Chi continua a chiedere lo sblocco dei cantieri dovrebbe ricordare che spesso le cause dei ritardi sono da ricercare nella gestione inefficiente delle stazioni appaltanti o nella resistenza delle imprese che cercano di aumentare i costi degli appalti mandando le gare deserte. Spesso si sviluppa una vera e propria “contrattazione” sotterranea dove o aumenta la base d’asta o si riducono le prestazioni richieste ai costruttori. È sorprendente che con la crisi del settore l’affidamento dei lavori tramite gara subisca lungaggini di mesi. È successo per la realizzazione del Tav Brescia-Verona: 45,4 km di linea ferroviaria dal costo complessivo di 1,4 miliardi di euro. Il ricco appalto (205 milioni) per la costruzione dei 7,5 km della galleria di Lonato (Bs) si è trascinato per mesi. Il primo bando era scaduto il 4 novembre e il secondo è scaduto il 4 marzo scorso. Prorogato per altre 24 ore fino al 5 di marzo sembra che un’offerta sia arrivata in zona Cesarini. Se con due eventuali offerte c’è l’obbligo di assegnare immediatamente l’appalto, con una sola offerta si potrebbe spiegare il perché ancora oggi sul sito della stazione appaltante Cepav 2 non è pubblicato il nome dell’impresa vincitrice. Resta lecito chiedersi cosa non sia andato bene. Cepav2 (Saipem con il 59%, Pizzarotti con il 27% e Imc Maltauro con il 13%) dovrebbe avere le competenze per gestire l’appalto per “tarare” il capitolato. Così non sembra essere stato. L’alta velocità italiana (circa 1.000 km di rete) è già costata, per ogni chilometro, anche tre volte quella spagnola o francese: visto lo stato delle finanze pubbliche sarebbe il caso di non ripetere l’esperienza. Non è un mistero che i costruttori considerassero i margini dell’appalto da 205 milioni troppo bassi. Non solo per questo lotto, ma anche per altri della stessa tratta la prima gara è andata deserta. Il mancato controllo dei costi della tratta comporta il paradosso di costruire un’infrastruttura che la commissione costi- benefici del ministero dei Trasporti del precedente governo aveva già bocciato (è però rimasta inascoltata). Tanto più che il progetto ferroviario ha anche il forte limite di non toccare il lago di Garda, che attira 25 milioni di presenze turistiche l’anno.
La maxi-concessione di Adr estesa al 2044 senza controlli
Se la concessione di Autostrade sembra pazzesca per quanto è favorevole ai Benetton e sfavorevole allo Stato, quella di Adr (Aeroporti di Roma, Fiumicino e Ciampino), sempre dei Benetton, è pazzesca al cubo. Le due concessioni sono come gocce d’acqua per quanto riguarda le clausole vessatorie per lo Stato, costretto in caso di revoca a risarcire il concessionario perfino nel caso in cui quest’ultimo si sia reso responsabile di una colpa grave. Ma la concessione Adr ha un surplus: il prolungamento record di validità per un periodo lunghissimo, 35 anni, dal 2009 al 2044, accordato di fatto alla chetichella.
Non c’è stato alcun dibattito in Parlamento, non ci ha messo becco il governo né il ministro dei Trasporti né è stata fatta una gara pubblica. Quella decisione che ha consegnato prima alla famiglia Romiti poi ai Benetton lo strategico sistema aeroportuale della Capitale è stata assunta da un semplice dirigente ministeriale con una letterina di 45 righe. La politica non poteva non sapere, ma in questo caso è prudentemente rimasta alla finestra. Al confronto la concessione per Autostrade è un esempio di trasparenza: per quest’ultima, una decina d’anni fa si sono scomodati il governo Berlusconi e la maggioranza di centrodestra approvando una legge apposita.
Grazie al prolungamento della concessione – e alle decisioni successive che a essa fanno riferimento come le tariffe – i Benetton a Fiumicino e Ciampino guadagnano in proporzione più che con i caselli delle autostrade. Dal 2013 al 2018 il Mol di Adr (Margine operativo lordo, il reddito generato dalla gestione operativa) è stato circa il 60 per cento del fatturato, mentre i dividendi che gli azionisti (Benetton) si sono riconosciuti hanno sfiorato il miliardo di euro. Il merito della sorprendente scoperta sulla durata della concessione è del combattivo Comitato Fuoripista di Fiumicino che già aveva impedito lo scempio del raddoppio dell’aeroporto sui terreni della Riserva Statale Naturale. Lavorando su questo filone il Comitato si è imbattuto nell’arcano del prolungamento di cui si parla di sfuggita nella relazione al bilancio Adr del 2017 con un anodino riferimento a due note attribuite al ministero dei Trasporti.
Cercando di capire che cosa dicessero quelle note, il Comitato si è infilato senza volerlo in un’estenuante caccia al Tesoro durata mesi. Il primo passo è stata la richiesta di accesso agli atti al ministero dei Trasporti che però ha sorprendentemente risposto che aveva passato i documenti all’Enac. L’Ente di vigilanza dell’aviazione civile prima ha cercato di fare melina, poi ha fatto capire che senza l’autorizzazione di Adr non avrebbe potuto rilasciare gli atti e, infine, ha dovuto mollare la presa.
Il Comitato ha così potuto scoprire la verità. La concessione dei due scali era stata affidata nel 1974 per 35 anni (fino al 2009) dallo Stato allo Stato stesso, cioè ad Adr che a quei tempi era dell’Iri. Nel 1992, però, il governo di Giuliano Amato lancia con una legge le privatizzazioni fissando anche i paletti per le concessioni e due anni dopo, trattando la faccenda della costruzione di un albergo all’aeroporto, Adr chiede lumi sul testo e sulla durata della sua concessione. L’Avvocatura generale dello Stato a luglio 1994 fornisce la sua posizione e indica 3 possibilità: minima durata 20 anni con scadenza nel 2012 facendo riferimento all’entrata in vigore della legge Amato (1992), media 35 anni fino al 2027, massima durata 35 anni fino al 2044 a partire dalla scadenza precedentemente fissata al 2009. Il direttore dei Trasporti, Francesco Pugliese, si accomoda sulla terza opzione della durata massima e rassicura Adr: la concessione scadrà a luglio 2044. La faccenda riaffiora 4 anni dopo, ai tempi in cui la società Adr nel frattempo era stata privatizzata. È l’inizio di gennaio 1998 e Pugliese rassicura tutti con una seconda e definitiva nota di una paginetta e mezzo: scadenza concessione Adr confermata a luglio 2044.
Quei prof. assoldati da Pechino: gli Usa finanziano l’ascesa cinese
Non fosse stato per l’epidemia del Coronavirus, la città cinese di Wuhan sarebbe diventata famosa per un’altra notizia: l’arresto di un famoso professore di Harvard esperto di nanotecnologie, Charles Lieber, che lavorava anche per la Wuhan University of Technology. L’indagine dell’Fbi ha fatto deflagrare un problema imbarazzante per la Casa Bianca di Donald Trump, impegnata in una guerra commerciale e tecnologica contro Pechino: scienziati americani attingono a milioni di dollari di finanziamenti erogati dal governo americano per la ricerca di base, anche in settori strategici come quello della difesa o dell’intelligenza artificiale, e poi vendono i risultati delle loro ricerche al governo cinese che le usa per competere contro gli Stati Uniti. È un fallimento completo del sistema americano: gli Stati Uniti finanziano l’ascesa tecnologica del loro principale avversario, la Cina governata da Xi Jinping. Trump minaccia i governi occidentali che, come quelli di Berlino e Londra, si affidano alla cinese Huawei per la tecnologia 5G, ma intanto i suoi ricercatori sono a libro paga di Pechino.
Ai tempi della Guerra fredda certe cose si facevano di nascosto. L’alto funzionario del ministero del Tesoro Usa, Harry Dexter White, l’architetto del sistema finanziario di Bretton Woods che ha governato l’economia mondiale nel Dopoguerra, collaborava con l’Unione Sovietica, ma di nascosto. Ora tutto accade alla luce del sole, o quasi: nel 2008 la Cina ha lanciato il piano “Mille talenti” che si pone l’esplicito obiettivo di reclutare scienziati affermati nel mondo per usare le loro conoscenze. Secondo i dati di Pechino, nel 2017 erano oltre 7.000 gli scienziati reclutati. Quale sia l’obiettivo ultimo del programma lo ha chiarito lo stesso leader supremo, il presidente Xi, nel 2016, quando ha stabilito come priorità del Paese la “fusione militare-civile” delle tecnologie, cioè l’abbattimento delle barriere tra ricerca accademica e industria della difesa in Cina.
I primi bersagli del piano “Mille talenti” sono gli studenti cinesi che vanno a studiare all’estero. Molti di loro probabilmente vorrebbero rimanere negli Stati Uniti o in Gran Bretagna e sfruttare le opportunità che una carriera occidentale offre, ma il governo di Pechino sa essere molto persuasivo nel convincerli a tornare, specie se hanno ancora parenti in Cina. E così nel 2018 sono andati all’estero 662.110 studenti e ne sono tornati 480.900, un tasso di ritorno del 78 per cento. Nel 1987 era del 5 per cento, nel 2007 era soltanto del 30,6. Ma il bersaglio grosso sono gli scienziati americani e, soprattutto, i fondi per la ricerca erogati dal governo federale.
Ogni anno i contribuenti americani con le loro tasse finanziano la ricerca per la considerevole cifra di 150 miliardi di dollari. Il solo National Institute of Health (Nih) eroga 31 miliardi di dollari per la ricerca di base, soprattutto in campo farmaceutico. Ma ci sono decine di altre agenzie federali che gestiscono budget miliardari dai quali dipendono dipartimenti di eccellenza di tutte le grandi università americane. Nessuna di queste agenzie è stata in grado di prevenire le infiltrazioni di potenze straniere che possono appropriarsi di scoperte e ricerche finanziate dal governo Usa, come ha riconosciuto la commissione di inchiesta per la Sicurezza nazionale del Senato guidata dal Repubblicano Rob Portman.
In alcuni casi lo spionaggio segue dinamiche tradizionali. Yanqing Ye, 30 anni, è una sergente dell’esercito cinese che però è riuscita a entrare negli Stati Uniti con un visto da studente per fare ricerca al dipartimento di Fisica e Chimica della Boston University, grazie a una borsa di studio del Chinese Scholarship Council. Secondo le carte giudiziarie dell’Fbi, che l’ha arrestata tre settimane fa, l’11 aprile 2019 Ye riceveva istruzioni da un altro militare cinese attraverso il social network WeChat su come procurarsi informazioni su un programma per decifrare codici militari: “Vedi se possiamo trovare progetti (…) sponsorizzati dall’esercito Usa”. In quei giorni Yanqing Ye stava collaborando con un professore del Naval Postgraduate School at Monterey, in California, che si occupa di sicurezza informatica.
Il caso di Charles Lieber di Harvard è molto diverso. Nel 2011 viene invitato a partecipare al “Forum sui materiali nano-energetici” organizzato dall’Università di Wuhan, in Cina (Wut). Dietro quell’invito c’è già un accordo preciso: Lieber viene nominato strategic scientist dell’Università di Wuhan per cinque anni. Non c’è nulla di nascosto, viene addirittura creato un sito web del “Wut-Harvard Joint Nano Key Laboratory” di cui Lieber risulta il laboratory director. Oggi Harvard dice che Lieber si è mosso da solo, violando le regole dell università.
Ma non ci voleva l’Fbi per scoprire cosa stava combinando, bastava Google.
Lavorare con i cinesi per Lieber, già molto ben pagato ad Harvard, è un affare allettante: l’Università di Wuhan gli offre 50.000 dollari al mese, un contributo alle spese per quando è in Cina di 158.000 euro annui, più 1,74 milioni di dollari di budget per le ricerche nel laboratorio Harvard-Wut. Il professore americano doveva aver chiaro che quello che stava facendo non era proprio lecito, visto che nel 2014 chiede all’amministrazione di Wuhan di pagargli metà delle somme su un conto corrente in una banca cinese e di dargli l’altra metà in contanti (così da aggirare anche il fisco americano, si immagina). Harvard sa tutto almeno dal 2014 e chiede a Lieber di togliere il nome dell’ateneo dal laboratorio cinese. Nel febbraio 2015, oltre quattro anni dopo l’inizio del suo contratto, il professor Lieber scrive ai suoi referenti cinesi una email per sottolineare (per la prima volta) che “l’accordo di ricerca è tra l’Università di Wuhan e me e non costituisce un accordo con Harvard”. Per altri cinque anni, però, Harvard lascia che un suo professore che gestisce fondi di ricerca pubblici per milioni di dollari vada poi a condividere questi risultati con una potenza straniera.
Alla fine Lieber viene arrestato dall’Fbi per aver mentito agli inviati del National Health Institute e del Dipartimento della Difesa che devono verificare se i beneficiari dei finanziamenti pubblici rispettano i criteri dei bandi, tra i quali c’è l’obbligo di dichiarare se si ricevono somme significative (sopra i 5.000 dollari) da soggetti che possono entrare in conflitto con lo scopo dei finanziamenti. Tipo una potenza straniera che vuole impossessarsi di tecnologie strategiche per gli Stati Uniti: molti dei contratti firmati dagli scienziati del programma “Mille talenti” prevedono che praticamente tutto quello che questi ricercatori fanno in Cina diventi proprietà del governo di Pechino. E spesso i contratti del programma “Mille talenti” replicano, negli obiettivi di ricerca, quelli che gli scienziati hanno con le loro università americane. Così la Cina è sicura di potersi appropriare di ogni loro risultato, ovunque sia stato conseguito.
Il caso di Lieber è il più clamoroso, ma è tutt’altro che isolato. Secondo quanto riportato da Bloomberg, al Moffitt Cancer Temper di Tampa, in Florida, un ricercatore ha ricevuto 300.000 dollari all’anno dall’Università di Tianjin che gli ha anche pagato parte del prezzo di un appartamento in Cina. Al centro di ricerca sul cancro dell’Università del Texas uno degli scienziati di punta, Zhimin Lu, aveva anche un secondo lavoro a Qingdao, con un budget da 14 milioni. Il dipartimento dell’Energia del governo finanzia 35.000 ricercatori, 10.000 di questi sono cinesi. Quelli che sono entrati nel programma “Mille talenti” sono parecchi: uno di questi – si legge nel rapporto della commissione d’inchiesta del Senato –, ha trafugato 30.000 file dal National Lab prima di tornare in Cina e usarli per costruirsi una nuova e redditizia carriera.
“La natura aperta e collaborativa dell’ambiente accademico statunitense produce ricerca avanzata e tecnologia d’avanguardia, ma espone anche le nostre università al rischio di essere sfruttate dagli avversari degli Stati Uniti per raggiungere i loro obiettivi economici, scientifici e militari”, ha detto in Senato John Brown, numero due del controspionaggio dell’Fbi. Arginare la pirateria intellettuale della Cina senza compromettere il dinamismo delle università Usa e la loro capacità di attrarre talenti è una missione quasi impossibile. E la Cina rischia di vincere qualunque sia l’esito: o si impossessa di ricerche che mai avrebbe potuto produrre in modo onesto o vede il suo principale rivale sabotare il proprio modello di crescita alimentato dalla conoscenza.
Il mondo che in tanti sognavano
L’epidemia di coronavirus ci ha costretti a vivere un esperimento sociale su larga scala. All’improvviso ci siamo trovati nel mondo che tanti elettori della Lega, di Trump, di Marine Le Pen e non solo, hanno invocato per anni: frontiere chiuse, commercio internazionale al minimo, autodiagnosi e terapie fai da te su Facebook per le masse, diffidenza verso ogni straniero, drastico cambio di stili di vita con fulmineo distacco da consumismo ed edonismo. Niente partite, niente fiere, niente shopping, niente concerti.
I risultati, ancora impossibili da stimare del tutto, sono catastrofici. Unicredit ha notato che un terzo di punto percentuale del Pil mondiale è fatto dai viaggi dei cinesi all’estero. Basterebbe che tornassero ai livelli del 2008 per spingere il mondo in una recessione simile a quella del 2001, l’anno dell’11 settembre e della bolla Internet. Il nostro stile di vita dipende dall’integrazione, il fallimento nel prevenire il disastro – ormai è chiaro – è frutto del controllo politico sulla scienza in Cina e dell’assenza di coordinamento in Occidente, oltreché di una cultura sanitaria insufficiente per queste sfide tra noi persone normali (a cominciare dai giornalisti).
Da ogni disastro però si può imparare: questa crisi ci dimostra anche che l’inquinamento che tutti dicono di voler combattere scende soltanto con soluzioni drastiche (guardate le mappe delle polveri sottili in Lombardia prima e dopo l’epidemia), ripensando il modo di vivere e il lavoro. Imprese refrattarie alla tecnologia stanno scoprendo che far lavorare i dipendenti da casa preserva la produttività e permette loro di gestire la famiglia, le scuole sono costrette a inventarsi lezioni via web. Sarà durissima, molte imprese spariranno e non torneranno – nella subfornitura i grandi clienti si saranno già rivolti altrove quando sarà passata la bufera – l’Italia rischia una recessione drammatica. Non c’è più uno status quo da difendere, è ora di decidere tutti insieme che Paese vogliamo essere, senza cercare scorciatoie.
L’eredità (non) è tutto Antologia finanziaria di Elettra Lamborghini
Il suo nome completo è Elettra Miura, Miura come uno dei più famosi modelli d’auto dell’azienda automobilistica emiliana fondata dal nonno Ferruccio. Elettra Lamborghini vuole però fare la cantante – 21ª classificata a Sanremo – e lo fa con la stessa naturalezza con cui sfoggia eccentricità e ricchezza (ha piercing di diamante incastonati nella pelle). Si porta dietro l’etichetta di “ereditiera” e del suo status ha fatto la sua forza mediatica. Oggi, la Automobili Lamborghini – che non è più di proprietà della famiglia – macina utili nel mondo: alla famiglia di Elettra cosa resta? La musica (e il resto scompare?). Non proprio.
Il nonno, ferrarese di nascita, bolognese di adozione e con la passione per la meccanica, nel Dopoguerra, in piena Ricostruzione, inizia a fabbricare trattori: gli affari vanno bene, compra auto di lusso, anche due Ferrari. Versioni ufficiali narrano che il passaggio da amatore a costruttore arrivi dopo un feroce battibecco con Enzo Ferrari per una frizione considerata da Lamborghini ‘difettosa’. Inizia a creare le proprie auto, apre la sua fabbrica utilizzando un miliardo di lire risparmiato dal budget per la pubblicità dei trattori sui cartelloni stradali. “Se ci riesco – fu il ragionamento – farò un rumore tale che non serviranno”. Il 1963 fu l’inizio della guerra dello stemma del Toro contro il Cavallino. Le sorti dell’azienda cambiarono però in una decina di anni, nonostante la rapida crescita. “Non è stato facile per Lamborghini vendere l’azienda – ha spiegato in un’intervista l’allora direttore tecnico, Paolo Spanzani – anche perché andava bene”. Fu però l’unica soluzione: il ramo dei trattori era affossato dall’annullamento di un ordine di 5mila mezzi in Bolivia, le banche erano preoccupate. Ferruccio vendette prima il 51% dell’azienda nel 1972 (pare per 600 mila dollari) a un gruppo svizzero, poi il resto l’anno dopo. Dopo almeno quattro passaggi di mano, oggi la Automobili Lamborghini è al 100% Audi. Gli affari passarono al figlio Tonino che, dopo un periodo di gestione di ciò che rimaneva della società di famiglia, decise a 35 anni di creare un proprio business, senza più auto e trattori (tanto più che un contenzioso che si è chiuso nel 1993 gli ha permesso di utilizzare il marchio del Toro a patto che non si dedicasse alle automobili). Nel 1981, nacque quello che verrà definito un lifestyle experience brand con una vocazione per il lusso e i richiami al design industriale italiano.
Non c’è mercatoin cui la “Tonino Lamborghini” non provi a insediare il suo marchio: orologi, cravatte, caffè, vodka, energy drink, arredi, ceramiche e, infine, hotel e costruzioni: i risultati raccontati dalla famiglia Lamborghini negli ultimi anni parlano di un fatturato retail globale di circa 400 milioni di euro, che sembra arrivare da investimenti (e società) oltre confine, soprattutto asiatiche. Le aziende registrate in Italia, per dire, sono in salute, ma macinano utili da poche centinaia di migliaia di euro (e su fatturati di pochi milioni). La “Officina Gastronomica”, a cui fanno capo linee di caffè e bevande e il cui Cda è formato da Tonino, il primogenito Ferruccio (classe 1991) ed Elettra (la terza generazione Lamborghini conta anche Ginevra e due gemelle, Flaminia e Lucrezia) nel 2018 ha chiuso il bilancio con un passivo di 57 mila euro su un fatturato di 850 mila euro circa. La Lamborghini Real Estate (un solo dipendente, Tonino come socio unico e la moglie come consigliere) nel 2018 registrava un utile di 69 mila euro su un fatturato di 339 mila. E ancora, la Tonino Lamborghini Spa di cui il capofamiglia è socio unico, nel 2018 su 1,2 milioni di fatturato ha chiuso con un utile di 186 mila euro.
Gli interessi maggiori sembrano stare altrove. Sempre secondo il bilancio 2018, la Tonino Lamborghini Spa partecipa al 100% nella Town Life HK Ldt a Hong Kong e per il 49% alla Town Life Veicoli Srl, italiana, di cui è amministratore unico il figlio. Rispecchia i piani di investimento: la Town Life produce motoveicoli per la città, già della famiglia Lamborghini era stata venduta nel 2001, cessata nel 2007, poi ripresa. Emerge anche una partecipazione al 30% nella TL International Inc. che ha sede in Corea del Sud e una Ferruccio Lamborghini Spa Limited che ha sede a Hong Kong (nel 2017 risultava anche una Tonino Lamborghini HK Ldt con la stessa sede).
Credere che i volumi di fatturato retail siano tali non è difficile se si tiene conto delle attività che vengono raccontate: la TL International Inc è, per dire, una joint venture con Dasan Network, azienda sudcoreana leader nel settore IT, con cui produce smartphone di alta gamma venduti soprattutto in Russia, Medio Oriente, Cina, Corea del Sud e Regno Unito. I Lamborghini firmano joint venture e partnership in ogni dove: in India per i golf carts, in Brasile per un residence di lusso, in Cina per l’esclusiva su hotel e costruzioni. Est asiatico e Medio Oriente, pare, costituiscono il 60 per cento del mercato.
Le informazioni disponibili, però, sono molto vaghe, almeno per ora (abbiamo chiesto all’azienda spiegazioni sulla discrepanza tra quanto risulta dai bilanci e il volume degli affari ma non ci sono state fornite). Qualcosa, però, si muove perché mentre Elettra l’ereditiera si designava socio unico della neonata Desos Ent, che gestisce i diritti sulla sua immagine da 5,6 milioni di follower su Instagram e da nuova icona pop e del web, papà Tonino creava una holding, la Tl&Sons di cui sono consiglieri tutti i figli. La famiglia prima di tutto.
Il costo delle mascherine, la mano invisibile e Flaubert
Dedurre il generale dal particolare è impresa difficile, si sa. Ci proveremo qui partendo da un tweet. Quello vergato da un importante e quotato economista della Bocconi, Tommaso Monacelli, a proposito dell’impennata del costo delle mascherine: “Ha pienamente senso che il prezzo delle mascherine si impenni. I prezzi più alti servono ad allocare le mascherine a chi ne ha veramente bisogno. E a scoraggiare quelli meramente ansiosi. Non è sciacallaggio. È razionalità”. Non è qui rilevante che la realtà spieghi a chiunque che ricchi ansiosi possono comprare più mascherine anti-virus di poveri che ne abbiano bisogno, quanto che quella affermazione sia coerente con l’universo ideologico dell’estensore, che è anche quello dominante nelle università (e non solo) dell’occidente: l’agente economico alla fine è sempre razionale e, dunque, basta lasciar fare alla mano invisibile del mercato; se proprio serve, può intervenire lo Stato (ma occhio ai famigerati “aiuti di”). La realtà, come si vede, non è necessaria. Ora il problema non è tanto quanto potere ormai eserciti lo specializzato di cui Flaiano, ma che un’idea del mondo così povera, semplicistica, moralmente misera sia divenuta padrona dell’accademia e poi consegnata, col sorriso di degnazione dei suoi sacerdoti, al vasto magazzino dei soi-disant istruiti. Bouvard e Pécuchet oggi sarebbero rettori e, per così dire, senza manco dover passare dal salotto Verdurin: evidentemente trastullarsi con la mano invisibile non rende ciechi e concede pure qualche piacere.
Valentina Cuppi, l’ultima (inutile) trovata del Pd
Domenica, mentre qui a Milano iniziava la quarantena, il Pd eleggeva la sua nuova presidente (tra i due eventi non c’è alcun nesso di causalità). Bisogna sapere che trattasi di Valentina Cuppi. E non vi dovete assolutamente preoccupare se non sapete chi è: fino a “poco fa” non lo sapevano nemmeno quelli del Pd. Una Carneade o quasi. Ve la presentiamo con le parole pronunciate da Nicola Zingaretti, più noto segretario del Pd medesimo, poco prima dell’elezione: “Propongo a tutti voi una sindaca, un’amministratrice. Nei nostri organismi dirigenti sono sempre più presenti gli amministratori per dare attenzione alla concretezza dell’azione politica. Si è avvicinata a noi da poco, questo non è un problema, ma anzi un grande successo. Noi esistiamo per avvicinare le persone e non per allontanarle. E in questo momento di odio, di ritorno dei fascismi noi siamo felici di eleggere la sindaca di Marzabotto, Comune medaglia d’oro della Resistenza”. Ora, come avrete capito, la nuova Madame Pd, è la sindaca di Marzabotto, città medaglia d’oro della Resistenza da prima, a essere pignoli, che Valentina Cuppi nascesse e che pensasse di diventare sindaco. Nel giorno della sua (inaspettata) elezione a presidente del Pd ha detto: “C’è una strada differente, molto lontana dalle grida, dalle urla. È la nostra strada, un’altra idea di mondo, per dirla con le parole di Berlinguer. È arrivato il tempo di camminare insieme senza pregiudizi. Io non appartenevo al Pd, ma cammino su questa strada. Di fronte alla peggiore destra mai vista, è il momento di allargare e non di restringere, di prendersi per mano. L’unico modo per dare dignità alla buona politica e costruire un’Italia migliore è farlo insieme. Ho imparato che ‘il problema degli altri è uguale al mio, uscirne da solo è avarizia, uscirne insieme è buona politica’, diceva Don Milani”. E dunque ci sono Berlinguer e Don Milani: il pantheon è a posto così come il pedigree antifascista.
Tutto bene? Quasi. Più che occuparci di Valentina Cuppi in sé (un mese fa avevano proposto lo stesso ruolo alla scrittrice Chiara Gamberale, che ha intelligentemente declinato), vien da chiedersi perché il Pd abbia sentito il bisogno di un papa straniero. Valentina Cuppi è certamente un’ottima persona e una capace amministratrice. Si è detto che la lezione delle Sardine è servita a far capire al partito che ha bisogno di alleati esterni se vuol vincere la “battaglia contro le destre” di cui sopra. Ma, benedetti dirigenti, da questo punto di vista – cioè allargare la base del consenso, o più prosaicamente: vincere le elezioni – nel passato più o meno recente ne avete provate sinistramente di tutti i colori: ammucchiate, fusioni a freddo, coalizioni che non stavano insieme nemmeno con il vinavil… Ed è stato quasi sempre tutto vano, tutto precario, tutto dimenticabile. Perché il punto non è stare dentro o stare fuori, il punto è la cosa (suona familiare?), cioè quali politiche vengono proposte ai cittadini elettori. “L’altra idea di mondo” non si capisce bene in che cosa consista. La questione non è il frontman (il Pd, pur malconcio, è sopravvissuto perfino a un segretario destrissimo come Renzi). Il partito non si può sardinizzare e i suoi dirigenti dovrebbero esserne contenti, essendo le Sardine (almeno per ora) un utile nulla. Dunque poco importa chi sia la neo presidente: come cantava Ornella Vanoni, Valentina che differenza fa? Poco o nulla, se il collante sarà solo “battere le destre”. È un gioco di prestigio che dopo l’arcinemico Berlusconi non funziona più. Per avvicinare il popolo le trouvaille servono a poco.
L’emergenza sanitaria di chi lavora a cottimo e non se lo fila nessuno
Non risponderò a domande irrispondibili, ovvio. Per esempio: quale memento mori spinge la sciura milanese a comprare 26 pacchi di pasta invece dei soliti due? Quale istinto delle caverne spinge persone normali (oddio, normali… magari sono lettori di Libero) a menare un cinese sul tram? È inutile tentare di penetrare così in profondità nell’animo umano, è una regola di tutti i tempi che nei momenti in cui servono razionalità e nervi saldi si dà fuori di matto.
È lo stesso meccanismo per cui “niente panico” è una nobilissima frase, saggia e intelligente, ma se dici niente panico urlandolo con gli occhi fuori dalle orbite ventiquattr’ore al giorno, con toni da Apocalisse, ditini alzati, il contorno cretino dell’“io l’avevo detto” e gli speciali, e le maratone, e le edizioni straordinarie, si rischia l’effetto opposto. (A questo proposito: spero che i microfoni dei tg che da qualche giorno sventolano sotto il naso di dottori, infermieri, infettati, cittadini di zone rosse, contadini stupefatti del morbo e sindaci febbricitanti, siano tutti monouso. Altrimenti, tra sputazzi e colpi di tosse, ogni intervistato dei prossimi due anni finirà in quarantena. Non è detto che sia un male).
È tutto un po’ attraente (come nei film di zombie) e fastidioso, comprese le spigolature, i dettagli, la piccola cronaca ai tempi del colera, aneddoti, notizie vere e false che rimbalzano, dicerie, messaggi whatsapp, meme spiritosi e avventure private (mio cugino…), rimembranze manzoniane. Colore, insomma, che rischia di sovrastare le domande vere e sensate che è lecito farsi in presenza di un’emergenza sanitaria. E di alcune cose si parla, sorprendentemente, poco e niente, diciamo che brillano per assenza nel grande dibattito nazional-popolar-virale.
Volando basso, la profilassi. Quel sacrosanto “lavatevi le mani, cazzo!” che dovrebbe valere anche senza epidemie in corso, e che viene giustamente ripetuto in loop, ma che non è facile come si dice. È una questione sanitaria, mi sembra, anche la totale privatizzazione degli spazi pubblici, l’assenza di minime strutture gratuite e accessibili a tutti, per cui lavare le mani, se siete in giro per la città, vi costa come minimo la tassa di un caffè al bar, e quelli che una volta erano spazi pubblici ora sono spazi privati (provate a lavarvi le mani, che so, alla stazione centrale di Milano, dove già costa un euro pisciare).
E poi, se possibile, l’aria spaventata ed emergenziale causa una recrudescenza dell’eterno strabismo economico, per cui si snocciolano i dati delle Borse, anche Wall Street, i sinistri scricchiolii dello spread, le reazioni dei famosi mercati, ma non si dice, non si pensa, non si prende nemmeno in considerazione la posizione dei lavoratori meno garantiti del nostro mirabolante sistema. Cioè, cassa integrazione nei casi più gravi, telelavoro per chi può e sa, attività un po’ ridotte in zone dove il Pil del Paese, parlandone da vivo, dà il meglio di sé, e va bene, un minimo di garanzia. Ma resta fuori, esclusa – quella sì in quarantena – tutta la fascia della Gig economy, dei lavoretti, del cottimo più o meno mascherato, del fattorino, del contrattino scritto male, della cooperativa farlocca, del lavoro a chiamata. Redditi minimi già in tempi normali, che si riducono senza alcun ammortizzatore, e senza che questo entri minimamente nell’ardito mosaico dell’informazione di questi giorni.
Per intenderci: uno tirava la cinghia con 800 euro, che è già una vergogna, ora che per emergenza rallenta il lavoro dovrà farcela con 400, senza sapere per quanto tempo: niente airbag, per lui, nemmeno la dignità di partecipare a un bello scontro tra virologi telegenici e virologi al lavoro, o a quei bei siparietti sovranisti dove si grida all’untore. Solo oblio e rimozione. E invece, a ben vedere, sarebbe un’emergenza sanitaria anche questa.
Coronavirus, meno potere alle regioni
Come risulta dalla nostra esperienza pratica e come Max Weber ha certificato con tutta la sua pignolaggine teutonica, i popoli cattolici hanno un senso dell’organizzazione molto più approssimativo dei popoli protestanti. Forse la maggiore vocazione organizzativa di alcune nostre regioni settentrionali rispetto a quelle meridionali sta nel fatto che il Nord è almeno in parte contiguo alla Svizzera, all’Austria e alla Germania, restandone positivamente contagiato.
Messa alla prova da circostanze estreme, la tenuta delle nostre organizzazioni inclina al caos e, nel caos, ogni operatore preferisce incolpare gli altri piuttosto che migliorarsi. La circostanza del Coronavirus conferma puntualmente questo nostro handicap, a stento compensato da un volontarismo che, di fronte alle emergenze, a volte dispiega tutta la sua fervente intraprendenza.
Il cuore dell’organizzazione sta nei processi decisionali. Di fronte all’urgenza imposta da un’epidemia, chi deve prendere le decisioni in materia sanitaria? Come? Le risposte formano il nocciolo delle scienze organizzative e il sociologo Herbert Simon, per avere tentato di darvi risposta, si è guadagnato il premio Nobel.
Cinque regioni italiane sono a statuto speciale approvato dal Parlamento con legge costituzionale. Le altre sono regolate da statuti ordinari approvati a partire dal 1970 e via via modificati. La legge costituzionale n. 1 del 1999 ha modificato sostanzialmente la forma di governo delle regioni, ma ognuna di esse si è ritagliata l’organizzazione su sua misura. Sta di fatto che oggi, di fronte a un medesimo evento di carattere planetario, ogni regione finisce per reagire a suo modo, creando un guazzabuglio di comportamenti spesso contraddittori. Poiché le regioni italiane sono diversissime tra loro per peso demografico, reddito, tradizione, paesaggio, architettura, usi, costumi, consumi e dialetti, questa varietà che per molti aspetti rappresenta il nostro patrimonio più prezioso, nelle fasi di urgente tensione diventa un intoppo drammatico.
Perciò, più che altrove, occorre che in queste circostanze sia messo tra parentesi ogni regionalismo e, in materia sanitaria, si diano tutti i necessari poteri al governo democratico centrale, ovviamente a tempo strettamente determinato e nelle materie precisamente elencate. Qualcosa del genere, del resto, fecero già i Romani del Quinto secolo avanti Cristo, quando ricorsero a Cincinnato.
Ciò non cancella il primato delle decisioni partecipate, ma dimostra il realismo di una leadership che gli attuali studiosi di scienze organizzative chiamano “adhocratica”, cioè prudentemente tarata sulle circostanze concrete. Rensis Likert, che ne è un prestigioso teorico, sostiene che esistono quattro stili di comando. Quello autoritario di tipo drastico consiste in comandi emanati dal capo il quale ha la forza per imporli e lo fa senza chiedere pareri a chicchessia e senza dare spiegazioni. Quello autoritario di tipo paternalistico consiste in comandi presi autonomamente dal capo che li giustifica contrabbandandoli come i migliori possibili per il bene dei dipendenti. Quello partecipativo di tipo consultivo consiste in decisioni prese dal capo dopo avere consultato i collaboratori. Quello partecipativo di gruppo consiste in decisioni prese dal capo, insieme al suo gruppo, dopo che questo è stato dettagliatamente informato su tutte le circostanze che influenzano la decisione.
Immaginate un arbitro che deve decidere se assegnare o meno un rigore. Se lo fa da solo, impiega pochi secondi ma ha parecchie probabilità di commettere un errore. Se lo facesse chiedendo il parere ai guardalinee impiegherebbe più tempo, ma avrebbe meno probabilità di sbagliare. Se potesse appellarsi a tutti gli spettatori, avrebbe bisogno di un tempo infinito.
Dunque occorre scegliere lo stile di leadership in base all’urgenza e alla complessità del problema. Nel caso dell’attuale epidemia il problema sanitario è complesso e, nello stesso tempo, urgente. Dunque occorre che sia uno solo o un gruppo ristrettissimo a prendere le decisioni per l’intero Paese in modo da farlo con la massima rapidità. Siccome il problema è anche complesso, occorre che il governo centrale sia assistito da un pool interdisciplinare costituito dai massimi esperti di tutte le discipline implicate. Ovviamente, dal livello governativo ci si attende saggezza e dal livello locale ci si attende obbedienza.
Un’epidemia come questa ci pone di fronte a necessità inedite ma, pur nella sua terribile evidenza, presenta risvolti che possono essere trasformati in opportunità, soprattutto sotto l’aspetto organizzativo. Il telelavoro ne è un esempio utile e il perfezionamento dei processi decisionali in materia di sanità ne è un esempio prezioso.
Mail box
Coronavirus, l’allarmismo non giova a nessuno
Ogni anno in Italia si registrano circa 60mila decessi riconducibili all’inquinamento atmosferico, oltre ad alcune migliaia determinati dalle patologie influenzali stagionali e loro conseguenze. Non mi pare che la gravità di queste statistiche sia sufficientemente percepita dagli organi competenti, né sembra destare motivi di particolare preoccupazione nella maggior parte dei cittadini. In questi giorni alcuni focolai di coronavirus stanno mettendo in ginocchio l’Italia, soprattutto al Nord, e le istituzioni preposte lavorano alacremente per circoscrivere la diffusione del morbo. In situazioni del genere è necessario divulgare le informazioni necessarie bandendo ogni forma di eccessivo allarmismo.
Giacomo Geninatti
Diritto di replica
In merito alla sentenza Obi-Di Nardo del 2018, da voi richiamata a più riprese nell’ambito degli articoli sul procedimento Opl245, Eni tiene a specificare che tale pronunciamento, deciso peraltro dallo stesso giudice delle indagini preliminari:
1-riguarda soggetti terzi ed esterni a Eni e non fa stato nei confronti della stesse o delle sue persone fisiche;
2-si fonda su un compendio informativo limitato al solo materiale della pubblica accusa in fase di indagine, che esclude tutto il materiale emerso in un anno e mezzo di fase istruttoria dinnanzi al Tribunale di Milano;
3-non contiene alcun accertamento a carico di Eni del compimento di fatti di corruzione internazionale e sulla stessa sentenza pende appello promosso dagli interessati.
Della totale irrilevanza della stessa rispetto a Eni, la società ha già dato conto ed evidenza nel proprio bilancio al 31 dicembre 2018, approvato (senza contestazione alcuna sul punto) nell’assemblea di maggio 2019.
Ricordiamo ancora una volta che il Dipartimento di Giustizia americano ha da tempo chiuso senza rilievi le proprie indagini a carico di Eni.
Erika Mandraffino ufficio stampa Eni
La sentenza di primo grado Obi-Di Nardo del 2018, pur essendo a carico solamente di mediatori dell’affare Opl 245, ha ritenuto provati i fatti su Opl 245 che sono gli stessi per cui sono sotto giudizio anche Eni e i suoi manager di vertice. È vero che si fonda solo su materiale raccolto in fase d’indagine: infatti ora i materiali d’accusa sono maggiori. Il Dipartimento di Giustizia americano ha ufficialmente qualificato come “misleading” (fuorviante) il tentativo di Eni di presentare la chiusura del procedimento come conseguenza di una definitiva mancanza di prove e ha precisato che l’indagine Usa potrà essere in qualunque momento riaperta in presenza di nuove evidenze.
Gianni Barbacetto
In merito all’articolo “Azzardo Italia senza freni […]” del 22 febbraio a pag. 17 precisiamo quanto segue. Nel citare il “gioco online” è opportuno ricordare che il Gioco A Distanza regolato da ADM è il comparto più controllato, in Italia e nel mondo, l’unico che offra importanti tutele, grazie all’identificazione attraverso Codice Fiscale e documenti, per contrastare gioco minorile e riciclaggio: limiti periodici di deposito, autoesclusione da tutti i siti mediante Registro Unico. Sin dall’apertura del conto gioco, ogni movimentazione avviene attraverso Sogei, garantendo tutela dei giocatori e controllo su Concessionari GAD. In merito a “corsa senza freni a dispetto del decreto Dignità, che ha vietato la pubblicità del gioco d’azzardo”, informiamo che il divieto sposta i consumatori verso operatori che hanno visibilità nei punti fisici, ma anche – gravissimo – illegali. Citiamo il Procuratore Nazionale Antimafia de Raho: “Vietare gioco legale spalanca le porte all’illegale […] politica dovrebbe intervenire dotando Forze dell’ordine ed inquirenti di strumenti più avanzati” e “mafie intervengono con canali illegali che al giocatore possono sembrare leciti. Importante distinzione tra gioco legale e illegale”. In merito a presunte “vittime”, la spesa media su circuito online ADM è di soli 52 al mese (2 caffè al giorno), frutto delle misure di autotutela, recepite da best practice internazionali. Sarebbe necessario adottare tali misure in rete fisica, con la Tessera del Giocatore. Riteniamo che l’unica misura efficace del Decreto Dignità nel contrasto al gioco compulsivo sia l’uso della tessera sanitaria, ad oggi limitata solo alla verifica della maggiore età. Il divieto di pubblicità invece danneggia l’unico comparto in grado di arginare efficacemente il fenomeno, grazie alla tecnologia.
LOGiCO (Lega Operatori di Gioco su Canale Online)
I siti italiani di gioco d’azzardo autorizzati dall’ADM hanno sempre l’estensione “it” e devono recare il logo della stessa agenzia. Nessuno mette in dubbio che questi siti siano controllati. Ma nella giungla di Internet è difficile credere che tutti i giocatori siano in grado di riconoscere quelli legali e quelli fuorilegge. È un fatto che l’agenzia nel solo 2019 ha bloccato 698 siti illegali. E che numerose inchieste della magistratura hanno già dimostrato il collegamento tra azzardo online e criminalità organizzata. Per quanto riguarda le cosiddette “vittime” sono coloro che hanno sviluppato dipendenza patologica dal gioco: non solo online, ovviamente. Oltre 1,3 milioni di italiani.
Natascia Ronchetti