Il “paziente 1” trattato in base alle procedure Ma Codogno non ha le mascherine regolari

“Una gestione di una struttura ospedaliera non del tutto propria rispetto ai protocolli”. Lunedì sera, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte attribuiva colpe chiare all’ospedale di Codogno per la prima diffusione del Covid-19. Peccato però che a quella frase non sia seguita una spiegazione su quali violazioni e quali protocolli. Ieri lo stesso Conte ha fatto marcia indietro. “L’ospedale di Codogno? Non è il momento delle polemiche. Non hanno alcun valore per me. L’assessore alla Sanità della Lombardia ha una relazione in cui si dimostra la piena correttezza dei sanitari dell’ospedale di Codogno”.

Capitolo chiuso? Non del tutto. Un dato è certo: il virus ha avuto un focolaio importante a partire dal pronto soccorso dell’ospedale civico di Codogno. Qui è stato individuato il paziente 1, qui già il primo giorno sono risultati positivi cinque operatori sanitari e tre degenti. Per capire la verità e se ci sia una colpa bisogna mettere insieme circolari e ordinanze emanate dal ministero della Salute e la cronologia dei fatti avvenuti tra il 16 e il 20 febbraio.

Secondo una informativa letta ieri dall’assessore Giulio Gallera in consiglio regionale, il paziente 1 inizia ad avere sintomi influenzali la domenica 16. In quel momento si trova a casa con la moglie incinta. Cosa faccia il 17 resta un buco. Il 18 febbraio da solo si reca al pronto soccorso. Entra alle 20:30 e ne uscirà alle 22:15. Sarà trattato, tra triage e visita, da cinque persone. Secondo le direttive generali, al di là del Covid-19, un paziente che mostri sintomi infettivi trasmissibili attraverso le vie aeree va trattato con le mascherine sia da parte del personale sanitario sia applicata al paziente. Il 38enne secondo queste linee viene preso in carico. Tutti gli operatori indossano mascherine. Non però le FFp2, come indica il ministero, ma quelle chirurgiche, le uniche in quel momento a disposizione dell’ospedale di Codogno. L’uomo viene mandato a casa con una terapia antibiotica per quella che si pensa essere un’influenza. Un pensiero confermato da alcune risposte date dal paziente.

Da protocollo, le domande riguardano viaggi in Cina o contatti con persone rientrate dalla Cina. L’uomo risponde negativamente. Torna a casa. Il giorno dopo, mercoledì 19, rieccolo in ospedale. È in compagnia della moglie. Le sue condizioni sono drammaticamente peggiorate. Da lì a poche ore diventerà il paziente 1. Fermiamoci un attimo. Fino a qui i protocolli sono stati seguiti? Certamente. L’unico buco è l’uso di mascherine improprie. Quelle corrette dovevano essere richieste dalla direzione sanitaria o inviate dal ministero visto che l’allarme per il Covid-19 era partito il 22 gennaio con la prima circolare del governo dove oltre ai sintomi del virus vengono indicate le modalità con cui devono essere trattati i casi sospetti. Si legge che “vanno visitati in un’area separata dagli altri pazienti e ospedalizzati in isolamento in un reparto di malattie infettive. Si raccomanda che il personale sanitario applichi le precauzioni per prevenire la trasmissione per via aerea e per contatto. In particolare, dovrebbe indossare la mascherina. Qualora siano necessarie procedure che possono generare aerosol, la mascherina dovrebbe essere di tipo FFP2”. Che a Codogno non ci sono.

Il 19 febbraio, il paziente è dunque di nuovo in pronto soccorso. Il quadro è gravissimo. Subito viene messa la maschera per l’ossigeno. In quel momento, su sollecitazione di un anestesista, la moglie rivela la cena con un amico rientrato da Shanghai. Solo ora il paziente è un concreto caso sospetto di Covid-19. Sarà intubato. Procedono due anestesisti che adesso risultano contagiati. Indossavano mascherine chirurgiche o le prescritte FFp2? Alle 21 di giovedì 20, il tampone conferma la positività del paziente 1. Nessuna diffusione del virus è stata possibile da dopo che è stato intubato. Il passaggio è però avvenuto. Ma non per una violazione dei protocolli, piuttosto forse per l’uso di mascherine non adatte come già a gennaio aveva indicato il ministero.

Altri 4 morti, 328 contagi “Ma ora basta allarmismo”

Il conto dei morti aumenta, ieri altri quattro decessi lo portano a undici. A Treviso una signora di 75 anni era ricoverata da giorni per patologie cardiachi e solo ieri per asserite complicazioni respiratorie le è stato fatto il test per il nuovo coronavirus, risultato positivo. È deceduta in rianimazione, il risultato è arrivato dopo. Non è il primo caso in cui il virus colpisce persone ricoverate senza che nessuno lo cerchi, con il rischio di infezioni ospedaliere come a Codogno (Lodi), a Schiavonia (Monselice, Padova) e forse a Cremona. Qualcosa non ha funzionato in alcuni ospedali. Gli altri tre decessi di ieri in Lombardia: due uomini di 91 e 84 anni e una donna di 83 anni. Avevano tutti patologie pregresse. “La popolazione è anziana, si spiegano così i tassi di mortalità del 2-3 per cento, dall’influenza cerchiamo di proteggerla con i vaccini; non essendoci il vaccino per il coronavirus, c’è la mortalità”, spiega Giovanni Rezza, direttore del Dipartimento malattie infettive dell’Istituto superiore di sanità.

Salgono anche i contagi, ieri sera erano 328, circa un centinaio in più di lunedì. Sempre concentrati in Lombardia (240 secondo i dati diffusi alle 18), a una certa distanza da Milano dove ce ne sono solo tre: la provincia di Lodi (101 casi) è seguita da Cremona (39) e anche lì molti sarebbero stati contagiati in ospedale: addirittura 50 test positivi tra chirurgia e malattie infettive, secondo fonti non confermate. A Padova la Procura ha aperto un fascicolo sulla morte della prima vittima, il 78enne Adriano Trevisan, che era ricoverato all’ospedale di Schiavonia. La notizia positiva è che non sembrano emergere nuovi focolai. In Sicilia i tre positivi sono lombardi, il primo caso ligure viene da Castiglione d’Adda (Lodi). Secondo Rezza dell’Iss prima che fosse individuato il “caso indice”, vale a dire il 38enne di Codogno, il virus era già in circolazione da “una/due settimane. Quasi tutto – conferma – è riconducibile all’epicentro dell’epidemia, che si trova nel Lodigiano”.

L’Italia resta il Paese più colpito al mondo dopo Cina e Corea del Sud, il primo in Europa e in Occidente. Ci sono cordoni sanitari attorno a dieci Comuni abitati da 50 mila persone, ieri è arrivato anche l’esercito. La psicosi dilaga anche se i numeri superiori a quelli di altri Paesi, secondo il governo, dipendono dalla quantità di controlli, a ieri 8.623 contro poche centinaia in Francia e 6.500 in Gran Bretagna ma con altre modalità. Da alcune fonti trapela che i controlli rallenteranno e saranno concentrati nelle aree a rischio.

Di fronte alla paura gli esperti rassicurano. Così Walter Ricciardi, consigliere esecutivo dell’Organizzazione mondiale della sanità che da ieri il ministro della Salute Roberto Speranza ha voluto al suo fianco: “Dobbiamo ridimensionare questo grande allarme, che è giusto, da non sottovalutare, ma la malattia va posta nei giusti termini: su 100 persone malate, 80 guariscono spontaneamente, 15 hanno problemi seri ma gestibili in ambiente sanitario, solo il 5 per cento muore, peraltro sapete che tutte le persone decedute avevano già delle condizioni gravi di salute”, ribadisce. A quanto pare Ricciardi assumerà un ruolo centrale nella gestione dell’emergenza, anche per il suo legame con l’Oms e il peso internazionale: potrebbe ridimensionare quello fin qui svolto da Giuseppe Ippolito dello Spallanzani di Roma. Peraltro Ricciardi non aveva fatto mancare critiche al governo: “Paghiamo il fatto – aveva detto alla Stampa – di non aver messo in quarantena da subito gli sbarcati dalla Cina. Abbiamo chiuso i voli, una decisione che non ha base scientifica, e questo non ci ha permesso di tracciare gli arrivi, perché a quel punto si è potuto fare scalo e arrivare da altre località”. In realtà il virus potrebbe essere arrivato prima dello stop ai voli (31 gennaio), ma il tema dei controlli su chi rientrava esiste, come ammettono diverse fonti governativi. In altri Paesi le autorità li hanno informati e si sono tenuti in contatto con loro, anche senza metterli in isolamento. Invita alla calma anche Silvio Garattini dell’Istituto Mario Negri: “Il virus – ricorda – non è così aggressivo come si pensava. Nell’80% dei casi ha una sintomatologia limitata. Laviamoci spesso le mani, non stiamo in luoghi affollati. Ma non pensiamo di essere in guerra. Dobbiamo fare una vita normale”. Secondo Andrea Bellelli, professore di Biochimica alla Sapienza di Roma: “In Italia apparentemente siamo nella fase iniziale – scrive su ilfattoquotidiano.it – ma a Wuhan l’epidemia è in fase calante e noi abbiamo un buon quadro della sua dinamica”.

Burloni

Ho sempre sparlato di fior di politici, di imprenditori e di manigoldi, spesso aiutato dal fatto che le tre categorie coincidevano, e non ho mai avuto paura di loro. Nemmeno quando mi facevano (e mi fanno ancora) recapitare dal postino simpatiche buste verdi con citazioni per danni milionari. Confesso invece di nutrire un sacro terrore per il professor Roberto Burioni, anche soltanto a nominarlo. Non tanto perché, con tutto quel che avrebbe da fare, trova sempre il tempo di ritwittare i complimenti che gli fanno i suoi fan. Ma anche di stanare e insultare chiunque, sull’orbe terracqueo, polemizzi con lui, o non gli obbedisca, o non gli riservi gli ossequi dovuti, o semplicemente si permetta di non chiamarsi Roberto Burioni: sia esso ministro, politico, cattedratico, virologo, passante, fragolina83, gattino17, novax68. Quanto perché si è (o l’hanno) convinto che la sua indubbia competenza in materia biologico-virologico-infettivologica gli conferisca il diritto di brutalizzare chiunque osi contraddirlo in base all’assioma “la Scienza non è democratica”. Che potremmo tradurre nel classico “io so’ io e voi nun siete un cazzo”. Ai tempi del decreto Lorenzin, per esempio, scoprimmo all’improvviso che ai bambini andavano iniettati 12 vaccini in una botta sola: e guai se qualcuno osava obiettare che forse erano troppi. “Vade retro, No Vax!”. Poi lo stesso decreto scese a 10: buon peso, saldo di fine stagione. Ma era sempre la Scienza, notoriamente non democratica, a non sentire ragioni: né sui 12 né sui 10. Lo Scienziato Unico invocava (e spesso otteneva) l’immediata espulsione dall’Ordine dei medici e dal consesso civile di chiunque, anche con tanto di cattedre, lauree e master specialistici, osasse timidamente proporne 9, o 6, a riprova del fatto che la Scienza è una cosa seria, ma non una cosa sola: esistono financo scienziati che la pensano diversamente fra loro, anche se l’unico titolato a fregiarsi del titolo è ovviamente Lui. Un giorno, a corto di No Vax da mettere in riga, decise di mitragliare le racchie: “Quando in giro vedo una donna brutta la guardo sempre con attenzione. Nel 99,9% dei casi mi rendo conto che se si curasse, se dimagrisse e via dicendo non diventerebbe bella, ma certo di aspetto non sgradevole. Una volta che si è non sgradevoli la partita è aperta. Fidatevi”. Mancò poco che annunciasse l’undicesimo vaccino obbligatorio contro la racchiaggine, da prevenire fin dall’infanzia. Il suo congenito renzismo gli risparmiò l’accusa di sessismo, che per molto meno i renziani distribuiscono a piene mani per zittire chi osa criticare una loro suffragetta perché fa o dice scemenze.

In realtà la boria un po’ burina di Burioni è un preoccupante indice di insicurezza: chi è sicuro di sé dice ciò che sa e pensa argomentandolo, non imponendolo come Scienza infusa. Soprattutto se polemizza con altri scienziati che, per quanto possa apparirgli bizzarro, sono al suo stesso livello: tipo la virologa dell’ospedale Sacco di Milano, maria Rita Gismondo che, invece di burioneggiare, invita alla calma contro l’isteria dominante facendo notare che non c’è nessuna “pandemia”, ma solo una “follia” collettiva, visto che “la scorsa settimana la mortalità per influenza è stata di 217 decessi al giorno e per Coronavirus 1”. E subito il borioso Burioni la degrada a “signora del Sacco”, ma solo per gentilezza: “signora sostituisce un altro epiteto che mi stava frullando nelle dita”. Che amore. Pare quasi che la Scienza Unica buriona venga sminuita dallo scarso numero di vittime da Coronavirus. E che, se defunge così poca gente, lui viva la cosa come un affronto personale. Ma dovrà farsene una ragione, almeno finché non troverà centinaia di volontari disposti a defungere per consentirgli di ripetere i suoi due refrain: “Avevo ragione io” e “Io l’avevo detto”. Che poi l’avesse detto, è tutto da vedere. Il web, impietoso, conserva un tweet di Che tempo che fa con una sua dichiarazione, al solito stentorea e definitiva, del 2 febbraio 2020: “In Italia il rischio è 0. Il virus non circola. Questo non avviene per caso: avviene perché si stanno prendendo delle precauzioni”. Ora che il virus è circolato eccome malgrado le precauzioni, dovrebbe ammettere che non aveva ragione lui, non l’aveva detto lui e sbaglia anche lui. Per fortuna la Scienza non è lui (senza offesa), altrimenti la Scienza diverrebbe democratica, oppure sarebbe addirittura la Scienza a sbagliare.
Quindi è molto meglio, per il buon nome della Scienza, tenerla ben distinta da Burioni. Onde evitare di coinvolgerla nelle epiche figuracce che va spargendo in giro. Tipo domenica a Che tempo che fa, dove il vero virologo pareva non lui, ma Fazio, costretto a correggere continuamente gli svarioni dello Scienziato. Si parlava del classico infettato dal Coronavirus che non sa di averlo, o perché pensa all’influenza o perché è asintomatico. Un dialogo degno del teatro dell’assurdo, o di Comma 22. Fazio: “Cosa bisogna fare?”. Burioni: “Allora noi cosa dobbiamo fare? Prima di tutto, nel momento in cui ci accorgiamo che questa persona è malata…”. F: “Se ne accorge lui, in realtà…”. B: “Se ne accorge in realtà il medico che gli fa il tampone”. F: “Se va dal medico…”. B: “Deve andare dal medico!”. F: “Eh no, non deve andare dal medico!”. B: “Giusto, dev’essere il medico che va da lui”. Nemmeno Ionesco avrebbe saputo inventare di meglio. Fino a domenica si pensava che Burioni fosse uno scienziato in dissenso – malgrado lo ritenga inconcepibile – con altri scienziati. Ora invece serpeggia un dubbio inquietante, incrementato dal suo tweet di ieri, in piena emergenza virus, di tema pallonaro: “Se mi danno pieni poteri, come prima cosa sciolgo l’As Roma”. Ecco, non sarà che lo Scienziato Unico è solo uno che ci prende per il culo? Non si chiamerà Burloni?

“Fuori i milanesi”, la (folle) rivolta del Sud

Il federalismo regionale per la prevenzione del Coronavirus sta creando il caos: i viaggiatori del Nord si scoprono discriminati al Sud. Ai blocchi decisi in Molise e Puglia è seguita la Basilicata. Paradossale la vicenda di Enrico Di Fiorino, penalista partner dello studio milanese Fornari e Associati. Di Fiorino era partito domenica sera in aereo da Milano a Napoli per poi raggiungere in auto Potenza dove ieri aveva un’udienza, senza sapere che nel frattempo il presidente della Regione Basilicata, Vito Bardi, aveva emesso un’ordinanza restrittiva. Al mattino l’avvocato è stato fermato all’ingresso del tribunale lucano dalle guardie giurate che, indossando mascherine, sventolavano un giornale su cui campeggiava l’ordinanza. In teoria lo stop avrebbe dovuto riguardare come “forma di prevenzione non coercitiva” (qualunque cosa significhi) solo gli universitari lucani che decidessero di tornare dal nord. In pratica però a Di Fiorino è stato impedito di andare in udienza. Il legale non ha potuto fare altro che tornare a Napoli e reimbarcarsi verso Milano. Il processo è stato rinviato a dopo l’estate. Ma la discriminazione territoriale in tribunale vale anche in Valle d’Aosta e Piemonte: se avvocati e imputati vengono da Lombardia e Veneto, l’udienza slitta di “almeno 2 mesi”. In Basilicata per chi arriva dal nord scattano 14 giorni di quarantena anche se dal luogo di partenza non c’è traccia del virus. La scuola dei beni archeologici di Matera ha addirittura annullato l’inaugurazione dell’anno accademico perché era previsto un “alto numero di ospiti provenienti da molte aree d’Italia”.

“La decisione della Basilicata è stata stigmatizzata nell’incontro con il governo e credo che, a seguito di ciò, sia stata revocata. Non c’è ragione alcuna, altrimenti si fermerebbe l’Italia”, ha detto il presidente della Lombardia Attilio Fontana. Ma il governatore delle Marche Luca Ceriscioli ha annunciato senza motivo la chiusura delle scuole ritirandola solo dopo una telefonata del premier Conte. Missione riuscita invece per il sindaco di Sant’Agata dei Goti, in provincia di Benevento, che ha sbarrato le aule fino a domani. Motivo: il rientro di alcuni studenti da una gita a Milano e Verona e la presenza in paese, nei giorni scorsi, di un docente che lavora a Casalpusterlengo. Questo nonostante, conferma il sindaco, l’insegnante “goda di ottima salute, così come i ragazzi che erano in gita a Milano”.

Il presidente del Friuli Venezia Giulia, Massimiliano Fedriga, vuol mettere in quarantena “tutti i migranti irregolari rintracciati”. Al porto di Ischia lo sbarco di turisti è stato accolto da scene di isteria dopo l’ordinanza dei comuni dell’isola per fermare gli arrivi da Lombardia e Veneto poi annullata dal prefetto di Napoli. Ad Acquedolci (Messina) con un avviso il vicesindaco e “assessore alle emergenze” Salvatore Oriti invita i cittadini a segnalargli “eventuali rientri sospetti di persone provenienti da territori a rischio contagio”, garantendo l’anonimato. La psicosi avanza.

“Lo straniero come untore: accusare gli altri è tipico” – ZNG_TPS04_010_chiaro Donec eros lorem

Il professor Andrea Grignolio, storico della Medicina, docente di Medical Humanities e Bioetica all’Università Vita Salute del San Raffaele di Milano e al Cnr, inizia la nostra chiacchierata con una parola di speranza. “Premessa: la situazione che viviamo oggi in Italia è seria ma non grave. La storia della medicina ci insegna che la lotta dell’umanità contro i virus è una storia di successi. Il dato più rilevante è che ogni anno guadagniamo tre mesi di aspettativa di vita”.

A cosa lo dobbiamo?

All’eccellenza del sistema sanitario nazionale, ai farmaci e anche alla nostra longevità. Tra i grandi Paesi siamo quello più longevo insieme al Giappone. È la prova principe che quella della medicina è una storia di successi. L’altra cosa è che se voltiamo lo sguardo indietro troviamo casi, come l’ebola per esempio, in cui in poco più di un anno è stato trovato un vaccino molto efficace. C’è da attendersi che questo accada anche per questo Coronavirus.

C’è stata una caccia all’untore di manzoniana memoria in questi giorni?

In realtà si è tentato di risalire al paziente zero perché la sua individuazione consente agli epidemiologi di ricostruire la catena di contagi. È così che si riesce a circoscrivere il virus. Detto questo l’approccio, negli ultimi vent’anni, è quello del cosiddetto “sistema immunitario-comportamentale”. Che cosa ci dice? Che non solo il nostro sistema immunitario è stato progettato per interagire con virus e batteri, infatti le grandi infezioni che abbiamo affrontato – morbillo, orecchioni, pertosse e via dicendo – sono state molto violente all’inizio e poi si sono attenuate. Con virus e batteri abbiamo una specie di accordo: tendono con il tempo a essere meno aggressivi. Ma anche il nostro cervello si è adattato: la paura delle malattie infettive è frutto di questa lunga storia. Così si spiegano gli atteggiamenti sempre meno democratici o altruistici, a volte perfino xenofobi, delle popolazioni di fronte alle epidemie.

Ce lo spieghi meglio.

È stato fatto un esperimento molto interessante. A due gruppi è stato chiesto di proporre aiuti economici a favore dei flussi migratori. Quando a un gruppo sono state offerte immagini e informazioni di potenziali rischi di epidemie, la volontà di fornire aiuti è drasticamente diminuita. Da un punto di vista evolutivo, e solo da un punto di vista evolutivo, è sensato. Le malattie viaggiano con uomini e merci. Pensiamo al mal francese e alla spagnola, le malattie vengono addossate spesso allo straniero, ma “lo straniero” possiamo essere anche noi, come quando nel 2018 abbiamo trasmesso tre casi di morbillo in Messico, un paese che lo aveva debellato dal 1996.

È vero che la spagnola è nata in Massachusetts?

In Usa, sì, ma si pensa anche al Kansas, altri ritengono provenga dal nord della Francia: difficile stabilirlo con certezza. Accusare gli altri Stati è tipico. Nemmeno il mal francese o morbolo galico (la sifilide) è nato in Francia. La spagnola, siamo nel 1918, fu utilizzata come strumento politico, visto che la Spagna senza censura ha avuto il coraggio di denunciare i primi casi. Ma è successo anche con il Coronavirus. Questo salto di specie è avvenuto tre volte – con la Sars, con la Mesr e oggi con il Covid-19 -ma nel primo caso fu denominato con Guangdong, il nome della provincia cinese in cui si era sviluppato. Poi l’Oms, per evitare conseguenze razziste, decise giustamente di chiamarla Sars. Nella storia della medicina, dicevo, delle malattie infettive vengono spesso accusati gli altri, gli stranieri, additati come untori.

Come ce lo spieghiamo?

In passato attraverso le vie del commercio e delle guerre si sono diffuse le grandi epidemie. Che appunto viaggiano: pensiamo ai topi per quanto riguarda le epidemie di peste. Tutti questi secoli di reciproche infezioni hanno creato questi timori.

Casi illuminanti del passato?

Uno è la conquista spagnola del Messico. Hernán Cortés all’inizio del 1500 entrò in contatto con le popolazioni mesoamericane che furono decimate – per il 98 per cento! – non per le spade ma per le malattie. Ci furono 2 milioni di morti. È difficile individuare le infezioni del passato, ma oggi i paleopatologi tendono a ipotizzare che si trattasse di salmonella enterica, paratifo o una febbre emorragica virale, anziché morbillo o vaiolo. I sudamericani non erano stati in contatto dall’ultima glaciazione con le malattie infettive che avevano gli occidentali, grazie al fatto che da secoli avevano addomesticato gli animali e da loro avevano preso virus che avevano fatto il salto di specie. Per contro, però, i messicani probabilmente trasmisero agli spagnoli la sifilide.

La chitarra di Al fa risuonare i mitici Beatles

“I Beatles sono il motivo per cui suono la chitarra”, racconta Al Di Meola, “mi hanno dato la spinta per iniziare a fare musica, un impatto cruciale sulla mia vita”. Sette anni dopo il suo primo album tributo agli scarafaggi di Liverpool, All Your Life, il poliedrico chitarrista americano di Jersey City ma di origini italiane (Cerreto Sannita, in provincia di Benevento) torna sulle scene con il sequel Across The Universe, in uscita il 13 marzo.

Al momento non sono previste piazze italiane nel suo lungo tour già annunciato, partito da Tokyo il 3 febbraio, con una dozzina di date negli Stati Uniti e in Europa. “Ho scoperto i Beatles all’età di sette anni”, prosegue Al, “è stata mia sorella a farmeli conoscere e mi hanno fatto subito impazzire”.

L’ascolto in anteprima inizia con la prima traccia scritta da George Harrison nel 1969 e contenuta in Abbey Road, arrangiata con estro e virtuosismi e un controtempo azzeccato. Lo scenario cambia con Dear Prudence, una delle tracce più dark di John Lennon (anche se accreditata come Lennon-McCartney), scritta per Prudence Farrow (sorella di Mia) nel tentativo di “destarla” da un periodo di estrema meditazione trascendentale e riportarla alle abitudini quotidiane quali mangiare, bere e dormire. La canzone si apre con un vocalizzo a più strati e s’inerpica in un sentiero di arpeggi malinconici, l’equivalente in jazz della versione apocalittica di Siouxsie & The Banshees.

Al non sceglie solo brani celebri ma cerca di riportare alla luce alcune gemme quali Golden Slumbers o Here There And Everywhere. Una delle chicche rivisitate dall’artista è Till There Was You, originariamente scritta da Meredith Wilson per il musical The music Man e incisa dai Beatles nel 1963.

Tutto l’album – rispetto alle versioni semi-acustiche di All Your Life – ha una dimensione più elaborata e innovativa. Hey Jude ne è l’emblema, dimostrando palesemente il talento dell’eclettico chitarrista, suonando una chitarra accompagnata – in corso d’opera – da una fisarmonica classica per poi sfociare in atmosfere gipsy e frenetiche.

Fa eccezione Yesterday, proposta con una sorta di pudore in forma scarna e conforme alla versione originale. Disappunto per la celebre Strawberry Fields Forever, sei minuti di pura follia e un pizzico di confusione con alcune parti stucchevoli, stranamente scelta quale primo singolo.

L’amore verso John Lennon è manifestato da due indizi: la copertina, con una divertente citazione dell’album solista di John, Rock’n’roll, del 1975 e la scelta di riproporre Julia, l’unico brano della storia dei Beatles realizzato solo da John e pubblicato nell’album bianco. Il brano è dedicato alla madre di Lennon, Julia Stanley, e ha un riferimento al poeta Kahil Gibran; la versione di Al Di Meola è appassionata e commovente.

Un disco riuscito che testimonia uno stato di grazia, già espresso con il penultimo album Opus, grazie a una ritrovata armonia personale: “Per la prima volta ho composto musica in un momento in cui ero felice. Ho un rapporto meraviglioso con mia moglie, una figlia piccola e una famiglia che mi ispira ogni giorno. E credo che questo si rifletta anche sulla mia musica”.

Per chi desidera approfondire, i brani mancanti sono in All Your life: da And I Love Her a Michelle, da Penny Lane a Blackbird. Across The Universe è l’ultimo tassello di una discografia di oltre trenta album da solista e collaborazioni con il gotha dell’ambiente jazz, fusion e pop-rock, con artisti del calibro di Chick Corea, Stanley Clarke, Astor Piazzolla, Paul Simon, Stevie Wonder, Herbie Hancock, Frank Zappa, Jimmy Page, Santana e Luciano Pavarotti. In particolare, con i sodali John McLaughin e Paco De Lucia, Al ha realizzato il celebre live album Friday Night in San Francisco, pubblicato nel 1981 e considerato unanimemente come una pietra miliare nell’arte della chitarra acustica.

La “Siberia” è un brutto sogno (che andrà dimenticato molto presto)

Un viaggio negli inferi del Sé, nelle ferite famigliari, nelle incrostazioni di colpe mai perdonate. Presentato ieri in concorso alla Berlinale, Siberia è soprattutto un luogo metafisico che Abel Ferrara ha deciso di tradurre in una dimensione spazio/tempo estrema, dai ghiacciai color giada del Canada (in realtà Alto Adige) alle dune desertiche, passando per boschi e oscure caverne dove riemergono fantasmi di un passato irrisolto. Non c’è molto altro da “spiegare” attorno al nuovo film dell’autore newyorchese che ci incantava fra cattivi tenenti e vampiri tossici, e che ora è in pianta stabile romana, con l’Italia a co-produrlo (Vivo Film e Rai Cinema) in un collage che vede anche Germania e Messico coinvolti. Davanti all’obiettivo delle sue eterne ossessioni è l’alter ego Willem Dafoe, uno e trino, un Dante impellicciato perso nei tormenti della wilderness dell’anima. Siberia ha il sapore di un raffinato delirio naïf, un “brutto sogno” (Ferrara non ama la parola “incubo”) probabilmente presto nell’oblio anche della Storia del cinema. Potrebbe invece essere ricordata la (futura) carriera nel cinema di finzione della documentarista milanese Chiara Bellosi, classe 1973, che nella sezione Generation ha presentato Palazzo di Giustizia, un piccolo film dalle profonde teorie geometriche che dimostra un’acuta capacità di utilizzare il tempo e il fuori-campo in termini di narrazione audiovisiva. Prodotto da Tempesta con Rai Cinema, racconta dal punto di vista di una bambina l’attesa di un processo dal di fuori dell’aula in cui questo ha luogo.

Raffaello. L’urbinate nell’Urbe: 200 opere in mostra

Si è parlato di cifre da record per una mostra italiana, ieri mattina a Roma, alla conferenza stampa nelle sale del Mibact per procedere al conto alla rovescia per Raffaello 1520-1483, l’esposizione alle Scuderie del Quirinale che verrà inaugurata il 5 marzo e concluderà le celebrazioni per i cinquecento anni dalla morte del maestro di Urbino.

Oltre 70 mila i biglietti già prenotati o venduti con richieste da tutto il mondo, a ben sentire Mario De Simoni (presidente e ad di Ales-Scuderie del Quirinale), che prosegue fiero: “Si tratta forse della più grande mostra mai organizzata su Raffaello, certamente una delle più impegnative” e con “un progetto scientifico serratissimo, che trova la sua celebrazione in Roma, la città che consacra Raffaello”. Gli fa eco il direttore degli Uffizi Eike Schmidt: “Abbiamo deciso di mandare a Roma molte più opere del solito, dalla sua morte infatti non sono mai tornate così tante opere nell’Urbe”.

Le gallerie fiorentine, per l’occasione, presteranno oltre 50 opere tra cui la celebre Velata e la Madonna del Granduca, per un percorso espositivo che ne comprenderà più di 200, di cui oltre la metà saranno di Raffaello – messo a dialogo con altri grandi maestri a lui vicini – tra dipinti e disegni, per una raccolta di creazioni dell’urbinate mai viste al mondo in così gran numero tutte insieme. Il tutto, assicurato per un valore complessivo di 4 miliardi di euro: anch’esso record.

La mostra trova il suo innesco nel fondamentale periodo romano di Raffaello, che lo consacrò quale artista di grandezza ineguagliabile: come suggerisce anche il titolo che inverte le date di morte e nascita, è infatti un percorso à rebours, che si sviluppa cioè a ritroso dalla morte di Raffaello e dalla sua tomba monumentale proprio a Roma, qui ricreata per l’occasione espositiva. Altri capolavori presenti saranno la Santa Cecilia dalla Pinacoteca di Bologna, la Madonna Alba dalla National Gallery di Washington, il Ritratto di Baldassarre Castiglione e l’Autoritratto con amico dal Louvre, la Madonna della Rosa dal Prado.

Ma già al primo colpetto di tosse (o forse era solo uno schiarimento di voce), nessuno ha fatto finta di niente ed è bastata una domanda – oggi che in Lombardia i musei sono chiusi, come chiuso è il Duomo, sono sospese le lezioni all’università, negli studi televisivi dei programmi in diretta non c’è pubblico; e che il Veneto è isolato: soltanto questa settimana, rimanendo in tema di arte, l’apertura di ben due mostre è stata rimandata, e cioè La Quercia di Dante. Visioni dell’Inferno a Rovigo a Palazzo Roncalle e Jacques-Henri Lartigue. L’invenzione della felicità ai Tre Oci di Venezia – per spostare l’attenzione sul Coronavirus le cui conseguenze tangono anche il mondo dell’arte, dopo aver impoverito di buyer cinesi le sfilate milanesi della settimana scorsa.

Flettendo di poco il tono di festa per l’ambizioso progetto realizzato dopo tre anni di progettazione, De Simoni dichiara che al momento “il programma e l’apertura della mostra è confermato, ma siamo consapevoli che c’è il rischio di un rinvio”. Cosa fare in quel caso? “Una difficile ricanlendarizzazione della mostra perché i prestiti provengono da tutto mondo. Ma le ordinanze del ministero della Salute si impongono su tutto e tutti”. Tuttavia, un dato fa ben sperare De Simoni e noi con lui: “Non si registrano cali dei visitatori, tutt’altro. Soltanto ieri sono state registrate ben duemila prenotazioni”. Intanto, con una nota ufficiale, il Mibact annulla per il 1° marzo la tradizionale domenica dei musei gratis in tutta Italia: non solo al Nord, ma anche Sud e Centro.

La lunga marcia per resistere alle sanzioni Usa

Al di là delle montagne c’è l’Iraq. Da lì arrivano. Sono stanchi e infreddoliti, ma con il sorriso sul volto perché ce l’hanno fatta ad arrivare. Hanno fame, c’è chi mangia pane, burro e formaggio di capra e chi fa la fila davanti a un furgoncino azzurro dove servono generose porzioni di ash-e reshteh, la zuppa persiana a base di legumi, spaghetti e menta essiccata.

Il tè bollente scorre a ettolitri e, senza più carichi addosso, finalmente le spalle possono riposare. Il contrabbando è sempre esistito nella valle di Howraman, nel Kurdistan iraniano. Coltivare le noci non basta. Ma oggi, con le sanzioni imposte dagli Usa, procurarsi certi prodotti è sempre più difficile e così migliaia di persone si mettono al servizio dei contrabbandieri locali e attraversano le vette del Kùh-e Takht per raggiungere l’Iraq.

Da queste parti li chiamano kulebar, in farsi significa “ciò che si porta sulle spalle”. Sono tutti curdi-iraniani, per lo più trentenni, anche se non mancano ragazzi più giovani e persino settantenni ostinati. La loro giornata lavorativa dura dalle 6 alle 10 ore, dipende dal clima in quota, una tormenta di neve fa perdere tempo e, ai più sfortunati, la vita. In Iraq si mettono in spalla carichi pesanti prima di far ritorno in Persia.

Contrabbandano vestiti, sigarette, medicinali e soprattutto elettrodomestici. C’è chi riesce ad attraversare il confine con quattro televisori al plasma sulle spalle. Le sanzioni hanno reso questi prodotti carissimi. Un cellulare in Iran costa più che in Italia e il Riyal iraniano non ha certo il potere d’acquisto dell’euro. Un tempo il contrabbando veniva duramente represso dall’esercito iraniano. Oggi i pasdaran si girano dall’altra parte. Decine di soldati lungo la strada che collega Sanandaj alla valle di Howraman sono a poche centinaia di metri dalla fila degli sherpa mediorientali e non dicono nulla.

 

Il peso del blocco economico

Le sanzioni non servono a nulla. Per lo meno non a rovesciare governi ostili, più o meno democratici. Indeboliscono invece i più poveri e rafforzano divisioni ed estremismi. In un mondo sempre più globalizzato, sono dichiarazioni di guerra latenti, oltre che tentativi di colpi di Stato moderni dagli esiti grotteschi.

Cuba resiste al bloqueo da cinquantotto anni. Putin è strategicamente più forte che mai. Maduro, in Venezuela, nasconde i propri errori dietro sanzioni inumane che colpiscono la popolazione. E Assad, nonostante la crisi economica creata da una guerra civile sviluppata in laboratorio e dal solito embargo “a fin di bene”, continua a essere un interlocutore necessario per la stabilità siriana.

Nel 1996 la giornalista Lesley Stahl domandò all’allora ambasciatrice americana all’Onu, Madeleine Albright, se valesse la pena causare la morte di mezzo milione di bambini per via delle sanzioni imposte allo scopo di rovesciare Saddam Hussein. La Albright, che forse proprio per queste posizioni venne promossa segretario di Stato da Bill Clinton, rispose che si trattava di una scelta difficile, ma che sì, ne valeva la pena.

Per destituire Saddam Hussein, però, fu necessaria la seconda guerra del Golfo, un intervento illegale, costruito su prove fasulle. Quante persone – donne, vecchi e bambini – sono state uccise dalla pavidità dell’informazione mainstream?

La Rivoluzione islamica ha appena compiuto 41 anni e da 41 anni l’Iran è sotto sanzioni. Ai tempi dello Scià, la Persia era un grande amico dell’Occidente. Eppure la guardia imperiale e la Savak, i servizi segreti persiani addestrati dal Mossad, compivano atrocità inaudite verso la popolazione. Ma allora nessuno toccava gli interessi delle imprese transnazionali e l’Occidente, al corrente delle violazioni dei diritti umani, sceglieva di guardare altrove. Prima che l’ayatollah Khomeini prendesse il potere, l’establishment iraniano faceva grandi affari con il Primo mondo. Lo Scià acquistava armi e investiva in Europa. L’Iran dava lavoro a migliaia di tecnici americani. Nei quartieri alti di Teheran si pasteggiava a champagne. Fuori dai palazzi, milioni di mostazafin, i diseredati, facevano la fame nelle baraccopoli a sud di Teheran. Ma anche questo non turbava il sonno occidentale.

Il presidente Usa Jimmy Carter passò il Capodanno del ’79 a Teheran insieme allo Scià, Mohammad Reza Pahlavi. In quell’occasione ebbe la malaugurata idea di dire che “l’Iran, grazie alla leadership dello Scià, è un’isola di stabilità in un’area del mondo tra le più irrequiete”.

Poche settimane dopo, lo Scià fu costretto alla fuga, schiacciato da una delle rivoluzione popolari più partecipate del XX secolo. Poi la rivoluzione, come capita spesso, mangiò i suoi figli e la violenza dilagò. Ciononostante, se Khomeini si fosse dimostrato un fervido liberista nessun Paese occidentale avrebbe mai imposto sanzioni. Se il governo islamico avesse continuato a strizzare l’occhio alle compagnie petrolifere straniere, se non avesse nazionalizzato gli impianti di estrazione, le raffinerie e il settore creditizio, nessuno a Washington si sarebbe scandalizzato per gli arresti arbitrari e le purghe dei primi anni della Rivoluzione islamica.

 

Fuori dal sistema liberista

L’Iran ha avuto il torto di non adeguarsi al sistema liberista e, per un Paese che detiene la quarta riserva mondiale di petrolio e, probabilmente, la prima di gas, ciò non è concesso.

Eppure, nel 2016, è stato raggiunto lo storico accordo sull’uranio arricchito. L’economia iraniana ha iniziato a crescere, l’Alitalia ha intensificato i voli per Teheran. Decine di imprenditori europei hanno iniziato a investire nel Paese. Persino l’ex presidente del Consiglio italiano, Matteo Renzi, venne in visita ufficiale in Iran portandosi dietro i manager delle aziende di Stato per firmare una serie di accordi. Il resto è storia recente.

L’8 maggio 2018 Donald Trump ha annunciato l’uscita unilaterale dall’accordo sul nucleare (sebbene l’Iran non avesse violato alcun punto del negoziato) e ha imposto nuove sanzioni al Paese obbligando, di fatto, l’Europa ad accettare le condizioni degli Stati Uniti.

L’accordo sul nucleare era stato un bel colpo per l’economia dell’Italia, diventata nel 2018 il primo partner commerciale europeo dell’Iran, mentre l’Eni comprava a prezzi competitivi il petrolio persiano. Le nostre imprese di abbigliamento, cosmetica, arredamento e agroalimentari erano pronte ad aggredire un mercato in piena espansione.

Ma nei primi mesi del 2019 l’interscambio Italia-Iran è crollato del 54%. Trump ha sentenziato e l’Europa ha ubbidito. “L’Iran è una minaccia!”, è stata l’accusa. Ma allora avrebbe dovuto esserlo anche prima, quando Renzi visitò il Paese. “Vengono violati i diritti umani e la donna non è libera”? Ma allora perché facciamo affari con i sauditi? Teheran pare Stoccolma, rispetto a Ryad. Se è vero che l’Iran rifornisce di armi gli huthi in Yemen, non è altrettanto vero che l’Occidente vende armi all’Arabia Saudita che in Yemen ha fatto strage di civili? Il fatto è che i sauditi sono alleati, l’Iran no. I sauditi non sostengono la causa palestinese. L’Iran sì.

Nel 1986, Ronald Reagan affermò che “senza la collaborazione dell’Iran non può esserci una pace durevole in Medio Oriente”. Aveva ragione e ancora oggi vale la stessa cosa.

Ma il Deep State americano davvero vuole la pace in Medio Oriente? L’Arabia Saudita occupa la terza posizione mondiale per spese militari. Dal 2009 a oggi ha aumentato del 30% gli acquisti di armi. Ryad fa spesa soprattutto negli Usa e in Israele. La stabilità mediorientale sarebbe un pericolo per questo business.

Tuttavia il tentativo di isolare e indebolire l’Iran ha un altro obiettivo strategico per gli Usa: sanzionare la nuora affinché la suocera intenda. La suocera è la Cina. L’Iran è uno snodo decisivo per il progetto della Nuova Via della Seta. Ed è un progetto che gli Stati Uniti cercheranno di contrastare in ogni modo se vorranno vincere la guerra del XXI secolo: quella dell’intelligenza artificiale.

 

Il vero obiettivo è Pechino

Di fronte a questo scenario, l’Europa si comporta da mediocre spettatrice, tra l’altro pagante, quando dovrebbe e potrebbe rappresentare un blocco geopolitico imbattibile, se solo esistesse davvero e non solo nelle teorie strampalate di chi grida “più Europa” difendendo soltanto un club di finanzieri. Sono costoro i veri sicari del sogno europeo, altro che Nigel Farage.

Veli, chador, legge islamica, contrasto del dissenso, manifestazioni anti-governative non consentite. In Occidente, se si parla di Iran, si parla solo di questo. Cose vere, ma che non devono nascondere le motivazioni reali dietro il tentativo di emarginare la Persia.

Anche l’Iran, a parte tutte le critiche fondate, è vittima di fake news. Viene descritto come un Paese sull’orlo della guerra civile, con la fila di persone ai supermercati o alle pompe di benzina. Non è vero nulla. L’Iran ha mille problemi e mille contraddizioni, milioni di persone pretendono condizioni di vita migliori, ma in pochi sognano un collasso del sistema.

Nessuno guarda gli americani come liberatori. Gli iraniani sanno perfettamente come vivono gli afghani e gli iracheni dopo le guerre combattute in nome della democrazia. Gli afghani li conoscono bene. Ne hanno accolti negli ultimi decenni più di due milioni, che adesso a Teheran fanno lavori umili. Puliscono le scale dei palazzi borghesi, lavorano nei parcheggi, fanno i muratori. I più sfortunati raccolgono cartone e ferro dai cassonetti.

Gli iraniani conoscono bene anche gli iracheni. E non solo perché si sono sparati addosso negli anni 80. Gli iracheni vanno a curarsi negli ospedali iraniani di Ahvaz e Qom, strutture sanitarie all’avanguardia rispetto a quelle a cui sono abituati in Iraq.

L’Iran va raccontato per intero, non solo quello che fa comodo all’informazione mainstream. Invece si preferisce far credere che ci vivano milioni di terroristi o che sia un far west e non una terra da cui zampillano anche cultura e accoglienza. Senza una narrazione così pavida e parziale, nessuno tollererebbe più le sanzioni. Quelle sanzioni che rendono i popoli più vulnerabili e rafforzano il governo islamico, l’ipocrisia occidentale e i polpacci dei kulebar, gente dura che vorrebbe solo vivere in pace.

(1 – continua)

“Assange pericolo per sé e per le sue fonti”

È solo l’inizio di una vicenda ancora lontana dal concludersi, ma il primo giorno del processo di estradizione negli Stati Uniti per Julian Assange, ieri, ha dato una idea chiara di posta in gioco, linea dell’accusa e della difesa e ruolo dell’opinione pubblica. Udienza a Woolwich Crown Court, Londra, tribunale vicino alla prigione di Belmarsh dove Assange è rinchiuso da aprile, prima in un isolamento che aveva peggiorato molto le sue condizioni e, solo da qualche settimana, in un regime meno severo. Fuori, un centinaio di sostenitori molto rumorosi, tanto che il magistrato Valerie Baraitser è intervenuta, infastidita, per chiedere moderazione. Lo stesso Assange, presente in aula con la sua famiglia, ha dichiarato: “Non riesco a concentrarmi. Tutto questo rumore non aiuta, anche se ne capisco il motivo e sono molto grato del supporto pubblico. Devono essere disgustati…”.

“Disgustati” dalle accuse del governo statunitense che cerca di inquadrare Assange come colpevole di furto di dati e spionaggio: avrebbe “cospirato con Chelsea Manning per violare i computer del ministero della Difesa”, ottenendo così le informazioni militari e diplomatiche classificate pubblicate nel 2010. “L’estradizione è richiesta perché la pubblicazione dei loro nomi ha messo informatori, dissidenti e attivisti dei diritti umani a rischio di tortura, abuso o morte”, ha dichiarato in aula James Lewis, avvocato del governo statunitense.

Accuse respinte dalla difesa con tre argomentazioni principali. La prima: ai tempi delle rivelazioni Assange era il direttore di una pubblicazione giornalistica. Rivelare al mondo una serie di abusi e crimini di guerra perpetrati dal governo Usa all’insaputa del grande pubblico rientra nella libertà di stampa. Avrebbe quindi agito nell’interesse generale e il suo caso ricadrebbe nell’articolo 10 della Dichiarazione europea dei Diritti dell’uomo che impedisce l’estradizione per attività giornalistica. La seconda: la sua estradizione sarebbe una intimidazione verso tutti i giornalisti del mondo. È una preoccupazione condivisa: per la liberazione di Assange si sono schierati il New York Times e il Guardian, mentre un appello online ha raccolto le firme di 1300 giornalisti investigativi in 98 nazioni. La terza: le accuse e la detenzione di Assange sarebbero politicamente motivate. Lo ha sostenuto ieri l’avvocato della difesa Edward Fitzgerald: “Non stiamo parlando di giustizia penale, ma di manipolazione di un intero sistema per garantire che gli Stati Uniti facciano di Assange un esempio per tutti”.

È un punto su cui la difesa ha il supporto, fra gli altri, di Nils Melzer, relatore speciale sulla Tortura delle Nazioni Unite. Ha ammesso di essere stato scettico sul caso Assange, ma di aver cambiato idea una volta esaminate le carte: “Di qualunque cosa si accusi Assange, ha diritto a un processo equo. Ma questo diritto gli è stato sistematicamente negato, tanto in Svezia, quanto negli Stati Uniti, in Inghilterra e in Ecuador. È evidente che qui abbiamo a che fare con una persecuzione politica”. Intanto un altro degli avvocati di Wikileaks ha depositato una richiesta di asilo politico in Francia rivolgendosi direttamente al presidente Emmanuel Macron, proprio nel giorno in cui emissari dei Gilet gialli sono arrivati a Londra in sostegno di Assange. Nel 2017, Wikileaks pubblicò i #macronleaks, oltre 20 mila email compromettenti relative alla sua campagna presidenziale. Cosa farà le Président?