Andrea Orlando,oggi vicesegretario dem, ha espresso tutta la sua costernazione per la mancata alleanza tra Pd e M5S alle suppletive di Roma di domenica prossima. Si tratta del collegio 1 per la Camera dei deputati (il primo d’Italia) lasciato libero da Paolo Gentiloni per la commissione Ue. Il candidato dem è l’attuale ministro dell’Economia Roberto Gualtieri, a sua volta arrivato al governo dal Parlamento europeo. Insomma, Zingaretti ha sentito l’obbligo morale di restituirgli un seggio. Non si sa mai. Tutto bello, tutto giusto. Non solo. Il segretario del Pd ha fatto recapitare agli elettori del collegio Roma 1 finanche una lettera per supportare la candidatura di “Roberto” la persona “giusta” da votare. A fronte però del rammarico orlandiano, Zingaretti nel suo manoscritto mena pesante sulla giunta di Virginia Raggi: “Roberto Gualtieri ama questi rioni, questi quartieri e questa città, perché sono parte della sua vita e dei suoi affetti. Ne conosce la grandezza e vive con sofferenza – come tutti noi romani – la profonda situazione di difficoltà che attraversa la Capitale”. Ricapitolando: i 5S dovevano allearsi col Pd (Orlando) e allo stesso tempo sostenere Gualtieri contro la Raggi (Zingaretti). È il principio di contraddizione, che rovescia Parmenide. Oppure più prosaicamente, una richiesta esplicita di tafazzismo puro.
Ruotolo, una vittoria per pochi: fallisce il test per le Regionali
Non può non partire dai numeri l’analisi della vittoria del giornalista d’inchiesta Sandro Ruotolo e del suo campo largo di centrosinistra – dal Pd a DemA a LeU fino a Italia Viva, ma senza Cinque Stelle – alle suppletive del collegio Napoli 7 del Senato. Numeri bassi, che non danno al test un valore probante per le elezioni regionali.
Ruotolo è stato eletto con 16.243 voti sfiorando il 50%. Nel 2018 il compianto professore di Geologia Franco Ortolani vinse con il simbolo del M5s ottenendo 108.189 preferenze e il 52%. L’altro ieri l’affluenza si è fermata al 9,52%. Un dato che fa sembrare il 15,56% delle suppletive 2019 della Camera a Cagliari una folla ai seggi. “Di solito le suppletive non scaldano i cuori e poi il collegio senatoriale era così ampio, 500mila persone circa, che nei fatti rende impossibile il riconoscimento degli elettori del candidato” è l’opinione di uno dei comunicatori politici che condusse il Pd di Renzi verso l’irripetibile 42% delle Europee 2014, l’ex consigliere comunale di Napoli Francesco Nicodemo. Lo stesso Ruotolo, che ha festeggiato cantando Bella Ciao, ha dato una sua ulteriore spiegazione: “Sull’astensionismo ha inciso la domenica di Carnevale e la paura Coronavirus”.
Lette le cifre, qual è il valore di un successo ottenuto col 48,45% in un collegio che raggruppa mezza Napoli, i suoi quartieri borghesi e quelli problematici, ma nel quale ha votato meno di un elettore su dieci? E può essere usato per fare riflessioni sulle scelte per le Regionali di maggio, dove a parole il Pd vorrebbe replicare il campo largo e farci entrare anche il M5S, ma nei fatti ha offerto al tavolo il bis di Vincenzo De Luca, un nome che chiuderebbe sul nascere il dialogo?
Ruotolo invita a ricordare che qui la sinistra “partiva dal 20%” e dunque “il risultato è straordinario, uniti si vince contro la destra”, ma rinvia ad una conferenza stampa di stamane alla Domus Ars per un’analisi più approfondita. Il sindaco di Napoli Luigi de Magistris va oltre: dice che “Ruotolo ha unito e non diviso, ha tenuto insieme forze politiche, cittadini e associazioni” e mette il cappello sull’individuazione della candidatura: “L’ho voluto fortemente sin dall’inizio, sono contento di aver visto giusto sia sulla persona sia sul metodo”. E interpreta il 22% del candidato dei Cinque Stelle, il dimaiano Luigi Napolitano, “come una tenuta importante, che lascia intendere che il percorso verso una coalizione civica regionale è quello che vogliono in tanti”.
Napolitano ha racimolato 7.533 voti. Centomila in meno di Ortolani. Definire “tenuta” questo risultato è generoso. Il pentastellato infatti non sembra contentissimo: “Hanno vinto l’astensione e la disinformazione. Inutile nascondersi: il continuo mutamento del M5S in questi giorni, le Regionali, gli equilibri, le assenze, non hanno aiutato il mio percorso”.
Il percorso del dialogo Pd-M5s è invece appeso al filo sottile di trattative che ripartono oggi. Uno che ci crede è il segretario dem di Napoli Marco Sarracino, colui che ha portato il nome di Ruotolo dal vicesegretario nazionale Andrea Orlando ottenendone l’ok. Sarracino azzarda: “Il dato delle suppletive ci dice che la coalizione di centrosinistra allargata al M5S otterrebbe il 70%”. Ma ora in Campania c’è il nodo De Luca, al quale i grillini hanno risposto lanciando il ministro Sergio Costa. Sarracino fa tre domande al M5S: “Sono pronti a impegnarsi nella lotta alle diseguaglianze, sul green deal e sul piano Sud del governo?”.
“Sì, l’Agcom ha fatto come il Minculpop: un atto pericoloso”
“La sentenza di Agcom è un intervento a gamba tesa sulla linea editoriale di programmi Rai che non le compete assolutamente. Non è sbagliato usare il termine Minculpop, come avete fatto voi. Oltretutto è un atto pericoloso perché emanato da un organismo di diretta nomina politica”. Roberto Zaccaria, docente di Diritto costituzionale e dell’informazione, nella sua carriera ha incrociato anche la politica (è stato deputato del centrosinistra), ma soprattutto è stato presidente della Rai dal 1998 al 2002, nonché membro del suo consiglio di amministrazione dal 1977 al 1993. Il suo giudizio sulla multa di 1,5 milioni comminata da Agcom (l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni) alla Rai e sulle relative motivazioni è assai duro.
Zaccaria, lei ha parlato di pericoloso precedente. Perché?
Non si era mai vista l’Autorità entrare così in dettaglio sulle scelte editoriali dei programmi. Essa ha il compito di vigilare sull’applicazione del contratto di servizio da parte della tv pubblica, ma deve guardare al quadro generale, al sistema nel suo complesso, restando il più possibile su dati oggettivi. Non è un caso che di solito Agcom intervenga su questioni che riguardano il pluralismo o, quando è in vigore, la par condicio. Ma non è suo compito sindacare con giudizi discrezionali e non oggettivi nel contenuto editoriale delle trasmissioni.
Leggendo le motivazioni della multa, cosa l’ha colpita di più?
Per esempio, sindacare sulla rappresentanza femminile a Sanremo. Ma stiamo scherzando? Oppure i rilievi mossi a Gad Lerner sulla mancanza di contraddittorio nella sua trasmissione. O quelli a Bianca Berlinguer per una frase pronunciata da Mauro Corona da cui la conduttrice ha preso subito le distanze. Faccio un esempio: è giusto che Agcom faccia dei rilievi se, minutaggio alla mano, ritiene che nel Tg2 di Gennaro Sangiuliano non venga rispettato il pluralismo delle posizioni politiche. Molto più discutibile è se entra nel merito di un singolo servizio giornalistico per dire che quel “pezzo” non va bene. Ma chi l’ha detto? Perché?
In Rai la valutazione nel merito dei contenuti di programmi e tg a chi spetta?
Al Cda, che può avanzare contestazioni a singoli programmi, conduttori, direttori di rete e di testata. All’esterno poi, per quanto riguarda la politica, c’è la commissione di vigilanza Rai. Infine, se la questione diventa di deontologia professionale, c’è pure l’ordine dei giornalisti. Leggendo la sentenza di Agcom, invece, si ha la sensazione di un gran fritto misto, dove si è voluto mettere insieme cose che insieme non dovevano stare.
Il giudizio è stato espresso a maggioranza, 3 a 2, coi voti contrari di due commissari, Morcellini e Posteraro.
Mai avevo visto una sentenza così importante espressa senza unanimità.
L’Autorità è in scadenza di mandato, secondo lei c’è qualche motivazione politica in questo voto?
Non saprei, sono tutti in scadenza, tranne Morcellini. Non posso fare processi alle intenzioni. Forse qualcuno ha voluto dare una lezioncina alla Rai, mandare un segnale. Chissà…
Secondo lei, con questa vicenda, Agcom rischia di perdere credibilità?
Non so, ma più in generale dico che questi organismi terzi di controllo, che hanno il compito di vigilare, non dovrebbero essere di diretta nomina politica, come invece è Agcom, dove due commissari sono eletti dalla Camera e due dal Senato, pura espressione dei partiti. Altrimenti il concetto di terzietà e indipendenza viene meno.
In che stato di salute è in questo momento la Rai? Il pluralismo viene rispettato?
La Rai attraversa un momento delicato a mio avviso soprattutto perché la riforma del 2015, se da una parte dà più poteri all’amministratore delegato, rende l’azienda succuba del governo e della politica. Invece di mettere una distanza maggiore tra la tv pubblica e i partiti, si è andati nella direzione opposta. Detto questo, al di là di qualche episodio, come ad esempio il mini-comizio che Bruno Vespa ha concesso a Salvini durante una seguitissima partita di calcio (di cui Agcom non parla, ndr), il pluralismo più o meno mi pare che ci sia. Anche perché fare tv col bilancino esatto è impossibile.
Le teorie del complotto: il virus delle bufale
È un’arma biologica per lo sterminio della popolazione mondiale. No: solo di alcune etnie. No: solo di alcuni malati con particolari sindromi, dice Mosca. È stata creata nei laboratori Usa per far ammalare i russi, nelle stanze asettiche russe per far ammalare gli ucraini, dice Kiev.
È un piano della Cia, del Kgb, del Mossad. Come tutto nell’era della propaganda, il Covid-19 è disegnato a forma di bufala. È l’emergenza medica al tempo dei troll. Virali come la malattia le loro fake news.
Per gli americani è colpa di Mosca. “Attori maligni russi di nuovo mettono a rischio e minano la sicurezza americana”, ha detto ieri Philip Reeker, assistente segretario per Europa ed Eurasia. Migliaia di account si sono coordinati per un’operazione di disinformazione sul virus, tuonano le autorità americane, per cui la campagna attuata ricorda quella alimentata dal Kgb negli Anni 80, quando i servizi segreti russi hanno convinto molti che l’Hiv era stato creato dagli scienziati a stelle e strisce. Adesso troll poliglotti ripetono in inglese, francese, italiano, tedesco a reti unificate sui social che il Corona virus sarebbe “un’arma biologica della Cia” per “vincere la guerra economica contro la Cina”.
Flagellare reputazione ed economia del Dragone: non lo pensano solo a Mosca. “Non è una coincidenza” che non ci siano morti di Covid-19 da Haifa a Telaviv fino a New York e Washington, perché la malattia è stata “deliberatamente creata per trarre vantaggio dalla vendita di vaccini” da israeliani e americani. Il virus è “parte di una guerra economica e psicologica degli Usa contro la Cina, per indebolirla presentandola come Paese malato”. Lo riporta il Memri, Istituto ricerca media Medio Oriente, citando il quotidiano saudita Al Watan dove Saud Al Shehry ha scritto che “il virus prodigio è stato scoperto in Cina, domani potrebbe accadere in Egitto” e che “il corona è un’infezione nota, scoperta nel 1960, è strano sentire l’Organizzazione mondiale della Salute dire che è stata trovata la prima volta in Arabia Saudita in un cammello”. Non troviamo però tracce di questa dichiarazione dell’ente.
Ucraina a ferro e fuoco. Molotov, barricate, scontri con la polizia quando l’autobus con i contagiati attraversava la città di Kharkiv. Peccato che non c’erano infetti, ma solo una mail falsa del ministero della Salute ucraino diventata virale sui social slavi. Ora se ne sta occupando l’Sbu, servizi segreti del Paese. Il Covid-19 non è solo sotto il microscopio dei medici, ma ora anche nei binocoli dei militari che puntano agli hacker di Mosca.
Per decine di migliaia di persone in Kenya, Ghana, Indonesia, India, America le autorità di Pechino hanno ottenuto il permesso dalla Corte Suprema per liquidare 20mila infetti: una notizia originata da un sito in lingua inglese che ha anche articoli su ristoranti per cannibali.
Dopo averla letta, alcuni utenti hanno postato foto satellitari del cielo cinese della regione focolaio, un’immagine dove appariva un alone verde, “sfumatura tipica del diossido”, prova inequivocabile che la Cina “sta bruciando migliaia di cadaveri”.
Alcuni giornalisti hanno cominciato ad inseguire la bufala, contattando perfino la Nasa, da cui si supponeva provenisse l’immagine, che poi si è rivelata falsa come l’informazione originaria.
Ma la bufala che esiste per correre più veloce della verità era arrivata già nei titoli della stampa brasiliana e polacca. La stessa foto è ancora in apertura sul sito polacco Demagog, ma con il nuovo titolo: “No, questa non è la prova del crematorio a Wuhan”.
“Mio figlio morto senza giustizia: zero colpevoli, è tutto prescritto”
Maria Rosaria Annibale ricorda ogni istante di quel giorno di 15 anni fa.
Il migliore amico di Angelo che bussa alla porta di casa sua per dirle che quel figlio di 34 anni sempre in giro per l’Italia “non c’era più”. Poi, la telefonata dei carabinieri. Angelo Giafaglione, palermitano e sommozzatore professionista, è morto il 3 agosto 2005 mentre stava facendo solo il suo lavoro: per la ditta Palumbarus stava ricostruendo i “maniglioni delle cozze” a largo di Cattolica (Rimini) ma nelle sue bombole non c’era ossigeno, ma monossido di carbonio. Una attrezzatura difettosa e una negligenza che al processo di primo grado, siamo nel 2010, i giudici del Tribunale di Rimini ha portato i giudici a condannare a due anni il collega Michele Marchese e a tre anni il titolare dell’azienda Altomare Srl, Alberto Gasparin, per omicidio colposo. In appello, nonostante “l’accertata responsabilità” degli imputati, i giudici hanno dovuto chiudere il caso per prescrizione.
Cosa faceva suo figlio lontano da Palermo?
Angelo lavorava occasionalmente per una ditta palermitana, la Palumbarus, e doveva immergersi spesso per rifare i maniglioni delle cozze. In quelle zone c’è la cosiddetta ‘mafia delle cozze’ e lui, per preservare l’ambiente, doveva immergersi a dodici metri per ricreare quegli ‘scogli’ ai quali si aggrappano le cozze per proliferare. Poi era lì anche per un altro motivo…
Quale?
Mio marito era stato colpito da ictus a Viterbo, ma siccome io non potevo lasciare il lavoro qui a Palermo, Angelo decise di andare a lavorare a Rimini perché così sarebbe stato più vicino al padre.
Cosa ricorda di quel giorno?
Ci eravamo sentiti per telefono la sera prima. Mi aveva detto: ‘Mamma finisco presto e poi scendo a Palermo’. Il giorno dopo, è venuto un amico di Angelo a bussare alla porta di casa per dirmi tutto: lo aveva sentito al Tg, ma io non guardo mai la televisione. I carabinieri mi hanno telefonato più tardi: a quel punto mi è caduto il mondo addosso.
La Procura di Rimini indaga per omicidio colposo.
Dall’autopsia emerge che Angelo era sano come un pesce e, secondo l’esame tossicologico, l’emoglobina aveva il monossido di carbonio al 78%. Nelle bombole al posto dell’ossigeno c’era quello. Non solo: la guardia costiera di Cattolica non ha sequestrato subito la barca ma solo l’indomani e quando è stato fatto, abbiamo le foto, non era una barca dove c’era stata una tragedia. Era tutta ordinata e pulita e la quantità di cozze sopra quella barca non era giustificata perché loro dovevano legare i maniglioni. Il collega era andato a pescare le cozze, mentre mio figlio lavorava: lui ha provato a risalire quando ha capito che stava annegando, ma nessuno era lì per aiutarlo. Questo lo abbiamo saputo solo dopo, quando è emerso che Angelo aveva un computer da polso che registrava tutti i suoi movimenti. Qualcuno di loro al processo ha anche detto che Angelo si era riempito le bombole da solo e invece non era vero.
In primo grado i giudici condannano gli imputati. Poi?
Dopo cinque anni, nel 2010, abbiamo avuto la sentenza di primo grado: tutti colpevoli. Questi due però hanno fatto ricorso in appello ma mi ero accorta subito che a Bologna non c’era più la stessa atmosfera: era tutto molto più ‘freddo’ e distaccato. I rinvii furono molti e spesso ci avvertivano tre giorni prima che non ci sarebbe stata udienza. Se nella sentenza di primo grado i giudici di Rimini non concessero le attenuanti generiche per il comportamento tenuto dagli imputati durante il processo, in secondo grado vennero concesse: erano passati più di sette anni e mezzo, il reato di omicidio colposo era già prescritto.
Nessun colpevole per la morte di suo figlio.
Con la prescrizione è come se non fosse accaduto nulla. Un giovane è morto a 34 anni per la negligenza dei colleghi e nessuno è mai stato condannato per un fatto così grave. Non è da Paese civile.
C’è chi dice che la prescrizione serva a non tenere gli imputati a processo in eterno.
Questo garantismo a oltranza impedisce solo di poter arrivare alla verità. Ho la sensazione che in Italia chi delinque sia un privilegiato: il senso di impunità è sempre più forte.
Cosa chiede adesso?
Non ho voluto soldi perché nessuno potrà restituirmi Angelo. Avere giustizia è una aspirazione naturale per una madre come me che ha perso un figlio, ma questa è stata calpestata dalla prescrizione.
Che cosa vorrebbe?
Per me la prescrizione è la vergogna della giustizia nel nostro Paese: in Europa ce l’ha solo la Grecia ormai, per me dovrebbe essere abolita.
Continuerà a lottare?
Certo, anche se so che ormai ogni speranza è persa. Mi sento stupida e banale a dire che ho perso una persona speciale, il ragazzo migliore di tutti, e per questo ho un grande dolore che mi porto dentro. Da una parte voglio continuare ad andare avanti perché un’altra figlia e una nipotina mi danno molta gioia, ma dall’altra sento un grande senso di colpa per essergli sopravvissuta.
Sanatoria case: la Regione replica senza smentire nulla
Gentile direttore, le critiche sono sempre legittime, ma se provengono da altre istituzioni sarebbe più utile se fossero accompagnate da proposte concrete. A Roma il tema “casa” riguarda 30.000 persone in difficoltà con il pagamento dell’affitto e 12 mila sotto sfratto, altre 12 mila in lista di attesa e 10 mila nelle occupazioni abusive. Mentre il Campidoglio riesce ad assegnare ogni anno molti meno alloggi popolari di quelli che vengono messi a disposizione dall’Ater. Lo scorso anno è stato avviato il più grande piano di edilizia residenziale pubblica a Roma degli ultimi 30 anni con un investimento regionale di 70 milioni di euro per oltre 700 nuovi appartamenti, di cui un quarto già pronti per essere consegnati. Abbiamo fatto il primo bando per 180 alloggi Ater, con agevolazioni del 40% del costo di locazione, abbiamo stanziato 20 milioni per le famiglie in difficoltà con l’affitto, sono stati intensificati gli interventi per recuperare gli immobili occupati da chi non ha più i requisiti Erp e abbiamo ottenuto lo sblocco di 56 milioni per completare le opere di urbanizzazione nei Piani di zona. Nel Collegato al Bilancio, infine, erano contenute due norme sulla casa: la riserva di alloggi del patrimonio Ater e Ipab per liberare gli edifici occupati e la regolarizzazione amministrativa per le famiglie senza titolo negli alloggi Erp, ma con tutti i requisiti per accedervi, che ha raccolto la condivisione trasversale di centrosinistra e centrodestra e di parte del M5S. É sbagliato e scorretto liquidare questo provvedimento come un favore ai clan malavitosi e negarne il valore per le famiglie.
Massimiliano Valeriani, Assessore alle Politiche abitative Regione Lazio
Egregio assessore, la ringraziamo per il suo contributo al dibattito, che non smentisce nulla di quanto abbiamo scritto e che pubblichiamo a servizio dei lettori e delle altre istituzioni. Lei difende giustamente il suo provvedimento, nostro lavoro è metterne in rilievo le criticità.
Vin. Bis.
Lazio tra veleni, macerie e dolce vita
Un viaggio nell’altra Roma con un video-reportage online da domani sulla piattaforma di produzioni televisive Loft: le nostre telecamere mostreranno le periferie abbandonate come Casal Bruciato, al centro del circo mediatico solo nel momento del trasferimento di una famiglia rom assegnataria di un alloggio pubblico (maggio 2019), che ha lasciato poco dopo, per le condizioni avverse generate dai neofascisti. Un quartiere a est della Capitale, Casal Bruciato, completamente dimenticato: l’inverno per molti romani abitanti in quella periferia è trascorso “in case del patrimonio pubblico prive di riscaldamento”, dice l’avvocato Daniele Leppe, una vita in trincea per i diritti dei più deboli e indifesi, che ci accompagna tra quei palazzi. Perché come denuncia lo studente Lorenzo Mastro della Rete popolare “abbiamo vissuto sotto le amministrazioni di Roma Capitale da Veltroni a Rutelli, da Alemanno a Marino alla Raggi, a noi non ci ha mai aiutati nessuno”. L’altra Roma è solo una tappa di #Lazio, settima puntata della serie “Italia.doc”, reportage realizzati da firme del Fatto con Loft Produzioni, e dal 26 febbraio disponibile in esclusiva su www.iloft.it e su app Loft.
Dalla capitale alla Ciociaria: il reportage racconta il caso di Ceprano e dei rifiuti tossici interrati sotto una azienda, scoperti nel 2011, che ancora oggi terrorizzano gli abitanti, anche se – spiega l’assessore all’Ambiente, Elisa Guerriero – “non è possibile stabilire una connessione tra le morti avvenute e le cause ambientali. In una zona molto ristretta ci sono stati moltissimi casi; nelle mie conoscenze le persone che sono mancate per cause tumorali sono la maggior parte”.
C’è il Lazio ancora tra le macerie del terremoto, di sindaci che provano a invertire la tendenza “di un processo di ricostruzione che potrebbe essere talmente lungo da scoraggiare molta della popolazione a restare qui”, come teme Antonio Fontanella, sindaco di Amatrice. Territori fantasma, come Illica, frazione di Accumoli: gli allevatori vivono ancora nelle casette della Regione e provano a resistere nonostante “un tessuto sociale inconsistente – raccontano alla cooperativa Rinascita ’78 – mancano i clienti nei negozi, le persone che tornavano nel weekend, tutto questo è finito”. C’è il Lazio dei boss e dei clan “che la fanno da padrone sul Litorale da anni, da Ostia a Nettuno, con una buona dose di negazionismo tra istituzioni e media”, spiega Enzo Ciconte, docente di Storia delle mafie. E poi ci sono le storie di chi dal ciclone Mafia Capitale è stato colpito, come la cooperativa “aCapo” di Pomezia, ma poi riuscendo a rialzarsi e a ridare speranza ai lavoratori, molti dei quali disabili, che non hanno mai avuto nessuna colpa.
E c’è il Lazio della Sanità, dove le attività ordinarie di ospedali come il San Filippo Neri di Roma diventano quasi atti eroici: le telecamere di Loft hanno ripreso, come fosse un reality, i medici impegnati in una notte in pronto soccorso.
Non può mancare uno sguardo alla “dolce vita”, raccontata da Erminia Ferrari, moglie per sempre di un mito della romanità: Nino Manfredi. Attraverso le sue parole, il reportage incontra anche altre leggende come Alberto Sordi, Aldo Fabrizi ed Ettore Scola.
Scale mobili Anac contro la gara fatta al risparmio
Il bando per la cura delle scale mobili nella metropolitana di Roma non era idoneo “a selezionare soggetti in possesso di adeguata competenza ed esperienza in relazione allo specifico servizio”. L’ha deliberato l’Anac, l’Autorità nazionale anticorruzione, che ha trasmesso alla Procura di Roma e alla Corte dei Conti, “per valutare eventuali profili penali ed erariali”, la documentazione con la quale l’Atac, la municipalizzata romana dei trasporti, il 19 aprile 2017 ha assegnato la manutenzione degli impianti di traslazione al consorzio Metro Roma, formato dalla napoletana Del Vecchio srl e dalla Grivan Group srl. Un affidamento avvenuto con il 49,7% di ribasso sulla base d’asta.
L’appalto è poi stato revocato in autotutela su richiesta della sindaca Virginia Raggi, all’indomani dell’incidente alla scala mobile della stazione Repubblica della linea A, avvenuto il 23 ottobre 2018, che ha visto il ferimento di 24 russi presenti nella Capitale per assistere alla partita di calcio fra Cska Mosca e As Roma. All’episodio di Repubblica, rimasta inagibile fino al 26 giugno 2019, ne è seguito uno simile (senza feriti) a marzo 2019 alla fermata Barberini, rimasta inaccessibile per più di un anno e tutt’ora aperta solo in uscita. In questo periodo sono seguite anche chiusure parziali e totali sulle tre linee della metro romana, in particolare sulla linea A, la più frequentata. In Procura c’è già un fascicolo aperto assegnato al pm Francesco Dall’Olio, che ha portato il 12 settembre scorso all’interdizione cautelativa dai pubblici uffici per tre dirigenti Atac e uno della società appaltatrice. “Se famo er calcolo delle probabilità, su 700 ne sarebbero venute giù altre 3 o 4, dai”, diceva, intercettato, l’ex direttore d’esercizio, Renato D’Amico, all’indomani delle chiusure disposte dai pm.
Nella relazione di 9 pagine firmata dal presidente facente funzioni dell’Autorità anticorruzione, Francesco Merloni, si osserva che “la documentazione della procedura aperta che nel 2016 ha portato all’individuazione dell’aggiudicatario non era pienamente idonea a selezionare una offerta di qualità”. Questo in ragione “delle scelte operate in relazione all’attribuzione del punteggio” che “hanno riconosciuto una schiacciante prevalenza all’offerta economica” con una “scarsa incidenza dei requisiti di carattere speciale per la selezione dei partecipanti”. Tradotto: si è badato molto di più al risparmio che alla qualità della proposta. Non solo. L’Authority contesta all’Atac di non aver selezionato i partecipanti al bando “sulla base del possesso di alcuna capacità tecnica e professionale, né del dimensionamento della manodopera”: non è stato richiesto, ad esempio, “il possesso di un organico all’altezza di garantire il servizio manutentivo del vasto parco di strumentazioni oggetto della gara relativa a tutte le linee metro di Roma Capitale”. Chi ha vinto il bando, secondo l’Anac, non aveva l’esperienza necessaria nel campo delle manutenzioni. Gran parte del fatturato delle consorziate, superiore per legge ai 20 milioni di euro, derivava da settori diversi da quello specifico, come quello “immobiliare, l’acquisizione e cessione di crediti, l’installazione di impianti, le pulizie e la gestione dei parcheggi”.
Ma c’è di più. L’Authority contesta all’Atac anche l’aver permesso al consorzio Metro Roma di subappaltare alcuni servizi alla Schindler srl, società seconda classificata nel bando, cui poi è stata assegnata temporaneamente la manutenzione dopo l’incidente a Repubblica, circostanza non segnalata dai vertici Atac. Proprio nel settembre scorso, nell’ordinanza del gip di Roma Massimo Di Lauro, veniva rilevato come anche dopo la revoca dell’appalto, “di fatto, sugli impianti sembra operare ancora la Metro Roma scarl con l’attuale continuo compimento di alterazioni e manomissioni atte a escludere importanti dispositivi di sicurezza degli impianti”. Le varie controdeduzioni fornite da Atac, secondo l’Authority, non hanno confutato i rilievi.
Il “telelavoro” salvato dal virus
Nel 1997 morì di cancro, appena trentatreenne, Giovannino Agnelli, presidente della Piaggio e destinato dallo zio Gianni a succedergli alla guida della Fiat. Negli ultimi mesi di vita lavorò da casa e, in un’intervista, dichiarò che, suo malgrado, aveva scoperto gli immensi vantaggi del telelavoro.
Qualcosa di analogo, ma a livello planetario, sta avvenendo in questi giorni. Il 2 febbraio scorso il Daily Herald di Chicago ha pubblicato un lungo articolo con il titolo “Il Coronavirus costringe al più vasto esperimento di telelavoro nel mondo”. Ormai in Cina lavorare da casa non è un privilegio o una conquista dei lavoratori, ma una necessità. Se questo immenso Paese, che ormai è la più grande fabbrica e il più grande ufficio del pianeta, vuole sopravvivere nonostante la quarantena cui sono costretti 60 milioni di cittadini, non ha altra scelta che ricorrere a un telelavoro di massa, facendo a rotta di collo una riconversione organizzativa che avrebbe potuto realizzare già da anni, con calma e perfezione, se ne avesse avuto l’avvedutezza.
Ciò significa che, invece di andare in ufficio come facevano quotidianamente, oggi milioni di cinesi concordano via Internet il lavoro con il proprio capo, organizzano riunioni con i clienti e discussioni di gruppo tramite videochat oppure discutono i piani su piattaforme software di produttività come WeChat Work o Lark, simile a Bytedance. Anche molti uomini d’affari cinesi che erano in viaggio quando è scoppiata l’epidemia, hanno preferito restarsene all’estero e telelavorare con i colleghi isolati a Wuhan.
Intanto le imprese cominciano a prendere atto che il telelavoro aumenta il rendimento. Del resto, già uno studio condotto nel 2015 dall’Università di Stanford in California aveva scoperto che la produttività tra i dipendenti dei call center dell’agenzia di viaggi cinese Ctrip era aumentata del 13% da quando essi avevano lavorato da casa.
Il Coronavirus è una grande calamità umana ed economica. Inutile dire che sarebbe stato infinitamente meglio se non fosse mai comparso. Ma, dal momento che sta facendo i suoi danni, tanto vale cavarne anche qualche vantaggio. Il Nord Italia, dove il Covid-19 ha fatto la sua sciagurata comparsa, è anche l’area più operosa del Paese, per cui le migliaia di lavoratori in quarantena, calvinisticamente disabituati a starsene con le mani in mano, finiranno per telelavorare. E, una volta acquisita la buona abitudine, può darsi che la conserveranno anche dopo che l’epidemia sarà passata.
Ma in cosa consiste il telelavoro? Per molti secoli, gli uomini hanno identificato il loro luogo di vita con il loro luogo di lavoro, la loro casa con la loro bottega. Poi per 200 anni, dalla metà del Settecento alla metà del Novecento, la nostra società è stata egemonizzata dal lavoro in fabbrica e dalla cultura industriale. La maggioranza dei lavoratori erano operai; ogni automobile, ogni frigorifero, ogni bene materiale veniva prodotto interamente entro i confini di un determinato paese; ogni mansione veniva svolta entro un orario fisso e in un luogo preciso: la fabbrica.
Ora, però, nell’attuale società postindustriale, il 70% dei lavoratori svolge lavori intellettuali da impiegato, quadro, manager o professionista. Questo lavoro non comporta la manipolazione di materie prime come l’acciaio o il carbone, trattati per mezzo di macchinari mastodontici, pericolosi e fragorosi come un altoforno o una catena di montaggio. L’impiegato, il manager, il professionista manipolano informazioni che possono essere trasferite ovunque in tempo reale e che vanno trattate tramite computer portatili che comunicano tra loro anche se dislocati a migliaia di chilometri di distanza.
Perciò, da alcuni anni a questa parte, parallelamente alla diffusione di Internet, cresce il numero di impiegati che la mattina non vanno in azienda ma se ne restano a casa (teleworking) o svolgono i loro compiti dove meglio gli pare (smart working). Il capo gli assegna un obiettivo e una scadenza. Il dipendente, quando ha terminato, trasmette il risultato al capo, che ne valuta la qualità.
I vantaggi sono molteplici. Per i lavoratori aumenta, con l’autonomia, la possibilità di autoregolare tempi, luoghi e ritmi; si riduce la separatezza tra lavoro e vita; migliorano sia le condizioni di lavoro sia la gestione della vita familiare e sociale; si risparmia il tempo, la fatica, la spesa e i rischi del pendolarismo. Per l’azienda si riducono le spese degli edifici e dei servizi, diminuisce la microconflittualità, aumenta la produttività. Per la collettività si riduce il traffico, l’inquinamento e le spese per manutenzione stradale; si eliminano le ore di punta; si deconcentrano le aree superaffollate; si porta il lavoro anche nelle zone periferiche, isolate o depresse; si estende il lavoro alle casalinghe e agli invalidi; si creano nuove occupazioni e nuove professioni.
Paradossalmente le migliori esperienze di telelavoro ci vengono dal lavoro “nero” in cui milioni di persone svolgono un’attività da casa o per strada senza altro legame con il datore di lavoro che il telefono e il computer.
Sul piano pratico, di fatto, oggi tutti telelavoriamo. Basta tendere l’orecchio quando siamo in treno, nella strada o in un locale pubblico per sentire persone che, al cellulare, parlano di lavoro, si consultano, danno o ricevono ordini. Magari non lo sanno ma stanno facendo smart working.
Sul piano contrattuale, invece, le aziende resistono caparbiamente all’introduzione del telelavoro.
Alcuni lavori, come quello del chirurgo o del pompiere, oggettivamente non possono essere telelavorati, ma buona parte delle mansioni svolte negli uffici potrebbe essere effettuata a distanza. Se oggi in Italia, in base ai dati dell’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano, solo 570 mila lavoratori operano in remoto, i motivi sono molti ma prevale quello che gli antropologi definiscono cultural gap: cioè un ritardo culturale.
Autocertificazioni e pochi controlli: cosa fa il resto del mondo
Fuori dall’Italia le procedure di prevenzione, verifica ed eventuale controllo sono state finora più tranquille. Anche per questo, forse, i casi di contagio noti sono molto meno numerosi, non comparabili con quelli italiani, dove invece le misure di rilevazione del virus mediante tampone proseguono in forma massiccia. Da noi sono stati già effettuati circa quattromila controlli. In Francia, per dire, solo 400. Ma vediamo i casi concreti.
Canada I casi accertati di Coronavirus ieri sono saliti a 11. Pochi giorni fa è stato accertato che una donna di 30 anni di origine iraniana, partita da Teheran e diretta a una cittadina a 40 km da Vancouver dove fa l’insegnante è risultata positiva al test. Certamente il 14 febbraio ha volato sul Montreal-Vancouver. La Air Canada però non ha imposto lo stop e tanto meno la quarantena all’equipaggio, lasciato libero di continuare a volare. Air Canada si è limitata a contattare i passeggeri delle tre file precedenti e successive a quella della trentenne nonostante fosse infetta quando ha volato. Lei stessa è tornata a casa e le è stato solo suggerito di stare in quarantena. I passeggeri delle sei file suddette sono stati sensibilizzati e inseriti in un monitoraggio delle autorità sanitarie. I voli per Shanghai e altre città cinesi sono tuttora attivi e l’intera regione della British Columbia – nonostante Vancouver sia soprannominata “Hancouver” perché un residente su tre è di origine cinese – ha meno casi ufficiali di Covid-19 di Codogno.
Regno Unito Già il 22 gennaio il Guardian annunciava che i passeggeri in arrivo dalla Cina sarebbero stati sottoposti a controlli medici a Heathrow. Per i passeggeri in arrivo da Wuhan c’è un’area separata nel Terminal 4 per effettuare lo screening termico. Questo però non vale per i passeggeri in arrivo da Hong Kong, ex colonia britannica che ha registrato contagi e vittime. E magari sono proprio passeggeri che arrivano dalla Cina, come racconta Andrea Mannini, commissario tecnico delle squadre olimpiche della vela cinese, in passato allenatore delle analoghe squadre inglesi e autore dell’oro croato a Rio 2016. Mannini è atterrato a Londra il 21 febbraio da Hainan via Hong Kong (volo BA 28) dopo avere passato quasi un mese in quarantena (precisamente dal 23 gennaio. Era arrivato in Cina il 10 gennaio). Ma quando è sceso a Heathrow non è stato controllato: “A Hainan e a Hong Kong, prima di decollare, ci è stato chiesto di compilare moduli di autocertificazione sul nostro stato di salute”, racconta Mannini. Va diversamente sull’ultimo volo: “Venti minuti prima di atterrare a Londra un annuncio chiedeva ai passeggeri di segnalare verbalmente agli assistenti di volo eventuali problemi respiratori o stati influenzali. Non ho compilato nulla”. Una volta sbarcato, Mannini da Londra prende un altro volo e va a Nizza: “Anche lì non ho trovato nessun termo scanner e nessun sanitario a controllare i passeggeri. Poi ho preso l’auto e sono tornato in Italia. Sono la prova vivente che si può arrivare dalla Cina all’Italia senza problemi”. A Londra vive anche Diego Gullo, imprenditore informatico che con la famiglia proveniva da Codogno: a Sky Tg24 ha raccontato di essersi messo in quarantena volontaria. Quando si è rivolto alle istituzioni britanniche per segnalare la sua situazione non ha ricevuto grande attenzione.
Francia Dal 26 gennaio all’aeroporto Charles de Gaulle di Parigi lo staff medico ha iniziato a effettuare controlli (specie sulla temperatura corporea e le difficoltà respiratorie) e a dare consigli ai passeggeri in arrivo dalla Cina. Non ci sono scanner termici. Ai passeggeri in arrivo dalla Cina vengono fornite informazioni sulla malattia, i suoi sintomi e cosa fare in caso di contagio.
Germania e Austria Il principio base delle autorità sanitarie è quello di contare sul senso di responsabilità dei passeggeri. Il ministro della Salute Jens Spahn ha ricordato che i piloti dei voli Cina-Germania sono tenuti a segnalare casi sospetti a bordo prima dell’atterraggio. In caso positivo, i voli vengono dirottati verso gli aeroporti di Francoforte, Monaco, Dusseldorf, Amburgo, Berlino (Tegel e Schönefeld). Chi viene da Cina, Hong Kong e Macao deve spiegare per iscritto dove sarà nei 30 giorni successivi all’atterraggio. Deve anche specificare dove è stato in Cina, con chi è stato a contatto e l’attuale stato di salute. I documenti vengono trasmessi alle autorità sanitarie. Non ci sono scanner termici. A Vienna viene provata la febbre ai passeggeri che arrivano da Pechino.
Stati Uniti, Nuova Zelanda, Australia Il 18 gennaio gli aeroporti di San Francisco, Los Angeles e Jfk a New York avevano annunciato lo screening dei passeggeri in arrivo da Wuhan e l’arrivo di 100 operatori sanitari negli aeroporti. In una settimana gli screening sono stati estesi a 20 aeroporti americani. Il 1° febbraio Trump ha inoltre firmato un ordine esecutivo che vieta ai cittadini stranieri di entrare negli Usa se nelle due settimane precedenti sono stati in Cina. Quarantena di 14 giorni anche per gli americani che nei 14 giorni precedenti al rientro sono passati dalla provincia dell’Hubei, epicentro del virus. Dal 2 febbraio anche la Nuova Zelanda – che utilizza scanner termici – ha stabilito la quarantena per i viaggiatori che arrivano dalla Cina e l’isolamento fiduciario. Stesse misure applicate anche dall’Australia.
Spagna e Portogallo Al momento non sono previsti controlli specifici.
India Screening in 20 aeroporti. I passeggeri che arrivano dalla Cina nei 14 giorni precedenti e che hanno sintomi dell’infezione dovranno fare un’autocertificazione mentre i passeggeri stranieri dalla Cina e da Hong Kong sono sottoposti agli scanner termici in aeroporto.