Dai serbi di Amerika alle curve Milano è la nuova narco-city

Primo fotogramma: cittadina austriaca di Villach. Due uomini: il primo è un emissario di Cosa Nostra legato al clan Fidanzati, l’altro si chiama Humolli Mete, detto Met, trafficante serbo. Stanno concordando otto chili di cocaina da far arrivare a Milano. Cosa Nostra acquista, Met, che ha agganci con grossisti in Spagna, vende. Secondo fotogramma: Milano, via Marco Aurelio. Il blitz è rapido, gli investigatori arrestano due tagliatori di coca albanesi. La storia dei nuovi narcos a Milano inizia da qua e si riannoda attraverso le ultime acquisizioni degli investigatori della Guardia di finanza di via Fabio Filzi e della sezione Gico. Una vera avanguardia nel contrasto al narcotraffico. Investigatori esperti, capaci non solo di intercettare, pedinare, ma anche di studiare nomi e collegamenti. Tanto da comporre, attraverso atti giudiziari oggi depositati in Procura a Milano, una rete inedita che tiene assieme trafficanti di Belgrado legati ai narco-cartelli di Darko Saric e del famigerato “gruppo Amerika”, viceré di Cosa Nostra e ‘ndrangheta, pro-consoli della malavita milanese in rapporti con esponenti del tifo organizzato di Inter e Milan, come Mimmo Bosa e il pregiudicato per droga Enzo Aghinelli ferito con diversi colpi di pistola in un agguato il 12 aprile scorso in via Cadore. È narco-city al- l’ombra della Madonnina. Qualcosa di mai visto e che va ben oltre l’immaginazione di fiction in stile Zero Zero Zero.

Humolli Mete entra in contatto con l’emissario di Cosa Nostra grazie ai buoni uffici di Lasic Miroslav, trafficante serbo tra Spagna e Italia, uno dei personaggi chiave di questa storia. Soprannominato Miki, oggi vive a Milano. È lui ad agganciare i siciliani. Intercettato spiega: “È gente molto potente”. Ed è sempre Lasic, stando alla ricostruzione dei segugi della Finanza, lo snodo per arrivare a un cartello serbo-pugliese e ai rapporti tra un narcos montenegrino e la famiglia calabrese dei Flachi. Prima di tutto, però, Lasic qui a Milano è in contatto con il bosniaco Miljanic Mileta, considerato oggi dalla Finanza uno dei rappresentanti di vertice del gruppo Amerika, narco-cartello composto da trafficanti di origine serba che operano dagli Stati Uniti e che può contare su agganci nei Servizi di Belgrado.

La base di Mileta a Milano per molto tempo è stata una villa in via Tullo Morgagni 20. Da qui ha coordinato il traffico di droga assieme al suo braccio-destro Zoran Jaksic, altro rappresentante del gruppo Amerika oggi condannato a vent’anni in Perù per traffico di quasi mille chili di cocaina. Jaksic, detto Jackson, ha utilizzato 40 identità false. Mileta spiega: “Questo è il migliore lavoro del mondo, ma se sei dentro e non se sei in prima linea, sei finito”.

Miljanic Mileta oggi vive a New York grazie a un doppio passaporto. In Italia è stato condannato a sette anni in primo grado per droga, dopodiché ha lasciato inspiegabilmente i domiciliari. Grande benefattore della comunità serba a New York, Mileta, come documenta il sito serbo d’inchiesta Krik (Crime and Corruption Investigation Network ), è stato fotografato assieme a una delegazione capeggiata dall’ex ministro degli Esteri di Belgrado Ivica Dacic in visita negli Usa. Dal gruppo Amerika, già in rapporti con Darko Saric, sempre attraverso Miroslav, si arriva al broker montenegrino Milutin Tiodorovic. Trafficante di rango, Tiodorovic, svelano gli accertamenti dei finanzieri, risulta in contatto con la ‘ndrangheta capeggiata dal boss Pepè Flachi e con Domenico Bosa, detto Mimmo Hammer, rappresentante dell’estrema destra milanese e uno dei capi della curva dell’Inter. Bosa, oggi indagato per estorsione aggravata dal metodo mafioso in una recente inchiesta del Gico, risulta in contatto con la famiglia Pompeo legata ai Flachi.

Di rientro dall’Austria Tiodorovic e Bosa discutono di un credito che il montenegrino vanta dai Flachi e che il broker vorrebbe risolvere con alcuni omicidi. Dice Tiodorovic: “Se non me lo paga comincio a sterminare”. Bosa però getta acqua sul fuoco della faida: “Non fare le guerre se le puoi risolvere, lascia che le facciano gli altri e così tu avanzi”. La Finanza segue gli affari di Tiodorovic e scopre l’ennesimo nodo della rete: il corriere dei soldi usato da Milutin per portare i narco-euro a Bratislava, è lo stesso usato da un gruppo di trafficanti serbi che opera nel quartiere degli Olmi, profonda periferia ovest. Gli affari oggi a Milano sono tanti. Droga e armi da guerra. Lasic Miroslav tiene il filo di Arianna che ci porta al trafficante croato Merdez Antun il quale, prima condannato poi messo al lavoro temporaneo, di nuovo arrestato e rimesso fuori con obbligo di firma, oggi è uccel di bosco in Slovenia. La Finanza però non lo molla e trova i suoi contatti con Milorad Draganic. Dai tabulati telefonici di Draganic spunta Bilan Ljubisa, altro serbo e trafficante d’armi legato agli interessi della famiglia pugliese dei Magrini, vicini, secondo gli investigatori, a Savinuccio Parisi, boss della Sacra corona unita.

Quando Ljubisa parla di armi sa il fatto suo: “Ci sono tre pompa, due kalashnikov neri. Sono nuovi (…) , mi ha detto 250 colpi (…), la canna non scalda con quelle serbe, minchia una bontà”. Ljubisia ci conduce al cartello serbo-pugliese capeggiato da Antonio Magrini e da Jakov Kontic (i due sono anche parenti). Kontic, già legato a Darko Saric, importa droga in Italia e si appoggia, per la logistica, ai Magrini. Oggi è condannato a cinque anni in patria. Da qui emerge la figura di Dragan Kurtes in contatto con Aghinelli, l’ultrà milanista ferito in via Cadore. Nel 2017 Kurtes e Aghinelli effettueranno viaggi a Belgrado.

Voto di scambio, chiesto l’arresto del senatore Siclari

“Questi sono tutti con noi… Perché sono vari ceppi là! Tutti in prima linea, stanno facendo l’ira di Dio”. È il 25 gennaio, vigilia delle elezioni regionali in Calabria. A parlare è Nino Creazzo, il fratello di Giuseppe, il sindaco di Sant’Eufemia D’Aspromonte candidato a consigliere regionale nella lista di Fratelli d’Italia.

I “tutti” che stanno facendo “l’ira di Dio” sono gli esponenti della cosca Alvaro di Sinopoli, stroncata ieri mattina con l’operazione “Eyphemos”, coordinata dal procuratore di Reggio Calabria Giovanni Bombardieri, dall’aggiunto Gaetano Paci e dal sostituto della Dda Giulia Pantano. Associazione mafiosa, traffico di armi, droga, ma anche voto di scambio. Sono 65 gli arresti eseguiti dalla squadra mobile: 53 in carcere e 12 ai domiciliari.

Tra questi un consigliere regionale appena eletto e un senatore della Repubblica per il quale è stata presentata al Parlamento la richiesta di autorizzazione all’arresto. La misura cautelare è stata già eseguita, invece, nei confronti del neo consigliere regionale Domenico Creazzo che il 26 gennaio, con il partito della Meloni, ha rastrellato più di 8mila voti. Un risultato elettorale per il quale, secondo il gip Tommasina Cotroneo, il politico “è sceso a patto con la terribile e temibile ’ndrangheta dei territori aspromontani”. Lo ha fatto utilizzando il fratello finanziere e massone Antonino Creazzo. È stato quest’ultimo a mettersi in contatto con Domenico Laurendi, ritenuto il capo di una delle fazioni criminali che si contendono il territorio di Sant’Eufemia D’Aspromonte. Prima vicino al centrosinistra (che lo aveva sponsorizzato come vicepresidente dell’Ente Parco d’Aspromonte) e adesso con il centrodestra. Sponda Lega o sponda Meloni, Domenico Creazzo non aveva problemi a cambiare casacca.

Non era importante il partito ma essere eletti e rispettare i patti con la cosca Alvaro: “Garanzia (del risultato elettorale)” in cambio di “garanzia (di soddisfacimento delle pretese della ’ndrangheta)”.

I contatti del presunto esponente del clan Alvaro con il fratello del sindaco erano funzionali a manifestare “quello che – scrive il gip – sarebbe stato il suo impegno personale nonché della sua cosca in supporto di Creazzo, ma già aveva messo sul tavolo quelle che sarebbero state le condizioni cui il politico avrebbe dovuto sottostare”.

In sostanza, una candidatura che “rientrava in un unitario progetto politico-mafioso”. Il progetto prevedeva l’interessamento di Nino Creazzo per avvicinare alcuni magistrati e aggiustare un processo.

Voto di scambio così come per il senatore di Forza Italia Marco Siclari per il quale il gip ha disposto gli arresti domiciliari. In attesa che il Parlamento decida, dall’inchiesta è emerso che il senatore è stato appoggiato dalla cosca Alvaro alle politiche del 2018. In cambio, due mesi dopo le elezioni, si è interessato per far ottenere il trasferimento a Messina a una dipendente delle Poste, figlia di un affiliato.

A battere cassa dal senatore Siclari è stato sempre Domenico Laurendi attraverso il medico Giuseppe Galletta finito agli arresti domiciliari. Quest’ultimo, nelle intercettazioni, rassicura il presunto boss sull’impegno del politico per i desiderata della cosca: “La prossima settimana dobbiamo parlare perché Tajani (non indagato, ndr) a questo qua, Tajani, personalmente lo conosce a questo… questo qua è di Riccione”. Detto fatto: “In men che non si dica Laurendi veniva accontentato”.

Il gip Cotroneo non ha dubbi: “Come nelle migliori tradizioni ’ndranghetiste, anche la politica, tutta, è terreno elitario di interesse mafioso”.

“È un dato sconfortante che i politici si rivolgono alle cosche. – sono le parole del procuratore di Reggio Calabria, Giovanni Bombardieri –. Era indifferente se venivano candidati dalla Lega, da Fratelli d’Italia o da Forza Italia o altri partiti, purché ci fossero serie possibilità di essere eletti”.

“Ci domandiamo – è il commento del presidente della Commissione parlamentare antimafia Nicola Morra – come si possa conciliare un assessore come il ‘capitano Ultimo’ che è stato voluto dal presidente Jole Santelli per la sua immagine di combattente la mafia e i voti di Creazzo”.

Dalla Sars all’Aviaria: così sono state gestite le altre epidemie

“Le malattie infettive più pericolose per l’uomo sono in genere conseguenza di salti di specie”: Giovanni Rezza è il direttore del Dipartimento di malattie infettive all’Istituto Superiore di Sanità. È appena uscito con un libro dal titolo Epidemie. I perché di una minaccia globale (Carocci) ed è la persona giusta per spiegare, partendo dall’attuale epidemia di Covid-19 (il nuovo ceppo di Coronavirus), come mai nonostante l’evoluzione della medicina, dai primi anni del Duemila emergano nuovi virus sconosciuti e come si siano evolute le maggiori epidemie degli ultimi anni, dalla Sars all’influenza aviaria.

Sars.È una forma di polmonite atipica che si trasmette per via respiratoria e che si è sviluppata nella provincia cinese del Guandong a fine 2002, per estendersi rapidamente a Hong Kong, Pechino, Singapore e Toronto. L’allarme fu lanciato dall’Oms il 15 marzo 2003. L’epidemia, probabilmente causata da un salto di specie del virus dal pipistrello allo zibetto e all’uomo, apparve e scomparve nel giro di pochi mesi, ma fece in tempo a mietere 774 vite, con oltre 8 mila casi segnalati in 29 Paesi e un tassi di letalità del 9,6%. Tra le vittime – come ricorda Rezza nel libro – ci fu il medico italiano Carlo Urbani, il primo a diagnosticare l’infezione ancora sconosciuta a un paziente in un ospedale di Hanoi (Vietnam) il 26 febbraio 2003 (Urbani fu ucciso dalla Sars a metà marzo). La sua diagnosi permise all’Oms di lanciare l’allarme mondiale e sollecitare le misure di contenimento. “Dal giugno 2003 e per 6 mesi non vennero più segnalati casi di Sars”, racconta Rezza. In seguito, a causa di incidenti in laboratori di ricerca, si ebbe la comparsa di nuovi, arginati tempestivamente.

Mers.Nel 2012, nella Penisola arabica compare una nuova sindrome respiratoria causata da un altro ceppo di Coronavirus e di origine zoonotica (dal pipistrello al cammello e poi all’uomo). La famiglia dei Coronavirus comprende virus capaci di indurre malattie nell’uomo che vanno dal comune raffreddore alla Sars e all’attuale epidemia di Covid-19. Sebbene Mers mostri un alto tasso di letalità (20-30%) si propaga lentamente. È riapparsa in Corea del Sud nel 2015, con un focolaio di 200 contagi, che è stato prontamente controllato.

Ebola. La febbre emorragica proveniente dall’Africa Subsahariana, con alto tasso di letalità per l’uomo e causata da un agente patogeno della famiglia dei filovirus, ha come serbatoio principale di infezione le grandi scimmie. I sintomi non sono sempre riconosciuti tempestivamente poiché sono simili a quelli di influenze, tifo e malaria, pertanto il primo veicolo dell’infezione, come in altre epidemie, è il personale sanitario. In Africa, Ebola si è presentata a più ondate dalla fine degli anni 60, con una letalità anche dell’88%. Nel 2013, esplosero focolai anche tra Guinea, Liberia e Sierra Leone. Di nuovo, il ritardo diagnostico, ma anche ospedali fatiscenti e nuclei familiari caratterizzati da promiscuità e sovraffollamento, amplificarono l’epidemia, che si trasmette da uomo a uomo per contatto. “Fu arginata solo grazie alle procedure di isolamento nelle strutture sanitarie d’emergenza – spiega Rezza –. Nel 2016, al termine dell’emergenza si contavano 28.616 casi e 11.310 morti”. Nel 2019, l’Agenzia del Farmaco europea ha approvato la commercializzazione del primo vaccino contro Ebola. È stato somministrato al personale sanitario nell’ultima epidemia in Congo, sia per proteggerlo sia per interrompere la catena di trasmissione. “È tuttora un pericolo per l’Africa centrale – dice Rezza – con quasi 3.500 casi dall’agosto del 2018.”

Aviaria. Nel 2003, Rezza ricorda il rischio pandemia innescato da virus aviari, in particolare il sottotipo H5N1, un virus degli uccelli selvatici poi trasmesso a quelli domestici e da lì all’uomo. Ha causato la più estesa epizoozia (trasmissione di malattie tra animali) tra volatili, dall’Oriente all’Europa e parte dell’Africa, contagiando quasi 900 persone di cui ne sono morte la metà, secondo l’Oms. La pandemia non si è verificata grazie alla scarsissima capacità del virus di trasmettersi direttamente da uomo a uomo. “Ma non si può escludere che in futuro il virus muti”, aggiunge Rezza.

Mucca pazza.È l’epizoozia che si diffuse tra i bovini in Gran Bretagna a metà degli anni 90. Rientra nelle encefaliti spongiformi trasmissibili, disordini neurodegenerativi a esito mortale, causate da una proteina detta prione. Nel 1996 venne identificata una variante in grado di infettare l’uomo attraverso il consumo di carni bovine infette, con un tasso di letalità quasi del 100%, ma con un numero molto limitati di casi (circa 500 a fine 2010, 4 nel 2017, 231 nel 2018). L’abbattimento di milioni di capi di bovini infetti ridusse la contaminazione anche nell’uomo. La causa della malattia nei bovini fu identificata con il mangime a base di carni ovine (anch’esse serbatoio della malattia) e bovini. “La possibilità di risparmiare denaro riciclando carcasse di animali, inducendo una forma di cannibalismo evidenzia come l’intervento umano possa essere causa di epidemie”, scrive Rezza.

Fattore Cina. È l’origine di molte epidemie, come l’attuale Covid-19. “Oltre a rappresentare il terreno di coltura primario dei nuovi ceppi influenzali, la densità di popolazione è particolarmente alta – spiega l’epidemiologo –. In più, gli allevamenti misti di maiali e anatre e i mercati di animali vivi (wet market) permettono a ceppi provenienti da animali diversi di ricombinarsi, dando vita a nuove varianti in grado di infettare l’uomo. Quando si tratta di virus sconosciuti e non c’è vaccino, “le misure più efficaci restano la quarantena di chi risulta positivo e dei loro contatti più stretti – spiega Rezza – e oggi, anche l’interruzione dei voli da e per le aree dei focolai e la collaborazione internazionale”.

Le follie e i paradossi da virus: gara a chi la spara più grossa

U n po’ di cose sul Coronavirus che sono costretta a commentare.
1) L’assalto ai supermercati per sopravvivere a questa pandemia mondiale facendo scorta di taralli pugliesi e pizze surgelate è una delle manifestazioni più evidenti della pandemia mondiale preesistente al Coronavirus: la minchionaggine. Se c’è un modo per esporsi al rischio è quello.

Se c’è un modo per esporsi al rischio infatti è quello di recarsi in un luogo affollato e toccare barattoli, confezioni, carrelli che hanno toccato altre decine e decine di persone, portandoseli pure in casa in quantità da apocalisse nucleare. Posso poi capire l’acquisto compulsivo di pasta e merendine, ma non riesco a spiegarmi perché nel supermercato sotto casa mia siano andate esaurite pure le confezioni di sale. La gente ha paura di morire mangiando sciapo, non c’è altra spiegazione.

2. Neppure la logica secondo cui l’Italia avrebbe sbagliato a bloccare i voli diretti dalla Cina, perché “non abbiamo potuto controllare quelli che arrivavano facendo scalo altrove”, mi è chiara. Lo sosteneva con convinzione anche Tony Capuozzo qualche sera fa da Giletti. Non serve essere diretti discendenti di Marco Polo per realizzare una questione semplice in tema di viaggi: i voli con scalo dalla Cina non sono una realtà tutta italiana come i pomodori San Marzano. Tutti i Paesi del mondo hanno voli con scalo da e per la Cina, per cui non si comprende perché gli scemi irresponsabili saremmo solo noi che abbiamo bloccato i diretti. Al massimo abbiamo adottato una misura in più, magari inefficace, non certo dannosa. Per il resto, chi ritiene che il mondo si possa dividere in compartimenti stagni ha un’idea del mondo piuttosto ingenua. Ai controlli in aeroporto sfuggono i corrieri della droga con etti di cocaina nell’intestino retto, capirai se con un termometro ora riconosceranno un malato di Coronavirus.

3. Folli per me tutte le direttive che impediscono alle persone di aggregarsi in luoghi pubblici, ma la decisione di alcune Regioni di chiudere le scuole è criminale. Io non so se Beppe Sala abbia la più pallida idea di cosa significhi una settimana di vita con i figli a casa, durante il periodo lavorativo, ma credo si possa ritenere la quarantena più crudele della storia dopo quella toccata a Sallusti ai domiciliari con Daniela Santanchè.

4. Gli italiani hanno smesso di andare al ristorante cinese da ormai un mese e vabbè, la convinzione che l’involtino primavera sia il più minaccioso focolaio di virus dopo i pantaloni di pelle di Piero Pelù a fine concerto non gliela puoi levare. Il mistero però è perché gli italiani abbiano smesso di frequentare anche i sushi. L’unica deduzione logica è che siano convinti che Cina e Giappone siano la stessa cosa tipo quelli che ti dicono “Sono stata al lago di Gardaland”, tu gli dici “Di Garda!” e loro “Vabbè è la stessa cosa”.

5. Hanno annullato un convegno sul Coronavirus con esperti di Coronavirus per l’emergenza Coronavirus. Ora sappiamo da dove viene la famosa espressione “scatola cinese”.

6. Salvini, quello che parlava del pericolo “scabbia” importata dagli stranieri sui barconi convincendo gli italiani del fatto che saremmo morti tutti grattandoci, ora si trova all’imbarazzante situazione di non poter dire che i potenziali appestati adesso siamo noi. L’affronto più doloroso però gli è arrivato dall’amica Marine Le Pen: “Potrebbero essere necessari controlli alle frontiere tra Italia e Francia se l’epidemia Coronavirus finisce sotto controllo”, ha dichiarato la Le Pen. Insomma, un contrappasso memorabile: ora Salvini per andare in Francia dovrà salire su una nave Ong fingendosi un eritreo o un magrebino. Checco Zalone è stato profetico.

7. Paolo Liguori continua a sostenere indisturbato che “sue fonti” gli suggeriscono che il Coronavirus sia sfuggito a un laboratorio cinese in cui si fanno esperimenti batteriologici. Non è chiaro come mai non abbia fonti che gli riferiscano qual è la teoria più accreditata da scienziati, medici, biologi, virologi e premi Nobel per la medicina sulla storia del laboratorio, e cioè “è una cazzata, Mariè”.

8. Tra gli effetti più drammatici del Coronavirus, peraltro pericolosamente ignorato dalla comunità scientifica, sono le interviste ad Alessandro Meluzzi sul tema. Nell’ultima è riuscito ad affermare che “i cinesi hanno ospedalini loro dove fanno aborti, terapie alternative, spesso scompaiono anche cadaveri, come si fa a rintracciare il paziente 0?”. A parte che un ospedalino cinese è grande quindici volte il Pirellone, a parte che se i cinesi non praticassero gli aborti in ospedale ma sul banco del pesce sarebbe un problema, a parte che non si capisce cosa voglia dire che in Cina scompaiano cadaveri e se lui ne sa più di noi a questo punto ci mostri le fosse comuni sotto le trattorie cinesi, la vera domanda non è chi sia il paziente 0 che ha diffuso il contagio, ma il criminale zero che ha concesso il diritto di parola a Meluzzi.

9. Tra tanti disastri, il Coronavirus ha il merito innegabile di aver ispirato una battuta geniale a Vittorio Feltri che lo riscatta da almeno un paio di titoli di Libero (indimenticabile, legato al Coronavirus, “Basta accanirsi sui pipistrelli”) e cioè: “Non preoccupiamoci del virus, pensiamo alla salute”.

“In fuga dall’epidemia cinese, ora torniamo: l’Italia ormai è uguale”

Non è certo andata come si aspettava. Abbandonato il primo Paese focolaio del Covid-19, insieme a moglie e figli, il manager Jonathan Marano, 34 anni e da 5 residente in Cina, era tornato in Italia pensando di essersi lasciato l’emergenza alle spalle. Però le sirene d’allarme contagio ora hanno cominciato a risuonare qui. Senza ansia, senza scalpore: nelle prossime settimane tornerà indietro. “Oltre Wuhan e Hubei, in Cina ora non ci sono più di 20 o 30 casi al giorno”. A Shanghai, la sua città, “zero casi infetti”.

“Guarda, c’è una cinese”. È stata la frase che ha sentito ieri quando è andato al supermercato con sua moglie Wen, che si è messa a ridere, “perché in questi momenti l’ignoranza è perdonabile”. In Italia nota “una diffidenza diffusa: c’è chi la dissimula, ma poi ti cammina a due metri di distanza, e chi non la cela, come la signora. È paradossale, ma in questo momento è più semplice essere contagiati da un italiano che da un cinese”.

Scuole chiuse, pericolo d’aggregazione, mascherine. Affiorano inevitabili paralleli. “A Wuhan sapevano d’esser in una condizione miserabile, ma pensavano di uscirne insieme, con sacrificio. In Italia c’è chi protesta dopo un giorno di quarantena, che serve a tutelare gli altri. È più diffusa la prospettiva individualista, siamo meno abituati a soffrire per la collettività”.

Per lui la storia si ripete due volte: prima raccontata dagli ideogrammi della stampa di Pechino, ora dai titoli di quella italiana. Quando il Corona era solo nei binocoli, oltre confine, lontano da noi, “mi sembrava di leggere della peste del XXI secolo. Ora che il Corona ci riguarda, che è entrato nelle nostre vite come minaccia reale, noto un approccio meno sensazionalistico”.

Da quando la Cina ha reso la notizia del virus di pubblico dominio, la strategia mediatica della stampa, “non scollata dalle istituzioni, è stata bombardare con nozioni scientifiche: lì esiste la narrazione dell’autorità, non c’è nicchia di mercato per la distribuzione delle opinioni né per il lettore psicotico, in cerca di teorie complottistiche”.

Dispacci dagli abitanti del Dragone. “I miei colleghi tornano in ufficio un giorno ogni 5, mi dicono che la gente torna a girare per strada, le scuole sono ancora chiuse, ma tutto riparte, seppur molto lentamente, per evitare che qualche caso residuo non possa riaccendere l’epidemia”.

Quando rimetterà piede in Cina, dopo la contumacia domiciliare iniziale a Shanghai, la quarantena di 14 giorni svolta in Italia, Jonathan ritornerà in quarantena perché arriva dal terzo paese del contagio: “senza dubbio, la rifarò”.

Il Senato si fa la task force con il prof dello Spallanzani

La presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati ha preteso il meglio per fronteggiare il rischio contagio da Coronavirus al Senato. E mentre mezza Italia è blindata e l’altra, nel panico, non sa come regolarsi con i figli a scuola, a Palazzo non ci si fa mancare nulla: mascherine e amuchina come se non ci fosse un domani, termoscan organizzati in men che non si dica agli ingressi dedicati ai senatori, al personale e gli addetti i lavori. Mentre invece è ormai interdetto l’accesso agli estranei, il pubblico che viene ad assistere alle sedute o a visitare gli scorci più suggestivi del compendio guidato da Casellati. Che ha ben pensato anche ad assicurare al Senato, data l’aria che tira e la paura che corre, una super consulenza, ovviamente top di gamma: la presidente ha voluto infatti che fosse Giuseppe Ippolito, direttore scientifico dello Spallanzani e autorevolissimo esperto della task force messo in campo dal Dipartimento della Protezione civile, a dare conforto a Palazzo: quando la struttura dei presidi sanitari del Senato avrà bisogno di consigli e chiarimenti non dovrà fare altro che alzare il telefono per chiedere lumi.

Ora, sulle misure un po’ di polemica c’è e non solo da parte di quei senatori allergici ai controlli e al termometro. Il ministro della Salute Roberto Speranza ad esempio è perplesso per quanto sta succedendo in Parlamento. E ha tuonato contro le mascherine di cui sono stati dotati i commessi. Il ministro, che giovedì riferirà in Aula sull’evolversi dell’emergenza, la tocca piano: “Le misure assunte al Senato le considero non fondate sul piano scientifico”, ha detto suscitando la replica, piccata, di Palazzo Madama, che ha rivendicato il proprio operato con un comunicato ufficiale che ha spiegato che le misure in questione “sono state deliberate all’unanimità e adottate in sintonia con le disposizioni governative e con i protocolli dell’Oms, sulla base di quanto consigliato e validato da esperti virologi che già collaborano ad alto livello con il Governo per fronteggiare l’emergenza Coronavirus”.

Per la verità la delibera per l’incarico a Ippolito è stata approvata sì, ma senza unanimità tra i questori del Senato: Laura Bottici del M5S si è rifiutata di sottoscrivere questa decisione ossia la collaborazione con un singolo componente della task force governativa. Ma a tenere banco sono i mugugni dei senatori: quelli per cui le precauzioni sono sempre poche, ma pure quelli refrattari alle file determinate dai controlli, che per tutta la giornata non hanno fatto che chiedersi chi per primo risulterà febbricitante. E cosa accadrà a quelli portati in ambulatorio quando il termometro dovesse segnare più di 37,5.

A un certo punto si è anche rincorsa la voce allarmata di una senatrice risultata “positiva” al controllo della temperatura e che però sarebbe comunque entrata in aula. Il Fatto non è riuscito ad ottenere conferma dell’accaduto, mentre è certo che anche alla Camera la tensione si taglia a fette: nel pomeriggio è arrivata una autoambulanza a sirene spiegate, gettando nel panico alcuni deputati preoccupati per le condizioni di salute di una dipendente di una ditta esterna addetta alle pulizie. che forse si era solo fatta male. Insomma, anche a Montecitorio l’allerta è massima e ieri in serata sono stati varati controlli e restrizioni analoghi a quelli di Palazzo Madama: i due rami del Parlamento hanno deciso che deputati e senatori coinvolti dalle restrizioni delle zone di contagio e in quarantena non risulteranno assenti, ma in missione.

“Se non qui, dove?” La psicosi tra gli scranni

Iboli di sapone liquido, di un rosa lucente e profumato, sono riempiti fino all’orlo. Il Parlamento decide, e per farlo, si lava le mani. Nell’anticamera dei cessi, che a Montecitorio sono di gran pregio, gli incontri si susseguono e anche le considerazioni. C’è secondo voi un posto migliore di questo per il virus? “Ciascuno di noi vede da mattina a sera decine e decine di persone, viaggia, fa incontri. Poi viene qui e incontra altre centinaia di colleghi che hanno viaggiato ciascuno per centinaia di chilometri. Dove allora se non qui?”, si chiede Nicola Fratoianni che da sinistra processa l’epidemia e misura la paura. “Angoscia, chiamiamola angoscia”, raccomanda lo psicanalista Umberto Galimberti. Angosciato ma non perduto il leghista Claudio Borghi, che sul tema conduce una sua personale battaglia lessicale: “La schifezza di Conte, proprio non lo digerisco più. Fa vomitare. Con la scusa del virus va facendo il signorino in tv. È un mentitore patologico. L’epidemia per lui è divenuta così un’opportunità”. Vista da destra la situazione si va però abbastanza ingarbugliando: perché la virologia non risponde alle premesse. Gli infetti vengono dal nord e non dal sud del mondo. In Algeria è appena stato scoperto il primo caso: è un italiano in trasferta. E dunque i barconi? “In questo scenario così catastrofico l’unica soddisfazione, se posso dirlo, è vedere come la storia si fa burla e i lombardo-veneti, quelli che alzavano i muri, ora debbano sentire l’umiliazione di vedersi rifiutati”. È Bruno Tabacci, democristiano di Mantova. “Lo dico io che ho fatto il presidente della Lombardia. L’idea della risposta muscolare, propagandistica, a una questione che non si risolve con la propaganda, sta facendo le giuste vittime. Ha capito adesso Salvini che il virus era in corpo da mesi negli italiani? Ha capito che i vettori sono gli industriali del nord, quelli che fanno affari e viaggi con l’est del mondo?”.

Ha capito, forse. E intanto c’è da segnalare che il primo deputato in quarantena è Guido Guidesi, anch’egli leghista. Isolato in casa, obbligato dalle forze di polizia di non muoversi dalla sua residenza che è dentro la zona rossa del lodigiano. Del cui capoluogo, Lodi appunto, è rappresentante orgoglioso Lorenzo Guerini. Sindaco della città e oggi ministro della Difesa. Ha dovuto mandare i soldati a cingere le sue campagne, i suoi amici. Nessuno esca e nessuno entri.

Il Parlamento dunque più che lavarsi le mani cosa può fare? Secondo Maria Teresa Baldini, medico chirurgo e deputata di Fratelli d’Italia, qualcosa di altro. Si è mascherinizzata, bendata, difesa così, lei lombarda, dai pericoli del contagio, dalla realtà così bizzarra, al tempo stesso grave e comica, nella quale l’Italia è sprofondata. “È il momento di impegnarci tutti con forza e determinazione”, ha detto seduta in aula, mascherina alla bocca e mani giunte. “Non chiedo niente per me”.

Orgoglio senza pregiudizio. Ma con un filino di dubbio però. Vittoria Baldino, che è grillina, dunque né di destra né di sinistra, ma un po’ ovunque, valuta il casino prodotto: “Forse stiamo esagerando con gli allarmi. Forse stiamo correndo troppo e l’ansia che ci assale rischia solo di farci perdere la ragione anziché ritrovarla. Mio marito, che dirige un locale a Roma sempre affollatissimo, mi riferisce del deserto che ora c’è. Così si mandano all’aria centinaia e centinaia di posti di lavoro”.

In effetti i cinquestelle in questa crisi si sono visti poco. Hanno parlato il meno, e non era affatto certo che avrebbero trattenuto la lingua, e il silenzio ora sembra oro. Per la prima volta salgono nei sondaggi, per la prima volta il segno più (+0,4) in mesi in cui l’emorragia avanzava senza mai arrestarsi. E invece chi le prende, sempre secondo i sondaggisti, è Matteo Salvini (flessione dell’1,1%) il quale ancora non ha le misure della situazione e ondeggia. Mentre i suoi governatori chiudevano città e campagne, bar e cinema, lui si è fatto una cena con millecinquecento genovesi. Al chiuso, stretti stretti. Adesso, impossibilitato alla piazza, è rinchiuso dentro Facebook.

La questione è seria, forse anche tragica e il Parlamento, come tutti gli italiani, segue le indicazioni degli scienziati: lavarsi le mani spesso e non portarsele agli occhi. Salutare a distanza, e nel caso dello starnuto, coprirsi la bocca.

Le Marche vanno da sole: “No al piano del governo”

Magari “la situazione è grave, ma non seria” è citazione troppo abusata, però Il falò delle vanità di Tom Wolfe torna utile a illuminare l’Italia politica del Coronavirus. Ieri – di errore in errore, di vanità in vanità – si è arrivati al caos proprio nel giorno in cui il governo tentava di darsi, in accordo con le Regioni, un piano nazionale sulla gestione dei contagi che fosse meno “emergenziale” della risposta data alla scoperta del primo focolaio di infezione.

Niente da fare: l’uscita serale con cui Luca Ceriscioli, presidente delle Marche, ha annunciato la chiusura delle scuole a partire da stamattina rimette tutto in discussione. Nelle Marche, va ricordato, finora non c’è stato alcun caso di Coronavirus e alla luce di questo si capiscono meglio le parole mattutine di Walter Ricciardi dell’Organizzazione mondiale della sanità e consulente del ministro Roberto Speranza: “La frammentazione regionale in Italia ha fatto perdere l’evidenza scientifica: chi faceva tamponi agli asintomatici, chi ai contatti dei contagiati…”.

Le colpe del nostro falò delle vanità sono comunque diffuse e certo non ha aiutato l’uscita, lunedì, di Giuseppe Conte sull’ospedale di Codogno, che avrebbe aiutato la diffusione del virus nel lodigiano non rispettando il protocollo dell’Istituto superiore di sanità. Un’accusa che ha mandato fuori di testa la Giunta della Lombardia e che peraltro lo stesso Conte si è sostanzialmente rimangiato ieri mattina durante una riunione coi governatori: “Sono stato frainteso”. L’autodafé del premier non gli ha neanche evitato una litigata col presidente lombardo, Attilio Fontana, sbottato all’innocua notazione di un tecnico sulla scarsa utilità delle mascherine protettive a fini di prevenzione: il leghista – che l’ha interpretata come un rifiuto del governo a fornirne di nuove – ha addirittura chiuso il collegamento con Palazzo Chigi, non prima di aver attaccato il premier contro “medici e infermieri”.

Se la sfuriata di Fontana si è chiusa con la pace – anche grazie all’intervento dell’ex sindaco di Lodi Lorenzo Guerini – il resto del piano a cui aveva lavorato il governo, a sera, sembrava invece essere andato a farsi benedire. In accordo con le Regioni, con cui era stata concordata una ordinanza standard, gli interventi per contenere il virus dovevano articolarsi su tre livelli, basati su aree più piccole delle regioni: per capirci sulla ratio della scelta, se la provincia di Lodi è la più colpita, quella di Milano al momento ha numeri di contagi accertati trascurabili, nonostante venga raccontata come l’epicentro della crisi. Ecco allora i tre livelli di intervento. La prima linea dovrebbe essere quella delle “zone rosse”, dove sono presenti autonomi focolai “locali” (cluster) e cioè, al momento, i 10 comuni del lodigiano e Vò Euganeo in Veneto: lì si sarebbe continuato con la “chiusura” pressoché totale. La seconda linea sono i territori limitrofi ai cluster in Lombardia, Piemonte, Veneto ed Emilia: lì sono possibili provvedimenti hard come la chiusura delle scuole.

La terza linea, infine, sono quei territori che non hanno focolai anche se hanno registrato qualche caso (ad esempio, i tre del Lazio): lì l’ordinanza standard stabiliva le linee guida su prevenzione (disinfettanti negli uffici pubblici e negli ospedali, “sanificazione” di bus e treni, sospensione delle gite scolastiche) e gestione dei possibili contagi attraverso un’unica procedura uguale in tutta Italia.

Anche i sindaci parevano della partita avendo chiesto, per bocca del presidente Anci Antonio Decaro, di essere privati in questa fase dei poteri straordinari che gli sono attribuiti per le emergenze: niente poteri, niente rimproveri.

Mentre si attendeva la formalizzazione di questi accordi, che avevano avuto il via libera delle Regioni nonostante qualche resistenza, arriva l’ordinanza di Ceriscioli (del Pd, sia detto en passant), che fremeva fin da lunedì: scuole e università chiuse e chiuso pure tutto il resto. Curiosamente in quei minuti il capo della Protezione civile Angelo Borrelli, che è pure commissario all’emergenza, diceva: “La chiusura delle scuole è nella zona rossa e non ce ne saranno altrove”. Ma Ceriscioli, nonostante le pressioni, non pare volerci ripensare: “Un contagio a Cattolica, al confine con le Marche, ci dice che sono urgenti misure di contenimento”. Il governo, ora, può fare poco: pare deciso a impugnare davanti alla Consulta l’ordinanza, che però entrerebbe comunque in vigore.

Termoscanner made in China per gli aeroporti italiani

Per limitare la diffusione del Coronavirus negli aeroporti italiani sono stati installati dispositivi in grado di rilevare la temperatura corporea delle persone. A Ciampino ci sono cinque termoscanner, a Fiumicino 21 e tre di questi sono stati acquistati dalla Sunell Italia. Scherzo del destino – che per fortuna supera ogni stupida barriera mentale e culturale – si tratta dell’azienda importatrice della Sunell Shenzhen technology, con filiali in tutto il mondo e sede a Shenzhen (Cina). È qui che vengono prodotte le telecamere termiche “Body Temp Sn-T5”, chiamate anche “Panda” per la loro caratteristica forma. Paolo Cardillo, general manager della società, spiega che le telecamere “riescono a misurare su una folla, con un passaggio di 16 persone ogni fotogramma ovvero ogni 30 millisecondi, una frazione al secondo, nello spazio di raggio della telecamera, la temperatura dei singoli con un errore massimo di 0,3 gradi”.

È un sistema che è stato ideato già in passato, con la diffusione del virus della Sars. Così, nei monitor di chi effettua i controlli agli aeroporti, appariranno dei quadrati verdi su ogni passeggero: “Quando il quadratino diventa rosso – continua il manager – vuol dire che il passeggero ha la febbre”. Anche la produzione di queste telecamere sta subendo le conseguenze della diffusione del virus: “Oltre ai voli – spiega Cardillo – vi è il problema del ritorno dal Capodanno cinese: causa epidemia, non tutte le persone sono rientrate in fabbrica. Non tutta la forza lavoro è a disposizione per la produzione”. Ogni termoscanner “Panda” costa, compreso il sistema di rilevazione, circa 20 mila euro. E in Italia ne sono già stati ordinati una quarantina. “Li consegneremo anche agli aeroporti di Verona, Pisa, Firenze, Catania e Palermo – spiega il manager –. E poi ci sono le richieste di aziende private, come Assicurazioni Generali”.

Il mondo chiude all’Italia, pressing di Speranza-Di Maio

L’obiettivo è uno: non restare invischiati nel ruolo di appestati d’Europa. Il governo è al lavoro, ma l’impresa non è facile. La decisione di bloccare, unico Paese in Europa, i voli diretti con la Cina ha provocato l’insofferenza e le rimostranze di Pechino ma non ha impedito l’arrivo del Covid-19. Da oltre Muraglia le strutture continuano a inviare messaggi a Roma: il Global Times, tabloid del Quotidiano del Popolo, ha criticato la risposta “lenta” che l’Italia ha dato all’emergenza, citandola con Corea del Sud, Giappone e Iran.

Ieri Roberto Speranza, che negli uffici di Lungotevere Ripa ha incontrato il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, il commissario Ue Stella Kyriakides, i titolari della Salute dei Paesi confinanti con l’Italia, Austria, Francia, Slovenia e Svizzera, insieme ai colleghi di Germania e Croazia. Obiettivo: ammorbidire le posizioni di chi ha già imposto restrizioni ed evitarne peggiori. Tanto è vero che firma anche la Francia, dopo che aveva sconsigliato gli arrivi sul suo suolo dal Nord Italia. Nel frattempo, le misure contro il nostro Paese in giro per il mondo aumentano. Londra ha introdotto la quarantena in caso di sintomi per chiunque arrivi dal nostro Settentrione, le autorità olandesi hanno vietato ai propri cittadini di recarsi negli 11 comuni focolaio. Le Seychelles, la Giordania e l’Iraq hanno deciso per il blocco totale dal nostro Paese. Mauritius ha interdetto l’accesso ai residenti in Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna. Il timore ha varcato anche l’Atlantico: “Chiediamo agli americani di prepararsi”, perché il tema “non è se ci sarà ma quando ci sarà” un’epidemia di Covid-19 negli Stati Uniti, hanno fatto sapere i Centers for Disease Control and Prevention, agenzia del Dipartimento della Salute. Per ora il rischio è basso ma nuovi casi sono probabili alla luce della “trasmissione in numerosi Paesi”, ha rincarato il ministro della Sanità Alex Azar, definendo “preoccupanti” le epidemie in Iran e, appunto, in Italia.

A Roma, intanto, il lavoro di ricucitura prosegue. Con i colleghi dell’Ue si è deciso di “tenere aperti i confini”, ha detto Speranza al termine del vertice: “Chiuderli sarebbe una misura sproporzionata”. Per il ministro era importante che tutti arrivassero a firmare un impegno comune. C’è pure la promessa di condividere le informazioni mediche ed epidemiologiche, come le misure per contrastare l’infezione. Ancora. “Ci si impegna a non cancellare a priori maggiori eventi ma a valutare caso per caso”. Sul punto è intervenuto anche il premier, Giuseppe Conte: “Offriamo la massima sicurezza ai cittadini che viaggiano dall’Italia e verso l’Italia”.

Il governo ha messo in campo un vero e proprio lavoro di moral suasion, affidato alle strutture diplomatiche. Di Maio ha dato indicazione alla Segreteria Generale di convocare tutti gli ambasciatori per chiarire che i focolai del virus sono circoscritti ad alcuni territori. Oggi Enzo Amendola, ministro degli Affari europei, incontra i 27 Ambasciatori Ue. Era prevista una colazione di lavoro per la presidenza della Croazia. Ma il briefing servirà a dare le informazioni “corrette”.

Sulle singole misure prese da ciascuno Stato poco si può. Anche perché casi aumentano. In serata l’Algeria ha dato notizia del suo primo contagiato: è un italiano. E anche Austria, Svizzera, Croazia e la Spagna continentale hanno registrato i primi casi. In Svizzera è un 70enne residente nel ticinese: la scorsa settimana era a Milano. In Austria sono un’italiana, addetta alla reception del Grand Hotel Europa a Innsbruck, e il marito. In Croazia c’è un giovane, con una forma lieve, che sarebbe stato Milano. In Spagna il quinto caso è una 36enne italiana residente a Barcellona che ha viaggiato tra Milano e Bergamo. Altri due nuovi casi anche in Francia: un uomo tornato dalla Lombardia e una donna dalla Cina.