Jack London, forse lo scrittore americano più letto e tradotto, a più di un secolo dalla sua scomparsa, non si fa dimenticare. I suoi titoli più celebri continuano a essere saccheggiati dal grande schermo (è nelle sale in questi giorni una nuova versione di Il richiamo della foresta con Harrison Ford), e la sua vita è addirittura fonte di ispirazione per un romanzo: Figlio del lupo. Lo ha scritto Romana Petri. Per chi segue il percorso dell’autrice non è certo una sorpresa. Il romanzo, edito da Mondadori, arriva dopo Devo scegliere chi sognerà per me – racconto per ragazzi dedicato all’infanzia di London – e Il mio cane del Klondike, rielaborazione tutta contemporanea di Il richiamo della foresta. La storia di Buck (cane di razza abituato agli agi di una fattoria in California che viene rapito e venduto come cane da slitta nel territorio ostile e gelido dell’Alaska) è peraltro il primo libro che la scrittrice ha letto insieme al padre, quel Mario Petri, baritono e attore, eternato in Le serenate del Ciclone e la cui biografia è quanto di più londoniano possa contemplarsi.
Una rincorsa affettiva e letteraria per lo scrittore di San Francisco che Romana Petri sublima ora in 400 pagine di narrativa pura. È evidente che l’autrice ha letto tutto di e su Jack London, ma il rigore della documentazione non si tramuta mai in un ibrido a metà tra fiction e saggistica. Figlio del lupo, capitolo dopo capitolo, pur scansionando con fedeltà eventi e sentimenti di una vita autentica, compie il miracolo di trasformare London in un personaggio romanzesco pari a quelli da lui stesso partoriti. Petri, attingendo al suo talento di affabulatrice, racconta un uomo prima ancora che un classico del Novecento. Certo, c’è il tormento creativo dello scrittore, la fatica delle mille parole scritte a mano ogni giorno perché scrivere un libro dietro l’altro è “il modo migliore per combattere l’idea della morte”. Certo, c’è la disperata emancipazione intellettuale per non soccombere all’attività fisica che rende l’uomo una bestia da soma (trasfigurata nel romanzo Martin Eden, alter ego dell’autore). Ma soprattutto c’è l’uomo “di scarpa greve, pugno duro e voce rozza” – assurto a icona delle virtù virili del coraggio e dello spirito d’avventura – che nei suoi quarant’anni di esistenza è annientato da inattese fragilità: non riesce a esorcizzare il trauma di essere stato rifiutato dal suo vero padre e pecca sempre di codardia con le donne: ogni legame d’amore è sempre il surrogato di un altro idealizzato.
Jack per di più è un concentrato di contraddizioni: socialista e vocato all’aiuto per gli ultimi, ma allo stesso tempo individualista e affamato di benessere economico. Lo sguardo di Romana Petri è sempre indulgente per il suo “personaggio”. Si avverte una dolorosa nostalgia per una pienezza di vita confinata ormai in epoche trapassate. Del resto la parabola di Jack London è una inesausta combustione di svariate esperienze e tutte compresse in un arco temporale brevissimo: rivenditore di giornali, razziatore di ostriche, mendicante, cacciatore di foche, lavandaio, cercatore d’oro, progettista di barche e di ranch.
Petri ci offre il romanzo di una “vita da romanzo” forse per suggerirci che è ora di soffiare via la polvere dell’avventura da tante opere di London, farle rotolare giù dagli inoffensivi scaffali della narrativa per ragazzi e raccoglierle con la rinnovata consapevolezza che ciascuna opera di London è, per dirla con Kafka, “un’ascia per rompere il mare di ghiaccio che è dentro di noi”.