London, il romanzo di una vita da romanzo

Jack London, forse lo scrittore americano più letto e tradotto, a più di un secolo dalla sua scomparsa, non si fa dimenticare. I suoi titoli più celebri continuano a essere saccheggiati dal grande schermo (è nelle sale in questi giorni una nuova versione di Il richiamo della foresta con Harrison Ford), e la sua vita è addirittura fonte di ispirazione per un romanzo: Figlio del lupo. Lo ha scritto Romana Petri. Per chi segue il percorso dell’autrice non è certo una sorpresa. Il romanzo, edito da Mondadori, arriva dopo Devo scegliere chi sognerà per me – racconto per ragazzi dedicato all’infanzia di London – e Il mio cane del Klondike, rielaborazione tutta contemporanea di Il richiamo della foresta. La storia di Buck (cane di razza abituato agli agi di una fattoria in California che viene rapito e venduto come cane da slitta nel territorio ostile e gelido dell’Alaska) è peraltro il primo libro che la scrittrice ha letto insieme al padre, quel Mario Petri, baritono e attore, eternato in Le serenate del Ciclone e la cui biografia è quanto di più londoniano possa contemplarsi.

Una rincorsa affettiva e letteraria per lo scrittore di San Francisco che Romana Petri sublima ora in 400 pagine di narrativa pura. È evidente che l’autrice ha letto tutto di e su Jack London, ma il rigore della documentazione non si tramuta mai in un ibrido a metà tra fiction e saggistica. Figlio del lupo, capitolo dopo capitolo, pur scansionando con fedeltà eventi e sentimenti di una vita autentica, compie il miracolo di trasformare London in un personaggio romanzesco pari a quelli da lui stesso partoriti. Petri, attingendo al suo talento di affabulatrice, racconta un uomo prima ancora che un classico del Novecento. Certo, c’è il tormento creativo dello scrittore, la fatica delle mille parole scritte a mano ogni giorno perché scrivere un libro dietro l’altro è “il modo migliore per combattere l’idea della morte”. Certo, c’è la disperata emancipazione intellettuale per non soccombere all’attività fisica che rende l’uomo una bestia da soma (trasfigurata nel romanzo Martin Eden, alter ego dell’autore). Ma soprattutto c’è l’uomo “di scarpa greve, pugno duro e voce rozza” – assurto a icona delle virtù virili del coraggio e dello spirito d’avventura – che nei suoi quarant’anni di esistenza è annientato da inattese fragilità: non riesce a esorcizzare il trauma di essere stato rifiutato dal suo vero padre e pecca sempre di codardia con le donne: ogni legame d’amore è sempre il surrogato di un altro idealizzato.

Jack per di più è un concentrato di contraddizioni: socialista e vocato all’aiuto per gli ultimi, ma allo stesso tempo individualista e affamato di benessere economico. Lo sguardo di Romana Petri è sempre indulgente per il suo “personaggio”. Si avverte una dolorosa nostalgia per una pienezza di vita confinata ormai in epoche trapassate. Del resto la parabola di Jack London è una inesausta combustione di svariate esperienze e tutte compresse in un arco temporale brevissimo: rivenditore di giornali, razziatore di ostriche, mendicante, cacciatore di foche, lavandaio, cercatore d’oro, progettista di barche e di ranch.

Petri ci offre il romanzo di una “vita da romanzo” forse per suggerirci che è ora di soffiare via la polvere dell’avventura da tante opere di London, farle rotolare giù dagli inoffensivi scaffali della narrativa per ragazzi e raccoglierle con la rinnovata consapevolezza che ciascuna opera di London è, per dirla con Kafka, “un’ascia per rompere il mare di ghiaccio che è dentro di noi”.

Non tutte le “Favolacce” finiscono felici e contente

“Quanto segue è ispirato a una storia vera. La storia vera è ispirata a una storia falsa. La storia falsa non è molto ispirata”. Si divertono a confondersi (e confonderci) tra le parole Damiano & Fabio D’Innocenzo, ma se c’è qualcosa di ispirato è proprio il loro talento, che in Favolacce trova una luminosa conferma. Al punto da far schizzare i consensi di una Berlinale pronta a riaccoglierli – e stavolta al concorso principale – a due anni da La terra dell’abbastanza, applaudita in Panorama.

Trentuno anni all’anagrafe, ma assai di più come maturità nello sguardo, i gemelli romani dal ciuffo imprevedibile fanno le cose sul serio: l’avevano sussurrato con un esordio duro e spiazzante, con Favolacce (im)pongono il tracciato di un cinema solido, capace di autodefinirsi nel portato linguistico, tematico, simbolico. Un cinema che, quand’anche assorbe le numerose letture e visioni dei Nostri, non è mai derivativo.

Difficile è usare le parole per descrivere Favolacce, la verbalizzazione non pertiene a quest’opera di per sé magniloquente, fatta di demoni e angeli contemporanei che abitano villette a schiera con piscine gonfiabili: genitori mostruosi di figli dolcissimi e dalle pagelle impeccabili. Figli che sanno, perché hanno già capito tutto. Favolacce non è materia da sociologi, il suo contesto provinciale di istintivo rimando a disagi e inquietudini d’attualità stringente è una fake news “perché la cronaca si archivia mentre l’archetipo resta”. Per tentare dunque di accostarsi al film là come è stato concepito dai suoi autori, serve alzare lo sguardo, invocare l’astrazione, riappropriarsi della sapienza infantile.

L’infanzia, appunto, è la parola chiave d’accesso al senso profondo di un testo scritto a soli 19 anni (precedente perfino a La terra dell’abbastanza scritto a 21) e che aveva l’urgenza di essere fatto “prima che sia troppo tardi” dicono i gemelli, che sentono, pensano e lavorano all’unisono. “Ormai siamo troppo corrotti nella direzione adulta, Favolacce non poteva più attendere, ma se l’avessimo proposto anni fa nessuno ce l’avrebbe prodotto”. C’è dell’autobiografia in questo nero pluri-familiare a misura di pre-adolescente, non tanto per i fatti narrati bensì per quella chiarezza di sentire e percepire il peso della Verità “che poi l’età adulta smarrisce per sempre”. Poeti e letterati da sempre conoscono la forza dello sguardo innocente, la necessità di ritrovare il fanciullino interiore a salvaguardia del logos, ma l’originalità del modus con cui i D’Innocenzo bros hanno rielaborato intimamente ed “epidermicamente” questi assunti ha del prodigioso. A partire proprio dalla sostituzione di retoriche posticce con la sintesi di una grammatica cinematografica ben organizzata. E quindi basta la lettura di un diario con la voce over di Max Tortora a catapultarci in questo racconto d’inquietudini che tanto piacerebbe a Carver, Yates, Updike, Solondz, PT Anderson (già amico dei fratelli) persino a Haneke e Kurt Vonnegut (non a caso usato a esergo delle note di regia). Al centro sono colorate villette di nuova edificazione abitate da famiglie dall’aspetto curato, fra giovani padri pomposi e inneggianti al machismo (tra gli attori anche Elio Germano) e madri prone o indifferenti, una ragazza incinta senza scrupoli e ragazzine curiose di conoscere la sessualità mentre i corrispettivi maschi ne stanno alla larga. Il tempo del racconto – e del diario – comprende quello delle vacanze estive, con la canicola che denuda i corpi ma non le anime. I bambini ci guardano, dirigeva De Sica, ma i bambini hanno la pelle dura diceva Truffaut, solo che “i loro vizi come le loro virtù così laiche sono anche intransigenti” e per questo Favolacce non può contemplare un happy end. Sono stati bravi i produttori (Pepito, Rai Cinema, Amka Film con Vision Distribution) a lasciar che i D’Innocenzo rimanessero fedeli a loro stessi: l’autenticità di uno sguardo così potente, spietato e (ancora) immune all’auto-indulgenza è garanzia di qualità e originalità. E Damiano & Fabio lo sanno bene, “essere in due ci aiuta a sorvegliarci a vicenda, dobbiamo restare umili perché non vogliamo diventare registi con la sciarpa”.

Scienza o sponsor: chi governa i musei?

Le dimissioni dell’intero comitato scientifico del più noto museo italiano dovrebbero porre una questione fin qui elusa: come si governano i grandi musei autonomi nazionali? Con quali bussole, con quali prassi, con quale condivisione?

Ispirandosi al corrente decisionismo aziendalista-presidenzialista, la riforma Franceschini ha creato i super-direttori: autocrati che non rendono conto sostanzialmente a nessuno, se non alla politica che li ha nominati. Questa monarchia assoluta viene esercitata in modi diversi, a seconda del grado di inclusività, buon senso e perfino buona educazione del singolo direttore. Ci sono (pochi) casi in cui i comitati scientifici concorrono davvero alle decisioni, così rendendo i musei veri luoghi di conoscenza, e ci sono (molti) casi in cui i direttori si ispirano alla autonomia, per così dire, radicale rivendicata dal marchese del Grillo.

Agli Uffizi, il consiglio scientifico ha approvato a ottobre – con l’esplicito consenso del direttore – una lista di sole 23 opere (su decine di migliaia) mai prestabili in nessun caso, “con l’obbligo di attenervisi, considerando le opere in esse contenute inamovibili in assoluto per motivi identitari” (così il verbale, approvato da tutti: anche dal direttore). Nel febbraio successivo, una di quelle 23 opere è stata invece prestata perché uno sponsor che ne aveva finanziato il restauro ne pretendeva la movibilità. Il comitato, appresolo dai giornali, non poteva che dimettersi. E la domanda è: chi governa davvero i musei, la scienza o chi se li ‘compra’ a pezzi?

“Mai il Leone a Roma” Lo strappo degli esperti

In mezzo allo scalpiccio per la molta attesa per la mostra Raffaello 1520-1483 alle Scuderie del Quirinale a Roma, si solleva anche un po’ di polvere di polemica. Al centro del mirino, un volto noto: Eike Schmidt, direttore delle Gallerie degli Uffizi. Soltanto nel 2019, il museo fiorentino era stato il cuore di due querelle internazionali: all’alba dell’anno appena volto al termine, era montato il casus belli tra le gallerie fiorentine e il museo del Louvre riguardo ai prestiti per l’anno di Leonardo da Vinci; poi, in novembre, in occasione della mostra Plasmato dal fuoco. La scultura in bronzo nella Firenze degli ultimi Medici nelle sale degli Uffizi, si è molto discusso su una statua (Venere al bagno) di proprietà di un amico di Schmidt (il mercante d’arte londinese Alexander Rudigier) attribuita al Giambologna di imperio proprio dal direttore a catalogo, mentre il mondo accademico e gli esperti non avevano ancora sciolto i dubbi.

Stavolta, invece, si tratta di un prestito raffaellesco: Ritratto di Leone X tra i cardinali Giulio de’ Medici e Luigi de’ Rossi che dagli Uffizi giunge alle Scuderie del Quirinale per l’imminente esposizione. La questione, però, è che l’opera fa parte del fondo inamovibile del museo fiorentino, come leggiamo dalla nota ufficiale liberata ieri con cui il comitato scientifico degli Uffizi (Donata Levi, Tommaso Montanari, Fabrizio Moretti, Claudio Pizzoruso) si è dimesso. È infatti, proprio dalle pagine del Fatto di ieri che hanno appreso del prestito. La storia sarebbe andata così. Esortato dal direttore, il comitato scientifico era impegnato da mesi nella redazione di due liste di opere inamovibili, dunque secondo il codice dei Beni Culturali non cedibili all’estero (una per quelle appartenenti al fondo principale del museo; l’altra per quelle fragili dal punto di vista conservativo). Intanto, però, viste le altre imminenze e il necessario scrupolo e tempo per tali liste, durante la riunione del 21 ottobre, il Comitato sempre su proposta di Schmidt aveva nel frattanto approvato una lista di 23 opere “inamovibili in assoluto” (né in Italia, né all’estero), confermando nella totalità l’elenco del precedente direttore Natali risalente al 2009. Scorrendo il verbale ufficiale di quella riunione, si legge: “Si approva la lista del 2009 preparata dagli Uffizi coll’obbligo di attenervisi considerando le opere in essa contenute inamovibili in assoluto per motivi identitari” e alla voce n° 19 di quell’elenco, figura proprio il Leone. Il senso è che chiunque e in qualunque momento visiti gli Uffizi, deve poterle ammirare. È importante segnalare che, su queste 23 opere “indisponibili in assoluto” (come recita la chiosa del direttore stesso all’elenco), Schmidt e Comitato scientifico deliberano che “L’unico modo per blindare un elenco di opere inamovibili è quello di costruirlo in modo da rendere sovrano il parere espresso dai tecnici in merito all’inamovibilità”. E cioè, come spiegano i componenti del Comitato uscente nella loro nota d’addio, “obbligo che naturalmente si riferisce alle decisioni del direttore e che vale appunto ‘in assoluto’, cioè anche per prestiti all’interno del territorio italiano”.

Tuttavia, già in occasione della seguente riunione, quella del 9 dicembre 2019 in cui si discuteva proprio dei prestiti delle opere di Raffaello alle Scuderie (ben 48 opere, tra cui la Velata, Visione di Ezechiele, Madonna dell’Impannata e il Leone X), Schmidt tenta di scavalcare la lista. Sul verbale del 9 dicembre, leggiamo infatti che il direttore prende la parola e ricorda “l’impegno assunto fino dal 2017 da parte delle Scuderie a finanziare il restauro del Leone X per consentirne la presenza alla mostra”; e ancora che “gli accordi con le Scuderie” risalenti appunto al 2017 “sono anteriori all’insediamento di questo Comitato […] pertanto il suo pronunciamento negativo rischia di incorrere in una ingiustificabile retroattività”. Ma poi si sottomette al parere “sovrano” della lista. Da par suo, il comitato accetta di prestare la Velata, Visione di Ezechiele e Madonna dell’Impannata perché ancora in fase di discussione la loro inamovibilità, ma non il Leone X. Apprendiamo, infatti, a conclusione del verbale “Permane il diniego del Leone X, nonostante le motivazioni addotte dal direttore”.

Cos’è successo, allora? Al suo comitato, Schmidt risponde che “La lista degli inamovibili riguarda le opere da inviare all’estero” e rivendica “pienamente il patriottismo di questa decisione”, nel pieno dei suoi poteri di autonomia, anche perché è un’opera “in ottima salute e in perfetta condizione di viaggiare a Roma dopo essere stato restaurato dagli specialisti dell’opificio delle Pietre Dure”.

Mubarak, ex eroe corrotto travolto dalla Primavera

La cerimonia funebre prevista forse domani, per la sepoltura dell’ex presidente egiziano Hosni Mubarak, deceduto all’età di 91 anni, rispecchia la sua parabola in vita: dalle stellette, militari, alle sbarre del carcere, ma sempre con un trattamento di riguardo da parte delle istituzioni.

Secondo fonti del Cairo, il funerale sarà militare, ma non in pompa magna a causa della condanna per frode dei fondi pubblici per la ristrutturazione dei palazzi presidenziali. Se un qualsiasi altro militare defunto avesse dei precedenti penali, non potrebbe godere del funerale militare per nessuna ragione.

Ma Mubarak è stato e resterà, nel bene e nel male, un unicum nella storia egiziana. Il giorno e il luogo delle esequie non è stato rivelato così come il giorno esatto della morte per una complicanza sembra intervenuta in seguito a un intervento all’addome. Non è inoltre chiaro se l’ex Generale, oggi capo dello Stato, Abdel Fattah al-Sisi, sarà presente al funerale e se ci saranno anche altri leader arabi.

Mubarak, che ha governato l’Egitto per tre decenni prima di essere rovesciato durante la primavera araba del 2011 e costretto alle dimissioni, sei anni fa venne assolto in appello dall’accusa di non avere impedito l’uccisione di centinaia di manifestanti durante la rivolta di piazza Tahrir contro il suo governo. Nel 2015 però fu condannato a tre anni di prigione per appropriazione indebita di fondi statali utilizzati dal rais e dalla famiglia per restaurare i palazzi presidenziali. Anche i suoi figli furono incarcerati per il loro coinvolgimento nella frode. Proprio sabato scorso, un tribunale del Cairo ha assolto i due fratelli, insieme ad altre sette persone per manipolazione del mercato azionario durante la vendita di una banca nel 2007.

Mubarak divenne il quarto presidente dell’Egitto nell’ottobre 1981, dopo l’attacco mortale contro Anwar Sadat, di cui era vice, perpetrato da estremisti islamici per punirlo in seguito alla firma dell’accordo di pace con Israele.

Nato nel villaggio di Menufiyah nel Delta del Nilo, Mubarak si diplomò all’Accademia aeronautica militare nel 1950 e divenne capo di Stato maggiore dell’aeronautica militare nel 1972. Nel 1975 Sadat lo scelse come vicepresidente perché fu determinante nel pianificare l’attacco a sorpresa contro le forze israeliane all’inizio della guerra arabo-israeliana del 1973. Da allora e fino alla sua caduta, Mubarak fu considerato dall’establishment un eroe nazionale perché pur avendo Israele respinto l’invasione alla fine dovette cedere il Sinai all’Egitto. Da allora Mubarak ottenne la riconferma del suo mandato attraverso i referendum del 1987, 1993 e 1999. Mubarak fu un dittatore a tutti gli effetti, non essendoci mai state elezioni e mantenne lo stato di emergenza in tutto il paese fino al termine delle proteste di Tahrir.

Quando, nel 2005, si tenne la prima chiamata a suffragio universale per eleggere il presidente della Repubblica, Mubarak vinse e cercò di rifarsi un’immagine e spacciarsi per uno statista convertitosi alla democrazia. Ma non è stato così. Anche in quel caso sia i brogli sia la mancanza di un altro candidato plausibile resero la sua vittoria scontata.

Dopo la sua caduta è stato processato per la morte di centinaia di manifestanti e condannato all’ergastolo nel giugno 2012.

Alla fine ne è uscito libero nel 2017, quando la più alta Corte d’appello dell’Egitto lo ha assolto dall’accusa di aver cospirato per uccidere i manifestanti. Il periodo di detenzione tuttavia lo ha trascorso in un ospedale militare. Il Faraone con i capelli tinti di nero si dimise l’11 febbraio 2011 dopo 18 giorni di proteste di massa e aver consegnato il potere ai militari egiziani. Due anni e mezzo dopo di lui, Abdel Fattah al-Sisi ha guidato la destituzione del primo presidente liberamente eletto del Paese, Mohamed Morsi. Tra i messaggi di cordoglio per la sua morte, quello del premier israeliano Benjamin Netanyahu: “Era un amico personale, un leader che ha guidato il suo popolo attraverso pace e sicurezza, alla pace con Israele”. Mentre per il presidente palestinese, Mahmoud Abbas, “ha trascorso la vita servendo la sua patria e le sfide di giustizia e correttezza nel mondo, con la questione del popolo palestinese al primo posto”.

“Al-Sisi sta ricreando la stessa oppressione”

Mona Seif, 33 anni, è stata una delle anime della protesta di piazza Tahrir al Cairo nel gennaio del 2011. I giovani egiziani esprimevano il loro dissenso nei confronti dell’allora regime guidato dal presidente Hosni Mubarak, poi rovesciato per dare vita a una nuova stagione di speranza democratica, purtroppo smentita quasi subito dai fatti. Con lei a Tahrir, all’epoca, c’erano i suoi genitori Ahmed e Laila, la sorella Sanaa e il fratello Alaa, arrestato di nuovo lo scorso 29 settembre dopo le proteste scoppiate in Egitto.

Qual è stata la sua prima reazione alla notizia?

Sono rimasta in silenzio per qualche secondo, colpita da un evento a suo modo storico.

E poi?

Da un lato mi sono sentita sollevata, poi ho pensato al male fatto da quel regime alla mia famiglia e agli egiziani, a trent’anni di corruzione. Se mi chiede se sia scoppiata dalla gioia no, questo no.

Quali secondo lei i legami tra la dittatura di Hosni Mubarak e quella odierna del presidente Abdel Fattah al-Sisi?

C’è una continuità di fondo. Il periodo di Mubarak ha reso possibile, soltanto due anni dopo la sua caduta, di ricreare le basi per un lungo periodo di oppressione. I sistemi sono gli stessi, paura, violenza, arresti indiscriminati nei confronti di chi si oppone. Mubarak ha costruito una potente macchina repressiva, al-Sisi ha una visione estesa e sta usando strumenti e leggi per colpire gli egiziani oltre ogni umana immaginazione. Lui ha messo in campo una versione 5.0 della brutalità sperimentata nel trentennio tra la morte di Anwar Sadat e piazza Tahrir. Non è un caso che sotto al-Sisi ci siano state più condanne a morte, sparizioni e arresti rispetto al passato.

La sua famiglia ne continua a subire le conseguenze, è così?

Esatto. Mio fratello Alaa è rinchiuso nel carcere di Tora (periferia sud del Caro, ndr) da quasi cinque mesi. Lo accusano di aver fondato un gruppo terroristico e lo stanno trattando in maniera atroce.

Pochi giorni fa lei, sua madre e sua sorella avete inscenato una protesta davanti al ministero della Giustizia al Cairo, caso rarissimo, perché?

Non lo abbiamo fatto per chiedere la liberazione, ma per pretendere condizioni detentive migliori per lui. Oltre alle torture e alle aggressioni subìte, dal suo arresto vive in una cella senza materasso, senza asciugamani, senza riscaldamento. Noi lo possiamo vedere soltanto dietro ad un vetro. Sabato scorso, unica notizia positiva, Alaa ha potuto abbracciare suo figlio.

L’arresto di Patrick Zaki, lo studente egiziano che studia in Italia, le riporta la mente a Giulio Regeni?

Sì, e conferma quanto detto poco fa sull’assurda crudeltà del nostro governo. Uccidere barbaramente Regeni, creare depistaggi e spingere il caso verso una lenta fine è una macchia per l’Egitto. È necessario estendere la protesta fuori dal nostro Paese, come accaduto di recente con Patrick.

“Se Zaki non fosse riuscito ad avvisare suo padre, sarebbe finita molto peggio”

“Se non fosse stato arrestato al suo rientro in Egitto, Patrick sarebbe diventato una stella negli ambienti universitari bolognesi. Lo conoscevano e apprezzavano tutti per la persona meravigliosa che è”. Gasser Abdel Razek, direttore dell’Eipr (Egyptian initiative for personal rights), l’organizzazione che si batte per la difesa dei diritti umani in Egitto con cui Patrick George Zaki ha lavorato dal 2017 fino all’agosto scorso, non ha dubbi.

Lo studente di 28 anni, a Bologna per seguire il progetto Erasmus “Gemma”, è stato fermato all’aeroporto internazionale del Cairo alle 3 del 7 febbraio scorso e fino al pomeriggio dell’8 di lui si sono perse le tracce. Ad attenderlo agli arrivi internazionali la sua famiglia che lo ha rivisto il giorno dopo a Mansoura, città d’origine della famiglia Zaki. Quella notte è stato decisivo il passaggio al controllo passaporti. Patrick aveva viaggiato a bordo di un volo Alitalia partito da Fiumicino e atterrato alle 2:30 al Cairo. Quando il poliziotto doganale al Terminal 2 dello scalo cairota ha “strisciato” il passaporto di Zaki è successo qualcosa: “Se sul monitor si accende il rosso – aggiunge Abdel Razek – significa che il soggetto va fermato all’istante in attesa dell’arrivo degli apparati. Di norma, come per un semaforo, il verde dà il via libera e col giallo si può andare, ma con la promessa che qualcosa in futuro potrà accadere. Lo schermo però i passeggeri non lo possono vedere. Subito dopo Patrick è stato preso in custodia dalla Sicurezza nazionale, portato in un luogo segreto, bendato, torturato e interrogato per molte ore. Gli hanno chiesto a quale gruppo terroristico appartenesse e se avesse legami con la famiglia Regeni.

Se prima di sparire in aeroporto non fosse riuscito a inviare un messaggio vocale a suo padre per comunicargli che lo avevano fermato, sarebbe andata a finire peggio. Da allora non ha più subìto violenze e la detenzione a Talkha è tranquilla”. Torture confermate, così come l’inchiesta a suo carico basata su alcuni post su Facebook dedicati alla protesta scoppiata in Egitto il 20 settembre 2019: “Si tratta di tre post, niente più e lui con Mohamed Ali (il fomentatore della protesta, ndr) non ha nulla a che vedere – precisa il leader di Eipr –. L’inchiesta è tutta qui, siamo convinti che presto verrà rilasciato su cauzione e potrà tornare a Bologna”. Lui, diventato grande tifoso dei rossoblù di Sinisa Mihailovic: “E grande fan dello Zamalek che da quando è in carcere ha vinto due trofei nazionali battendo i rivali dell’Al-Ahly. E non capita spesso” scherza Gasser Abdel Razek.

Sparito l’uomo che aveva venduto Regeni ai Servizi

I venditori ambulanti di vestiti, scarpe, libri e cianfrusaglie occupano i marciapiedi attorno a Wekalt el-Balah dove, fino ad alcuni anni fa, c’era il più grosso magazzino di abiti usati. Siamo nel cuore della Capitale egiziana, Downtown Cairo, a due passi dalla stazione della metro Nasser e del vecchio museo egizio in piazza Tahrir.

Non sono stati facili gli ultimi quattro anni per loro, finiti al centro delle attenzioni dopo lo choc provocato dal rapimento e dall’omicidio di Giulio Regeni, tra il 25 gennaio e il 3 febbraio 2016. Proprio i venditori ambulanti rappresentavano il cuore della sua ricerca universitaria al Cairo e oggi Giulio non sarebbe contento di sapere che quella categoria non è più rappresentata da alcun organo sindacale.

Presi, spostati dall’area attorno alla stazione ferroviaria di Ramses, molti si sono persi, compresi tutti quelli che rappresentavano gli “occhi” del regime sulla città, gli informatori messi dal regime per evitare nuove sollevazioni. Lo stesso Mohamed Abdallah, il sindacalista che registrò una conversazione con Giulio in cui gli chiedeva del denaro e poi lo vendette ai servizi egiziani, decretando la morte dell’allora 28enne ricercatore friulano. Anche di lui si sono perse le tracce, sparito, di sicuro fuori da qualsiasi ambito sindacale dopo che la sua copertura di informatore per gli stessi servizi è stata bruciata. Tutto cambia, nulla cambia.

Sono trascorsi più di quattro anni dall’assassinio di Giulio Regeni e mai come ora la svolta che molti, la famiglia di Giulio in primis, attendevano sembra così lontana. Gli ultimi, duri affondi dei genitori di Giulio confermano come la strada imboccata dall’inchiesta sembra diretta verso un vicolo cieco. Lo sostengono loro, e già basterebbe, lo dicono i fatti. Eppure la notizia, alla fine del 2019, del cambio dei vertici investigativi del caso e del vertice della procura stessa sembravano rivestire alla perfezione il concetto di “aria nuova”.

In realtà, oltre all’avvicendamento generale degli organi investigativi e del coordinamento giudiziario non c’è altro, almeno fino a questo momento. Dal giorno del loro insediamento, i leader della Commissione egiziana per i diritti e la libertà (Ecrf) e gli avvocati che seguono il caso in Egitto non sono ancora riusciti ad incontrare i nuovi inquirenti. Addirittura, di alcuni soggetti non conoscono neppure le generalità. In precedenza la famiglia di Regeni e il suo avvocato, Alessandra Ballerini, avevano richiesto dei documenti dell’inchiesta, ma nel passaggio tra il vecchio e il nuovo gruppo di lavoro nulla è cambiato e di quelle carte non c’è traccia. Sarebbe interessante capire da quale punto di partenza intenda riprendere il cammino la squadra di investigatori. Possibilmente andando oltre le solite parole di circostanza delle autorità egiziane e la dichiarata volontà di incontrare i colleghi italiani per un “fattivo e concreto scambio di materiale ed informazioni per raggiungere la verità”. Magari potrebbero ripartire chiarendo un paio di punti determinanti.

Ad esempio dire la verità sul famoso conducente di minibus che la mattina del 3 febbraio 2016, accostando il suo mezzo al lato dell’autostrada Cairo-Alessandra in pieno deserto, si imbatté, guarda caso, proprio nel cadavere massacrato di Regeni. La storia ufficiale conferma l’episodio e la dinamica, peccato, tuttavia, che di quell’autista non si abbiano più tracce, addirittura non si conosca la sua identità e con lui quella di tutti i passeggeri trasportati quel giorno. Forse le autorità potrebbero fare alcune ammissioni, almeno su quel frangente, raccontando come non sia mai esistito alcun autista di minibus, ma la semplice necessità di far ritrovare il corpo martoriato del giovane italiano.
In fondo sarebbe soltanto l’ultimo di una serie di depistaggi di cui il caso Regeni è pieno.

Infine, gli agenti della squadra investigativa potrebbero, finalmente, richiedere alla nota compagnia telefonica straniera la posizione del telefono di Giulio minuto per minuto la sera del 25 gennaio 2016. Nessuno lo ha mai fatto e forse sarebbe utile.

Rider discriminati, Deliveroo nega: “È colpa della traduzione sul sito”

“Deliveroo non penalizza i rider se disdicono turni di lavoro meno di 24 ore prima. Se sul sito aziendale è scritto il contrario, è per una traduzione maldestra”. Ecco il colpo a sorpresa tirato fuori ieri dalla piattaforma del cibo a domicilio alla prima udienza del processo partito a Bologna per un ricorso della Cgil. L’azienda si è difesa smentendo il suo stesso portale web, parlando di un’errata traduzione da una versione estera. Una svista che sarebbe clamorosa, ma della quale – evidentemente – nessuno in quell’impresa si era finora accorto. La causa è stata avviata il 17 dicembre nel capoluogo emiliano da tre categorie del sindacato di Maurizio Landini: Filcams, Filt e Nidil, che rappresentano gli addetti dei servizi, dei trasporti e i precari. A Deliveroo contestano l’algoritmo Frank, che genera il giudizio sull’affidabilità dei rider. Chi risulta più bravo ottene poi più ordini da prendere in carico, quindi maggiori possibilità di guadagno con i pagamenti a cottimo. Chi invece colleziona troppe defezioni cala nel ranking.

Come rilevato dagli avvocati della Cgil Carlo De Marchis, Matilde Bidetti e Sergio Vacirca, questo sistema discrimina chi sciopera o ha un problema di salute. I fattorini che prenotano una fascia oraria, infatti, devono presentarsi nella loro zona di pertinenza entro quindici minuti dall’inizio del turno scelto e farsi geo-localizzare dal sistema. Se non lo fanno, perdono punti. Inoltre, per avere un buon punteggio bisogna assicurare un numero minimo di ore nelle fasce più “calde”: venerdì, sabato e domenica tra le 8 e le 10 di sera. Se vogliono cancellare un turno, devono farlo sapere con un anticipo di almeno 24 ore, dice il sito. Questi fattori, a giudizio del sindacato, violano una serie di diritti, perché l’algoritmo non distingue tra chi non ha rispettato quei parametri perché, per esempio, stava partecipando a uno sciopero e chi non li ha rispettati per ragioni futili.

Ieri Deliveroo ha affermato che qui in Italia non applicano penalizzazioni a chi disdice un turno meno di 24 ore prima. Tuttavia, come detto, è il loro stesso sito a riportarlo nelle domande e risposte frequenti: “Se cancellerai una prenotazione con meno di 24 ore di anticipo, la giornata rientrerà nel calcolo dei 14 giorni lavorati e potrebbe causare un abbassamento delle tue statistiche”. “Potrebbe trattarsi della maldestra traduzione dei siti esteri”, hanno asserito ieri in Tribunale. La prossima udienza sarà ad aprile. Intanto la versione di Deliveroo è messa in dubbio dal rider Antonio Prisco: “Il 15 febbraio – racconta – ho rifiutato il turno tra le 20 e le 21 e ho perso quattro punti di ranking”.

La trappola dei tassi negativi per banche ed economia reale

Chi si rallegra per i tassi di interesse zero o negativi, che alleggeriscono le rate dei prestiti, dovrebbe riflettere meglio sulle conseguenze di questa strategia monetaria. La ristrutturazione di Unicredit di cui si discute in questi giorni è solo la punta dell’iceberg di un fenomeno ben più vasto. Gli annunciati 6.550 “esuberi” per la chiusura di 450 filiali in Italia (più di una ogni 10) non sono unicamente un problema per i lavoratori coinvolti, ma anche per i correntisti, che hanno molto da perdere dalla dissoluzione del modello tradizionale della banca commerciale.

Un tempo, i correntisti erano la principale fonte di finanziamento delle banche ed erano trattati con rispetto. Oggi, con le politiche monetarie iper-espansive di Fed, Bce e compagnia, le banche medio-grandi si riforniscono di una enorme liquidità direttamente dalle banche centrali perfino a tassi negativi, ossia restituendo meno di quello che hanno ottenuto in prestito. Questa concorrenza spiazza completamente la tradizionale raccolta di risparmio sul territorio. La politica iper-espansiva mette fuori mercato anche gli impieghi tradizionali, perché le banche preferiscono acquistare titoli di stato che spesso garantiscono rendimenti anch’essi negativi, ma superiori al costo del denaro, garantendo senza rischi un margine di guadagno. Così, correntisti e imprese che rappresentavano un volano dello sviluppo locale e nazionale, finiscono per diventare sempre meno rilevanti per le banche. Oggi le banche preferiscono offrire ai correntisti, che “pretendono” ancora rendimenti positivi, prodotti finanziari più o meno rischiosi e opachi, catapultandoli nel mondo della speculazione finanziaria, spesso a loro insaputa, come testimonia l’esperienza delle crisi bancarie. Alle imprese che hanno bisogno di credito vengono proposti servizi per emettere titoli (minibond) o finanziamenti da impacchettare (cartolarizzare) in prodotti collocati sul mercato senza puntuale controllo da parte di emittenti e controllori. Chi ha bisogno di piccoli prestiti viene dirottato verso società specializzate che praticano condizioni molto onerose, nonostante i tassi nulli o negativi di cui godono le banche, come dimostra la sostanziale stabilità dei tassi di usura, che sono medie calcolate su operazioni reali.

In questo quadro, la tradizionale banca commerciale viene uccisa se non si trasforma in una sorta di supermercato di prodotti finanziari e guadagna sulla pura intermediazione. Nel contempo, le banche sono costrette ad accontamenti iperbolici sui crediti concessi direttamente e a disfarsi dei crediti problematici (Npl) per soddisfare i criteri di solidità richiesti dalle normative internazionali. Un tempo i Npl venivano gestiti internamente con percentuali di recupero più che doppie rispetto al prezzo di liquidazione, ora i clienti più deboli sono gettati in pasto a società specializzate nel recupero crediti, che adesso possono contare anche sulla liberalizzazione del settore in forza della direttiva in votazione a Bruxelles in questi giorni. Non è difficile prevedere che questo mercato sarà inquinato della malavita organizzata, che sul recupero credito può vantare eccellenze storiche. Ne parlano esplicitamente l’ultima relazione della Commissione antimafia e il procuratore antimafia Cafiero De Raho, che ha dichiarato che le mafie offrono veri e propri servizi legali in questo settore. Ricordiamo che una delle più note indagini di Falcone sulla mafia partiva proprio da una agenzia di recupero crediti dei fratelli Salvo. E sono numerose le indagini dalle quali emerge che imprenditori e cittadini si rivolgono alla malavita per riscuotere rapidamente i loro crediti: dall’operazione “Brotherhood” a Catania fino a “Pay to live”, “Papa” in Lombardia e “Mafia Capitale” a Roma.

Come è avvenuto già negli Usa negli anni 80 e prima della Grande Recessione, la concessione di prestiti a tassi così bassi ha indotto molte famiglie a sovra-indebitarsi, mentre alcuni prodotti finanziari utilizzavano come garanzia proprio quei prestiti che divenivano irrecuperabili. I tassi troppo bassi rendono convenienti investimenti a bassissimo rendimento, riducendo la produttività complessiva del sistema economico, come testimonia il declino della crescita in alcuni dei paesi più sviluppati. A sua volta, la scarsa rimuneratività degli investimenti reali ha alimentato la speculazione finanziaria, dove i rendimenti non sono limitati dalla produttività del capitale fisico, che dipende da fattori tecnologici. Si può infatti sempre costruire un prodotto finanziario che offra un rendimento superiore al sottostante, scontando a un tasso sufficientemente elevato i flussi di liquidità generati da quest’ultimo e la storia delle crisi economiche dai tulipani del ’600 in poi insegna quanto siano distruttive queste costruzioni.

Nessuna banca tradizionale può resistere a tali meccanismi. La loro dissoluzione addossa tutti i rischi a famiglie e imprese, ovvero sull’economia reale, invece di diluirli nel tempo. Una crescita economica basata su queste premesse tende a concentrare ancora di più la ricchezza in poche mani e non sembra affatto sostenibile.