Coronavirus, l’epidemia contagia una crescita globale già malata

L’epidemia di corona virus si è abbattuta su una economia globale già debilitata. Nell’ultimo trimestre del 2019 il Giappone, terza economia planetaria, aveva registrato un Pil in contrazione trimestrale dell’1,6%, zavorrato dall’aumento delle imposte indirette. Nello stesso periodo, il Pil tedesco era rimasto stagnante; nelle altre due maggiori economie dell’euroarea, Francia ed Italia, la crescita aveva innestato la retromarcia (rispettivamente di -0,1% e -0,3%). L’eurozona nel suo insieme era cresciuta di un miserevole 0,1%.

Con la diffusione del 2019-nCoV la Cina, seconda economia del pianeta e motore della crescita globale si aggiungerà alla lista delle economie che si dibattono tra recessione e stagnazione. Anche senza i danni inflitti dall’epidemia, l’economia cinese da diversi anni fa perno sull’espansione del debito pubblico e privato, mentre la produttività totale dei fattori dal 2012 segna rosso. In parole povere alla mancanza di sviluppo reale le autorità suppliscono drogando il sistema economico con prestiti diretti a finanziare investimenti tendenzialmente in perdita. La crescita organica cinese cioè in assenza dei forti stimoli creditizi è negativa. Peraltro una parte preponderante del credito al settore privato (che sfugge alle statistiche ufficiali) viene erogata dallo shadow banking. Si tratta di istituzioni finanziarie di dubbia reputazione e scarsamente regolate, che promettono alti rendimenti ai risparmiatori, impiegandone i risparmi in operazioni avventate. Le misure di emergenza attuate dalla banca centrale per contrastare lo shock da corona virus (tassi di interesse più bassi e criteri prudenziali meno stringenti), sono destinate ad esacerbare la fragilità del sistema finanziario cinese.

Rimane in piedi solo la fortezza America. Ma anche oltre Atlantico la crescita, che nel 2018 aveva toccato il 2,9% grazie agli stimoli fiscali, nel 2019 si è afflosciata di nuovo al 2,3%, un pelo sotto il 2,4% del 2017. In compenso il debito pubblico degli Usa ha raggiunto livelli italiani, sfiorando il 107% del Pil nel 2019. In termini nominali il debito è quasi raddoppiato in 10 anni, mentre il Pil a prezzi correnti è salito solo da 15 a 21 trilioni di dollari. Il miracolo del moltiplicatore keynesiano invocato dagli adepti del culto della spesa pubblica, come al solito, non si è manifestato. In definitiva l’America non potrà trainare il resto del mondo (e tanto meno l’Europa) fuori dal pantano, anche ipotizzando che non venga colpita malamente dal contagio.

Ad ogni conferma di nuovi decessi, si sgretola il pilastro su cui poggia la convinzione (tuttora prevalente) che l’epidemia, per quanto malefica, verrà debellata dai tepori primaverili. Persino i mercati, che avevano scommesso pervicacemente sulla lievità delle conseguenze economiche, ora cominciano a vacillare.

L’aborto “incivile” di Salvini “Straniere incinta di italiani, tutti odiano il preservativo”

Cara Selvaggia, sono una ragazza extracomunitaria (albanese per la precisione) che vive da anni in Italia. Ho cominciato come lavapiatti, sono passata poi a fare la cubista per arrivare infine alla lap dance nei locali notturni, diversamente detti “manicomi”. Potrei scrivere volumi interi sulle notti passati in quei reparti psichiatrici, ma non vorrei annoiarvi e vengo subito all’obiettivo, ovvero il Capitano, quello de “ le straniere abortiscono a spese nostre” e le donne italiane devono prenderlo col preservativo oppure, magari, nel didietro. Che sia chiaro eh, nulla contro il sesso nel didietro. Da troppo eccitata o da troppo ubriaca – e con un tizio che ce l’aveva mignon – ho realizzato che tutto sommato pensavo peggio, e anche se non piace dura comunque come i tre colpi che prende Joe (davanti però, non didietro) in Nymphomaniac di Lars von Trier, e quindi si porta pazienza. Salvini dice che le straniere abortiscono troppo, ma non ci dà qualche informazione in più su chi sono gli uomini che copulano con queste straniere. E visto che a suo dire gli immigrati violentano le “nostre donne” ne discende che siano gli italiani a ingravidare le straniere. E che Zeus mi fulmini ora, io non sono proprio razzista, anni che furono l’ho data perfino ad italiani che votavano Berlusconi e Bossi e senza chiedere un euro. Ma da giovane si fanno tanti errori. Ed erano i tempi in cui nei manicomi (i locali di lap dance) dovevi fingerti non albanese perché i titolari e i pazienti che votavano Bossi non ti vedevano di buon occhio. E quindi toccava dire di essere ungherese, anche se avrei scelto pugliese visto che finisce sempre in “ese”. Posso dire che prima di cominciare a fare cose gioiosamente sporcaccione – quando chiedevi loro se avessero portato un preservativo – sia gli amanti di una notte, sia quelli di un anno, tutti e nessuno escluso, ti dicevano di no. “No, amore io voglio sentirti, no amore io ti amo troppo, no amore non ti preoccupare”. A cui seguiva risposta: “Ok, fingerò più forte, mi ami così tanto da non usare una precauzione perché disturba il tuo piacere? Non ti preoccupare, comunque non è tra i migliori metodi anticoncezionali”. Uno addirittura disse “allora dammi il didietro” (e questo fa il maestro di sostegno e si considera un intellettuale). Ho visto amiche, colleghe, tutte straniere, che non potevano prendere la pillola perché fumatrici o per altri motivi, abortire tante volte perché il fidanzato (o marito o chi per lui) non infilava il preservativo. E loro (mariti, fidanzati, conviventi), italiani, si rifiutavano di metterlo perché dava fastidio, perché “le amavano troppo”. Mettere incinta una donna perché non ti va di indossarlo e dover discutere della sua utilità io lo chiamo comportamento incivile. Le donne che abortiscono non si ingravidano con l’inseminazione artificiale e finché agli uomini farai prima a metterglielo dietro piuttosto che in testa, che il preservativo viene venduto senza ricetta in farmacia e supermercati e previene le gravidanze (e pure esami del Dna e candida, non necessariamente in quest’ordine) le donne – straniere e non – continueranno ad abortire. Al ministro Speranza il compito di chiedersi come aiutare questi uomini, ma intanto nel decreto milleproroghe non ho trovato educazione sessuale per i maschietti fin dalle medie né preservativi gratuiti.

Nicole Lulu

Cara Nicole, una lettera lucida e colorita da fotocopiare e distribuire nelle scuole, ai semafori, nei bar e ai comizi della Lega. Grazie.

 

L’interruzione di gravidanza impossibile: tutti obbiettori

Che ne sanno loro.

Che ne sanno della tua scelta, dovuta.

Se fosse successo sapevi già che sarebbe andata così, hai fatto di tutto per evitarlo, ma eccolo lì.

Dodici settimane di fagiolo, perché ho dovuto aspettare. E poi c’era il ponte del primo maggio.

Sai, sono interventi che a Bolzano si fanno solo il lunedì, con un unico dottore, tutti gli altri sono obiettori.

Quindi se lunedì cade giusto il 1º maggio. Beh allora aspetti.

E che ne sanno loro di cosa vuol dire attendere.

Anche se alla fine non hai paura, non soffri così tanto, ma il corpo ti ricorda ogni secondo che sei incinta.

Passi la vita con la testa nel cesso, sapendo che prima o poi finirà.

Perché stupida egoista l’hai scelto tu.

Ma che ne sanno loro del perché.

Che ne sanno loro di quando sei in ospedale e pensi… “ok. È andata. Speriamo di non soffrire troppo dopo”.

Che ne sanno loro di quella ragazza, operata prima di me, che non ha smesso di piangere nemmeno un secondo.

Lei non era accompagnata dalle amiche.

Lei era con un fidanzato che quel bambino lo voleva quanto lei.

Ma che ne sanno loro.

Che ne sanno di quella ragazzina, nel letto accanto al mio. Troppo piccola per essere lì, accompagnata da due genitori delusi, ma sollevati. Sollevati perché quella ragazzina, che mentre è in ospedale chiama le sue amiche sgridandole per non aver postato le foto della serata in discoteca del weekend precedente, non potrebbe diventare madre. Non adesso.

Ma che ne sanno loro.

In fondo sono gli stessi che urlano che “la vita è sempre meravigliosa e vale la pena di essere vissuta”.

Cazzate.

Ma che ne sanno loro, Selvaggia.

 

Nulla.

 

Inviate le vostre lettere a: il Fatto Quotidiano 00184 Roma, via di Sant’Erasmo,2. selvaggialucarelli @gmail.com 

Tra catto-igienisti e tradizionalisti, pure il Coronavirus divide la Chiesa

Da una parte i catto-igienisti che si allineano alle direttive statali, e quindi niente acquasantiere, comunione in bocca e scambio della pace. Dall’altra, invece, i clericali anti-bergogliani che gridano al flagello divino e s’affidano esclusivamente al Cielo.

Persino il Coronavirus sta diventando motivo di divisione tra le gerarchie cattoliche. Criticatissima dai clericali, per esempio, la scelta del vescovo di Lodi di non fare celebrare messe ieri nei paesi della sua diocesi a rischio contagio. S’obietta: non è mai successo e anziché sospenderle bisognerebbe celebrarne qualcuna in più. In fondo è lo stesso dilemma affrontato nei Promessi Sposi dal cardinale Borromeo. La peste impazza a Milano e il potere civile vuol far sfilare in processione il corpo di San Carlo. Il cardinale accetta non senza un grave timore, che il corteo possa favorire il contagio. Ecco il punto.

A proposito di peste. Tra gli anti-bergogliani c’è chi come il professore Roberto de Mattei la evoca sul suo sito e fa la storia della peste a Roma nel 590 quando il neo-eletto papa Gregorio I fece organizzare proprio una grandiosa processione. Ma sotto accusa c’è anche la dimensione ecologista della Chiesa francescana, in cui prevale una visione idilliaca della Natura con la venerazione di Madre Terra (Antonio Socci). Per tornare al vescovo di Lodi, filogovernativo: per fortuna, gioiscono i clericali, che a Reggio Emilia c’è un pastore controcorrente come monsignor Massimo Camisasca, che oggi guiderà un santo Rosario in una basilica mariana. E dal Rosario a Salvini il passo è brevissimo. Qui viene tirato in ballo padre Antonio Spadaro, direttore della Civiltà Cattolica e intellettuale vicino a Francesco. Ancora una volta, il gesuita è finito nel tritacarne tradizionalista a causa di una vignetta pubblicata sul suo profilo Twitter. Ovvero il leader leghista che gongola per l’emergenza: “Il sogno sovranista: ognuno a casa sua”.

Infine, la comunione in mano, obbligatoria al momento. Sui siti pro-messa in latino si raccomanda di evitarla e di fare solo “la comunione spirituale” (cioè raccogliersi in preghiera e basta) in attesa che finisca l’emergenza.

Care Sardine, ok il congresso a Scampia. A Sud, ascoltate il popolo

Caro Coen, non mi piace il chiacchiericcio attorno al fenomeno delle sardine. Non mi piacciono i tanti tromboni che dalle solite tribune televisive le esaltano, “i ggiovani finalmente”, ma soprattutto non mi piacciono quelli che attaccano il movimento a prescindere. Chi siete? Cosa proponete? Con chi state?. Cose già viste ai tempi dei Girotondi, e più recentemente, ai tempi della Magliette rosse. C’è una parte del mondo politico, giornalistico e anche culturale, spaventato dalle novità. Personalmente non sono un tifoso acritico delle sardine, ma un “ammiratore informato”. Perciò riconosco il grande contributo che fino ad oggi hanno dato risvegliando quella parte di opinione pubblica democratica che aveva scelto di non votare più, stanca delle ambiguità della sinistra, ma l’ammirazione non mi impedisce di vedere gli errori. Soprattutto nel rapporto con il Sud. E allora, care Sardine, parliamoci chiaro, il Sud è stanco delle illusioni, stanchissimo di chi vuole raccontarlo senza conoscerlo a fondo. Andrete a celebrare il vostro primo congresso a Scampia, cuore dolente di Napoli, benissimo. Ma andateci con umiltà, fatevi raccontare il quartiere–città da Vittorio Passeggio, l’uomo col megafono, dai volontari del Gridas, dai gesuiti del Centro Hurtado, dai militanti del Comitato Vele, insomma ascoltate chi da trent’anni lotta per la rinascita di quel concentrato di umanità devastato da camorra e tradimenti dello Stato. Fate così anche nelle altre realtà del Sud. Fatevi spiegare da economisti, sindacalisti, scrittori, gente comune, qual è la condizione attuale di un Mezzogiorno rapinato da uno Stato che sposta risorse (840 miliardi sottratti dal 2000 al 2017) al Nord. Solo così riuscirete ad evitare parole sbagliate (“Scampia è come Bibbiano”, “Erasmus da Nord a Sud”) e scelte politiche pilatesche e consolatorie come quella fatta per le elezioni regionali calabresi. Care Sardine, i miei sono consigli non richiesti offerti con l’umiltà di chi la realtà che va da Roma in giù un po’ la conosce.

Fascisti contro le donne: 33 motivi per chiuderle in manicomio

Diario clinico, modulo G 3. Specifica delle sintomatologie riconosciute dal sistema sanitario fascista per ricoverare le donne in manicomio. Sono suddivise in 33 categorie, distinte in tre colonne. Loquace. Instabile. Incoerente. Stravagante. Capricciosa. Eccitata. Insolente. Indocile. Bugiarda. Impertinente. Cattiva. Prepotente. Ninfomane. Impulsiva. Nervosa. Erotica. Allucinata. Irrequieta. Ciarliera. Irriverente. Petulante. Maldicente. Irosa. Piacente. Smorfiosa. Irritabile. Clamorosa. Minacciosa. Rossa in viso. Esibizionista. Menzognera. Dedita all’ozio. Civettuola. Per apparire sana, la donna quindi doveva mostrarsi taciturna, umile, emaciata, devota, sottomessa. Sposata e spossata. Così, un marito poteva liberarsi agevolmente della moglie. E il regime sbarazzarsi delle donne ribelli ed anticonformiste che rivendicavano più autonomia e meno discriminazioni (leggete Malacarne. Donne e manicomio nell’Italia fascista di Annacarla Valeriano, Donzelli 2017). Il concetto dominante era che la donna sfornasse più figli che poteva, preferibilmente maschi, perché potessero diventare dei soldati. Meglio a casa che al lavoro, dove potevano montarsi la testa e pretendere più libertà, più autonomia, più giustizia. Nel 1926 le esclusero dall’insegnare materie scientifiche negli istituti tecnici e lettere e filosofia nei licei. Dietro la propaganda che vedeva Mussolini paladino dei diritti femminili, covava invece una visione ben diversa: la donna non soggetto, bensì oggetto della politica di potenza totalitaria, sempre più relegata a ruoli subalterni nel contesto sociale. Ne parlo, caro Enrico, perché il livello di aggressione delle destre e degli ultra tradizionalisti cattolici contro la libertà delle donne – vedi l’indecente esternazione del Ducetto legaiolo sull’aborto “praticato” in pronto soccorso, balla clamorosa, o il razzismo generato dalla psicosi del coronavirus – è arrivato ad un livello intollerabile ed incivile. L’ennesimo tentativo di riportare indietro l’orologio della Storia, in nome dell’identità nazionale e del conformismo più retrivo.

Brescia celebra Milani, la tuta blu sul palco di Piazza della Loggia

Il Teatro Grande di Brescia era tirato a festa. Mezzo pomeriggio. Un primo, pigro cenno d’imbrunire. Una folla multiforme spumeggiava dalle strade del centro. Un rimescolio di classi e di ceti, più popolo che élites. E più anziani che giovani. Era la festa di un signore bresciano ormai carico di primavere. Diventato nei decenni simbolo della sua città. Si chiama Manlio Milani. L’Italia lo conobbe in una drammatica foto di repertorio. Piazza della Loggia, 28 maggio 1974. Un comizio sindacale, la Brescia del lavoro, la Brescia antifascista. Finché un boato squarcia l’aria, si sentono urla, una bestemmia disperata dal palco, una bomba, un’altra dopo Piazza Fontana, dopo la questura di Milano. Un giovane uomo in giacca chiara in ginocchio, il viso sconvolto, un braccio proteso in diagonale a chiedere aiuto. Una giovane donna stesa accanto a lui. “Le sollevai la testa, ma lei non mi vedeva più”.

Manlio, operaio, e sua moglie Livia, insegnante. Sintesi di una stagione di stragi e di strazi. Da allora quell’uomo ha speso una vita chiedendo giustizia. Viaggiando tra associazioni, scuole, università, fabbriche, convegni di partiti e sindacato. Portando ovunque un insopprimibile bisogno di verità. Suo, ma anche di un’intera democrazia. Simboleggiando, per forza di cose e di immagini, da presidente della associazione familiari della strage di piazza Loggia, Brescia e l’Italia sanguinanti. Lo sguardo mite e la resistenza di ferro. Generoso di sé senza che gli anni riuscissero mai a smorzarne l’energia.

Ecco chi e che cosa dunque si festeggiava nella città che fu “Leonessa” d’Italia. Un uomo che a Brescia vuol dire sindacato, democrazia, giustizia. E memoria, coltivata con sistematica ostinazione attraverso la Casa della Memoria di cui è presidente. L’università cittadina aveva deciso di conferirgli nel teatro più solenne la laurea honoris causa in giurisprudenza. Una scelta grandiosa, che in un Paese appena capace di memoria e di sensibilità storica e civile sarebbe stata notizia nazionale.

Venne dunque comunicato l’arrivo delle autorità accademiche sul palco. Manlio entrò ultimo a fianco del rettore Maurizio Tira. In toga, visibilmente emozionato e imbarazzato. Si accomodò sulle sedie disposte in scena, davanti al corpo accademico e alle autorità “civili, militari e religiose”. Il pubblico si emozionò, in attesa del momento magico. Vi furono i discorsi di saluto e la lectio magistralis straripante di citazioni giuridiche e filosofiche e letterarie. Manlio ascoltava e forse pensò che mai avrebbe immaginato, lui tuta blu, di diventare un giorno l’ispiratore di quella sterminata letteratura. Finché arrivò il momento della motivazione della laurea ad honorem. Bella, cristallina. “Ha promosso”, diceva fra l’altro, “un infaticabile lavoro di ricerca storica, di riflessione civile e di riconciliazione memorialistica sulla stagione del terrorismo e della lotta armata”. Appunto. La lotta per la giustizia, per una verità giunta a 40 indicibili anni di distanza (confessò una volta: “Una notte l’ho sognata, aveva una grossa valigia e camminava sempre. Vagava senza sosta”). E, più recentemente, la capacità di schierarsi dalla parte della giustizia riparativa, fino a usare la parola riconciliazione, quasi l’avesse cullata naturalmente quello sguardo mite in cerca di pace.

Quando il rettore proclamò il nuovo laureato, quando disse “dottor Manlio Milani”, tutto il Teatro Grande, quasi mille posti, si alzò in piedi, centinaia e centinaia di persone felici di applaudire, sempre più forte, commosse per quel che era accaduto davanti a loro e per quel che stava accadendo in quei momenti. Cinque lunghi minuti come forse sarebbe piaciuto a qualcuno in altro, più celebre teatro. Il fatto è che le standing ovation nascono sempre da un trascinamento morale. Che a Brescia giunse dalla storia stessa della città.

Era stato premiato Manlio ma era come se con lui fosse stata premiata la Leonessa. Intervenne alla fine. Le sue amicizie, i suoi maestri, i suoi dolori, la vita di un operaio votato alle grandi cause della solidarietà e della giustizia sociale: la Cgil, il Partito comunista. E chi di lotte e di fierezze lontane pervasero il teatro, la platea e i palchi e il loggione. Suonò pudico e denso, negli ultimi attimi, il pubblico ringraziamento alla seconda moglie, Claudia. Poi tutti si riversarono fuori, salutandosi con gioia. In fondo, scoprirono, quella laurea ad honorem aveva reso più ricca la città intera. Cosa non può l’accademia…

Funicolare (e hotel) per ricchi. L’ultima ferita per Firenze

“Come a man destra, per salire al monte/ dove siede la chiesa, che soggioga/ la ben guidata sopra Rubaconte, / si rompe del montar l’ardita foga / per le scalee che si fero ad etade/ch’era sicuro il quaderno e la doga…”. Questi famosi versi del XII canto del Purgatorio dimostrano che fin dal Medioevo i fiorentini erano affascinati dall’erta salita del ‘monte’ dell’Oltrarno, già allora coronato dalla Basilica di San Miniato e che più tardi ospiterà anche il Forte di Belvedere, e vedrà stendersi sulle sue prime pendici il Giardino di Boboli. E dimostrano anche che, fin da allora, i fiorentini con un po’ di cervello avevano più di un dubbio sui pessimi governi di una città che Dante chiama – con terribile, amorosa, ironia – “la ben guidata”. Ebbene, cosa direbbe ora il Poeta? Ora che un’amministrazione prova a far violare quel colle, sacro alla storia e alla bellezza, nientemeno che da una teleferica per milionari che non si degnano di salirlo a piedi, e trovano evidentemente banale il taxi?

Pochi giorni fa, una compiacente Repubblica Firenze ha informato (con un titolo leggermente enfatico: “Funicolare Boboli-Forte: il sogno fa un passo avanti”) che la giunta di Dario Nardella ha dato il via libera allo studio di fattibilità per “realizzare l’ascensore inclinato, tutto in vetro, trasparente e quindi a basso impatto ambientale” (!). L’”ascensore” – come viene pudicamente chiamato – è una richiesta del magnate argentino Alfredo Lowenstein, che – dopo aver comprato la culla della stirpe medicea, la celeberrima villa di Cafaggiolo in Mugello – ha acquistato anche il pezzo più pregiato del patrimonio immobiliare pubblico del centro di Firenze, l’ex monastero medioevale di San Giorgio alla Costa, già ospedale militare. I ricchissimi proprietari di una catena di resort di lusso tra Florida e Caraibi hanno detto di averlo fatto per amore. Già: “La scelta della Toscana è stata una scelta d’amore, perché la bellezza e la varietà del suo territorio, la straordinaria ricchezza del patrimonio artistico-culturale delle sue città ci hanno da sempre affascinato. …Ci ripetiamo spesso infatti quello che è il nostro primo intento: non essere i proprietari del Complesso Immobiliare di Costa San Giorgio, esserne solo i custodi. Un bene mobile o immobile si può acquistare, si può vendere, ma un’eredità storica e culturale non si può mercanteggiare, si può solo custodire, preservare, conservare per i nostri figli e per i figli dei nostri figli”.

Tutto questo amore si concretizza – ha denunciato il laboratorio politico Perunaltracittà – in “12 mila metri quadri di superficie adibiti per l’86% a struttura alberghiera di lusso, per l’8% a strutture commerciali (ristoranti, pizzerie, ecc.), l’1% a strutture commerciali di vicinato e per il restante 5% della superficie ad attività di servizio alla persona e alla residenza. In un’area sottoposta a vincolo archeologico e dal fragile equilibrio idrogeologico sono previsti vari interventi interrati: due autorimesse con accesso carrabile da Costa San Giorgio e da Via della Cava, ambienti di stoccaggio per le cucine e ambienti di servizio per la spa e il centro benessere, collegati tra di loro tramite un percorso carrabile interrato della lunghezza di circa 660 metri, con accesso da Costa San Giorgio”. Insomma, sarà amore, ma il risultato assomiglia a uno stupro: Firenze perde un altro straordinario spazio pubblico, che non viene dedicato ai poveri, agli ultimi, ai cittadini comuni, ma all’incremento di una turistificazione che la riduce come Venezia. Al lusso privato super-esclusivo: quello che super-esclude. Un luogo dove i discendenti di Dante potranno entrare, ma a pulire le stanze e servire lo spritz.

E siccome i ricchi spesso sono anche pigri, non si potrà certo pretendere che contino sulle proprie gambe per vincere “del montar l’ardita foga”. Da qui l’idea pazzesca di violare il Giardino di Boboli, cioè uno dei monumenti più importanti del Paese, con una teleferica cui si accederebbe varcando la porta di un museo, Palazzo Pitti: un vulnus impensabile, in una città in cui, giustamente, il proprietario di un palazzo vincolato non può mettere nemmeno il motore di un condizionatore.

Ciò che non si sarebbe comunque potuto fare per i disabili, ora sembra possibile per i milionari. Ed è risibile il tentativo dell’assessore Del Re di dire che la funicolare servirebbe anche per turisti e fiorentini: con cento suites di lusso a cui condurre, e con i venti milioni di turisti che ogni anno vessano la “ben guidata” Firenze, davvero si pensa che quell’ascensore potrebbe mai accogliere i residenti con le borse della spesa? E qui si arriva al punto: nella città ormai in mano a capitali stranieri, la Firenze di Botty & Celly (copyright di Massimo Lensi), ogni nuova aggressione al patrimonio comune è anche una ferita alla democrazia. Non per caso il grande guru di questo massacro continuo, l’emerito sindaco Matteo Renzi, quando ancora non si era asciugato l’inchiostro della sentenza del Consiglio di Stato che ha finalmente bocciato l’ampliamento dell’aeroporto di Peretola, si è precipitato a rassicurare l’altro miliardario argentino che si è comprato un pezzo di città (appunto l’aeroporto), dicendo che “si farà comunque”. Quello stesso giorno Renzi è andato da Vespa a invocare, come una cosa sola, il presidenzialismo e le Grandi Opere affidate a commissari straordinari: perché nella visione di questi solerti camerieri dei nuovi padroni stranieri, la democrazia è un ostacolo allo ‘sviluppo’. Che consiste poi nel continuare la svendita di Firenze, la “ben guidata”.

“D’Alfonso, staff e 3 telefoni per non farsi intercettare”

Tre cellulari che non usava quasi mai. Li lasciava in posti diversi, per non essere intercettato e soprattutto per non essere geolocalizzato. Per parlare preferiva quelli dei suoi collaboratori, per essere sicuro di poter sfuggire a ogni controllo. Servivano a questo, gli uomini dello staff, secondo la ricostruzione della Procura della Repubblica di Pescara: aveva uno stile disinvolto, che non ti aspetteresti mai da un presidente di Regione. Eppure Luciano D’Alfonso, ex governatore d’Abruzzo in quota centrosinistra e ora senatore del Pd, coi cellulari ci giocava, secondo uno schema che per il pm Andrea Di Giovanni, tendeva proprio a sviare ogni possibile controllo. Uno stile di vita emerso durante le indagini sulla ristrutturazione del parco Villa delle Rose di Lanciano in cui D’Alfonso è stato rinviato a giudizio per falso ideologico (in concorso con quattro assessori, col capo di gabinetto e il suo segretario particolare): una delibera che doveva essere approvata in tutta fretta perché pochi giorni dopo ci sarebbero state le elezioni amministrative e il candidato sindaco di centrosinistra Mario Pupillo con quella delibera ci avrebbe fatto bingo. E così D’Alfonso a quella giunta non partecipò ma fece risultare di sì, perché senza di lui sarebbe saltato il numero legale.

Una ricostruzione minuziosa, quella della Procura di Pescara, basata su intercettazioni e controlli sulle celle dei telefonini. “Si è accertato che D’Alfonso – scrive il pm – con l’evidente intenzione di sviare possibili intercettazioni (nonostante abbia tre cellulari) è solito utilizzare lo stratagemma di impiegare utenze cellulari dei propri accompagnatori, alcuni dei quali appaiono deputati essenzialmente alla funzione descritta. In altre circostanze, D’Alfonso ha utilizzato anche utenze di estemporanei accompagnatori, per lo più dipendenti della Regione Abruzzo”. D’Alfonso in effetti aveva uno staff nutritissimo, composto ai tempi d’oro da 32 persone, sul cui ruolo in tanti si sono interrogati: secondo la Procura servivano “essenzialmente” a fare da centralinisti, da prestatori di telefoni. Una prassi accertata dai magistrati, “sia per chiamare (con il rituale che prevede il soggetto esordire con l’interlocutore di turno dicendo “ti passo il presidente”) sia per essere rintracciato da chi ha evidentemente il privilegio di poterlo sempre raggiungere”. Ma non solo: “Le indagini – aggiunge la Procura – hanno permesso di acquisire elementi tali da far ritenere fondato il sospetto che D’Alfonso possa deliberatamente lasciare talune delle proprie utenze cellulari in luogo diverso da quello ove in realtà egli si trova”. Per evitare di essere geolocalizzato, appunto. Un modo per stare a Roma e risultare a Pescara. E la prova viene fornita agli investigatori proprio dall’abitudine del segretario Claudio Ruffini di mandare un sms a ognuno dei tre numeri di D’Aflonso , “in modo da essere certo di raggiungerlo” (ben sapendo, sottintende la procura, che lui non li porta tutti e tre con sé). E così accade quel famoso giorno in cui D’Alfonso aveva una maledetta fretta di convocare la giunta per approvare “Villa delle Rose”. Adottando il metodo di far chiamare Ruffini dal proprio accompagnatore di turno, “nel caso in questione Andrea Marconi, addetto allo staff del presidente, e farselo passare, dà disposizioni di convocare una giunta straordinaria per il pomeriggio e di far predisporre una delibera”. “Per le politiche di Lanciano – dice D’Alfonso -… Mi serve da morire”. La procura fa verifiche, incrocia i dati delle celle dei vari telefonini, controlla l’agenda dello stesso presidente, poi la cronaca della sua giornata su Facebook e arriva alla conclusione che quel pomeriggio i due non raggiunsero mai gli uffici di viale Bovio per partecipare alla riunione di giunta.

Le intercettazioni, che alla fine non sono state ammesse perché provenienti da un’altra inchiesta (anche se D’Alfonso è stato comunque rinviato a giudizio) dimostrerebbero la sua assenza dagli uffici della giunta regionale il 6 giugno del 2016.

Le parole sono ben dosate, ma rivelano l’affanno:

D’Alfonso: “Dimmi Clà!”

Ruffini: “3 assessori sono lì tra 10 minuti massimo”.

D’A: “E allora tu fai quello che devi fare, dopodiché capito? Fai quello che devi fare”.

R: “Va bene, quindi stai arrivando, ho capito”.

D’A: “Eh (sì) ciao”.

R: “Ok, ciao”.

Non è una conversazione qualunque. Bisognerebbe ascoltarla, scrive la procura: “È molto difficile rendere il tono della conversazione, fondamentale per comprenderla appieno: Marconi è assolutamente sorpreso che sia necessaria la presenza del D’Alfonso, come se fosse impossibile raggiungere la sede della giunta nei 10 minuti indicati dal Ruffini. Al tempo stesso, D’Alfonso sottende altro messaggio con il “fai quello che devi fare” che Ruffini coglie e che traduce in “stai arrivando”. Il quesito è: se fosse stato vero (l’imminente arrivo in Viale Bovio) quale motivo avrebbe avuto D’Alfonso nel non dirlo in prima persona e palesemente?” Ma nonostante le accortezze, l’uso di vari telefoni, le parole misurate, i tentativi di sottrarsi alle intercettazioni, gli uomini dello staff si tradiscono – sostiene la Procura -, e si tradisce lo stesso D’Alfonso quando, nello stesso pomeriggio, parla col suo segretario:

D’Alfonso: “Ma se passo ti trovo o non c’è bisogno?”

R: “No no… sono andato No, sta a posto”.

D’A: “Un abbraccio”.

R: “Ok”.

D’A: “Complimenti, sono molto soddisfatto, ciao”.

R: “A posto, ciao”.

Insomma, Ruffini era andato via, e se D’Alfonso fosse stato realmente presente negli uffici della Regione, secondo la procura se ne sarebbe accorto, e non gli avrebbe chiesto conferma della sua presenza.

Quanti accorgimenti, quante minuziose strategie per non farsi geolocalizzare. Eppure la procura, quel giorno famoso, riesce a ricostruire i movimenti dell’ex presidente: “L’esame simultaneo del traffico delle due utenze (una sua e l’altra del collaboratore Marconi) ha permesso di accertare che le stesse, nel corso della giornata del 3 giugno 2016, non hanno mai impegnato celle di aggancio compatibili con la sede della Regione Abruzzo di viale Bovio a Pescara”. Gli investigatori hanno ricostruito il percorso dell’auto sulla quale viaggiava D’Alfonso col suo fedele accompagnatore-centralinista e hanno concluso che “si deve categoricamente escludere che le due utenze possano localizzare i rispettivi utilizzatori a Pescara in area compatibile con viale Bovio 425 (la sede della Regione a Pescara, ndr) ”. Secondo la procura non è un comportamento lineare, quello di D’Alfonso. Basta ascoltare cosa dice l’ex capo di gabinetto del presidente, Ernesto Grippo: “È troppo rischioso lavorare con lui”. E in un’altra conversazione lo stesso Grippo minaccia di far saltare una serie di provvedimenti presi in quanto “erano invalide le giunte” . In questo caso, il gioco dei telefoni per D’Alfonso si è rivelato un boomerang.

La pandemia mondiale? Sono i morti sulle strade

Non solo coronavirus. Una pandemia globale paragonabile alla malaria, la tubercolosi o l’Hiv dura da decenni e nel mondo miete 3.700 vittime ogni giorno. Sono gli incidenti stradali che causano un milione 350mila morti l’anno, soprattutto nei Paesi più poveri: nonostante qui circoli appena il 60% dei veicoli mondiali si conta il 93% delle vittime globali, a causa di infrastrutture inadeguate e dell’assenza di cultura della sicurezza. Il traffico ogni anno nel mondo causa anche 50 milioni di feriti. Mentre l’Italia, l’Unione Europea e alcuni Paesi sviluppati sono impegnati da anni a migliorare la sicurezza stradale, principale causa di morte tra i 5 e i 29 anni, e hanno già ottenuto grandi risultati, nei Paesi poveri invece il fenomeno continua a crescere e il rischio di morte per incidente è tre volte maggiore rispetto ai Paesi ad alto reddito. La questione è stata al centro della terza Conferenza ministeriale globale sulla sicurezza stradale organizzata dall’Onu e dall’Organizzazione mondiale per la sanità, che ha riunito in Svezia dal 19 al 20 febbraio oltre 1.700 partecipanti di 140 Stati e si è chiusa con la Dichiarazione di Stoccolma sui nuovi obiettivi per il 2030.

Sebbene l’Unione Europea sia l’area con le strade più sicure al mondo, il dato non è omogeneo tra tutti i suoi Paesi. La Ue conta in media 49 morti per incidenti stradali ogni milione di abitanti, contro 93 morti per milione di abitanti nel Vecchio Continente, 106 negli Usa e 174 nel mondo, ma il valore supera i 200 in Russia e i 250 in Africa. Nel 2018, l’ultimo anno per il quale sono disponibili le statistiche comparate più aggiornate, lungo le strade della Ue sono morte per incidente stradale 25.100 persone, mentre un milione sono rimaste ferite, con un calo del 2% delle vittime rispetto all’anno precedente. Grazie alle regole europee e nazionali, il numero di incidenti mortali è diminuito del 43% dal 2001 al 2010 e di un altro 21% tra il 2010 e il 2018. Nell’Unione dunque nel 2018 sono morte per incidente 6.400 persone in meno rispetto al 2010. Due anni fa i Paesi europei con il minor numero di morti su strada per milione di abitanti sono stati Regno Unito (28), Danimarca (30), Irlanda e Olanda (31) e Svezia (32). L’Italia si è situata a quota 55, mentre i Paesi più pericolosi sono stati la Romania (96), la Bulgaria (88) e Lettonia (78). Tra il 2010 e il 2018 nella Ue c’è stato un calo di 21 vittime all’anno ogni milione di abitati, con il miglioramento maggiore in Grecia (-45) e il peggioramento più grave a Malta (+38), mentre l’Italia ha fatto segnare 20 morti in meno ogni milione di cittadini.

Tra le vittime di incidenti stradali nella Ue il 46% è rappresentato da conducenti e passeggeri di auto, il 21% da pedoni, seguiti da un 15% di motociclisti, 8% di ciclisti e un 3% di guidatori di motorini. Il restante 7% sono camionisti e altri conducenti. Tre quarti delle vittime sono maschi. Nello stesso 2018, l’Italia ha registrato 3.325 vittime, in calo dell’1,6% rispetto ai 3.378 morti del 2017. Dal 2000 il numero delle vittime è calato del 56%. Il dato italiano è di sei incidenti mortali ogni 100mila veicoli immatricolati, con un calo del 60% rispetto ai 16 del 2000. Il 43% delle vittime della strada italiane erano in auto, il 21% motociclisti, il 18% pedoni e il 7% ciclisti. Velocità eccessiva, abuso di alcol e droghe e distrazione per il cellulare sono nell’ordine le principali cause di morte. Le strade di campagna sono le più letali, con il 48% dei morti del 2018, in città c’è stato il 42% delle vittime e il 10% in autostrada.

Mentre la riduzione media del numero di vittime della strada tra il 2010 e il 2018 era del 19,2%, il numero dei morti per incidenti stradali è diminuito del 51% per la fascia d’età 0-14, del 50% per quella 15-17 e del 34% per le fasce di età 18-20. La riduzione delle morti su strada sperimentate dalla popolazione più giovane è in parte spiegata da un cambiamento nella struttura demografica della popolazione e dall’uso inferiore di ciclomotori. Tuttavia, i giovani nel 2018 restavano la fascia d’età a più alto rischio nel traffico, con un tasso di mortalità molto superiore alla media, pari a 95 vittime l’anno per milione tra 18 e 20 anni e a 77 l’anno per milione dai 21 ai 24 anni. Anche gli anziani corrono un rischio altrettanto elevato: sopra i 75 anni hanno un tasso di mortalità per incidente di 92 vittime ogni milione di abitanti. La sicurezza stradale degli anziani sarà un problema significativo per l’Italia nei decenni a venire a causa dell’invecchiamento della popolazione.

Non mancano i risvolti economici. Secondo uno studio della Banca Mondiale su decessi e indicatori economici di 135 Paesi, se gli incidenti stradali fossero ridotti della metà il Pil pro capite dei Paesi più poveri, a parità di altri fattori, in 18 anni crescerebbe tra il 15% e il 22% in più grazie all’aumento della produttività. Se le vittime della strada fossero dimezzate il Pil pro capite del 2038 aumenterebbe del 22% in Thailandia, del 15% in Cina, del 14% in India, del 7% nelle Filippine e in Tanzania. La sicurezza stradale costa una riduzione del 3% circa della crescita del Pil pro capite annuo nei Paesi a reddito medio e basso. Anche l’Italia non è immune ai costi di questa strage: secondo le stime del ministero delle Infrastrutture e dei trasporti, nel 2018 il costo degli incidenti stradali che hanno causato morti e feriti è stato di 18,6 miliardi, pari all’1,1% del Pil nazionale. Eppure la Banca Mondiale, basandosi su analisi assicurative sanitarie e di gestione dei rischi, stima che lungo un periodo di 24 anni i Paesi sarebbero disposti a investire tra il 6% e il 32% dei rispettivi Pil per ridurre la mortalità e le conseguenze del traffico.

Ma l’impatto diretto delle vittime della strada sulle economie nazionali, misurato dalla contabilità macroeconomica dei Paesi, è solo una parte del costo finale. I danni individuali e sociali sono ben più rilevanti. Per ogni morto ci sono almeno cinque persone che subiscono invalidità e inabilità permanenti, mentre è incalcolabile il numero di quelle temporanee, con il corollario di cure sanitarie e delle necessità di sostegno a lungo termine. È invece senza prezzo, perché nessuno sarà mai in grado di quantificarlo, il carico immane di sofferenze psicologiche personali e familiari che travolgono le relazioni e devastano per sempre l’esistenza delle persone.

“Affidi, business da 5 miliardi. C’è chi fa di tutto per fare soldi”

L’Italia intera ha un Bibbiano da raccontare. Forse casi non gravi come quello avvenuto in Emilia Romagna, ma sempre elementi significativi di un quadro di per sé preoccupante. “Seguo le vicende minorili da molti anni e posso assicurare che quelle di Bibbiano sono dinamiche comuni”, spiega Francesco Miraglia, legale esperto di diritto minorile, scelto da sette delle famiglie coinvolte nell’inchiesta “Angeli e Demoni”.

Avvocato Miraglia, possiamo davvero considerare Bibbiano un caso isolato?

Il caso di Bibbiano è solo la punta dell’iceberg. Siamo di fronte a un sistema che non funziona, viziato da molti elementi di criticità, tra cui quello fondamentale dei soldi che ne fanno parte. Sono tante, troppe, le quantità di denaro che girano dietro al mondo degli affidi: numeri in crescita che in pochi anni sono arrivata a circa 5 miliardi di euro all’anno.

Quindi?

Sono dati governativi, per di più in difetto, che si aggregano con quelli regionali, del tutto nebulosi. Di fatto nel 2020 non sappiamo ancora quante case famiglia ci sono sul territorio, non sappiamo la vera entità del giro di affari dietro a ognuna di queste, in realtà conosciamo in maniera completa solo la situazione di tre regioni. Tant’è che il “gioco” è di facile comprensione: la maggior parte delle case famiglie sono gestite da Onlus, le quali non sono tenute a presentare nessun bilancio, si autocertificano. La stima per ogni bambino varia dai 70 ai 300 euro al giorno, le spese gestionali sono in capo alle stesse case famiglie che può capitare, come nel caso di Bibbiano, hanno legami con i giudici onorari dei tribunali minorili. È una macchina perfetta per arricchirsi, del tutto autogestita, e aggiungo: alimentata da un sistema giudiziario che potrebbe invece, cambiando l’approccio alla materia, chiudere dall’oggi al domani circa l’80 per cento dei procedimenti pendenti, senza ricorrere all’affido coatto del minore.

Cos’altro si nasconde all’interno del sistema?

Uno dei problemi è il massiccio potere nelle mani dei servizi sociali: non hanno controlli, quello che scrivono diventa spesso verità assoluta. Complici i tribunali dei minori: che spesso non garantiscono il diritto al contraddittorio (riconosciuto della nostra Carta costituzionale) o stabiliscono prima i provvedimenti e poi fissano l’udienza a mesi di distanza. Come a Bibbiano, e in altri episodi che seguo da molto tempo prima, a rispondere alle misure attivate rimane in ultima istanza sempre il Tribunale: per questo viene da chiedersi come mai ci ritroviamo a leggere ricorsi e decreti dei pm che presentano gli stessi errori, perfino ortografici, delle relazioni dei servizi sociali.

Come riesce a stare in piedi una rete del genere in un ambito delicato come quello degli affidi?

In ripetute situazioni mi sono trovato di fronte a giudici onorari che ricoprivano anche il ruolo di consulenti di case famiglie, a volte quello di presidenti delle varie associazioni onlus che gestiscono quest’ultime o che gestiscono il processo di adozione. Ad aggravare la situazione c’è poi il fatto che gli strumenti di controllo ci sarebbero anche, la procura minorile, il garante dell’infanzia, i vari membri della commissione infanzia, ma a quanto pare non agiscono in maniera efficace. Come può accadere tutto ciò? Che cosa ci garantiscono i controllori? Perché non vengano fatti dei rigidi monitoraggi? La risposta di suddetti enti è stata quella di accusare la mancanza di personale, il che conferma la teoria per la quale, nonostante la sensibilità dell’argomento, si è di fronte a un sistema fallace e non protetto.