale ella tenta d’impedire a Manrico di correre pericolo quando ancora non è guarito dalle ferite ricevute nello scontro col Conte, Perigliarti ancor languente. Questo è vero amor materno. Ma si potrebbe aggiungere: perché ella vuole che Manrico non muoia? Perché perirebbe in combattimento e non catturato per salvare lei (che – possiamo osarlo? – si è fatta prendere di proposito). Così facendo determina ch’egli sia giustiziato sotto i suoi occhi: Sei vendicata o madre! Tutto questo è di Verdi e poco di Gutiérrez. Allora forse Azucena non è psicopatica.

Meraviglioso è che un’anima nobile (e anche, or lo sappiamo, un sangue nobile) come Manrico possa amare filialmente un personaggio così abietto. Allo stesso modo, però inverso, l’infame Rigoletto un parallelo, e ancor più forte e tenero amore nutre, per la figlia Gilda. Un altro tratto accomuna i due alieni: l’ossessione per la vendetta. Che mette capo, tuttavia, a risultato opposto. Il fatto che l’amore di Azucena per Manrico sia autentico, e tuttavia ch’egli sia per lei solo lo strumento della vendetta: ciò rende la donna un vero demonio. Intenerirsi su di lei e sui suoi accenti d’amore per Manrico significa non aver compreso nulla e di Gutiérrez e, soprattutto, di Verdi. Il quale, per la sua davvero shakespeariana equidistanza, riesce tuttavia a dar alla strega accenti commoventi quando ama il (non) figlio nonché strumento del suo diabolico piano…

Azucena è personaggio tanto a cuore a Verdi da essere la vera protagonista dell’Opera, pur segnata da altre tre fortissime personalità. D’altronde, ella è il motore della vicenda: e anche se non ci fosse la dichiarazione di Verdi ciò sarebbe palese. Secondo, e importantissimo: a Verdi preme che Azucena non debba apparire folle, o almeno che non debba esserlo fino all’ultimo momento…

Or Azucena non è pazza: nel senso che se lo fosse non possederebbe i mezzi per attuare la vendetta ordinatale dalla madre, la sua ossessione. Il che le riesce.

Ma Azucena al tempo stesso è pazza. Perché la vendetta è per lei un’ossessione, oltre che criminale, monomaniaca. È il suo pensiero dominante, anzi il suo solo reale pensiero. La contraddizione con l’amore per Manrico, amore che Verdi raffigura in termini così struggenti, non è tale da determinare due pari poli nell’animo suo. Il polo dell’amor materno è più debole… L’amore di Azucena per Manrico è uno strumento per pervenire alla vendetta. A me pare si possa addirittura affermare che ella si sia fatta catturare di proposito dal Conte: perché sa che la notizia indurrebbe Manrico, anima generosa e sincera, il quale la crede sua madre, a tentar il tutto per tutto per salvarla. Facendosi sconfiggere e catturare…

Dunque: e lo dico per l’ultima volta. Azucena non è una sventurata che per l’altrui fanatismo è presa per strega e per tale condannata, come a migliaia di altre avvenne, con commovente equità da parte di cattolici e protestanti. È una vera strega, autrice della più terribile operazione diabolica. Finché lo affermano Gutiérrez e Cammarano, non ha decisiva importanza. Ma lo dichiara la musica di Verdi. E perciò il “fatal delirio” non è “delirio” né “fatale”. È fulminea scelta a freddo.

Attenzione, i Pokémon sono ancora contagiosi

Prendete nota: oggi si celebra, in tutto il globo, il Pokémon Day. Tra gli eventi annunciati per la ricorrenza, spicca l’uscita in prima visione su Netflix del nuovo film d’animazione targato Pokémon, Mewtwo colpisce ancora. L’evoluzione. Già, perché la prima volta che questi animaletti immaginari partoriti dalla fantasia di Satoshi Tajiri fecero la loro comparsa nell’immaginario collettivo, fu proprio il 27 febbraio del 1996, quando vennero messi in commercio nella madrepatria giapponese i primissimi videogiochi della saga: Pokémon Rosso e Pokémon Verde. Da ragazzo Tajiri errava per i campi a catturare insetti, ma non avrebbe mai immaginato che da questa sua madeleine proustiana avrebbe preso le mosse uno dei più epocali fenomeni di massa della nostra epoca. Uno dei franchising più popolari dell’industria di intrattenimento per bambini (e non solo), col suo impero internazionale di videogames (ne sono stati venduti più di 346 milioni di esemplari) e app per smartphone, carte-figurine da gioco e 22 pellicole animate, un merchandising a perdita d’occhio e poi naturalmente la seguitissima serie di cartoni animati con 22 stagioni e oltre mille episodi.

Senza dimenticare le cosiddette “stagioni competitive”: nei giorni scorsi, battendo per 2 a 0 in finale il portoghese Edoardo Cunha, un nostro connazionale, Marco Hemantha Kaludura Silva, ha trionfato ai “Campionati Internazionali Pokémon 2020” svoltisi in Australia. E grazie alla collaborazione tra la Nintendo, che produce il game, e il portale Pokémon Millennium, il torneo è stato trasmesso in tempo reale con un commento tecnico in italiano: 24 ore di diretta e 44 mila spettatori unici. Non male, per una moda che si credeva estinta quasi 4 anni fa. Ve lo ricordate il passatempo più in voga nell’estate del 2016, anche dalle nostre latitudini? Ma anche qui occorre fare una precisazione: no, non è sparita dalla circolazione la febbre (passateci il termine) da Pokémon GO, il gioco mobile per Android e Ios basato sulla realtà aumentata e sul Gps. Anzi, il 2019 è stato l’anno in cui ha incassato di più. Dal luglio del 2016 hanno varcato la boa del miliardo i suoi download, e visto che l’applicazione si regge sugli acquisti in-app (per andare avanti, i giocatori cambiano soldi reali in “pokémonete”), i ricavi complessivi viaggiano ormai verso i 3 miliardi di dollari. Noi catturavamo con le nostre Poké Ball i mostriciattoli tascabili virtuali dislocati nel mondo reale. Noi brancolavamo in trance per parchi e strade, dentro musei, negozi e ristoranti, alla fermata della metro, sintonizzati sulla lunghezza d’onda clandestina delle vibrazioni del nostro cellulare, per smascherare e far prigioniero il Pikachu o Bulbasaur, Spearow o Rattata di turno.

Noi continuiamo a cacciarli e a brancolare intrepidamente, giusto in forma più smorzata; a partecipare ai “raid”, alle sfide “in palestra”, a essere pronti a tutto per un “bonus caramella” o una spruzzata di “polvere di stelle”… Ma più cammini con Pokémon Go, più “uova si schiudono”, vuoi mettere. Lo scorso ottobre, in una zona safari di Nuova Taipei, in Taiwan, si sono dati battaglia 327 mila appassionati (sempre nel gergo iniziatico, gli “allenatori”) dai 4 angoli della terra. Hanno percorso 4 milioni e 500 mila chilometri e catturato una marea di 50 milioni di Pokémon. Una delle più grosse battute di caccia alternative della storia. Una pagina in AR degna della sopraccitata, fantastica summer 2016. Con le città e le campagne prese d’assalto da queste torme di teenager e fanciullini in doppiopetto, con lo sguardo incollato al proprio smartphone, usato come un’arma di precisione per disinnescare e accalappiare personaggi visibili solo nella propria allucinazione in 4G. Quando proliferarono amicizie e amori, vacanze, menu e hotel ad hoc. E abbondarono gli incidenti di percorso, legati a filo doppio di nanotecnologia con l’app dell’anno o del secolo. La cronaca narrò di sinistri tra automobili, pedoni travolti da automobilisti intenti a interagire con i folletti invece di rispettare le regole della strada, Pokémon-busters in sindrome post-solipsistica scambiati per ladri o che rischiarono di finire su un binario mentre stava sfrecciando un treno. Rinvenimenti casuali di cadaveri, incontri ravvicinati con maniaci di ogni tipo. Non mancarono i morti, e le cadute nel pessimo gusto: furono piazzati mostriciattoli persino nel campo di concentramento di Auschwitz. In fondo l’epidemia da Pokémon Go ricorda un po’, a livello di alienazione universale, quella del coronavirus. Ma almeno questi altri piccoli organismi paralleli ci spingevano a uscire fuori di casa.

“La mia lotta contro gli inquinanti PFAS, dagli Usa al Veneto”

È il 1998 quando l’avvocato Robert Bilott, da pochi mesi allo studio Taft Stettinius & Hollister, riceve una telefonata da Parkersburg, West Virginia. A chiamarlo è un agricoltore, Wilbur Tennant, che gli racconta che le sue vacche stanno morendo. Bilott è esitante, non capisce esattamente chi sia e cosa voglia quella voce con un forte accento degli Appalachi. Tennant insiste, arriva anche a ricordare la nonna di Bilott, che viveva proprio in quella parte del West Virginia. Alla fine ottiene un appuntamento: Tennant si presenta con delle foto, un video. C’è un ruscello con accumuli di schiuma bianca. Ci sono le carcasse di cervi e bovini, con il sangue che esce da naso e bocca. Il contadino ha pochi dubbi: la responsabilità è della DuPont, la società chimica che utilizza un terreno accanto alla proprietà di Tennant, per sversare materiale di scarto dalla produzione di Teflon.

Bilott accetta il caso. Lui, che fino ad allora aveva difeso le corporation, si mette dalla parte delle vittime di una delle corporation più potenti d’America. La battaglia legale dura anni: una class action di 70 mila persone che vivono accanto alla fabbrica che ha contaminato le acque di Parkersburg con alti valori di PFOA, l’acido perfluoroottanoico presente in decine di prodotti. Nel 2017, Bilott vince la causa: 3.535 persone ottengono un risarcimento di 671 milioni di dollari per tumori al rene, ai testicoli, alterazioni della tiroide, infertilità femminile, tutti problemi fisici causati da sostanze che DuPont aveva rilasciato consapevolmente nell’ambiente. Questa storia è ora diventata il film Dark Waters (con Mark Ruffalo nella parte di Bilott): ennesima, appassionante rivisitazione di uno dei grandi temi della cultura americana, il singolo in lotta contro un potere molto più grande di lui.

Robert Bilott, quando Tennant entrò nel suo studio, si aspettava ne sarebbe nata una delle più grandi class action di sempre?

Pensavo si sarebbe trattato di far rientrare DuPont nei limiti di legge per l’emissione di sostanze chimiche. Non fu così. DuPont sapeva fin dagli anni 50 della tossicità del PFOA. I tentativi di insabbiamento della verità andarono avanti per decenni.

DuPont ha smesso di utilizzare il PFOA nel 2013: una sua vittoria?

Solo in parte. DuPont ha sostituito il PFOA con prodotti con molecole a catena corta C4 e C6. Per esempio il Genx, che ora si trova nelle acque del North Carolina, del West Virginia e ovunque venga prodotto…

Qual è l’incidenza di questi agenti chimici?

Secondo gli ultimi studi, circa il 99% degli americani – neonati compresi – presenta queste sostanze nel sangue. Sono sostanze bioresistenti, che non vengono in nessun modo assimilate.

L’inquinamento riguarda anche e soprattutto le basi militari. Perché?

Perché il PFOA è utilizzato nelle schiume poliuretaniche usate nell’addestramento dei militari. È ormai certo che inquina le basi e i dintorni: è altamente cancerogeno. La Camera degli Stati Uniti sta pensando di bandirlo entro il 2029.

Qual è stata la reazione della politica e delle istituzioni Usa alla sua battaglia?

Dico solo che il 6 marzo 2001 ho notificato all’Epa, l’Agenzia federale per la protezione dell’ambiente, la necessità di fissare dei limiti al PFOA. Diciannove anni dopo, non c’è ancora nulla: 19 anni dopo! L’Epa ha annunciato solo la settimana scorsa di voler iniziare un processo per arrivare a fissare dei limiti alla presenza dei PFAS, le sostanze perfluoroalchiliche, nell’acqua potabile. Ma è solo l’inizio. Quando arriverà la fine?

È una battaglia solo americana?

No. Due anni fa sono stato in Veneto: il 65% delle persone su cui sono state effettuate analisi ha valori elevati di PFAS nel sangue. E la settimana scorsa l’Environmental Working Group ha pubblicato un rapporto agghiacciante sulla presenza di PFAS nell’acqua che milioni di americani bevono a Miami, a Washington, a Philadelphia. In gioco, purtroppo, c’è molto di più delle vacche morte di un agricoltore del West Virginia.

Eutanasia, ora si può anche chiedere aiuto

Togliersi la vita è una libertà dell’individuo in ogni fase dell’esistenza e va tutelata. È questo il senso della decisione di ieri della Corte costituzionale tedesca che ha allargato le maglie della giurisdizione tedesca in materia di suicidio assistito. Il tribunale federale di Karlsruhe ha accolto 6 ricorsi di associazioni per il fine vita, medici e malati contro l’articolo 217 del Codice penale tedesco che aveva introdotto il divieto di assistenza al suicidio per le associazioni nate a quello scopo. Ora la Corte ha stabilito che la norma introdotta nel 2015 dal Bundestag è incostituzionale e va annullata. La ragione è che il divieto contenuto nell’articolo 217 ha “di fatto svuotato” in larga misura il diritto fondamentale al suicidio, che va invece riconosciuto. Nei diritti della persona è infatti compresa anche “libertà di togliersi la vita” non solo da malati terminali, ha affermato testualmente il presidente della Corte costituzionale, Andrea Vosskuhle.

Al momento in Germania l’eutanasia attiva, come la somministrazione di un’iniezione letale, è vietata e punibile come “uccisione a richiesta”. Mentre l’eutanasia passiva, ovvero la rinuncia a misure che prolungano la vita, è possibile se esiste una precisa volontà del soggetto. La pronuncia dei giudici dell’Alta Corte introduce una novità: non solo viene riconosciuto esplicitamente un “diritto a morire in modo autodeterminato”, ma viene anche esplicitamente aggiunto che questo diritto include la libertà di “togliersi la vita e di ricorrere all’aiuto volontario di terzi”, indipendentemente dall’età, dallo stato di salute, da motivi particolari o da qualsiasi considerazione morale o religiosa. Se si ha il diritto di togliersi la vita da sani, è lecito poterlo fare anche da malati, quando si ha bisogno di un sostegno esterno. Questa l’idea alla base della pronuncia. Il “disporre in modo autodeterminato della propria vita” è “un’espressione di dignità, seppure finale” ha chiarito il tribunale, “e la dignità dell’uomo, che è alla base della Costituzione è inviolabile”, ha chiarito il tribunale.

Ora sarà compito del legislatore regolare in pratica cosa è lecito e cosa non lo è. Come sempre le decisioni della Corte costituzionale danno indicazioni di principio ma rimandano la palla alla politica: sarà il legislatore a dover tradurre in realtà giuridica e positiva “lo spirito della legge”.

Le chiese evangeliche hanno fortemente criticato la decisione della Corte. Per il vice-presidente dell’Opera delle chiese evangeliche Ulrich Lilie questa pronuncia potrebbe mettere in moto una dinamica dalle conseguenze incalcolabili. “Assistere il suicidio non deve essere un’alternativa al costoso sostegno alla morte” ha dichiarato Lilie. Totalmente opposta è invece l’opinione dell’avvocato Cristoph Knauer che ha rappresentato due dei ricorrenti alla Corte, gravemente malati. Secondo l’avvocato, il pericolo dell’abuso della legge è “minore se sono i professionisti a giudicare, piuttosto che i profani”, ha detto a Spiegel.

La pronuncia doveva mettere fine a un dibattito di anni sul fine vita. L’impressione è che si sia solo all’inizio.

Alle primarie Dem tutti contro Sanders. Compreso Israele

La politica estera fa capolino nella campagna elettorale per Usa 2020: finora, a parte il tormentone su ‘per chi vota Putin’, ne era stata praticamente assente. Accade nel decimo dibattito fra aspiranti alla nomination democratica, a Charleston, nella South Carolina, dove sabato ci saranno le primarie. Bernie Sanders, che è ebreo, afferma di sostenere Israele, ma definisce il premier israeliano Benjamin Netanyahu un “razzista reazionario” e s’impegna “a rivalutare”, quando sarà presidente, la decisione di spostare l’ambasciata degli Usa da Tel Aviv a Gerusalemme, presa da Donald Trump.

“Sono molto orgoglioso di essere ebreo – ha detto il senatore del Vermont che da giovane ha vissuto alcuni mesi in un kibbutz –, ma credo che in questo momento, tristemente e tragicamente, in Israele, con Netanyahu, abbiamo alla guida del Paese un razzista reazionario”. Netanyahu, che non aveva una buona intesa con Obama, ha ottimi rapporti con Trump.

Il ministro degli Esteri israeliano Israel Katz ha definito “scioccanti” le dichiarazioni di Sanders: “È la seconda volta che parla contro lo Stato di Israele su temi base del credo e della storia ebraici e della nostra sicurezza. La prima volta aveva parlato di Gaza… senza comprenderne la realtà e perché ci difendiamo: vuole negarci il diritto all’autodifesa. E ora di Gerusalemme”.

Nei giorni scorsi, Sanders era stato criticato per la decisione di disertare l’annuale conferenza dell’American Israel Public Affairs Committee (Aipac), sostenendo che i responsabili dell’associazione pro Israele appoggiano “leader che esprimono intolleranza” verso i palestinesi. Nel dibattito di ieri, c’è stata un’eco delle polemiche: al senatore, la cui famiglia ebrea emigrò negli Usa dalla Polonia, è stato chiesto cosa direbbe agli ebrei americani “preoccupati perché non sostiene abbastanza Israele”.

“Credo che la nostra politica estera in Medio Oriente sia assolutamente di proteggere l’indipendenza e la sicurezza di Israele” ha risposto Sanders, senza “ignorare le sofferenze del popolo palestinese”. Da presidente, cercherà di creare “un contesto teso a far incontrare le nazioni del Medio Oriente”: quello che Trump non ha mai fatto.

Il dibattito di Charleston è stato un ‘tutti contro Sanders’: i rivali cercano di frenare il battistrada, prima delle primarie nella South Carolina, ma soprattutto prima del Super Martedì, il 3 marzo, quando si voterà in 14 Stati e si assegneranno un terzo dei delegati alla convention di Milwaukee. Il senatore è stato attaccato su più fronti: Israele e Cuba, l’essersi opposto a misure per il controllo della vendita delle armi – impopolari nel suo Stato, il libertario Vermont – i piani eccessivamente costosi per la sanità pubblica, le sue chances di battere Trump.

Sanders s’è difeso, contrattaccando: “L’economia sta andando molto bene per la gente come Bloomberg e gli altri miliardari. L’America ha bisogno di un’economia che funzioni per tutti”. L’ex sindaco di New York gli ha ribattuto: “Putin vuole la rielezione di Trump, che è il più stupido, e per questo la Russia ti sta aiutando”.

Il dibattito è stato a tratti caotico, con i candidati che chiedevano d’intervenire contemporaneamente e si parlavano l’uno sull’altro. Contro Sanders, sono stati soprattutto i moderati. Elizabeth Warren, dopo avere rifatto il siparietto anti-Bloomberg venutole bene in Nevada, ha difeso l’agenda progressista, che in gran parte condivide con Sanders.

Più vivace del solito anche Biden, che in South Carolina è ancora in testa ai sondaggi – ma Sanders è in rimonta – e che qui si gioca gran parte delle chances di proseguire la corsa: l’ex vice di Obama ha ieri ricevuto l’appoggio di Jim Clyburn, l’afro-americano di più alto rango al Congresso e il più influente in questo Stato.

Con il presidente, è pure andato in scena un duello a distanza sul coronavirus, dopo che le autorità sanitarie federali hanno messo in guardia da un’impennata dei casi quasi certa anche negli Usa: unanimi le critiche alla gestione dell’emergenza e ai tagli dei fondi alla sanità.

Trump ha replicato su Twitter: “La mia Amministrazione sta facendo un grande lavoro”. Prova ne sia, ha aggiunto, che “finora negli Usa non c’è stata alcuna vittima”.

Fillon, altro che accuse. “La signora del castello” ora si butta in politica

Arriva in tribunale il Penelopegate. L’affaire era scoppiato il 25 gennaio 2017 quando il settimanale Le Canard enchaîné aveva rivelato che François Fillon, all’epoca il candidato strafavorito della destra alle Presidenziali (poi vinte da Macron), aveva remunerato per anni la moglie Penelope come assistente parlamentare: circa un milione di euro di stipendi pagati con i soldi pubblici tra il 1998 e il 2007. Con un problema però: del lavoro di lei non c’era traccia da nessuna parte.

La rivelazione sui “falsi impieghi” di Penelope gettò nel caos la droite francese (che ancora fatica a riprendersi) e affondò la candidatura di Fillon, che decise di non ritirarsi dalla corsa per l’Eliseo. Per la prima volta nella storia della République, il partito della destra gollista, Les Républicains, era rimasto fuori dal ballottaggio.

Il processo si è aperto ieri al tribunale di Parigi (con due giorni di ritardo, per via dello sciopero degli avvocati) e dovrà durare dieci giorni. Penelope e François Fillon devono rendere conto di due reati gravi: malversazione di fondi pubblici e abuso di beni sociali, per i quali rischiano fino a 10 anni di reclusione e 150 mila euro di multa, oltre che l’ineleggibilità. L’Assemblée Nationale, che si è costituita parte civile, chiede più di un milione di euro (per l’esattezza 1.081.219,51 euro) di danni, pari agli stipendi versati a Penelope. Quel 25 gennaio di tre anni fa, a due mesi dal primo turno delle presidenziali, i francesi scoprivano dunque l’esistenza di Penelope Clark, una bella donna dai capelli bianchi, all’epoca di 61 anni, di origini gallesi. Avvocato di formazione, anche se non ha mai esercitato, Penelope era presentata come una figura discreta, sempre vissuta all’ombra del famoso marito, più volte ministro e primo ministro di Sarkozy dal 2007 al 2012.

Le rivelazioni del Canard avevano preso tutti in contropiede: nessuno aveva mai visto Penelope in Parlamento, eppure il marito, deputato della regione Sarthe, l’aveva ingaggiata tra il 1998 e il 2002 e poi di nuovo nel 2012-2013. Penelope aveva conservato il posto anche dal 2002 al 2007, mentre il marito era ministro, come assistente del “sostituto” di Fillon in Assemblea, Marc Joulard (che compare a sua volta in tribunale con gli stessi capi d’accusa). “Penelope è stata la mia prima e più preziosa collaboratrice”, ha ripetuto più volte Fillon. Per lui la moglie non aveva motivo di recarsi a Parigi perché la sua era una missione locale: da casa, a Solesmes, nel bel Manoir de Beaucé, un castello del XV secolo, gestiva la posta e gli appuntamenti del marito, gli correggeva i discorsi, parlava con gli elettori. Ma nessuno a Solesmes e nella Sarthe, neanche i “veri” assistenti di Fillon, sapeva che lei lavorava. Per tutti Penelope aveva scelto di restare a casa, di occuparsi dei cinque figli e del giardino.

La si vedeva alle prime a teatro e in alcune manifestazioni ufficiali dove parlava di cavalli e musica barocca. Per tutti era “la signora del castello”, come la definì un giornalista del Maine Libre. Lei stessa, in un’intervista video rilasciata nel 2007 al Sunday Telegraph, aveva detto di sé: “Non sono una Cherie Blair”. E aveva aggiunto: “Non sono mai stata l’assistente di mio marito e non mi sono neanche mai occupata della comunicazione”. A questa prima serie di rivelazioni ne seguirono altre. Si seppe che Penelope aveva percepito anche 135 mila euro circa nel 2012 per un lavoro di consulente letteraria alla Revue des deux mondes, edita da un amico miliardario di Fillon, Marc Ladreit de Lacharrière. Ma di quel lavoro restano solo due note, neanche 60 righe.

Si seppe pure che Fillon, mentre era al Senato, nel 2005, aveva remunerato come assistenti anche due figli, Marie e Charles. Spiegò che erano stati pagati per delle consulenze legali, circa 90 mila euro in tutto. Ma all’epoca erano ancora studenti o apprendisti. Marie, appena laureata, aveva guadagnato in un anno e tre mesi circa 50 mila euro, versati sul conto paterno: “Per rimborsare le spese del matrimonio, finanziato da papà”, spiegò maldestramente la giovane.

Per quelle elezioni, Fillon si era presentato come il candidato “senza macchia”: “Chi immaginerebbe il generale De Gaulle indagato?”, aveva detto un giorno, per distinguersi da Sarkozy, su cui pesano invece diverse inchieste. Il 14 marzo fu invece a sua volta iscritto al registro degli indagati, denunciò un complotto dei giudici e nonostante tutto mantenne la candidatura. Dopo la sconfitta elettorale, si è ritirato dalla politica ma non a vita privata: sin dall’autunno 2017 è consulente associato di successo del fondo di investimenti Tikehau Capital, quotato in borsa. Viaggia molto all’estero, incontra personalità politiche, si dedica alla sua passione: la Formula 1. Da parte sua, malgrado il processo, Penelope si è candidata alle municipali di marzo sulla lista del sindaco uscente di Solesmes, “feudo” elettorale storico di Fillon. Lo scandalo, che aveva di fatto puntato i riflettori su un vecchio vizio della politica francese, ha avuto almeno una conseguenza: sin dall’agosto 2017 è stata varata la legge “per la fiducia nella vita politica”, che vieta tra l’altro a un deputato o un senatore di assumere la moglie e i figli, come già succede in altri paesi.

Ruspa, grano e Papeete: così Salvini si è messo allo specchio col Duce

Salvini è il nuovo Mussolini. Tutti dicono così ma se Benito è rimasto un socialista, Matteo non è certo un fascista. Il capo della Lega è senza dubbio un leader della destra mentre il fondatore del fascismo, in questo dizionario di ieri e di oggi – due vite in parallelo – resta il tabù giammai messo a nudo. Sconosciuto a tutti noi.

Oggi la Ruspa. “Il ministro sale, ma non attiva la ruspa”. È il 26 novembre 2018, una folla di cronisti ascolta Nicola Zingaretti – presidente della Regione Lazio – che sta appunto spiegando l’atto simbolico, l’abbattimento di una villa dei Casamonica, e la presenza di Matteo Salvini, titolare dell’Interno. Sale e attiva la ruspa: “Solo questo”, rassicura tutti il Capitano, “altrimenti rischio di fare danni”. Salvini sorride, indossa un casco protettivo, sale in cabina, gira la manopola di accensione e gli si scaraventa addosso la tempesta di flash, telecamere, microfoni e riprese fatte con gli smartphone. La tanto evocata ruspa – tormentone della campagna elettorale – s’invera in questa scena. Ancora qualche mese prima, a Monte Bisbino, periferia Nord di Milano, una rom intervistata durante un reportage dice – “Salvini si merita un proiettile in testa” – e il ministro risponde: “Proiettile? Tu preparati ad accogliere la ruspa, cara la mia zingara, poi vediamo”.

Ieri la Trebbiatrice. Memore delle sue radici popolari, a torso nudo, Benito Mussolini si mette alla testa dei contadini e avanza, assiso sulla trebbiatrice, tra le spighe. Ecco il pane. In ogni focolare, appeso accanto al crocefisso, ben incorniciato c’è il diploma di benemerenza dove si canta questa preghiera in forma di ode: “Italiani/amate il pane/cuore della casa/profumo della mensa/gioia del focolare./Rispettate il pane/sudore della fronte/orgoglio del lavoro/poema di sacrificio./Onorate il pane/gloria dei campi/fragranza della terra/festa della vita”. Firmato Mussolini (nell’immaginario popolare, quest’ultimo “firmato” sostituisce ormai il celeberrimo “Firmato Diaz” del bollettino della vittoria della Prima Guerra Mondiale).

Oggi il Papeete. Il lido più amato da Matteo Salvini è il Papeete, Matteo Salvini è il leader più amato dagli italiani dunque il Papeete è il lido più amato dagli italiani ma non da quelli del Pd. “Sono bacchettoni”, dice il proprietario del lido a Carmelo Caruso, “non credete che non vadano al mare, solo che loro vanno nelle spiagge dove l’intera stagione costa cinquantamila euro e il mojito non è a prezzi popolari”. Il Papeete è amato anche da Beppe Grillo, gradito ospite abituale della spiaggia del divertimento a base di mojito e consolle. È quella dove lo stesso Capitano, mettendosi a girare le manopole, fa correre i brani e con questi la versione dance dell’Inno di Mameli, opportunamente stantuffato dai decibel e dai colpi d’anca delle cubiste. Nella costruzione dei suoi sillogismi Aristotele non poteva immaginarlo ma il primo governo di Giuseppi cade proprio al Papeete, il lido di Milano Marittima, di proprietà di Massimo Casanova, europarlamentare leghista i cui conti – secondo il ministro dell’Economia del secondo governo Conte – sono pagati dall’Italia: trenta miliardi in metafora solo per saldare le spese. Caduto il governo è finita la stagione, certo, ma il lido ha sempre una nuova estate.

Ieri le Colonie marine. Dall’alzabandiera al mattino all’ammainabandiera della sera la giornata in colonia esalta lo spirito corale di una vacanza tutta di sole, salute e sano divertimento. A Villa Margherita, sul lungomare di Riccione – residenza del soggiorno estivo di Benito Mussolini – arriva l’allegro vociare di oltre settecentomila bimbe e bimbi giunti da tutta Italia sul litorale romagnolo. I migliori architetti della scuola razionalista sono chiamati a realizzare altri esempi di colonie in tutte le altre località della nazione, ovviamente anche nei villaggi alpini e il principio è semplice: portare la gioventù del mare in montagna, e viceversa. E così i ragazzini di campagna e di città. Tra loro, c’è Enzo Biagi: “Ho visto il mare”, annota l’illustre cronista, “per la prima volta dopo le elementari. Colonia della Decima Legio, Rimini. Balilla, grado: caposquadra. Se ci ripenso sento un acuto odore di marmellata gelatinosa in mastelli”.