Weinstein Lo stupratore condannato: un pareggio sofferto per il #MeToo

 

Cara redazione, il verdetto contro Harvey Weinstein segna sicuramente un punto importante a favore delle donne e del movimento #MeToo, che forse ne esce rigenerato. Mi viene in mente il vecchio detto “colpirne uno per educarne cento” e però mi chiedo: sarà davvero così? Quanti altri Weinstein ci sono a processo negli Stati Uniti e, per loro, la sentenza di New York potrà fare giurisprudenza? Il “paziente zero” individuato e “curato” farà nascere gli anticorpi, magari anche in Italia, dove alla sbarra non è ancora finito nessuno?

Maria Carmela Longobardi

 

Gentile Maria Carmela, invero con Harvey Weinstein non è stato colpito uno per educarne cento, ma il numero uno: il produttore per eccellenza, il totem del cinema indipendente, l’uomo da 81 Oscar, la mente dietro il successo di “Pulp Fiction”, “Shakespeare in Love” e “La vita è bella”, l’incarnazione di potere e prestigio, con una vita di lusso spesa tra Manhattan e Los Angeles.

Caduto lui, cadrà pure lo status quo sessista e discriminatorio a Hollywood e dintorni: la sua condanna è una vittoria del #MeToo, e d’ora in poi “le donne saranno ascoltate e credute”. Andrà proprio così? Intanto, stima l’americano Rape, Abuse & Incest National Network (RAINN), su 1.000 presunti abusatori sessuali 995 rimangono a piede libero. Il solo Weinstein farà primavera, la sentenza di New York giurisprudenza? In era #MeToo sono stati giudicati colpevoli Bill Cosby, il medico della Nazionale di ginnastica statunitense Larry Nassar e pochissimi altri. Se il cantante R. Kelly andrà a processo in aprile a Chicago e James Franco ha una causa pendente, i casi risolti favorevolmente per gli indiziati annoverano Kevin Spacey e l’ex membro dei Backstreet Boys, Nick Carter. Insomma, per sbrigarla calcisticamente, un pareggio sofferto. Eppure, il verdetto newyorchese – a Los Angeles lo attende un secondo processo – dice due cose: il mancato addebito di “predatore sessuale” sanziona i due stupri, ma decriminalizza il modus operandi suggerito dalle decine di accusatrici, depotenziando di fatto la vittoria del #MeToo; giustizia è fatta, nessuno, e nemmeno un titano come lui, è al di sopra della legge, anche se per venticinque anni de facto lo è stato.

Quali ripercussioni in Italia? Il caso Weinstein ha un ordine di grandezza inusitato alle nostre latitudini: non solo per la mole dell’accusato, ma per la perseveranza delle accusatrici, la tigna dell’azione giudiziaria e il coraggio – ricordiamo come tutto è iniziato – dell’indagine giornalistica. Un po’ troppo per noi, no?

Federico Pontiggia

Di Donato, l’ultimo gemello di Renzi

Un altro colpo fenomenale per Matteo Renzi. Un acquisto da urlo. La conferma che Italia non è Viva: è vivissima! L’endorsement che aspettavamo tutti arriva sul quotidiano che troppo a lungo abbiamo atteso tornasse in edicola: il Riformista di Alfredo Romeo e Piero Sansonetti. L’editoriale porta la firma pregiatissima di Giulio Di Donato. Per i più giovani: una colonna del Psi craxiano negli anni di Tangentopoli. Vice di Bettino e “vicerè” di Napoli, a fianco di altri giganti di quell’allegro mondo clientelare, come Cirino Pomicino e Francesco De Lorenzo. Ha conosciuto il carcere e una condanna definitiva per corruzione, ma non ha perso la grinta: vuole ancora indietro il suo vitalizio. Ecco, ora che abbiamo presentato Di Donato, veniamo al punto: il nostro sostiene Renzi. Con queste parole scolpite sulle preziose pagine del Riformista: “Le riforme di Matteo aiutano il Sud”. E quindi: “Difendo Renzi. Dice cose giuste. Forse con un’aria da impunito (e se lo dice lui… ndr), ma la sostanza c’è”. Matteo e Giulio hanno molto in comune, come l’idea della “grande riforma dello Stato, con l’elezione diretta del premier”. E poi il desiderio di “una giustizia veloce e affidabile con procedure snelle, depenalizzazione, riti alternativi, carriere separate, senza l’obbligatorietà dell’azione penale e con un nuovo Csm”. Soffia ancora forte lo spirito craxiano.

Chi destabilizza davvero descalzi

Si sa che l’occhio vede solo ciò che la mente vuole. E a volte la mente gioca brutti scherzi. Lo diciamo per Repubblica, che sulle inchieste che coinvolgono Eni sembra osservare realtà parallele rispetto a quelle che emergono dalle indagini. Ieri, per dire, il quotidiano riportava l’approdo di Antonio Vella, ex manager Eni, al gigante russo Lukoil. Parliamo dell’ex capo della divisione Exploration & Production, accompagnato alla porta con buonuscita a metà 2019. In sintesi, la tesi è che Vella è bravo, ma si è stancato delle indagini della Procura di Milano e così se n’è andato a lavorare per i russi. Prima quelle per corruzione nelle commesse Saipem in Algeria, da cui è stato assolto, poi quelle per abuso di informazioni privilegiate e, soprattutto, quelle per “corruzione tra privati e induzione al mendacio”, insieme a Vincenzo Armanna, ex manager Eni, e all’avvocato Piero Amara, ex legale del colosso petrolifero. Secondo Repubblica, questi ultimi due “per anni hanno manovrato dietro le quinte cercando di destabilizzare la gestione dell’ad Descalzi”. Eppure, secondo i pm di Milano, Descalzi sarebbe il beneficiario ultimo del complotto messo in piedi dai vertici Eni e affidato ad Amara e Armanna, per depistare le indagini dei pm milanesi sulle mazzette nigeriane. Insomma, i pm fanno scappare i manager, ed Eni è scossa non dalle indagini, ma dai destabilizzatori di professione.

Morelli specula su via Sarpi

Il premio del giorno va ad Alessandro Morelli, deputato leghista, visir della comunicazione salviniana e direttore dell’imprescindibile testata online Il Populista. Ieri, proprio mentre Salvini mostrava il suo volto meno truce sul Coronavirus, dicendosi pronto a collaborare con il governo – o a simulare una collaborazione –, Morelli lo copriva a destra, mettendosi alla ricerca di un qualsiasi avversario politico a cui dare la colpa dell’emergenza sanitaria. Il prode populista ha infine scelto il sindaco di Milano Beppe Sala e ha postato su Facebook una foto del primo cittadino in via Sarpi, la Chinatown meneghina. Uno scatto che peraltro risale a diversi giorni fa. Ma per Morelli, chiaramente a corto di argomenti, ancora un valido pretesto per fare polemica: “Ora è assente in città, ma per il sindaco Sala la priorità qualche settimana fa era questa – scrive il leghista –: combattere un presunto razzismo contro i cinesi, anziché il virus! Un bravo sindaco, ma solo a fare selfie”. Che c’entra una normale visita di Sala alla comunità cinese con la diffusione del Coronavirus in Lombardia? Assolutamente nulla. Morelli lo sa, ma dev’essere più forte di lui: è la sua natura.

Capalbio, quel sindaco un po’ “the donald”

Una volta lo si vide a una riunione da vicesindaco di altra giunta comparire con short e maglietta da baseball. Estroso. Ma l’altra sera al sindaco di Capalbio, geometra Settimio Bianciardi, ex Pic, ex Pd, ora passato a guidare una lista di centrodestra, dopo il consiglio comunale, è venuto meno il consueto aplomb anglosassone. Ma come si permetteva l’opposizione di accusarlo di non rispettare le forme delle leggi urbanistiche regionali? Come si permetteva in particolare il consigliere del Pd Valerio Laurillo, un medico, di abbandonare l’aula consiliare protestando per il pochissimo tempo concessogli per studiare quel malloppo?

Non bastavano tutte le associazioni principali, Italia Nostra, Wwf, Legambiente, Carteinregola, i Produttori biologici, ecc, che hanno già inviato alla Regione Toscana un puntiglioso documento di contestazione politico- amministrativa. Prima firmataria la giurista dell’Università di Siena, Annalisa Maccari.

Bianciardi ha tirato diritto, però poi ha sentito che doveva esprimere in modo nuovo il proprio radicale giudizio, un po’ alla The Donald, no? E così gli è sgorgato dal cuore. “Ma chi scrive queste bischerate? Lo sa cosa scrive e di che si parla !!! Ma siete proprio certi di ciò che scrivete !!! Avete capito quello che si prevede !!!”

Ben tre i “mi piace” sui social. Nel primo Giancarlo lo consiglia benevolo di non tenere in considerazione “la cavolate pazzesche” che scrivono “tanto per apparire le Associazioni ambientaliste”. E Luigi, forse nel bell’Italiano di Pescia Fiorentina (roccaforte dell’orbetellano Bianciardi) aggiunge: “Lascia che parlano (sic) tanto non li ascolta nessuno”. Il terzo onestamente non me lo ritrovo. C’è attesa a Capalbio. E pure alla Regione Toscana.

Un altro amico di Malagò va ai Giochi

C’è stato un tempo in cui Giovanni Malagò guardava alle Olimpiadi di Milano-Cortina come a un rifugio prezioso, da n.1 dello sport italiano sfrattato dai barbari della Lega. Il sottosegretario Giorgetti aveva approvato la riforma, Rocco Sabelli si insediava alla guida di Sport e salute, società nata per togliere soldi e potere al Coni, Malagò per sopravvivere si era fatto promettere almeno la presidenza del futuro comitato organizzatore. E c’era chi metteva in dubbio pure quella.

È passato un anno, l’Italia si è aggiudicata i Giochi ma soprattutto con la caduta del governo gialloverde è caduta nel vuoto anche la riforma. Così da esilio dorato le Olimpiadi sono diventate il giardino privato di Malagò, in cui anche il rappresentante appena nominato dal governovanta un legame con Giovannino, come lo chiamano a Roma gli amici. E nella Fondazione lo sono quasi tutti.

Lunedì c’è stata la prima riunione, in collegamento video per l’emergenza Coronavirus. È servita a ratificare la nomina di Vincenzo Novari come amministratore delegato, gradito al ministro Spadafora, utile per i suoi agganci con la Cina. Per il governo in Cda c’è Valerio Toniolo: indicato da Palazzo Chigi, presentato come “alto funzionario dello Stato per i Beni culturali” dove è entrato ai tempi di Rutelli (stesso Ministero da cui arriva il capo di gabinetto dello Sport, Giovanni Panebianco), nel suo curriculum annovera Conservatorio di Firenze, Teatro di Ostia Antica, associazione Bonacultura, neanche una traccia di sport. Ma c’è pure un’esperienza forse più preziosa: dal 2000 al 2004 è stato amministratore unico di Palmarola Srl, specializzata nella commercializzazione del marchio Ferrari. In passato proprietario al 50% della società era proprio Malagò, che del resto con la sua Samocar, l’azienda di famiglia, è uno dei principali concessionari del Cavallino. Adesso si sono ritrovati nel cda di Milano-Cortina.

Del resto la Fondazione che gestirà i fondi privati, circa un miliardo, per l’organizzazione dei Giochi (finanziamenti e opere pubbliche spettano invece a una partecipata statale), assomiglia sempre più ad una rimpatriata fra amici. Di Malagò, ovviamente. Dei 22 membri, per statuto, 10 spettano al Coni (e al Cip, Comitato paralimpico), fortunata circostanza che rende la carica di presidente praticamente vitalizia (per revocarlo ci vuole una maggioranza di due terzi), e la somma a quella di n. 1 del Comitato olimpico, dove Malagò potrà fare un terzo mandato fino al 2025. Così nel Cda siedono anche il suo vice Franco Chimenti e il segretario generale Carlo Mornati.

Nel Comitato di gestione, l’organo amministrativo, è stata poi eletta Diana Bianchedi, già coordinatrice della disgraziata candidatura di Roma 2024, che potrà rifarsi con Milano-Cortina (e col compenso previsto per la sua carica). Persino il rappresentante del governo, che in teoria avrebbe dovuto bilanciare l’egemonia Coni e vigilare, potrebbe essere definito quasi un ex socio di Malagò (Toniolo aveva anche delle quote in Palmarola 2). Come ultimo atto del primo Cda, un gesto di munificenza: Malagò ha comunicato che rinuncerà al suo stipendio da presidente. Ma, come si dice, chi trova un amico ha trovato un tesoro.

Guai a scrivere a Gasparri “Chi vi ha dato l’email?”

Sarà per l’emergenza Coronavirus che ha mandato in fibrillazione anche gli inquilini del Senato. O forse è solo perché quando c’è di mezzo Matteo Salvini, la febbre sale sempre. Fatto sta che gli animi tornano a surriscaldarsi in Giunta per le autorizzazioni a procedere: il 27 febbraio verrà deciso se dire sì al processo chiesto nei suoi confronti dai magistrati di Palermo che lo accusano di sequestro aggravato di persona per la gestione dei migranti a bordo della nave Open Arms. Ma pesa l’incognita del morbo che intanto tiene lontano da Roma, ad esempio, il senatore leghista Luigi Augussori, per ora deciso a rimanere a Lodi per cautela.

Forse anche per questo il presidente della Giunta, il forzista Maurizio Gasparri, è più agitato che mai: sgrana gli occhi se gli chiedono se verrà consentito il televoto, sbraita contro chi cede a una “sindrome gonfiata dagli allarmismi” e intanto usa la scimitarra contro chi si intromette negli affari della Giunta. Come i giuristi del Comitato “Italia Stato di diritto”, colpevoli, almeno a suo dire, di aver rintracciato chissà come la sua email a cui si sono permessi di spedire un contributo tecnico sulla vicenda Open Arms. Esattamente come avevano già fatto per le navi Diciotti e Gregoretti. La risposta di Gasparri però è stata la seguente: “Chi ve lo ha chiesto?”.

Insomma, il contributo di riflessione squisitamente tecnico-giuridica offerto dal Comitato non solo è stato respinto al mittente, ma è finito nel cestino della cartaccia in meno di un clic. Almeno questo si intuisce dai toni di Gasparri, che in una seconda email ha addirittura chiesto al Comitato in questione di giustificarsi per l’invio del documento “non autorizzato, non richiesto, non gradito”.

Ora, è pure vero che l’emergenza impazza e che il clima è quel che è. Ma una risposta del genere avvocati, docenti universitari e giuristi di “Italia Stato di diritto” proprio non se l’aspettavano, meno che mai dal presidente della Giunta per le autorizzazione di Palazzo Madama. A cui hanno risposto innanzitutto svelando l’arcano, quello dell’indirizzo di posta. “Il Suo messaggio lascia interdetti. Intanto una precisazione: il suo indirizzo di posta elettronica si trova pubblicato sul sito del Senato ed è pertanto pubblico. Nessuno deve pertanto chiedere una preventiva autorizzazione per rivolgersi né a Lei né a ogni altro Parlamentare: al contrario la funzione di rappresentanti eletti nelle istituzioni, rende i Parlamentari particolarmente accessibili e raggiungibili, come è fisiologico che sia, in un sistema democratico rappresentativo come è il nostro”.

Ma cosa c’è scritto nel documento cestinato da Gasparri? Innanzitutto che i migranti imbarcati sulla nave di certo non potevano minacciare il Paese e quindi giustificare la decisione di Salvini di tenerli a bordo. E che, soprattutto, l’Italia aveva il dovere di dare approdo alla Open Arms perché la natura umanitaria dell’obbligo di soccorso comporta che “l’inadempimento di uno Stato (Malta e Spagna, ndr) non possa giustificare l’inadempimento da parte di un altro”.

Regionali, Crimi non decide Ma il tempo sta per finire

Certo, il Coronavirus ha messo in ghiaccio la politica, perlomeno quella da trincea che si nutre di scontri come di trattative. Però, a meno di un’apocalisse, le Regionali si svolgeranno ugualmente a fine maggio, e i 5Stelle sono maledettamente indietro. Non sanno ancora come e con chi correre: in Liguria, dove un potenziale candidato si è quasi sfilato e forse è già troppo tardi per quasi tutto, come in Campania, terra di veti incrociati.

Nodi sul tavolo del capo politico reggente, Vito Crimi, a cui tanti 5Stelle chiedono di cominciare a fare il capo, cioè di decidere su qualcosa. Lo vogliono più reattivo, Crimi, che ieri mattina al Viminale ha incontrato i ministri del M5S per discutere di cronoprogramma e Coronavirus. Ma dai grillini di governo si è sentito chiedere “un punto anche politico”, con tanto di consegna: esortare il presidente del Consiglio Giuseppe Conte a non presentarsi alle Camere il 4 marzo come (ufficiosamente) previsto, per presentare l’agenda di governo e farla votare, cioè per testare la tenuta della maggioranza. “Sarebbe presto, e poi meglio capire prima cosa intende dire il premier” hanno (in sostanza) detto a Crimi: rimasto piuttosto vago, pare.

D’altronde la data del 4 marzo non è stata ufficializzata. Ma Conte quel passaggio di chiarezza lo vuole fare. Ed è una questione centrale anche per il reggente: sottoposto “a mille pressioni”, dicono tutti, perché sullo sfondo c’è sempre il congresso, cioè quegli Stati generali sul cui svolgimento è ancora buio pesto, e le varie opzioni tra cui oscilla Crimi (da un congresso in due tappe a un suo svolgimento solo sul web) lo confermano. Di sicuro c’è mare grosso in Liguria, con il reggente che non ha ancora deciso se far votare gli iscritti sulla piattaforma web Rousseau su un accordo con il Pd, come pure aveva suggerito l’ultima assemblea degli attivisti a Genova. Così, ieri, il candidato che potrebbe cementare un’intesa tra il M5S e i dem, il giornalista del Fatto Ferruccio Sansa, ha sbottato tramite post: “È il momento di dire basta”. E ha puntato il dito contro “il comportamento penoso dei vertici del Movimento, che non hanno nemmeno il coraggio di dire no e vogliono costringere l’odiato alleato Pd ad assumere la responsabilità della scelta”. Mancano tre mesi alle urne, ricorda Sansa, “ma non c’è ancora una coalizione alternativa al centrodestra e non c’è un candidato: soprattutto, non si è parlato dei temi”. Si poteva “disegnare un altro futuro”, però ormai “non sembrano esserci le condizioni e qualcuno deve pur dirlo: basta! O come diceva qualcuno, vaffa…”.

Non proprio un addio, ma un ultimatum sì. Accolto con facce scoraggiate dai parlamentari liguri. “Ora serve una scelta in un senso o nell’altro, va avviato un percorso”, sostiene il deputato Marco Rizzone. E il post di Sansa? “Finora non abbiamo parlato di nomi”. Invece diversi eletti raccontano che Crimi doveva effettuare passaggi con il Pd locale e nazionale per capire se ci fossero i presupposti per la votazione online: “Ma non sappiamo ancora nulla”. E le lancette corrono. Anche in Campania, dove però il M5S la sua mossa l’ha fatta, con la capogruppo in Regione Valeria Ciarambino, dimaiana di ferro, che si è fatta di lato per lanciare la candidatura del ministro dell’Ambiente Sergio Costa, anche lui aspirante mastice di un accordo con il Pd. Ma i dem per ora non vogliono e non riescono a mettere da parte il governatore uscente Vincenzo De Luca. Così un altro dimaiano come il deputato Luigi Iovino insiste: “Vogliamo Costa, è tempo che si scelga da che parte stare”. Dal Movimento ripetono che il dialogo non è chiuso.

E a tenerlo aperto è innanzitutto il presidente della Camera Roberto Fico, eterno pontiere. Nel frattempo però nel M5S cresce la tentazione di costruire una coalizione alternativa con Dema, il movimento del sindaco di Napoli Luigi de Magistris, e alcune liste civiche. “Potremmo prendere tanti voti al Pd” teorizza un big. Però sarebbe una coalizione molto “rossa”: troppo, per tanti 5Stelle. Soprattutto, andrebbe convinto Costa, disposto a correre solo con un’alleanza larga con i dem dentro. E senza De Luca dall’altra parte. Insomma, tutto complicato. Innanzitutto per Crimi, che dovrà dire l’ultima parola. Prima o poi.

Processo Eni, l’accusa potrà utilizzare nuove telefonate

L’approvazione del decreto intercettazioni ha un effetto collaterale: può far rientrare nel processo milanese sulla corruzione internazionale in Nigeria – principali imputati Eni, il suo amministratore delegato Claudio Descalzi e il suo predecessore Paolo Scaroni – un mazzetto di intercettazioni telefoniche utili per l’accusa e imbarazzanti per le difese. Sono intercettazioni raccolte nel 2010 dai pm della Procura di Napoli Henry John Woodcock e Francesco Curcio, che stavano indagando sulla cosiddetta P4, il gruppo manovrato dal deputato di centrodestra Alfonso Papa e da Luigi Bisignani, già iscritto alla P2, che per la P4 ha patteggiato 19 mesi di condanna.

Tra i tanti affari, nomine, vicende di cui Bisignani parlava al telefono nel 2010, c’è anche una strana trattativa per l’acquisto di un blocco petrolifero in Nigeria. È l’Opl 245, un immenso campo d’esplorazione di cui effettivamente Eni, insieme a Shell, ha acquistato la licenza nel 2011. È anche l’affare per cui Eni, Shell, i loro manager di vertice e alcuni intermediari italiani e stranieri sono sotto processo a Milano. L’ipotesi dell’accusa è che sia scattata la più grande corruzione internazionale mai scoperta, perché per Opl 245 Eni nel 2011 ha versato 1 miliardo e 92 milioni di dollari su un conto londinese del governo nigeriano, ma poi neppure un cent è rimasto allo Stato della Nigeria, finendo invece all’ex ministro del petrolio Dan Etete (nelle intercettazioni chiamato “il ciccione”), all’ex presidente della Repubblica Goodluck Jonathan (“il signor Fortunato”) e ad altri politici e mediatori nigeriani, italiani e internazionali.

Woodcock e Curcio avevano trasmesso quelle intercettazioni, per competenza, alla Procura di Milano, che aveva cominciato a indagare proprio sull’affare Opl 245. Ma il presidente del collegio giudicante, Marco Tremolada, le aveva ritenute inutilizzabili perché provenienti da un procedimento diverso. Ora il decreto Bonafede permette di utilizzare le intercettazioni anche in altri procedimenti in cui siano rilevanti e indispensabili. Così i pm Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro potranno chiedere di farle rientrare negli atti del processo. In zona Cesarini, perché nella prossima udienza, il 25 marzo, è previsto l’inizio della requisitoria finale della pubblica accusa.

Che cosa dimostrano le intercettazioni resuscitate? L’intensa attività di Bisignani per concludere, a modo suo, l’affare nigeriano, raccontato in diretta, giorno per giorno. Ad aprire le danze africane è un suo amico, Gianluca Di Nardo. “Le conversazioni”, spiega Bisignani ai pm di Napoli, “si riferiscono alla possibilità dell’Eni di subentrare a una concessione petrolifera nigeriana”. Di Nardo aveva “un amico banchiere nigeriano che ha studiato in Inghilterra”, coinvolto nell’affare: è Emeka Obi, chiamato al telefono “il ragazzo della giungla”.

“In buona sostanza”, dice Bisignani, “Di Nardo mi chiese se potevo intercedere e parlarne con Scaroni. Scaroni mi disse di mandare il banchiere nigeriano da Descalzi”.

Così nasce l’affare Opl 245, che da anni Eni e Shell tentavano invano di conquistare. “Il Di Nardo”, continua Bisignani, “avrebbe lucrato una mediazione se l’affare fosse andato in porto e anche io sicuramente avrei avuto la mia parte”. Si mette in moto la macchina. “Avverti il ragazzo che il signor Fortunato e la signora (…) hanno detto che tra domani e dopodomani vogliono fare questa cosa”. “Fortunato” è l’ex presidente Goodluck, la signora è la sua ministra del petrolio. Ma a un certo punto la trattativa ha un intoppo: “Ci hanno scavalcato completamente”, si lamenta Di Nardo con Bisignani il 13 ottobre 2010, “ci hanno inculato, ci hanno inculati di brutto. (…) Ci ha stuprato. (…) Non prendiamo più niente… zero, eh, capisci?”. Suggerisce una reazione: “Guarda, tu devi chiamare il numero 2”. È Descalzi, mentre “il numero 1” nelle telefonate è Scaroni e “il numero 3” è Roberto Casula. Bisignani chiama. E Descalzi, mansueto, il 18 novembre gli risponde: “L’offerta finché non siamo d’accordo io e te non la mando avanti”. Poi spiegherà a De Pasquale: “Nella sostanza, Bisignani ai miei occhi rappresentava Scaroni. Volevo in qualche modo compiacerlo”.

L’affare si fa, anche se cambia lo schema. Eni non paga più direttamente Dan Etete ed Emeka Obi, ma passa attraverso il conto londinese del governo. Però poi i soldi al “ciccione” e agli altri arriveranno.

Liti e blitz rinviati: il governo tiene sul dl Intercettazioni

Il governo tiene e scongiura blitz renziani. Almeno per ora. La tregua dovuta all’emergenza Coronavirus rimanda a data da destinarsi le rese dei conti in Aula, dopo che per settimane Italia Viva aveva minacciato di mettersi di traverso sulla giustizia, votando poi più di una volta insieme al centrodestra. Ieri sul decreto intercettazioni il governo ha ottenuto la fiducia alla Camera con 304 sì, 226 no e un astenuto, mentre domani il testo tornerà in Aula per l’esame degli ordini del giorno e il voto finale.

Si tratta di un decreto approvato in Consiglio dei ministri a fine 2019 e che dunque doveva essere convertito in legge entro il 29 febbraio. Da qui la forzatura sull’approvazione, pure in piena discussione sul virus e nell’ostruzionismo della destra, con il compromesso che le eventuali modifiche al testo saranno trattate dopo il dibattito sul decreto relativo proprio al Coronavirus.

La scorsa settimana il testo era stato approvato in Senato, ancora col voto di fiducia. Un modo per evitare sorprese dai renziani, che più volte hanno contestato la norma e che, ieri come a Palazzo Madama, si sono poi allineati al resto della maggioranza.

Pur con qualche mugugno: “Dando in questa sede fiducia al governo – ha detto in Aula Catello Vitiello di Iv – non possiamo però ritenerci soddisfatti. Il confronto di maggioranza non ha portato all’unanimità su questo provvedimento”. Il decreto supera gran parte della riforma Orlando in tema di giustizia penale.

Sulle intercettazioni, per esempio, si stabilisce che sarà di nuovo il pm – e non la polizia giudiziaria – a stabilire quali siano le telefonate rilevanti. Ma ad agitare Iv e le opposizioni sono le novità sul trojan: con le nuove norme, questo captatore potrà essere utilizzato per reati contro la pubblica amministrazione con pene superiori ai 5 anni. Con un emendamento approvato la scorsa settimana, poi, la maggioranza ha anche esteso la possibilità di utilizzare le intercettazioni come prova per gravi reati diversi da quelli per cui erano state disposte.