Riconteggio impossibile: “Schede bagnate”

Se la giocano per una manciata di voti, ma le schede da ricontare sono andate distrutte. Alla Camera balla un seggio in più o in meno per la Lega ai danni del Movimento 5 Stelle, ma il sospetto s’è fatto ormai certezza: il riconteggio non si può più fare, perché quel che resta della battaglia nel collegio uninominale di Guidonia nel Lazio, tra il pentastellato Sebastiano Cubeddu (eletto per 28 voti) e Barbara Saltamartini del Carroccio (entrata comunque in Parlamento perché eletta anche in un collegio plurinominale) è finito nel frattempo in discarica.

La sorpresa è arrivata l’altro giorno quando il presidente del Tribunale di Tivoli, Stefano Carmine De Michele, ha risposto che no, proprio non è in grado di trasmettere le schede – che si davano per conservate nell’ufficio giudiziario – a Montecitorio, dove il seggio contestato è congelato dal 4 marzo 2018 in attesa di verifiche.

Si è fatto in tempo a consultare i verbali e ad acquisire le schede bianche, nulle e contestate, che hanno ribaltato il verdetto delle urne certificando un vantaggio di 115 voti per la Saltamartini. Impossibile però acquisire pure le schede valide. Sentite qui: “Con riferimento alla richiesta in oggetto, dopo aver disposto tutte le necessarie mi duole non poter mettere a disposizione il relativo materiale. Infatti, è risultato che le buste qui affluite erano state sì opportunamente ricoverate in un locale chiuso, ma una copiosa perdita di acqua verificatasi nell’aprile 2019 ha reso il relativo materiale cartaceo una poltiglia inconsultabile, eliminato poi per ragioni di sicurezza e igiene assieme ad altro materiale attinente a diverse consultazioni elettorali”, ha scritto il magistrato che ha lasciato a bocca aperta i membri della Giunta per le elezioni della Camera. Che in un attimo si sono guardati negli occhi per poi chiedersi subito dopo: “Ma non sarà che le avevano conservate in una toilette?”.

E sì, perché il tribunale in questione non ha un archivio degno di questo nome e il ministero ha provveduto come ha potuto, concedendo il noleggio di due containers a Guidonia Montecelio, almeno fino a maggio. Ma la frittata era ormai fatta: perché nel frattempo il tubo era saltato e i liquami avevano fatto il resto rendendo indisponibili per sempre le schede delle politiche del 2018.

E ora? Intanto la Giunta potrebbe presentare denuncia per l’accaduto a Tivoli perché vengano accertate le eventuali responsabilità. Ma nel frattempo Cubeddu trema e Saltamartini spera. E con lei la Lega, che guadagnerebbe un eletto in più, che di questi tempi non sono mai abbastanza.

Da qui a un mese circa verranno convocate tutte le parti interessate: l’eletto pentastellato che per due anni ha esercitato il mandato da deputato e che invece ora è a un passo dall’essere dichiarato abusivo, naturalmente anche la Saltamartini (che invece non vede l’ora di farlo sloggiare) e i due aspiranti candidati che le potrebbero subentrare nel caso venisse confermata la sua elezione nel collegio uninominale di Guidonia.

Laboratorio Anzio: Italia Viva in maggioranza con la destra

Italia Viva è in maggioranza con il centrodestra, ma anche all’opposizione insieme al Pd. Il suo referente locale preferisce stare nel Gruppo misto. E se si telefona alla presunta sede del comitato renziano, risponde una persona del tutto ignara di come si possa associare quell’indirizzo al partito dell’ex premier.

Tutto questo succede ad Anzio, 55 mila abitanti a sud di Roma, dove il sindaco è l’ex senatore berlusconiano Candido De Angelis e dove da qualche tempo il Consiglio comunale fa i conti con le ambiguità di Italia Viva. A partire dal sostegno alla giunta: Marco Maranesi, già capogruppo di Forza Italia, è passato a Iv senza però far mancare la propria fiducia De Angelis, restando così in maggioranza insieme alla destra.

Mentre Maranesi usciva da Forza Italia, però, la collega Anna Marracino lasciava il Partito democratico aderendo pure lei al nuovo partito renziano. Il risultato è il paradosso fotografato dall’ultimo Consiglio comunale, quando i due rappresentanti di Italia Viva erano seduti uno tra i banchi della maggioranza e uno tra quelli dell’opposizione. Un equivoco che presto dovrebbe risolversi, rendendo definitivo il passo di Italia Viva verso il centrodestra. Già sull’ultimo provvedimento – un atto relativo all’apertura di un nuovo asilo nido – la Marracino ha infatti votato insieme alla maggioranza, tanto che il Pd locale si è già fatto un’idea chiara su come andranno le cose: “Prendiamo atto che la maggioranza del sindaco De Angelis può contare su nuovi ingressi, ovvero i componenti di Italia Viva. Sarebbe interessante sapere cosa ne pensa il loro leader Matteo Renzi”.

Anche perché in Italia Viva un filo di imbarazzo nell’amministrare con il centrodestra c’è, per quanto l’esperimento di Anzio possa diventare interessante laboratorio nazionale. Per accorgersene basta seguire le attività personali di Maranesi. Il sito ufficiale di Iv cita il suo nome come responsabile del comitato “Italia Viva Anzio” e in effetti, leggendo i suoi comunicati stampa, Maranesi parla da vero renziano: “Cosa pensa Renzi della situazione Anzio? Come ha detto a Porta a Porta, Italia Viva è un partito riformista e progressista, un partito del fare, delle grandi opere, del decisionismo e non della stagnazione e dell’inutilità a cui il Pd è abituato”. E ancora: “È evidente che il Pd è più attento ad attaccare Renzi e Italia Viva anziché le assurde leggi grilline. Zingaretti è ossessionato da Renzi e subisce il suo carisma da vero leader”.

Eppure cotanto orgoglio finisce per nascondersi sul più bello, perché lo stesso Maranesi non si è ancora iscritto al gruppo consiliare di Italia Viva (pur essendone, appunto, referente locale). E in calce ai suoi comunicati, dove una volta esibiva l’appartenenza a Forza Italia, oggi preferisce la dizione: “Marco Maranesi, consigliere comunale di Anzio”. Senza specifiche di partito. Meglio non rendere formale l’adesione dei renziani al centrodestra.

Ma poco chiara è pure la natura del comitato di cui Maranesi è responsabile. Sul sito di Italia Viva ne sono elencati centinaia sparsi per le varie Regioni, per ognuno dei quali viene indicato il referente e l’indirizzo della sede. Per Anzio si deve citofonare in via Ardeatina 195, purché si accetti il rischio di ritrovarsi piuttosto spiazzati. A rispondere dalla sede non è infatti Maranesi né un suo collaboratore istruito a dovere sul da farsi, ma un inconsapevole signore all’oscuro di come quel civico sia diventato d’improvviso circolo di partito. Solo dopo qualche minuto di conversazione arriverà la folgorazione: “Ah, si vede che Maranesi ha fornito questo indirizzo”. Ma per cercare lui bisogna telefonare qua? “No, no”. Buono a sapersi.

“Per la Spazzacorrotti abbiamo cambiato rotta”

La Corte Costituzionale ha dichiaratamente cambiato orientamento sull’esecuzione pena, finora sempre retroattiva e diventata, invece, irretroattiva con la sua sentenza del 12 febbraio sulla Spazzacorrotti, motivata ieri.

Le misure alternative al carcere, non gli altri benefici penitenziari, non possono essere preclusi per fatti antecedenti alla legge Bonafede. Che la Corte avesse messo in sonno decenni di interpretazioni giurisprudenziali, era già chiaro dalla sentenza, ma ora è nero su bianco nelle motivazioni del relatore Francesco Viganò. Secondo la Spazzacorrotti, anche per pene inferiori ai 4 anni i condannati devono andare in carcere, non possono scontare la pena ai domiciliari o essere affidati ai servizi sociali o avere la libertà condizionata. Per una granitica interpretazione dei giudici sulla natura sempre retroattiva dell’esecuzione, anche la Spazzacorrotti, in materia di pena, è stata applicata pure ai condannati per fatti avvenuti prima dell’entrata in vigore della legge, primo gennaio 2019.

Una retroattività contestata da diversi giudici e avvocati a cui la Corte ha dato ragione perché “tra il ‘fuori’ e il ‘dentro’ vi è una differenza qualitativa, prima che quantitativa, perché è profondamente diversa l’incidenza della pena sulla libertà personale”. E poiché, come detto, ci troviamo a un cambio di rotta, nelle motivazioni si riconosce che questa pronuncia “è il risultato di una rimeditazione del tradizionale orientamento sinora sempre seguito dalla Cassazione e dalla stessa Corte Costituzionale, secondo cui le pene devono essere eseguite in base alla legge in vigore al momento dell’esecuzione della pena” e non del fatto. La Corte si appiglia all’articolo 25 della Costituzione, secondo cui nessuno può essere punito con una pena non prevista al momento del fatto: agisce come “uno dei limiti al legittimo esercizio del potere politico, che stanno al cuore stesso del concetto di Stato di diritto”. E conclude: il principio della retroattività finora applicato, “non può valere allorché la normativa sopravvenuta non comporti mere modifiche delle modalità esecutive della pena, prevista dalla legge al momento del reato, bensì una trasformazione della natura della pena e della sua concreta incidenza sulla libertà personale del condannato”. È il caso della Spazzacorrotti: “Ha reso assai più gravose le condizioni di accesso alle misure alternative alla detenzione e alla liberazione condizionale, sicché non può essere applicata retroattivamente dai giudici”.

Proprio alla luce di questa sentenza, la Consulta ieri ha anche restituito gli atti alla Cassazione e alle Corti di appello di Caltanissetta e Palermo, che avevano sollevato dubbi di costituzionalità sull’inserimento del peculato e dell’induzione indebita tra i reati “ostativi” per la concessione dei benefici penitenziari. Lo ha fatto perché “valutino se le loro censure siano ancora rilevanti”, dato che riguardano processi per reati commessi prima dell’entrata in vigore della legge. Ieri, in udienza l’avvocato dello Stato Maurizio Greco, aveva parlato proprio di “irrilevanza” e di questione “infondata”. Ha comunque difeso nel merito la Spazzacorrotti: “È adeguata e proporzionata. L’Italia è risalita di molto nelle classifiche sulla lotta alla corruzione”. Gli è anche scappata una stoccata al collega Massimo Giannuzzi che, all’insaputa del ministro, nell’udienza sulla questione della retroattivà dell’esecuzione pena, si era nella sostanza associato agli avvocati difensori: “Io sono un avvocato dello Stato, ha detto Greco, quindi un avvocato della legge, e il mio dovere è difendere la legge”. E l’ha fatto.

L’Europa plaude a Bonafede: “La Bloccaprescrizione è ok”

Altro che “ergastolo processuale”. Altro che “barbarie”, frutto del “populismo giudiziario”. La Commissione europea promuove la legge Bonafede in vigore da gennaio. Proprio quella che blocca la prescrizione dopo la sentenza di primo grado per tutti. Condannati e assolti.

“Nel gennaio 2020 – si legge nel rapporto semestrale sull’Italia – è entrata in vigore una riforma positiva che interrompe il decorso della prescrizione dopo una sentenza di primo grado, in linea con una raccomandazione specifica per il Paese formulata da tempo”.

Invece, in Italia, per evitare una crisi di governo per l’opposizione interna dei renziani e in parte anche del Pd, si è arrivati al cosiddetto lodo Conte2 che, se diventerà legge (è nel ddl sulla riforma penale), stabilirà una prescrizione a doppio regime: bloccata definitivamente solo per i condannati in primo grado e appello.

Per il rapporto di Bruxelles la legge sulla prescrizione si porta dietro una riforma per sveltire i processi, come previsto dal ministro Bonafede: “Saranno necessarie misure per aumentare l’efficienza, in particolare nelle Corti d’appello dove ancora un 25% di casi è caduto in prescrizione nel 2018”. Nel documento, scritto prima dell’approvazione della riforma penale nel Consiglio dei ministri del 13 febbraio, si racconta delle proposte in ballo per migliorare il sistema giustizia, dalle notifiche elettroniche, ai giudici monocratici per alcuni processi d’appello e così via: “Una rapida adozione di queste misure potrebbe migliorare l’efficienza della giustizia penale e l’efficacia della lotta alla corruzione”. Insomma, una promozione anche della riforma penale, che dovrà essere approvata dal Parlamento. La stessa Commissione, però, mette in guardia sulle sanzioni disciplinari ai magistrati, già respinte dalle toghe, per violazione dei temi processuali prestabiliti, come prevede la riforma: “Dovrebbero essere attentamente monitorate per quanto riguarda il loro impatto sul funzionamento della magistratura”.

Bene, pure la legge Spazzacorrotti: “Il quadro anticorruzione è stato recentemente rafforzato, anche mediante la legge anticorruzione del gennaio 2019, ma deve essere completato”. Inoltre, l’ Ue mette sotto una luce positiva “il traffico di influenze illecite, configurato come reato in linea con le norme internazionali” e l’equiparazione di mafia e corruzione in modo da poter avere “gli stessi strumenti investigativi”. Ci sono, però, delle macchie ancora da cancellare, a cominciare dal conflitto di interessi: “Non esiste una regolamentazione che sanzioni i conflitti di interessi per i funzionari pubblici eletti” e “le disposizioni in materia di lobbying non si applicano ai membri del governo e ai parlamentari”.

C’è poi un’aumentata flessibilità sull’assegnazione degli appalti: “L’Anac ha proseguito nei suoi sforzi di lotta alla corruzione” ma “le modifiche apportate al codice degli appalti pubblici possono aumentare il margine di discrezionalità nelle procedure di appalto, elevando il massimale per le aggiudicazioni dirette da 40 mila euro a 150 mila”.

E veniamo a un tasto dolente, atavico per l’Italia: l’evasione fiscale: “È ancora diffusa. Il governo stima il divario fiscale totale a 109,1 miliardi di euro nel 2016 (9,4 % del pil)”. La maggior parte del divario “è legata al reddito non dichiarato (83% della propensione media all’evasione nel periodo 2012-2017), mentre solo una piccola parte riguarda errori od omessi pagamenti per i redditi dichiarati (17 %)”. Ci sono, però, dei provvedimenti ridicolizzati nel nostro Paese ma apprezzati dalla Ue perché “incoraggiano la tracciabilità del denaro”. Per esempio, “è stato creato un fondo (0,2% del Pil a partire dal 2021) per ricompensare i consumatori che effettuano pagamenti elettronici” anche se ci vogliono incentivi pure “mirati ai settori più esposti all’evasione fiscale”. Apprezzata la riduzione del limite per i pagamenti in contanti, due mila euro da luglio e mille euro da gennaio 2021.

“Plenum a rischio”. E la Camera pensa al televoto da casa

L’amuchina ancora manca e pure i controlli della temperatura agli ingressi: a Montecitorio l’inizio della quaresima è un calvario. Perché nella prima seduta dopo la stretta imposta dai questori per evitare il contagio da Coronavirus a Palazzo, gli inciampi non mancano: in mattinata Alessio Butti di Fratelli d’Italia mette il dito nella piaga in aula, mentre in Transatlantico non si parla d’altro: “Perché qui ancora non abbiamo i termoscan?”. Una domanda che Butti rivolge direttamente al presidente Roberto Fico che accusa di leggerezza: “Il Collegio dei questori ha diramato una circolare dove si prescrivevano degli atteggiamenti da tenere, noi in primis, perché veniamo qui per insegnare agli italiani come si fa. Le faccio presente che, nonostante la circolare parlasse di una decorrenza da ieri (il 25 febbraio, ndr), agli ingressi non ci sono ancora né prodotti per l’igienizzazione delle mani nonché materiali informativi né tanto meno gli apparecchi per la misurazione della temperatura corporea”. Fico lo rassicura (“Stiamo comprando tutto quel che serve. Siamo tranquillissimi”), ma nel frattempo sono gli stessi commessi agli ingressi a chiedere lumi a chi transita: “Ma al Senato sono i nostri colleghi a occuparsi dei controlli o è stato reclutato personale sanitario esterno?”.

Insomma la tensione c’è, pure se nessuno fa più la fila davanti all’ambulatorio interno a Montecitorio per un consulto lampo, come è accaduto nei giorni scorsi. “E lo credo: adesso, con le nuove direttive, siamo costretti prima a telefonare”, confessa all’ora di pranzo un parlamentare rassegnato a rimanere in linea chissà quanto e che invece trova libero. Non ha molto da confessare: abita a pochi chilometri dalla zona del contagio ma non ricorda se ci è passato e quando. E certo che “mai nella vita sono stato in Cina” e “non starnutisco dalla primavera scorsa”.

Quando la seduta riprende nel pomeriggio però la questione si fa tutta politica, perché il weekend si avvicina e ben 40 eletti in Lombardia temono di venire fermati sulla via del ritorno per Roma, come è accaduto al loro collega della Lega, Guido Guidesi, in auto quarantena nella natia Lodi. “Dev’essere messo in condizioni di partecipare ai lavori parlamentari o bisogna chiarire che in questo momento la Camera non è nel suo plenum”, spiega Raffaele Volpi del Carroccio mentre al Senato si crea pure un caso Augussori, un altro leghista in isolamento che rischia di saltare il voto sulla richiesta di autorizzazione a procedere che riguarda Matteo Salvini per la Open arms. Fico è costretto a convocare un ufficio di presidenza per stamattina per affrontare la questione della garanzia della rappresentanza.

Gli smanettoni la fanno facile: i deputati possono depositare le interrogazioni con un clic perché non consentire loro pure il televoto da casa? La questione insomma è seria: dura poco perché nel frattempo Vittorio Sgarbi intervenendo sul decreto in conversione che contiene le misure urgenti contro il Coronavirus, lancia la sua fatwa contro l’emergenza che non c’è: “Sarete maledetti”. Giusto pochi minuti dopo il suo collega di partito Matteo dell’Osso si strappa la mascherina che indossa da un paio di giorni prima di autodenunciarsi: “Nell’ultimo weekend sono stato in tre regioni del nord: non faccio male a nessuno con la mascherina. I folli siete voi”. Tra un voto e l’altro i volenterosi si sciacquano le mani alla toilette, prima e persino dopo la merenda. Sulla bocca di tutti non c’è più l’amuchina che tarda, ma il telelavoro che potrebbe arrivare.

Il fenomeno Burioni estingue il Corona un tweet alla volta

Eccolo lì, lo riconosceremmo da chilometri, splendente, adamantino, aurorale: è il paradigma di Arbasino, quello per il quale in Italia c’è un momento stregato in cui si passa dalla categoria di “bella promessa” a quella di “solito stronzo” perché soltanto a pochi fortunati l’età concede di accedere alla dignità di “venerato maestro”. Niente è scritto, e forse proprio adesso, con l’epidemia in corso, è quel momento stregato in cui Roberto Burioni, Professore di Microbiologia e Virologia all’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano, può scegliere la seconda strada e avviarsi verso la gloria, confutando l’eccezionale potenza euristica di una legge che Edmondo Berselli, in Venerati maestri (sottotitolo: Operetta immorale sugli intelligenti d’Italia), decretava “infallibile”.

Burioni, già veemente portavoce della Scienza sui social, ai tempi del coronavirus ha sfondato il diaframma della Tv generalista e adesso è dappertutto, a tutte le ore: da Fazio, su Rai2, su Rai1, su La7, al Corriere Tv, a Circo Massimo, oltre che su Twitter e sul suo blog, a infondere Scienza al popolo con pochi semplici concetti: “Lavatevi le mani. Spesso, anzi spessissimo. Va bene il sapone comune, non serve quello antibatterico”. È il Fleming dello zapping; il Padre Pio della bilocazione igienico-televisiva; il Dulbecco del collegamento, tanto che la televisione pubblica, anche per ragioni di economia mentale di parlante e destinatari, potrebbe trasmettere un messaggio di Burioni alla Nazione a reti unificate, tipo Juan Domingo Perón dell’Amuchina.

Ieri, in piena pioggia gratificazionale, Burioni ha retwittato un articolo che Science gli ha dedicato il 2 gennaio, dove lo si chiama media star con la “chioma brizzolata, le sopracciglia a punta e il sorriso ironico” e si ricorda che Burioni è passato dall’essere un “avvocato della scienza” dopo aver combattuto nel 2016 in un talk show contro due temibili NoVax: il dj Red Ronnie e la presentatrice Eleonora Brigliadori.

È questo il punto: Burioni ha studiato; è laureato; è competente; è uno scienziato. Nessuna persona sana di mente si sognerebbe di affidare il proprio bambino a un diplomato all’istituto alberghiero convinto che i vaccini causino l’autismo invece che a Burioni; eppure, per qualche strana alchimia socialara, a un certo punto la questione è diventata se di virologia ne sapesse di più Burioni (dottore di ricerca in Microbiologia a Ginevra etc.) o un troll dei social, con Burioni che più dava dei “somari” a carburatoristi di Rimini, estetiste della Magliana, tatuatori di Vicovaro e tolettatori di cani del viterbese, più diventava famoso e creava tifoserie opposte intorno alla non-questione, foriera di liti e insulti da querela, sollevata dall’apoftegma burioniano per antonomasia: “La Scienza non è democratica”.

Famoso vuol dire fagocitabile da Renzi: che lo voleva candidare, forse affascinato di aver trovato uno più indisponente di lui. E se sui vaccini Burioni è con la comunità scientifica (e ci mancherebbe!), sembra un contrappasso ironico che in tema Coronavirus Burioni sia più d’accordo con gli utenti comuni che con gli scienziati, alcuni dei quali non disdegna di “blastare” per insufficiente contezza della pericolosità del morbo, come la virologa Maria Rita Gismondo, chiamata “la signora del Sacco”, come facesse la portantina, colpevole di aver declassato la peste da Covid-19 a infezione appena più seria di un’influenza, alla quale ha consigliato di “riposarsi” (magari twittando un po’, invece di isolare virus e fare tamponi dalla mattina alla sera).

Un’onorata carriera di titoli prestigiosi ribaditi su Twitter a utenti scuolesenti con pervicacia ossessiva: “Prima si prende una laurea in medicina, poi una specializzazione in immunologia, poi un dottorato in virologia molecolare, poi viene a dirmi cosa devo ritrattare nella materia che studio da 35 anni”. Citiamo a memoria, un po’ intimoriti di incorrere nell’accusa di scrivere “menzogne”, come quella volta che raccontammo scherzosamente il siparietto comico tra il Professore e Renzi – che lo invitò alla Leopolda convinto che la comunità scientifica internazionale voterebbe Renzi – e dicemmo sbagliando che aveva “letto” dei tweet di utenti NoVax mentre invece li aveva recitati a memoria (il Prof. poi si dispiacque, in privato, di averci aizzato contro i fan, ma intanto: auguri di malattie mortali, parti bicefali, cancrene e lutti per famigliari decimati dal morbillo, da parte di quelli che amano la razionalità e la civiltà dell’immunologia). Ora, l’epidemia accelera il momento Arbasino, che in condizioni normali si verifica al ralenti. E poteva mancare Renzi, che col suo culto del Superuomo, o forse solo del Superman, vorrebbe fare di Burioni il Virologo d’Italia, legibus solutus, chiaramente in chiave anti-Conte e anti-governativa, con Luciano Nobili di Italia Viva che lo propone come una specie di Super Commissario di Salute pubblica, scavalcando l’Oms e l’Iss, per investitura twitterina: “Cosa aspetta il governo Conte ad affidare a @RobertoBurioni, l’unico che aveva previsto la situazione e aveva indicato le misure da adottare, la gestione commissariale della task force che sta fronteggiando l’emergenza coronavirus?”. Burioni, che aveva consigliato la quarantena per chi veniva dalla Cina, ha ringraziato con modestia: “Penso di essere più utile al Paese continuando a fare il mio lavoro”. Che stando a Renzi sembrerebbe quello del profeta, o dello scommettitore di partite: “Roberto Burioni non ha sbagliato un colpo”, infatti Burioni aveva detto: “In Italia il rischio è zero. Il virus non circola”, virus che al momento ha fatto 378 contagi. Ecco, se c’è una cosa che possiamo consigliare a Burioni, che ha un libro in arrivo proprio sul Coronavirus (tu guarda il caso), è di scappare a gambe levate dai social e da Renzi, espertissimo non di virologia, ma della già citata parabola da “brillante promessa” a “solito stronzo” (ma poi sai che onore: essere usato nel name dropping per farsi bello con gli sceicchi e i petromilionari nelle ski-trip in Pakistan: “Quello che ha sconfitto il Coronavirus l’ho inventato io”).

I danni economici. Settori strategici Made in Italy

L’emergenza del Coronavirus in pochi giorni ha catapultato l’intera economia italiana in un baratro con ripercussioni che Confindustria bolla come “molto negative” chiedendo al governo “misure più ampie” di quelle adottate finora, che diano ossigeno alle attività produttive anche fuori dalle zone rosse. Oltre al danno economico immediato va, infatti, considerato anche quello reputazionale, che avrà effetti nel medio-lungo periodo. L’esecutivo in queste ore continua a lavorare ai nuovi provvedimenti economici che dovrebbero essere spalmati in due decreti. Il primo potrebbe arrivare sul tavolo del Consiglio dei ministri già venerdì e dovrebbe intanto sospendere altri adempimenti anche per le imprese, dopo lo stop a tasse e rate della rottamazione già rese operative dall’Agenzia delle Entrate. Sul tavolo ci sarà anche un intervento deciso per sostenere il turismo.

 

Turismo. Pasqua senza viaggi: disdette fino a giugno in città e montagna

La stima più prudente di una perdita di 5 miliardi di euro diffusa da Federturismo appena 48 ore fa è stata già smentita dalla stessa federazione che non è più in grado di stimare l’impatto che avrà il Coronavirus su un settore che incide per il 13% sul Pil con un giro d’affari di 146 miliardi di euro, quasi 216 mila esercizi ricettivi, 12 mila agenzie di viaggio e oltre 4 milioni di lavoratori (il 14,7% totale). Il ministro Franceschini ha convocato per domani un tavolo con le principali associazioni di categoria che già si sono fatte sentire con la perdita registrata dal settore delle gite scolastiche (un business da 316 milioni), congelate fino al 15 marzo. Intanto Venezia ha già registrato disdette per il 40%, crisi nera per la montagna in Friuli, a Roma e nel Lazio le cancellazioni arrivano al 90% per il mese di marzo e del 60% fino a giugno: la Pasqua è compromessa. In crisi anche il turismo religioso.

 

Trasporti. Si riducono i passeggeri di aerei e treni. Maxi sconti in carrozza

Nel 2003 a causa della Sars le perdite nel trasporto aereo furono di 6 miliardi di dollari. Oggi la Iata (International air transport association) stima per il 2020 perdite oltre i 29 miliardi e una contrazione del traffico del 4,7%. Air France stima che l’epidemia potrebbe avere un impatto di oltre 150 milioni di euro sugli utili operativi entro aprile; United Airlines ha sospeso i target finanziari per il 2020. In Italia, solo martedì al Marco Polo di Venezia il numero di passeggeri è diminuito del 24% (- 7% i voli). L’aeroporto di Treviso ha registrato una flessione dei passeggeri del 30%, mentre al Catullo di Verona martedì i passeggeri sono scesi del 36%. Sul fronte delle ferrovie non ci sono dati ufficiali, ma Italo e Trenitalia garantiscono rimborsi integrali a chi rinuncia al viaggio. Per riempire le carrozze sempre più vuote Italo propone sconti fino al 70% per i clienti registrati.

 

Industria. Aziende ferme, operai in ferie. Grandi affari per il gel mani

Aziende in stallo, dipendenti in ferie per stare con i figli che non vanno a scuola, produzioni ridotte: ecco alcune dirette conseguenze nel settore industriale. A oggi, secondo la Fim Lombardia, sono quasi 6.000 i lavoratori metalmeccanici lombardi coinvolti da fermi della produzione e riduzione d’orario a causa del Coronavirus. Un territorio già alle prese con 17.288 lavoratori in cassa integrazione (+79% sul 2018) e 392 aziende in crisi. La frenata dei consumi, calcolata da Confesercenti in circa 3,9 miliardi di euro, potrebbe mettere a rischio 60 mila posti di lavoro portando alla chiusura di circa 15 mila piccole imprese dalla ristorazione alla ricettività, passando per il settore distributivo e i servizi. Solo un settore fa affari: quello della vendita dei gel igienizzanti per le mani. Solo nelle prime 6 settimane dell’anno si sono vendute più di 900mila confezioni, pari a un fatturato di 2,5 milioni.

 

Esercenti. Fatturati giù fino all’80%, ma salta il coprifuoco delle 18

L’appello degli esercenti di Milano alle istituzioni “di considerare insieme all’urgenza sanitaria anche l’emergenza economica e sociale” è stato accolto: la Regione ha modificato l’ordinanza degli scorsi giorni sulla chiusura di bar, pub e discoteche. Così da ieri sera il coprifuoco dalle 18 alle 6 non riguarda più i locali pubblici in grado di garantire il servizio al tavolo da parte del personale. Intanto, però, il danno è fatto. Anche se la Milano da bere va oltre il caffè, a oggi, spiega la Fipe, il fatturato dei pubblici esercizi in alcune aree è calato fino all’80% con il rischio di perdere nei primi 4 mesi dell’anno 2 miliardi di euro. A questo si aggiungono le difficoltà di quelle attività, come i locali di intrattenimento, che a causa delle ordinanze non possono operare. “Se la situazione non cambia in fretta – l’allarme degli esercenti milanesi – si parla di oltre 20.000 posti di lavoro a rischio.

 

Ristorazione. Locali chiusi tra ordinanze e isterie: a rischio 100 mila posti

È uno dei settori più colpiti dall’epidemia e dove restano in vigore le restrizioni previste dall’ordinanza emanata nei giorni scorsi: la sospensione di manifestazioni, eventi e di ogni forma di riunione in luogo pubblico o privato, anche se svolti in luoghi chiusi aperti al pubblico. È qui che l’emergenza rischia di avere un impatto elevatissimo sull’economia: non ci sono più clienti e resta anche aperto il problema dei tanti lavoratori che svolgono attività per le quali resta difficile applicare lo smart working. “Molti di questi _ spiegano dalla Fisascat Cisl di Milano – nell’incertezza generale vengono invitati a mettersi in ferie o a prendere permessi retribuiti”. Secondo Confcommercio, continuando così la spesa calerà di 2,65 miliardi di euro con conseguente perdita di centomila posti lavoro. E gli esperti stimano che il colpo inferto al Pil italiano, in una stima prudente, possa essere tra lo 0,5% e l’1% nel trimestre.

 

Cultura e intrattenimento. Concerti, cinema, parchi e teatri. Il conto è di almeno 50 milioni

Danni per 10,5 milioni di euro a causa dei concerti annullati per il Coronavirus. Il bollettino di Assomusica stima inoltre una conseguente ricaduta di almeno 20 milioni di euro sulle città che ospitano gli eventi. Ma il rischio è che molte delle società e dei promoter attivi soprattutto sui territori locali e regionali subiscano un rapido crollo. Non se la passa meglio lo spettacolo dal vivo: per Agis, la settimana di chiusura imposta nelle Regioni coinvolte dal contagio provocherà una perdita di oltre 10 milioni di euro e la cancellazione di 7.400 spettacoli. Vede nero anche il settore dei parchi tematici con 15mila assunzioni di lavoratori stagionali in bilico. In allarme il cinema: il box office ha perso in una settimana 4,4 milioni di euro. Domenica salterà la domenica gratuita nei musei, ma dal sindaco Sala arriva la richiesta di riaprirli.

A cura di Patrizia De Rubertis

Tv infetta: inviati al bando e applausi da lontano

Dura la vita dell’inviato nelle zone rosse del coronavirus. Chi c’è stato, quando i vari Codogno, Castiglione d’Adda, Casalpusterlengo, ecc, non erano ancora chiusi (perché ora non può entrarci più nessuno), al ritorno in redazione ha trovato pure la porta sbarrata. “Via tu, che ci infetti, alla larga…”. Il povero inviato, dunque, secondo ordinanza, è costretto a stare a casa, in quarantena, per i fatidici 14 giorni. Chi può sta in smart working, altrimenti viene considerato in malattia o aspettativa retribuita. Ma lo scenario davvero inquietante lo si è intravisto domenica sera, quando Che tempo che fa di Fabio Fazio e la Domenica sportiva sono andate in onda senza pubblico. A porte chiuse. Se continuerà così, tra un po’ si dovranno montare gli applausi finti e le risate posticce, tipo Benny Hill. Ma pure le tv (e i media in generale) si sono dovuti adattare all’emergenza Covid-19.

In Rai, dove si fanno sempre le cose in grande, è stata istituita addirittura una “task force”, con funzioni di “coordinamento gestionale ed editoriale sull’emergenza coronavirus”. Tutti coloro di ritorno dalle aree a rischio devono comunicarlo alla suddetta task force e comunque, “i soggetti, al termine della missione, non potranno accedere ai siti aziendali e sono invitati a restare a casa per un periodo di 14 giorni”. Sono comunque “da ritenersi vietate tutte le trasferte non direttamente connesse ad esigenze di copertura informativa”. Per i soli inviati che dovranno andare nelle vicinanze delle aree coinvolte “l’azienda ha disposto due punti di distribuzione del materiale di supporto (mascherine, guanti, disinfettante) e Milano, in corso Sempione, e a Roma, al servizio medico di Saxa Rubra”. Al momento, però, non è chiaro quanti siano i cronisti Rai in quarantena. Per quanto riguarda il pubblico, invece, non si esclude che altre puntate di programmi realizzati a Milano vengano trasmessi a porte chiuse. Mentre agli ospiti in studio viene fatta firmare un’autocertificazione dove va dichiarato se si viene dalle aree a rischio, come ha mostrato Guido Crosetto su Twitter.

A Mediaset, invece, non c’è una task force, ma un comitato di crisi permanente, come alla Farnesina, “che si riunisce quotidianamente per valutare eventuali nuove misure da adottare”. La differenza è che nelle reti di Berlusconi bisogna stare a casa anche con un’influenza semplice. “Chiunque presentasse sintomi influenzali, raffreddore o problemi respiratori non cronici è invitato a rimanere a casa fino al completo superamento degli stessi”, recita la direttiva interna del Biscione. Altresì si comunica “che l’attività di asilo nido e del centro fitness di Cologno Monzese sono temporaneamente sospese”. Altra differenza è la decisione, fino a nuovo ordine, di chiudere al pubblico i programmi realizzati a Cologno. Come quello di Paolo Del Debbio, che però ha già ovviato facendo proiettare su un ledwall lo studio pieno (da Roma). Al momento, a Mediaset ci sono 4 giornalisti in quarantena. Due, invece, i cronisti fermi a La7: uno del tg e l’altro di Tagadà, non a casa in quarantena, ma solo lontani dalla redazione. Nella rete di Urbano Cairo, inoltre, il problema del pubblico non si pone perché quasi tutto viene fatto a Roma.

Nel frattempo, in Rai, sembra esser stato accolto l’invito ad abbassare i toni sull’emergenza che però, secondo alcune fonti, non sarebbe arrivato da Giuseppe Conte ma bensì dal Quirinale. Ieri la Vita in diretta ha accorciato il tempo dedicato al coronavirus e stasera è stato cancellato uno speciale sul tema condotto da Annalisa Bruchi.

Il governo contro le Marche: “C’è il rischio di emulazione”

L’effetto era facilmente prevedibile, tanto è vero che è stato previsto: tutti vogliono partecipare allo show del coronavirus. Per questo il governo ha chiesto ieri mattina al Tar delle Marche “l’immediata sospensiva” dell’ordinanza con cui, contro il parere dello stesso esecutivo e della Protezione civile, il presidente Luca Ceriscioli – iscritto al Pd e in attesa di ricandidatura (non così scontata) alle Regionali di primavera – ha chiuso le scuole e vietato le manifestazioni pubbliche sottolineando proprio “la gravità delle conseguenze che deriverebbero da interventi emulativi di altre Regioni”.

Finora però, Ceriscioli a parte, i presidenti di Regione sono stati buoni in attesa forse di vedere come finisce con le Marche, mentre allo spettacolo della pubblica paura che non ha mai fine si sono iscritti i sindaci. Una chiusura qua, una là, non costa nulla e fai bella figura. Menzione d’onore per il primo cittadino di Saronno (Varese), il leghista Alessandro Fagioli, che ha chiuso il mercato – ma solo per ieri mattina – perché se l’intera città venisse contagiata, calcolando una mortalità del 3%, “rischieremmo di avere 1.200 decessi”. Lo ha scritto su Facebook insieme alla frase: “Si tratta di un dato non estrapolabile scientificamente”.

Fagioli s’è poi scusato nel pomeriggio, non prima però che Walter Ricciardi – membro italiano dell’Oms e consulente del ministero della Salute per l’emergenza coronavirus – lo usasse da “esempio di come una frammentazione decisionale non basata sull’evidenza scientifica può distruggere la fiducia, la reputazione e l’economia di un Paese”. Parole rivolte al sindaco di Saronno – ma che forse valgono anche per quello di Napoli, che ha chiuso le scuole per una “sanificazione straordinaria” degli istituti come ha fatto pure il presidente siciliano a Palermo e Catania – che seguono quelle altrettanto dure che Ricciardi aveva rivolto alle Regioni il giorno prima: “La frammentazione regionale in Italia ha fatto perdere l’evidenza scientifica”. Affermazione cui è però seguito il rifiuto esplicito delle Marche di adeguarsi al nuovo piano meno emergenziale e urlato del governo con una ordinanza che ora è al giudizio del Tar. I giuristi dell’esecutivo ne denunciano plurimi problemi: dalla “carenza di potere” di un presidente di una Regione che si attribuisce poteri che un recente decreto attribuisce al presidente del Consiglio all’ovvia violazione del principio di leale collaborazione; dalla “illegittima attribuzione” di autorità su organi statali come la Prefettura o la Protezione civile al “difetto di proporzionalità e ragionevolezza” della disposizione in assenza di focolai locali di coronavirus nelle Marche (finora tre casi, tutti venuti fuori ieri, in attesa delle controanalisi dello Spallanzani), interventi giustificati con la vicinanza all’Emilia.

C’è una certa fiducia a Palazzo Chigi attorno alla pronuncia (oggi) del Tar, ma a questo punto è urgente pure il provvedimento “calma-sindaci” chiesto martedì persino dall’Anci per bocca del presidente Antonio Decaro: una momentanea sospensione dei poteri di intervento in caso di emergenza assegnati ai primi cittadini. Per farlo servirà un decreto.

Più complicato, dopo le immagini di quarantene garantite dall’esercito dei giorni scorsi, calmare le acque con gli altri Paesi: il ministro Luigi Di Maio ci prova – senza molte speranze ormai – con un piano di comunicazione “anti-fake news” che la Farnesina dovrebbe realizzare con le ambasciate; Giuseppe Conte ne avrà l’occasione da oggi a Napoli col vertice italo-francese col presidente Emmanuel Macron. “Non dobbiamo avere paura, né drammatizzare”, dice il premier pensando anche alla querelle marchigiana. L’impressione, però, è che il circo del coronavirus non si fermerà così facilmente.

“Mio padre è morto in barella, però nessun medico pagherà”

“Ai giudici di Rimini ho detto: ‘Dovreste cambiare la scritta dietro le vostre spalle perché la legge in Italia non è uguale per tutti’”. Paolo Simoncelli, 53 anni e alle prese con lavoretti stagionali a Cattolica, è ancora indignato a un anno di distanza. La sentenza del Tribunale di Rimini del 21 marzo 2019 è chiara: per la morte in ospedale del padre Giuseppe non ci sono colpevoli, è tutto prescritto.

Signor Simoncelli, cosa si prova?

Un senso infinito di impotenza. Ho partecipato per sei anni a tutte le udienze del processo, poi un giorno un giudice è venuto in aula e ci ha spiegato che era tutto finito, senza una sentenza. Ormai era passato troppo tempo e il reato di omicidio colposo era prescritto. È stata una sensazione bruttissima perché così, per la morte di mio padre, non ci sono colpevoli. È come se non fosse successo niente.

Le regole sono chiare: dopo sette anni e mezzo l’omicidio colposo è prescritto.

Esatto, io non ho studiato giurisprudenza e non sono un esperto ma secondo me è sbagliata la legge: la prescrizione non dovrebbe esistere. In base alle prove del processo, o si è colpevoli o si è innocenti. Non è possibile farla franca in questo modo.

La sensazione di ingiustizia di Paolo è condivisa da tutta la famiglia Simoncelli, dalla vedova Marisa alle figlie Alessandra e Maria. Tutti insieme il 13 agosto 2011 hanno vissuto una tragedia rimasta senza giustizia. Il padre Giuseppe, pensionato di 69 anni, era stato ricoverato per un aneurisma all’aorta, stava svolgendo la riabilitazione alla clinica “Sol et Salus” di Rimini e stava meglio. Quella mattina d’estate, però, si era spostato il sondino con cui l’uomo veniva alimentato e così era stato portato al pronto soccorso “Infermi” di Rimini per sistemarglielo. Prima di riportarlo alla clinica “Sol et Salus”, Simoncelli fu lasciato per qualche minuto su una barella in attesa di un’ambulanza: il pensionato scivolò picchiando la testa sul pavimento ed entrò in coma. La mattina dopo l’uomo era morto. A processo per omicidio colposo, nel 2012, erano finite la caposala di Rimini di 45 anni e un’infermiera pugliese accusate di negligenza e imprudenza nella gestione del paziente: le due in aula avevano spiegato che Simoncelli non era agitato e che quindi non aveva bisogno di una sorveglianza speciale, mentre per i pm di Rimini i due operatori sanitari avevano sottovalutato lo stato di agitazione cronico del paziente. Dopo il rinvio a giudizio, la prima udienza risale al primo aprile 2013 ma da allora sono cambiati ben quattro giudici per trasferimento ad altra sede e, per questo, ogni volta sono stati risentiti i testimoni. Fino alla prescrizione di un anno fa.

Signor Simoncelli, che ricordo ha di quei giorni?

Mi ricordo che alla clinica “Sol et Salus” avevano ridato una dignità a mio padre dopo l’intervento all’aorta: parlava, si faceva capire, si muoveva, iniziava a camminare, mi mandava addirittura a quel paese. Quando gli chiedevano ‘Come si cammina?’, lui rispondeva lucido: ‘Un piede davanti all’altro’. La sera prima che succedesse il fatto, io e mio nipote eravamo in ospedale a giocare a carte con lui e stava bene. Ci avevano detto che a settembre lo avremmo potuto riportare a casa.

Qualcuno al pronto soccorso di Rimini lo ha lasciato solo?

Certo, senza il sondino probabilmente era preoccupato e agitato anche considerando che era stato trasportato da un ospedale all’altro. Poi è caduto dalla barella, ha battuto la testa e il giorno dopo i medici ci hanno detto che era morto.

Al processo cos’è successo?

I giudici sono stati cambiati quattro volte e ogni volta il processo ricominciava daccapo: i testimoni hanno dovuto ripetere la stessa versione per quattro volte, fino all’intervenuta prescrizione. Non è una cosa normale che in Italia non si arrivi alla sentenza per un caso di omicidio colposo. Io sono convinto che se per dare da mangiare a mio figlio andassi a rubare una gallina in un pollaio, andrei in carcere subito. Qui invece la fa franca chi ha i soldi e chi è potente: non si può far durare un processo otto anni senza arrivare alla verità. Ma questo prevede la legge.

Ha ancora fiducia nella giustizia italiana?

No, ormai credo molto poco nella giustizia: oggi solo chi può permetterselo avrà un processo equo, tutti gli altri no. Noi Simoncelli, fortunatamente, siamo una famiglia unita: io, le mie due sorelle e mia madre pensiamo il meno possibile a questa ingiustizia e cerchiamo di ricordarci nostro padre prima di morire.