La Chiesa (un po’ irritata) accetta le porte chiuse

La Chiesa s’arrende al coronavirus. Alla scienza, per la prima volta. Ieri l’agenzia Sir dei vescovi italiani ha avvisato i fedeli che a Milano i matrimoni e i funerali si possono celebrare con la presenza dei soli parenti stretti. E per domenica l’arcivescovo Mario Delpini ha comunicato che l’apertura della quaresima ambrosiana avrà luogo nella cripta dei canonici del Duomo: accesso negato ai fedeli e nessuna deroga prevista, però diretta televisiva su Rai3 per “unirsi in comunione spirituale da casa”.

Per contenere gli effetti di una “iniziativa che non ha precedenti”, scrive la diocesi, il vescovo ha preparato un video e un sussidio per pregare in famiglia. Sempre ieri, mercoledì delle ceneri, messe a porte chiuse a Torino e Bologna. Acquasantiere vietate al pubblico, parrocchie deserte, oratori serrati e visite pastorali sospese nelle regioni colpite dal virus. La Chiesa ha accolto le disposizione governative con un po’ di fastidio.

Monsignor Cesare Nosiglia, arcivescovo di Torino, ha riscontrato un eccezionale successo con l’eucarestia su Facebook con migliaia di visualizzazioni, ma ha scagliato un messaggio non proprio pacifico per la regione che ha emanato le ordinanze restrittive: “Mi auguro che la domenica sia salvaguardata come lo è stata fino adesso, perché altrimenti sarebbe una cosa molto pesante da poter accettare e so che i vescovi piemontesi non sarebbero d’accordo”. E i sacerdoti, infastiditi dal panico creato dai media, si chiedono perché le chiese siano blindate e i supermercati no. Delpini ha detto ai fedeli collegati via internet che “l’emergenza può essere un’occasione per intensificare la relazione con Dio”. E ribadire un concetto semplice con i sagrati sbarrati è complesso.

Il Vaticano ha reagito con più leggerezza – mentre papa Francesco in udienza s’è gettato di slancio a baciare fedeli con la mascherina – e ha affidato il commento in prima pagina dell’Osservatore Romano a don Iginio Passerini, parroco di Codogno, un focolaio dell’epidemia in Italia: “A Codogno siamo nell’occhio del ciclone. Nella tempesta mediatica manca solo la fake news che proveniva dalla Fiera di Codogno anche il pipistrello che ha generato il coronavirus in Cina. Intanto siamo chiusi a chiave dal cordone sanitario della zona rossa, applicato a tutela del mondo circostante e fino all’esaurimento del contagio tra tutti noi. La Quaresima per noi si chiama quest’anno quarantena. Cerco di esorcizzare il clima che si respira. Ma devo arrendermi al progressivo aumento di quanti risultano positivi ai test sanitari, allarmati per la diffusione del virus fra i familiari confinati nelle proprie abitazioni. Sono ancora diverse le chiamate che non ottengono risposta per mancanza di materiale sanitario e soprattutto per carenza di personale idoneo a fronte del carico di questa emergenza”.

Una settimana fa il cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato, riferiva ai vescovi riuniti in Vaticano dell’intollerabile aumento del prezzo delle mascherine. Qualche giorno prima la farmacia vaticana era riuscita a mandarne circa 700.000 in Cina al costo di pochi centesimi ciascuna, mentre l’indomani, con l’aumento dei contagi in Italia, i fornitori pretendevano addirittura otto euro. E ancora don Passerini, in un testo di certo condiviso dal Vaticano, ha assunto una posizione assai conciliante sulle messe a porte chiuse: “Ci costa sicuramente rinunciare alla celebrazione domenicale nella quale ci sentiamo ‘popolo fedele’, ma accogliamo la sospensione come una forma del digiuno quaresimale e come una pedagogia a percepire la fame di chi sente di non poter vivere senza l’Eucaristia”. Ieri papa Francesco ha confermato tutti gli appuntamenti in pubblico: “Esprimo vicinanza ai malati, agli operatori sanitari e alle autorità civili che si stanno impegnando per assistere i pazienti e fermare il contagio”. E pazienza per i banchi vuoti in Chiesa.

500mila mascherine di Stato. Stop anche alle esportazioni

Mascherine, guanti, in generale dispositivi medici per la protezione individuale: ieri la Protezione Civile ha comunicato di aver centralizzato gli acquisti di questi beni ormai di prima necessità dai fornitori per avere maggior controllo sulle vendite e la distribuzione ed evitare così situazioni di emergenza nel servizio Sanitario Nazionale e per soddisfare le richieste delle Regioni. L’ordinanza che regola e stabilisce la misura prevede anche che nessuna azienda possa esportare i prodotti senza un’autorizzazione del dipartimento e, inoltre, che ogni società produttrice debba provvedere a rendere noto alle autorità il numero e la tipologia dei prodotti messi in commercio. Un modo per gestire anche il rischio di speculazioni sul prezzo.

Ieri è stato stabilito un primo fabbisogno di mascherine: sono 500mila quelle che saranno inviate nelle Regioni dal Dipartimento della Protezione civile in queste ore. Il numero è stato definito nel corso della riunione del comitato operativo e sarà aggiornato in caso di ulteriori necessità. “Insieme alle aziende produttrici e a Confindustria abbiamo messo in piedi un canale per la fornitura del materiale e oggi abbiamo deciso quante quantità destinare alle diverse Regioni” ha detto il commissario Borrelli in conferenza stampa.

È una misura straordinaria perché solitamente questi dispositivi si acquistano attraverso gare d’appalto regionali. Si tratta infatti di mascherine utilizzate dagli operatori della sanità e da chi sta affrontando l’emergenza in prima linea, quindi i modelli realmente efficaci contro la trasmissione dei virus (Lssl2 e Lssl3). Una misura d’emergenza che per il momento non sembra star generando blocchi nella produzione, anche l’approvvigionamento dei sembra essere sotto controllo. Chiaro che, se la situazione dovesse peggiorare, potrebbe diventare tutto più complicato.

Meno facile, al momento, la vita dei soli rivenditori di dispositivi medici, i cui ordini sono bloccati per almeno cinque settimane e che parallelamente vedono aumentare esponenzialmente le richieste. Al centralino di uno dei maggiori produttori italiani risponde un messaggio registrato che annuncia di aver interrotto le comunicazioni, sempre più pressanti, per concentrarsi sulla produzione. Raccomandando di lavarsi bene le mani e di applicare tutte le misure consigliate dalle istituzioni. La psicosi, intanto, cavalca. Negozi e farmacie affiggono in tutta Italia volantini che informano i clienti della possibilità di ordinare sia mascherine che disinfettanti. A Torino qualcuno ha rubato dieci mascherine dalla tenda pre-triage dell’ospedale Sant’Anna.

Il nucleo di polizia economico-finanziaria della Guardia di Finanza di Milano ha acquisito documenti e dati nelle sedi di Amazon e eBay nell’ambito di una neonata inchiesta sulle “manovre speculative” nelle vendite a prezzi folli di mascherine, gel disinfettanti e altri prodotti sanitari. Il fascicolo, che ipotizza speculazioni sui prezzi di “generi di prima necessità”, è a carico di ignoti. Sono infatti apparsi annunci che proponevano anche a 100 euro una confezione con 50 mascherine dal costo reale di 20 centesimi l’una. Le due società hanno fatto sapere di star collaborando con le autorità e di non permettere sui loro canali comportamenti che violano la legge e le loro regole. Amazon, ha raccontato Wired, ha anche iniziato ad ammonire i venditori che hanno pubblicato annunci con prezzi fuori mercato e in qualche caso ha anche rimosso l’annuncio.

C’è una donna positiva, tensione a Calzedonia

Il comunicato ufficiale dell’azienda è arrivato nel pomeriggio: Calzedonia – un gruppo da 2,4 miliardi di ricavi nel 2019 per la maggior parte in arrivo dall’estero – conferma che la 36enne italiana ricoverata a Barcellona e positiva al coronavirus è una sua dipendente che lavora nella sede spagnola. Un comunicato sostanzialmente obbligato dal fatto che la notizia stava ormai circolando e che anche negli uffici dell’headquarter di Dossobuono, in provincia di Verona (zero contagi accertati al momento), erano arrivate le preoccupazioni dei dipendenti.

La donna ricoverata in Spagna, che è fortunatamente “in buono stato di salute”, era stata infatti nella sede centrale proprio la scorsa settimana: “Durante la sua permanenza in Italia non ha manifestato sintomi influenzali, né riconducibili al coronavirus – scrive l’azienda nella sua nota –. Questi si sono invece presentati una volta fatto rientro in Spagna, il 22 febbraio 2020”.

Particolare di cronaca corretto, ma ovviamente poco significativo nel caso di un virus che, com’è noto, ha un periodo di incubazione: insomma, la paura continua a serpeggiare tra i lavoratori, tanto più che Calzedonia, saputo della positività della dipendente, ha chiuso la sua filiale spagnola, mentre non sembra aver preso provvedimenti significativi in quella di Dossobuono.

“In via cautelare – spiega il gruppo dell’abbigliamento – abbiamo già provveduto a mettere a conoscenza del fatto i servizi sanitari delle regioni Veneto e Trentino Alto Adige, che non hanno ritenuto necessaria la chiusura dell’azienda. Al fine di prevenire e preservare il buono stato di salute di tutti i lavoratori, l’azienda monitorerà e comunicherà tempestivamente ai dipendenti qualunque nuovo aggiornamento o precauzione”.

Nei fatti, l’azienda ha seguito il protocollo per le zone non cluster (cioè senza focolai autonomi): nessuna quarantena o isolamento preventivo, il consiglio di rimanere a casa e contattare un medico per chi ha sintomi influenzali, di restarci e chiamare il medico per chi fosse già in malattia con l’influenza, qualche cartello in azienda per ricordare a tutti di lavarsi le mani più spesso del solito.

Difficile, però, che basti a tranquillizzare i lavoratori, che si domandano semmai come e quando la 36enne positiva a Barcellona abbia contratto il virus: non più di tardi di un paio di settimane fa – raccontano ad esempio fonti interne all’azienda – sono tornati a Dussobuono dalle sedi cinesi del gruppo una decina di dipendenti, i quali – va detto – non risultano però avere sintomi e per i quali, dice l’azienda, ci si è attenuti alle disposizioni dei servizi sanitari regionali (tradotto: non c’è stata alcuna quarantena perché non era necessaria nelle condizioni date).

Calzedonia, riassumendo, ritiene di aver fatto tutto quel che andava fatto in questa situazione, alcuni lavoratori ritengono invece che ci sia una sottovalutazione di quanto accaduto. Questo soprattutto perché la 36enne risultata positiva, che si occupa di formazione per Tezenis (uno dei sette marchi del gruppo), nei suoi giorni italiani tra lunedì 17 e venerdì 21 febbraio ha avuto contatti lavorativi con moltissimi dipendenti, anche stranieri, del gruppo sia nella sede di Dossobuono sia a Milano.

Grande fuga dal Nord. I siciliani tornano e Musumeci ha paura

Fuga dal Nord per i tanti siciliani che lavorano o studiano in Lombardia, in Veneto o nelle altre regioni dove sono stati registrati casi di contagio. Dal primo caso in Lombardia, dopo l’annuncio della chiusura di scuole, locali e università, è iniziato il ritorno alla terra d’origine dei tanti fuorisede, tra chi parte per paura e chi per godersi una vacanza non prevista. “Tra i più giovani che hanno tra i venti e trent’anni c’è un misto di paura e ansia – racconta Stefano, ragazzo che raccoglie nella pagina Facebook ‘Il terrone fuorisede’ tutte le esperienze dei giovani emigrati al Nord –. In particolare, a scatenare questa psicosi sono i genitori che chiedono di ritornare per ‘stare al sicuro’. Alcuni padri, appena saputa la notizia dei primi contagi, sono partiti con la macchina dalla Sicilia per riportare sull’isola i propri figli. Io ho detto che sarebbe opportuno evitare di spostarsi, ma quasi nessuno mi ha dato retta. C’è paura del virus e paura di rimanere da soli”.

Gli studenti e i lavoratori che tornano arrivano quasi tutti dalla Lombardia, in particolare da Milano, ma anche dal Veneto. Come Alberta, psicologa catanese, che lavora all’Università di Padova: “Il telelavoro mi permette di lavorare da casa – racconta –, così ho deciso di tornare in Sicilia per far stare tranquilla la mia famiglia ed evitare di dover affrontare da sola una possibile quarantena”. Tra chi torna, in pochissimi sono coloro che avvisano l’Asl del loro ritorno, come invece è sollecitato dal provvedimento emanata dal governo: “Tutti i cittadini provenienti dalle Regioni in cui risulta accertato almeno un caso di contagio devono comunicare la propria presenza nel territorio regionale al proprio medico”.

Tra i mezzi scelti si predilige l’aereo, nonostante biglietti arrivati alle stelle (anche 300 euro per la tratta Milano-Catania) e i treni, ma si utilizzano anche autobus e automobili per ritornare in Sicilia. L’esodo in massa ha allarmato il governatore dell’isola, Nello Musumeci, dopo che lamenta l’assenza di controlli all’arrivo negli aeroporti: “Chiederò al governo nazionale di potenziare le attività di controllo sui passeggeri in arrivo – ha detto –, le misure fin qui adottate presentano gravi carenze”.

C’è chi sicuramente non sarà sottoposto ad alcuna visita dopo il ritorno dalla Lombardia in macchina: “Sono rientrato per il mio bene considerato che Milano centro è una zona a rischio contagio – racconta Adriano, ritornato a Favara dalla Lombardia, dove insegna –. Potevo evitare di rimanere a Milano, così ho deciso di tornare in Sicilia: se devo stare chiuso in casa, preferisco farlo qui. Ma ho deciso comunque di isolarmi per far stare al sicuro la mia famiglia pur non avendo alcun sintomo. Come me – racconta ancora Adriano – sono tornati tantissimi miei amici che lavorano o studiano in Lombardia, nessuno dei quali ha subito controlli”.

Nei giorni scorsi, infatti, i controlli della temperatura all’aeroporto di Catania erano quasi assenti per coloro che arrivavano dalla Lombardia, nonostante i primi casi accertati di contagio. Come Adriano, tra coloro che hanno deciso di mettersi in quarantena volontaria, ci sono anche i quattro operai ritornati a Mussomeli (Caltanissetta) da Vò Euganeo (Padova), il paese al centro del focolaio veneto e quindi inserito nella zona rossa. E ancora, due insegnanti che insegnano nel Lodigiano oggi sono chiusi nelle loro case a Santo Stefano Quisquina (Agrigento). Tra le centinaia di persone tornate in Sicilia c’è chi decide di rimanere: “Ritornare lì è da incoscienti – dice Gianluca, che lavora a Bergamo per un’azienda pubblica e si è messo in ferie –, preferisco rimanere qui”. E per chi ritorna non sempre però sono baci e abbracci: “Alcuni ragazzi che sono ritornati in Sicilia si sono già pentiti della scelta – racconta ancora Stefano –, perché c’è gente diffidente che li guarda come degli appestati e li evita”.

La quarantena ligure dei 147 turisti infuriati

“Tenetevelo”. Hanno lanciato dalla porta il cibo lasciato dalla Protezione civile. I “prigionieri” degli hotel Bel Sit e Al Mare non ne possono più. Due hanno tentato di fuggire, gli altri restano nelle camere, soli con la stanchezza e la paura. C’è chi chiede uno psicologo.

Ad Alassio 147 persone sono in quarantena. Tutto è cominciato con una sola malata, una turista 72enne di Castiglione d’Adda (Lodi) arrivata l’11 febbraio. Oggi in Liguria sono 16 i pazienti positivi al virus: 15 legati al focolaio di Alassio, 8 di questi sono ricoverati con sintomi lievi al San Martino di Genova.

Il sedicesimo invece è all’ospedale di La Spezia: ieri, senza rispettare alcuna precauzione, un suo amico con la febbre si era presentato al pronto soccorso genovese. Diciannove sanitari sono finiti in quarantena, ma i primi accertamenti hanno dato esito negativo.

Il caso della prima paziente ligure ha mandato in subbuglio la quiete invernale di Alassio. Due alberghi – strutture gemelle con le cucine in comune– sono chiusi con all’interno 81 turisti, 14 dipendenti e i due proprietari. Tutti in quarantena coatta. Più decine di persone con cui la donna e il suo gruppo sono entrati in contatto: sanitari dell’ospedale di Albenga, personale dell’ambulanza e autista del taxi che l’hanno trasportata. Difficile, però, rimediare a quanto è avvenuto nelle prime ore.

Da giorni la donna stava male; così sabato è stata portata all’ospedale di Albenga. C’è chi sostiene che l’ambulanza e il suo equipaggio non fossero muniti dell’attrezzatura anti-contagio. Le autorità smentiscono. In ospedale vengono effettuate le prime analisi. Il risultato pare negativo. Tanto che la signora prende il taxi e in albergo viene ammessa una nuova comitiva di turisti. Poche ore dopo, però, arriva la smentita: la turista è positiva. Viene subito emessa un’ordinanza che impone agli ospiti di restare in albergo. I testimoni riferiscono una situazione caotica: “Non c’era nessuno, nemmeno un vigile, a controllare. Gli ospiti in quarantena entravano e uscivano. Due di loro hanno tentato di andarsene, ma sono stati fermati grazie all’intervento dei proprietari dell’albergo”.

Poi la struttura è stata blindata e tra gli ospiti – anziani provenienti da Lodi, Pavia e Asti – si è diffuso il nervosismo. C’era anche il problema del cibo: “Ieri la Protezione civile è arrivata senza protezioni particolari contro il virus. I vassoi sono stati lasciati all’ingresso. E in albergo qualcuno ha lanciato i piatti”. Già, chi doveva distribuire i viveri rischiava il contagio.

Con le ore la situazione si è calmata. Il presidente della Regione Liguria, Giovanni Toti, sta cercando di far trasferire parte degli ospiti nelle province d’origine: “Le condizioni di affollamento sono tali da non garantire le dovute precauzioni. Stiamo contattando gli assessorati regionali alla Sanità di Lombardia e Piemonte per spostare le persone con trasporti protetti nelle loro residenze, dove svolgere la quarantena volontaria o coatta”.

Intanto, però, negli alberghi il nervosismo sale. Un uomo si affaccia dalla finestra, grida: “Siamo chiusi qui dentro, ma nessuno ci dice cosa succede”. Finora la diffusione del virus pare limitata alla comitiva della prima malata. La ricerca di chi è entrato in contatto con i turisti lombardi non è finita, si cerca di ricostruire in quali negozi e bar si siano recati. Ma il contagio della paura tocca anche alcuni cronisti che seguono gli avvenimenti: i colleghi hanno chiesto che non tornassero in redazione.

Un altro morto, 450 contagi. Il centralino 1500 senza capo

C’è un altro decesso, il dodicesimo, è un uomo di 69 anni morto all’ospedale di Parma ma residente a San Fiorano, nella zona rossa del Lodigiano a 4 chilometri da Codogno, già gravato da altre patologie respiratorie secondo le autorità sanitarie. I contagi superano quota 450, aumentano cioè di oltre cento unità al giorno anche dopo che il governo, come riferito già ieri dal Fatto, ha deciso di rallentare i test e di fare il tampone solo ai pazienti che presentino i sintomi del nuovo coronavirus e a chi è stato a stretto contatto con persone contagiate. L’esecutivo sostiene infatti che il maggior numero di casi del nostro Paese, terzo al mondo dopo Cina e Corea del Nord, sia da attribuirsi alla gran quantità di controlli effettuati e non, come invece è autorevolmente sostenuto, anche all’assenza di misure efficaci nei riguardi di chi rientrava dalla Cina prima e dopo lo stop ai voli diretti disposto il 31 gennaio.

Il contagio in Italia raggiunge ormai dieci regioni e l’Alto Adige ma non ci sono elementi per pensare a focolari ulteriori rispetto alla Lombardia (circa 300 casi) e al Veneto (87 a metà giornata ieri). Per la prima volta arriva in Puglia, a Taranto, ma è una persona proveniente da Codogno; tre casi nelle Marche. I numeri crescono in Emilia-Romagna (oltre 50), Liguria (una ventina) e Toscana, dove ora sono 4 compreso uno studente norvegese dell’università di Firenze. Secondo dati diffusi a metà giornata i pazienti ricoverati sono 128 e 36 in terapia intensiva. Ci sono anche buone notizie: è guarita la signora cinese che insieme al marito, già guarito, era stata ricoverata per prima allo Spallanzani di Roma. Una donna del Lodigiano, positiva al virus, ha partorito a Piacenza un bambino che sta bene e risulta negativo.

A Milano i centralini scoppiano, tra le 250 mila e le 350 mila chiamate al giorno al 112 e al numero verde della Regione Lombardia ( 800 89 45 45). Si è sfiorata una rissa davanti a un ambulatorio pubblico. E a Roma dopo le polemiche dei giorni scorsi sui ritardi nelle risposte al numero 1500 dedicato all’emergenza, si è dimessa al ministero della Salute la responsabile del servizio: “Sono profondamente indignata dalla totale assenza di apprezzamento per il lavoro svolto da tutti i colleghi, di notte e di giorno”, ha scritto Francesca Zaffino, che nei giorni scorsi aveva lamentato “una telefonia che zoppica”, la mancanza di “un sistema di informatizzazione della chiamata” che doveva essere “trascritta a mano”, carenze e limiti di formazione del personale, sottolineando che l’utilizzo di “personale non medico” avrebbe potuto “abbassare i tempi di attesa” ma “abbasserà altrettanto velocemente la qualità”. La vicenda la dice lunga sull’adeguatezza delle strutture deputate a gestire l’emergenza.

Il virus torna a manifestarsi in Germania, dove c’erano stati 16 casi due settimane fa e ieri altri due contagi nella Renania-Palatinato e nel Baden-Wurttemberg: quest’ultimo, un uomo di 32 anni, era rientrato dall’Italia; l’altro invece è un soldato della casa della Croce rossa della Bundeswehr di Coblenza e non sembra aver avuto rapporti con il nostro Paese. Parla di “inizio di un’epidemia di coronavirus in Germania”, il ministro della Salute tedesco Jens Spahn, sottolineando che le persone coinvolte hanno avuto “molti contatti” e anche lì “le catene delle infezioni sono in parte non più ricostruibili”. Un altro caso in Norvegia, è un uomo che era stato Cina.

Cresce l’allarme negli Stati Uniti, per l’Italia e non solo. Gli studenti Usa rientreranno, sospesi i programmi di cinque università americane nel nostro Paese. Circola da due giorni anche in Europa l’analisi di Marc Lipsitch, epidemiologo dell’Università di Harvard, secondo il quale sarà difficile evitare una diffusione su larga scala del nuovo coronavirus. La sua previsione è che nel giro di un anno potrebbe essere contagiata una quota tra il 40 e il 70 per cento dell’intera popolazione anche se questo, spiega, non significa che ci sarà un’ecatombe: “È probabile che molti si ammaleranno lievemente, o che saranno asintomatici”. Per la prima volta i contagi giornalieri in Cina sono inferiori a quelli registrati nel resto del mondo.

Fughe dalla zona rossa nonostante l’esercito

Davanti al piccolo alimentari di Castiglione d’Adda la coda è lunga, il cartello fuori avverte: entrano solo due persone alla volta. Si attende, qualcuno si lamenta. Il nervosismo sale. Del resto non si è più abituati a queste file. La calma però ritorna in pochi minuti. La gente in fondo capisce. La situazione è questa e meno male che al momento va così.

Dieci Comuni, circa 50mila abitanti, una quarantena mai vista prima. Qui c’è il più grande focolaio d’Europa di Covid-19. Qui è nato e qui passava il “paziente 1” di questa epidemia. Forze dell’ordine ed esercito controllano gli accessi in 35 punti dell’intera area. Sono 400 uomini che ruotano su quattro turni. Non operano solo ai check point ma anche nei piccoli centri proprio per monitorare le persone, individuare situazioni critiche che possano sfociare in episodi di violenza.

Qualcuno è già stato registrato. Dalla zona rossa non si può uscire. Ma si prova lo stesso. Un uomo di Codogno ha falsificato una sua dichiarazione. Ha detto che doveva uscire per una visita urgente e invece è scappato in Toscana. Qui è stato scoperto e gli è stato ordinato di rientrare. Naturalmente è stato denunciato. Particolare di non poco conto e che dimostra come gli ordini impartiti anche dalla Prefettura di Lodi siano rigorosi.

È andata forse meglio a una copia sempre della zona rossa che è arrivata a Partaccia in provincia di Massa Carrara e si trova in quarantena volontaria all’interno di un residence. Una famiglia di nove persone due giorni fa ha lasciato il Lodigiano per mettersi in quarantena nella loro casa di Montemarcello (La Spezia). Fughe e tensioni tra le persone. Reazioni prevedibili e previste, quanto contenibili a lungo dipenderà naturalmente dalla durata dell’emergenza.

Ieri piazza Venti settembre a Codogno non rimandava la sensazione spettrale dei primi giorni. Molta gente è uscita per le strade del centro: giovani e qualche anziano, alcuni bambini. A dimostrazione della volontà di mantenere un senso di normalità. Certo molto ancora non va. Le mascherine ad esempio. Le tre farmacie di Castiglione ne sono sprovviste; attendono le consegne e comunque ancora ieri in uno dei comuni più colpiti dal contagio mancavano.

Sono, invece, arrivate a Codogno, ma vengono gestite dalla Protezione civile e fornite prima di tutto agli operatori sanitari e agli anziani. Di certo avvicinarsi a una coda davanti a un supermercato equivale a essere cacciati in malo modo e anche insultati, come testimonia un signore del comune di Fombio, secondo il quale poi non sempre le forze dell’ordine sembrano pronte e preparate nel dare spiegazioni sui protocolli da applicare. In realtà il loro lavoro è di grande utilità. “E poi c’è il problema di negozi e aziende chiuse”, spiega il vicesindaco Stefano Priori. Il grande nervosismo qui è dato proprio dallo stop di quasi tutte le attività lavorativa in una zona, il Lodigiano, piena di piccole e medie imprese.

E mentre l’emergenza morde i cittadini della zona rossa, ancora ci si interroga su come una parte del contagio sia nato dall’ospedale di Codogno dopo l’accesso ripetuto del 38enne poi rivelatosi il “paziente 1”. E così a due giorni dalle accuse del premier Conte sulla mancata applicazione dei protocolli di sicurezza, ieri il procuratore di Lodi Domenico Chiaro ha aperto un’inchiesta proprio su questo. Fascicolo a modello 45 e quindi solo conoscitivo senza indagati e senza nemmeno il titolo di reato. Un’inchiesta simile è in corso a Padova per la morte del “paziente 1” di Vo’ Euganeo. “L’indagine – ha spiegato Chiaro – nasce per le parole di Conte”. Non per altro. I militari del Nas di Cremona così hanno acquisito documenti negli ospedali del Lodigiano, in particolare quelli di Codogno e di Casalpusterlengo. È stata portata via la documentazione clinica del cosiddetto “paziente indice” o “paziente 1”. Lo scopo: capire se ci sia stata una falla nelle procedure che ha scatenato il virus. Il direttore dell’Asst di Lodi Massimo Lombardo ieri ha spiegato che il “paziente 1” il 18 rifiutò una proposta di ricovero prudenziale. Anzi, dice di più: “La cena svoltasi a fine gennaio con l’amico rientrato dalla Cina, secondo i protocolli del ministero non classificava il caso 1 come caso sospetto o caso probabile”.

Quando poi la moglie rivela la cena, il paziente è in crisi respiratoria ed è in reparto generale con altri degenti da meno di 24 ore, tempo utile al contagio anche se l’uomo ha fin dal suo secondo ingresso la mascherina dell’ossigeno. Subito viene isolato in rianimazione. E nonostante la cena con l’amico, secondo il direttore Lombardo, non costituisca un alert, il rianimatore procede subito al tampone poi risultato positivo.

“Ci hanno detto come trattare i casi. Ma troppo tardi”

“La prima direttiva specifica su come trattare i casi è arrivata il 24 febbraio”, racconta una dottoressa di base. La scoperta del primo caso accertato risale al 20 febbraio, giorno in cui Mattia, il 38enne di Codogno “paziente 1”, viene trovato positivo al Covid-19. Tra la certezza circa la presenza del morbo nel Lodigiano e il momento in cui il Dipartimento cure primarie dell’Ats di Milano ha inviato le indicazioni su come trattare i casi sospetti ai medici di famiglia della zona sono passati quattro giorni.

Nell’area di Castiglione d’Adda e Bertonico ci sono 5 medici: 4 sono di base, poi c’è una pediatra. “In 4 siamo in quarantena, chi in ambulatorio, chi in ospedale – racconta al Fatto la dottoressa – io e la mia collega siamo chiuse in studio a lavorare. Rispondiamo ai nostri pazienti e giriamo le telefonate al collega inviato dall’Ats di Milano. È arrivato lunedì, prima di allora non c’era più neanche un medico”. Nella cittadina del Lodigiano, dichiarato zona rossa perché tra i principali focolai del coronavirus in Italia, i numeri sono eloquenti: “Tra i nostri assistiti ce ne sono circa 50 ricoverati perché considerati gravi”, racconta il medico. Castiglione ha 4.500 abitanti, con Bertonico si arriva a 6mila. “Poi ce ne sono tre a casa in isolamento perché positivi al tampone ma non così gravi da giustificare un ricovero. Molti altri sono in quarantena”. In questa situazione è stato difficile avere presidi sanitari, mascherine e guanti, e direttive dalle autorità sanitarie. “Per giorni non è arrivato nulla – spiega la dottoressa – fino a ieri (martedì, ndr) dovevamo andare noi a prendere le mascherine a Lodi, in piena zona rossa. Ora i colleghi ci dicono che oggi qualcosa comincia ad arrivare”.

Nel frattempo anche le direttive hanno faticato ad arrivare. Il primo caso acclarato risale al 20 febbraio: quel giorno Mattia, il 38enne ricoverato a Codogno e considerato il “paziente 1” era stato trovato positivo al tampone. Da quel momento sono passati 4 giorni prima che i medici del territorio ricevessero istruzioni precise su cosa fare: “La prima direttiva contenente disposizioni precise su come dobbiamo trattare i casi sospetti mi è arrivata il 24 – prosegue la dottoressa –, è datata 22 febbraio e conteneva indicazioni su come dobbiamo accettare i pazienti in ambulatorio, ma noi medici eravamo già tutti in quarantena perché avevamo già avuto pazienti certamente positivi. E oggi ne è arrivata una nuova su come segnalare i casi di medici contagiati”. “Richiamate le indicazioni di cui alla circolare del Ministero della Salute del 22/02/2020 – si legge – si forniscono le seguenti indicazioni”. E giù l’elenco: l’accesso in ambulatorio deve avvenire solo dopo “triage telefonico”, “ai pazienti non sospetti deve essere dato un accesso differenziato”, “i pazienti devono recarsi in ambulatorioda soli”, recitava la mail del 24.

Il virus a Castiglione però circolava da tempo. “Tutti i nostri positivi risalgono ai pazienti visitati tra il 12 e il 21 febbraio, giorno in cui siamo entrati in quarantena. Solo io ne ho visitati, anche a domicilio, 12 o 13. I più gravi li abbiamo visitati a domicilio”. Qualcosa è mancato, quindi. “Sarò all’antica – prosegue il medico – ma servono protocolli nazionali già previsti per qualsiasi malattia che scattano in caso di emergenza. Era difficile prevedere che sarebbe successo a Castiglione in questi giorni. Ma non si poteva non prevedere che il virus sarebbe arrivato in Italia”. In realtà lo si era previsto, ma ci si è concentrati sulla Cina. “Fin dai primi di gennaio avevamo indicazione di monitorare se c’erano pazienti rientrati dalla Cina. Una volta domandato questo, finiva lì”. Il problema è che in molti casi la malattia è passata da italiano a italiano.

Il medico che venga contattato da un paziente che riferisce sintomi respiratori deve “indagare la presenza di viaggi in Cina negli ultimi 14 giorni (…) o contatto con caso accertato come da definizione di caso sospetto allegata”, si legge in una news della Regione Lombardia del 28 gennaio intitolata “Coronavirus, assessore Gallera: emanate direttive a medici medicina generale e ospedali per presa in carico ‘casi sospetti’”. È il metodo che è stato applicata al “paziente 1”. Il 14 febbraio Mattia sta male: da Codogno va a Castiglione a farsi visitare in studio dal dottor Luca Pellegrini, ora ricoverato, e torna a casa. Il 16 la febbre è salita e l’uomo va in ospedale: gli operatori domandano: è stato in Cina? No. E viene dimesso con una terapia antibiotica. Il 18 Mattia torna: non respira quasi più. La moglie ricorda la cena con l’amico tornato dalla Cina e gli viene fatto il tampone. Il risultato arriva il 20: è positivo. Se le indicazioni della Regione non si fossero concentrate solo sulla Cina, forse la storia sarebbe stata diversa. “Abbiamo seguito in maniera pedissequa le linee guida e le circolari ministeriali”, la risposta di Giulio Gallera. “A Codogno non c’è stata nessuna deroga ai protocolli o negligenza”.

Tra le circolari del ministero ci sono delle discrasie. Quella del 22 gennaio prescrivono di considerare “storia di viaggi a Wuhan, provincia di Hubei, Cina, nei 14 giorni precedenti l’insorgenza della sintomatologia” ma di trattare come caso sospetto anche “una persona che manifesta un decorso clinico insolito o inaspettato, soprattutto un deterioramento improvviso nonostante un trattamento adeguato, senza tener conto del luogo di residenza o storia di viaggio”. Ma nella direttiva del 27 la frase non c’è più. Restano solo i legami con la Cina.

Una contagiata al Pirellone. E Fontana va in quarantena

Due ore ad alta tensione ieri sera ai piani alti della Regione Lombardia. Sciolte dopo le dieci con una conferenza lampo su Facebook dello stesso governatore Attilio Fontana andata in onda dal suo ufficio di presidenza. La notizia, diffusa sui social nel tardo pomeriggio di ieri era che una stretta collaboratrice del presidente risultasse positiva al tampone. Notizia poi confermata e primo contagio da Covid-19 al Pirellone. L’evidenza ha terremotato l’intero staff di Fontana e tutta l’unità di crisi che da giovedì sera lavora h24 al sesto piano della Regione. Da qui la decisione di sottoporre al test lo stesso governatore e le persone che in questi giorni hanno lavorato al suo fianco.

Risultato: tutti e per primo il governatore, stando alla comunicazione di ieri sera, sono risultati negativi al tampone. Conseguenza: da oggi la Regione più colpita dal Covid-19 si ritrova con un governatore negativo al virus ma in quarantena. La notizia di un dipendente della Regione contaminato era circolata attorno alle 18 di ieri. Per questo la conferenza stampa delle 19 era stata sospesa e inoltre Fontana, atteso in collegamento su Nove con la trasmissione Sonoleventi di Peter Gomez, aveva comunicato la sua assenza. La conferenza su Facebook annunciata alle 21 è andata in onda alle 22. “Avrete visto sui social – ha iniziato ieri sera Fontana – che non abbiamo tenuto la conferenza stampa perché sembra che una mia stretta collaboratrice abbia contratto il virus. E in effetti è così. Si tratta di una persona con cui lavoro costantemente, che mi aiuta tantissimo”.

La donna nelle ultime ore aveva mostrato tutti i sintomi di un contagio conclamato. “E infatti – ha proseguito Fontana – è risultata essere positiva, per questo anche noi che facciamo parte della stessa squadra, gli assessori, io e le persone che hanno lavorato in questi giorni di emergenza, siamo stati sottoposti al test. Il risultato è arrivato pochi minuti fa e la notizia è che non ho alcun virus, nessuna di tutte le persone che sono state sottoposte a questo esame è positiva. Per questo possiamo continuare a lavorare, anche io mi atterrò alle prescrizioni, per due settimane cercherò di vivere in una sorta di auto-isolamente che preservi le persone che mi circondano, con cui vivo e con le quali lavoro”. Dopodiché ha indossato la mascherina d’ordinanza in una situazione del tutto surreale.

In questi 14 giorni si sottoporrà al tampone altre due volte, si proverà la febbre tutti i giorni e andrà comunque al lavoro sempre con la mascherina evitando contatti diretti.

Giornata campale dunque per Attilio Fontana iniziata ieri ancora con gli strascichi della polemica con il premier Giuseppe Conte e le accuse di falle nei controlli sul “paziente 1” all’ospedale di Codogno. “Ieri – aveva detto in mattinata Fontana – ho sentito il presidente della Repubblica Sergio Mattarella che ha espresso la sua vicinanza e il ringraziamento agli operatori sanitari della zona”. Ancora prima in diretta tv aveva rassicurato i cittadini: “Bisogna far capire che non stiamo affrontando una pestilenza”. Poi nel pomeriggio il terremoto e anche la paura per lui e per tutto il suo staff, dai membri dell’assessorato alla Sanità fino all’ufficio stampa che da giovedì lavora pancia a terra per veicolare più notizie possibili per informare la popolazione. Come già spiegato nei giorni scorsi, un primo tampone fatto nell’immediatezza non risulta affidabile al 100%. Per questo Fontana, che nei giorni scorsi ha incontrato anche il capo della Lega Salvini, 21 e 24 febbraio, osserverà le due settimane di quarantena con mascherina “pronto a difendere i lombardi che verranno in contatto con me da ogni possibile infezione”.

Non tutti i virus…

Per colpa del coronavirus, nei talk show scarseggiano i politici e abbondano gli esperti (anche se poi litigano fra loro, ma questa è un’altra storia).

Per colpa del coronavirus, il telespettatore medio sta sviluppando anticorpi poderosi, compreso un sesto senso che gli fa subito notare la differenza fra un esperto e un Capuozzo, un Meluzzi, un Sallusti, un Liguori.

Per colpa del coronavirus, l’Innominabile non straparla più. Anzi, meglio: continua a straparlare da solo e non se lo fila nessuno.

Per colpa del coronavirus, molti italiani si domandano sgomenti che ne sarebbe di noi se avessimo votato a novembre e ora il premier fosse Salvini, con Siri, Rixi, Pillon, Romeo, Fontana, Borgonzoni ministri, oltre naturalmente a B. e Gasparri.

Per colpa del coronavirus, si riesce persino a distinguere fra un leghista serio, Luca Zaia (e basta), e un Cazzaro Verde.

Per colpa del coronavirus, Camera e Senato votano senza tante pippe la fiducia sulle intercettazioni e sul trojan horse (raro caso di virus benefico), archiviando la boiata-bavaglio di Orlando&Renzi.

Per colpa del coronavirus, non si parla più di Santa Prescrizione come baluardo della Civiltà Occidentale e del Diritto Romano. Tantopiù che ieri la Commissione europea ha elogiato la legge Bonafede che la blocca dopo il primo grado come “riforma benvenuta, in linea con una raccomandazione specifica formulata da tempo”. A riprova del fatto che la Spazzacorrotti non ci fa entrare nella barbarie, ma più modestamente in Europa. E paradossalmente con una legge votata dai noti antieuropeisti M5S e Lega, con la feroce opposizione dei noti europeisti Pd, Iv e FI.

Per colpa del coronavirus, si noterà un po’ meno l’ultima impresa masochistica delle Sardine ad Amici da Maria.

Per colpa del coronavirus, il Tribunale di Roma tiene le udienze alla sola presenza dei soggetti interessati e non più in modalità “mercato del pesce”; gli avvocati trasmettono gli atti per via telematica, senza portarli in forma cartacea in tribunale; gli avvocati che vogliono mandare la causa in decisione (cioè non hanno più nulla da aggiungere) possono inviare un’istanza congiunta in tal senso al giudice anziché recarsi in tribunale per un’apposita udienza; il tutto in aggiunta ad altre novità sensazionali che, se adottate 365 giorni all’anno, contribuirebbero non poco a ridurre i tempi dei processi civili.

Per colpa del coronavirus, il presidente della Corte d’appello di Roma ha informato giudici e avvocati, con la solennità degli eventi eccezionali, che le aule erano state igienizzate.

Per colpa del coronavirus, milioni di italiani si lavano anche più volte al giorno.

Per colpa del coronavirus, chi intasava quotidianamente i Pronto soccorso degli ospedali alla minima bua, paturnia o fisima se ne sta finalmente a casa, lasciando lavorare i medici e gl’infermieri su chi ne ha davvero bisogno.

Per colpa del coronavirus, molte imprese e persino la Pa scoprono quegli oggetti misteriosi chiamati smart working (lavoro da casa) e telelavoro (in collegamento a distanza), che consente loro di ridurre i tassi di assenteismo e a tanta gente di guadagnare tempo, denaro e salute senza intasare metro, bus, tram, taxi, treni, aerei né impestare da mane a sera le città di traffico, smog e bile.

Per colpa del coronavirus molti italiani, inspiegabilmente infatuati dal federalismo regionale, scoprono quanti danni fanno le regioni e quanto si vivrebbe meglio se quei carrozzoni capeggiati da sedicenti “governatori”, quasi tutti mezzi spostati in fregola di originalità che per giunta si credono Napoleone, un bel giorno sparissero.

Per colpa del coronavirus, si scopre che sbaglia persino l’infallibile Roberto Burioni: oggi allarmista isterico con instant book in rampa di lancio, ieri negazionista spinto (“Il rischio di contagio è zero, in Italia possiamo preoccuparci dei fulmini, ma non di questo” , Che tempo che fa, Rai3, 2 febbraio 2020), prossimamente non più Scienziato Unico, ma Uno Dei Tanti.

Per colpa del coronavirus, forse sarà rinviato quel monumento allo spreco che è il referendum costituzionale del 29 marzo sul taglio dei parlamentari. Anzi ci sono buone speranze che, nella distrazione generale, se lo scordino in saecula seculorum, facendo risparmiare allo Stato mezzo miliardo.

Per colpa del coronavirus e degli sciacalli che tentano di entrare nelle case fingendo di dover fare il tampone, milioni di italiani hanno cominciato a diffidare degli sconosciuti che citofonano.

Per colpa del coronavirus, abbiamo più tempo per riflettere sulla nostra vita, come i dieci protagonisti del Decameron durante la “mortifera pestilenza… alquanti anni davanti nelle parti orientali incominciata…” che, “senza ristare d’un luogo in uno altro continuandosi, verso l’Occidente miserabilmente s’era ampliata” fino a Firenze, dove aveva moltiplicato l’ignoranza tanto dei mendicanti quanto dei sedicenti scienziati (“de’ medicanti… oltre al numero degli scienziati, così di femine come d’uomini senza avere alcuna dottrina di medicina avuta giammai, era il numero divenuto grandissimo”). E aveva diffuso “diverse paure e immaginazioni in quegli che rimanevano vivi, e tutti quasi a un fine tiravano assai crudele era di schifare e di fuggire gl’infermi e le lor cose; e così faccendo, si credeva ciascuno medesimo salute acquistare”. Parole scritte da Giovanni Boccaccio a metà del 1300, ma molto più attuali e utili dei nove decimi dei nostri giornali.

Se non fosse per i morti, i malati, i terrorizzati, i danni all’economia e il rinvio del nuovo film di Verdone, quasi quasi…