Sono padri e madri disperati. Non vengono da Bibbiano, ma le loro storie per molti versi assomigliano a quelle dell’inchiesta “Angeli e Demoni”. Il grido di dolore lascia poco spazio all’immaginazione: “Ci stanno portando via i bambini!” strepitano all’unisono. E questa volta non per infimi disegni di profitto ma per colpa di un sistema, quello degli affidamenti, fondamentale quanto difettoso e manipolabile. Storie da tutta Italia che raccontano il dramma e la disperazioni di genitori impotenti di fronte alla sottrazione dei figli, avvenuta, spesso, per un motivo difficilmente giudicabile valido. Il caso di Giuseppe G., per esempio, porta alla luce un carattere ricorrente in molte delle vicende: l’atteggiamento di predominanza dell’assistente sociale all’interno dei percorsi di sostegno. Sostegno al quale Giuseppe, dipendente per una multinazionale operante in provincia di Monza e Brianza e padre di due figlie, si è rivolto dopo una separazione con l’allora moglie, colpita da disturbi di tipo psichiatrico, confidando in un supporto fisico e morale in grado di accompagnare la famiglia fuori da quel trauma così intimo. La collaborazione con gli assistenti sociali è andata avanti per quasi 10 anni, tempo durante il quale i legami con la madre (nel frattempo ristabilitasi) hanno avuto modo di placarsi. L’unità familiare in via di guarigione, non è bastata, però, a fermare l’ufficio dell’assistente sociale al sorgere di un contrasto tra Giuseppe e la figlia minore riguardante la scelta dell’istituto scolastico da frequentare. L’interazione fino al quel momento pacifica, prende una piega aggressiva trasformando le facoltà dell’operatore in vicariato nei confronti della figura paterna. Gli attriti portano in poco tempo all’approvazione da parte della struttura assistenziale del noto articolo 403 del codice civile riguardante “l’Intervento della pubblica autorità a favore dei minori”, ed entrambe le figlie vengono tolte al padre e sistemate in due comunità differenti. Il motivo validante? Il grave turbamento scaturito dalla scelta della scuola, in aggiunta a referti artificiosi redatti per mano dell’assistente, dove si dipingevano comportamenti sia delle figlie (colpevoli di gravi lacune scolastiche, quando nella realtà entrambe avevano un comportamento esemplare nello studio) sia del padre (accusato di essere “ossessivo” nei compiti e nelle dinamiche istruttive).
Poco tempo dopo, entrambe le deposizioni saranno smentite dal Tribunale dei minori di Milano e dal consulente tecnico d’ufficio assegnatoli e l’uomo potrà riabbracciare le due figlie dopo solo alcuni mesi, per i quali tuttavia il prezzo da pagare sarà fin troppo alto. Se la primogenita riesce in qualche modo, durante la residenza in comunità, a tenersi in contatto con il padre e a istruire una difesa legale per essere rilasciata, il ricongiungimento con la figlia minore avviene tra le mura di un ospedale, dove la giovane era stata ricoverata per aver tentato il suicidio. “Quando lo psicologo opera su mandato dello Stato, in questo caso il sistema giudiziario, non opera per il benessere della persona, della quale per altro, a differenza del campo clinico, non necessita del consenso informato”, spiega Corrado Lo Priore, docente in Psicodiagnostica Forense all’Università di Padova. “In una disciplina come la psicologia, molto soggettiva, si fa pertanto fatica a garantire una standard di oggettività: è per questa ragione che sia gli psicologi sia gli assistenti sociale, quando lavorano in ambito forense, dovrebbero essere ancor più precisi, non lanciarsi in interpretazioni azzardate e non utilizzare strumenti poco validi”.
Una natura della materia di per sé decifrabile in molte chiavi, abilità sociali non sempre collaudate e un sovraccarico di stress, detto anche burnout, tipico delle “professioni d’aiuto”, rendono quindi il già complesso lavoro degli assistenti sociali e degli psicologici forensi una fatica biblica. “Qualunque assistente sociale, di fronte ai casi che si sentono – continua Lo Priore -, ovvero gravi conflittualità familiari, segnalazioni di presunti abusi e via dicendo, si può trovare in difficoltà per il semplice motivo che quelle situazioni non vengono insegnate all’università. Manca una formazione per affrontare queste criticità”. Se l’azione degli operatori sociali è preda delle sfumature giuridiche ed epistemologiche della disciplina, le storture delle comunità e delle case famiglie hanno invece caratteri precisi.
Per Paola di Saronno (che preferisce rimanere anonima), l’abbandono del marito comporta la bancarotta familiare: con un solo lavoro e due figli a carico, il peso dell’affitto e delle spese quotidiane è insostenibile. L’unica via è quella di chiedere aiuto ai servizi sociali, i quali prontamente provvedono ad attivare un percorso Sos di affidamento per i due ragazzi, in poco tempo divisi e trasferiti in due comunità differenti. Niente di irregolare, un iter nel rispetto del suddetto articolo 403. Questa volta e in molte altre, però, la spia di allarme che si accende non riguarda l’intervento degli assistenti, bensì i centri di accoglienza. “Nei tre anni e mezzo che i miei figli hanno passato in comunità, entrambi hanno subito delle violenze sessuali da altri ragazzi più grandi”, racconta la donna.
Una sorta di legge dell’omertà vige all’interno di molti istituti, i quali, l’esempio di Bibbiano su tutti, possono essere teatro di violenze e guadagni sommersi. I minori separati dai genitori e affidati a case famiglia sono almeno 50mila ogni anno, mentre gli enti locali, secondo numerose associazioni private tra cui l’Ami (Associazione matrimonialisti italiani), erogano a questi istituti dai 70 ai 300 euro al giorno per ciascun minore. Così come per il sistema emerso in Emilia-Romagna, non è difficile immaginare come possa esserci chi si approfitta di questo importante giro di affari. Nessuno escluso: gli stessi giudici onorari dei tribunali minorili, difatti, sono a volte coinvolti in un conflitto di interessi che li vede consulenti di quelle stesse case famiglia nelle quali vengono indirizzati i minori in affido. È il caso di Barbara P., stretta nella morsa di qualcosa più grande di lei. Dopo un divorzio conflittuale, infatti, avvenuto a seguito di ripetute violenze sessuali e minacce di morte da parte del marito, il Tribunale dei minori di Piacenza decide di accendere il corridoio di sostegno per l’affidamento del figlio dodicenne. Gli incontri protetti permessi a entrambi i genitori per un’ora a settimana e l’apparente stabilità tra gli ex coniugi fanno sì che il bambino possa uscire dalla casa famiglia per andare a vivere in modo permanente con la nonna, come epilogo di un percorso assistenziale apparentemente ad hoc. Se non per il fatto che, ad oggi, al vaglio degli inquirenti al Tribunale di Ancona (competente per le indagini sui magistrati) ci sono documenti e registrazioni che certificano il conflitto di interessi consumato dagli stessi giudici, in possesso di quote delle società proprietarie proprio di quelle case famiglia dove venivano collocati i bambini, tra cui il figlio di Barbara.
Un’altra finestra che si apre sul fenomeno degli affidamenti è quella dei padri e delle madri separate. La storia di Alekos B. è un genere di cui molti genitori divorziati entrano a far parte: si inizia con una separazione conflittuale, l’intervento degli assistenti sociali e il collocamento del figlio in una comunità o una casa famiglia. A volte alla madre, raramente al padre, viene concesso un avvicinamento o la possibilità di condividere con il figlio ampi spazi della giornata; sia la madre, sia il padre, invece, sono artefici in molti casi di fatti e racconti viziati, studiati per far valere la potestà genitoriale sull’altro. Come nel caso di Alekos, il finale il più delle volte è già scritto: le falsità riportate in tribunale invalidano i processi, i giudici allontanano entrambi i genitori dal figlio, uno per falsa testimonianza, l’altro per inidoneità. E, non senza ripercussioni, sono sempre i bambini a rimetterci.