“Per me Putin non è un amico, ma un furfante”

Letto in filigrana dall’intelligence statunitense, il piano russo appare chiaro: aiutare Bernie Sanders a ottenere la nomination democratica, così da non doversi neppure dare troppo da fare per blindare la conferma di Donald Trump alla Casa Bianca. Di fronte alle illazioni americane, il Cremlino se la ride sornione: “Sappiamo che, avvicinandosi le elezioni presidenziali negli Stati Uniti, ci saranno sempre più notizie su nostri presunti tentativi di interferire nel voto”, commenta Dmitry Peskov, portavoce del presidente Putin. Gli articoli di New York Times e Washington Post sul rapporto fatto dai capi dell’intelligence Usa a deputati e senatori sono “paranoie”: “Non hanno nulla a che fare con la verità”. Che abbia ragione Peskov, o l’ammiraglio Joseph Maguire, licenziato da Trump per avere condiviso con il Congresso le relazioni, fatto sta che, nel giorno in cui si vota in Nevada, la questione centrale di questa campagna pare diventata per chi tifa Putin. Dopo che l’intelligence ha riferito al Congresso che la Russia sta mestando a favore della rielezione di Trump, Sanders è stato informato che Mosca sta dandosi da fare anche per la sua nomination, immischiandosi nelle primarie democratiche. Secondo Washington Post e New York Times, l’intelligence ha messo al corrente delle mene russe anche la Casa Bianca e lo stesso Sanders. Che ha subito reagito, durante un comizio a Bakersfield, in California: “Francamente non mi interessa chi Putin vuole come presidente. Il mio messaggio a Putin è chiaro: stia alla larga dal voto Usa. Quando sarò presidente, me ne assicurerò”.

“A differenza di Trump – ha proseguito Sanders – non ritengo Putin un buon amico: è un furfante”. Mosca vuole “minare la democrazia americana dividendoci”. Il senatore ha anche ipotizzato che “gli attacchi violenti attribuiti alla mia campagna su internet possano non venire da veri supporter”.

In questo clima, non serve che il Cremlino spenda soldi ed energie, basta fare credere che punta sull’uno o sull’altro per influenzare la campagna. Joe Biden sfrutta l’assist: la Russia e Putin – dice – “non vogliono che io sia il presidente” e Trump, che nei suoi tweet tifa Sanders, “non vuole che conquisti la nomination”. I caucuses in Nevada, uno Stato grande quasi come l’Italia con tre milioni di abitanti, assegnano 36 dei 48 delegati dello Stato alla convention democratica di Milwaukee dal 13 al 16 luglio. Sanders li affronta da favorito, mentre alcuni suoi rivali, specie Amy Klobuchar e Elizabeth Warren, oltre che i voti devono contare i soldi nelle casse: anche Pete Buttigieg non nuota nell’oro. A proposito di fondi, secondo una analisi della Cnn Bllomberg ha già speso 350 milioni di dollari per la sua campagna. In vista del SuperMartedì del 4 marzo, la senatrice del Minnesota Klobuchar, che ha già avuto l’endorsement del New York Times, condiviso con la Warren, incassa l’endorsement di San Francisco Chronicle e Seattle Times. E dal mondo del cinema arriva un endorsement per Mike Bloomberg, un po’ mesto dopo il flop nel dibattito di mercoledì scorso e il taglio di decine d’account da parte di Facebook: Clint Eastwood lo indica come migliore anti-Trump.

Le tribù contro il gasdotto del “generale” Trudeau

Justin Trudeau, nelle inedite e improprie vesti di “capo dei Lunghi Coltelli”, contro i capi ereditari della tribù Wet’sewet’en: da almeno due settimane, una fetta di Canada – la British Columbia – è paralizzata dalle proteste dei nativi, sostenuti da migliaia di attivisti, che si battono con sbarramenti e manifestazioni contro un progetto di gasdotto che dovrebbe attraversare le loro terre: quasi 100 mila pendolari bloccati, traffici di merci del valore di miliardi di dollari rallentati. Dopo un ennesimo consulto governativo, il premier ha detto: “L’attuale situazione è inaccettabile e insostenibile. I canadesi sono stati pazienti, il governo è stato paziente … Ma ora le barricate vanno smantellate…”. Un monito ai nativi e un preavviso alle Giubbe Rosse, la polizia a cavallo presente sui luoghi della protesta: i contestatori chiedono che sia richiamata, come pre-condizione all’avvio di negoziati; il ministero dell’Interno nicchia.

La costruzione della Coastal GasLink pipeline (Cgl), iniziata nel 2012, prevede la stesura di circa 670 chilometri di condutture, per un costo di 6,6 miliardi di dollari: il tracciato va dal Nord-Est della Columbia Britannica fino alla costa sul Pacifico, a nord di Vancouver, attraversando le terre dei Wet’sewet’en. La cui protesta si apparenta a quella dei Sioux nel Dakota, a sud della frontiera tra Canada e Stati Uniti, contro la Keystone XL, contestata pipeline Nord – Sud, che Barack Obama aveva bocciato, ma che Donald Trump ha ri-autorizzato.

I discendenti dei Wet’suwet’en s’oppongono al progetto della Cgl e affermano di detenere l’autorità sulle loro terre, su cui – a loro dire – governo e organi elettivi non hanno né competenza né giurisdizione. A sostenerli, erigendo barricate e creando blocchi su strade e ferrovie, migliaia d’attivisti. Nel frattempo, l’impatto della protesta inizia a farsi sentire, dall’industria all’agricoltura: carenze di carburante e di merci e 1.400 posti di lavoro temporaneamente perduti nelle ferrovie; la CnRail, che muove oltre 250 miliardi di merci l’anno in tutto il Canada, ha chiuso parte della sua rete. Nonostante ingiunzioni della magistratura, la polizia s’è finora astenuta dall’intervenire. E Trudeau, in parlamento, ha detto di volere continuare il dialogo con i nativi. In Canada, gli indigeni godono del diritto all’autodeterminazione e all’autogoverno e vanno consultati su qualsiasi progetto riguardi le loro terre.

Fra i Wet’sewet’en, non tutti la pensano allo stesso modo: il Consiglio di Banda, una sorta di sistema di governo indigeno non tradizionale, che i ‘puri e duri’ vedono come un’imposizione di Ottawa, è favorevole al progetto Coastal GasLink; invece, i capi tradizionali sono contrari e si ritengono gli unici legittimati a prendere decisioni. Anche Trudeau e il suo governo sono lacerati: il premier vuole riuscire a fare la sintesi di tre sue contraddittorie promesse elettorali: il sostegno all’industria energetica, la lotta ai cambiamenti climatici e la riconciliazione con i nativi. La vicenda rischia di danneggiare il tentativo d’ottenere un seggio nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu per il prossimo biennio, dando concretezza all’altro slogan elettorale: “Il Canada è tornato”.

Gli indigeni rappresentano circa il 5% della popolazione canadese e, malgrado alcuni progressi fatti con l’Amministrazione Trudeau, restano la fascia sociale più toccata da povertà e discriminazioni: quasi un terzo di loro non ha un diploma di scuola superiore (rispetto all’8% della popolazione non indigena) e molte comunità autoctone hanno persino gravi difficoltà di accesso all’acqua potabile.

Glen Coulthard, uno specialista di studi sui nativi all’Università della British Columbia, membro della Yellowknives Dene First Nation, prevede, parlando con la Bbc, che il conflitto sia avviato verso una escalation. La Nazione Wet’suwet’en, che oggi conta circa 5.000 membri, abita in quella che oggi si chiama British Columbia da migliaia di anni: non ha mai fatto accordi con il Canada e non gli ha mai venduto le sue terre. E a proposito di temi sull’ambiente, Donald Trump Jr ha ottenuto la licenza per cacciare l’orso grigio in Alaska: è uno dei tre non residenti a cui la lotteria è andata bene.

Sudan, l’ex Stato-canaglia ora diventa amico di Bibi

Gli aerei israeliani sorvolano da due settimane lo spazio aereo sudanese. Ma stavolta non si tratta di caccia F-16 carichi di bombe che vanno a colpire qualche carico di armi destinato ad Hamas, a Gaza o agli Hezbollah libanesi. Sono aerei civili della El Al – la compagnia di bandiera israeliana – in rotta verso il Sudamerica. È il primo sviluppo dell’incontro in Uganda fra Abdel Fatah al-Burhan – capo del Consiglio di sovranità transitoria del Sudan – e il premier israeliano Benjamin Netanyahu due settimane fa a Entebbe. Un colloquio nella residenza del leader ugandese Yoweri Museveni sembra aver messo su un binario diverso le contorte relazioni fra due Paesi adesso “ex nemici”.

Netanyahu vede ora una confluenza di interessi tra Israele e i regimi sunniti, sullo sfondo della doppia minaccia – per entrambi – dell’alleanza sciita guidata dall’Iran e i gruppi jihadisti sunniti come lo Stato Islamico (Isis) e al Qaeda. Uno Stato paria come il Sudan che ha un disperato bisogno di riabilitazione dall’Occidente dopo anni di guerra civile, crimini contro l’umanità e coinvolgimento nel terrorismo, percepisce Israele come la strada principale per essere riabilitato e uscire dall’isolamento. Francia, Gran Bretagna e anche l’Italia hanno già “sdoganato” il nuovo corso in Sudan. Ma è indubbio, vista l’aria che tira alla Casa Bianca, che l’ex nemico Israele sia considerato la migliore opzione per uscire dalla “Black List” Usa.

La storia delle relazioni fra Israele e Sudan è contorta, fatta di alti e bassi, di guerre, opportunità, odio, spari e contrabbando di persone, cospirazioni, conti bancari in paradisi fiscali, ma soprattutto di spie e servizi segreti. Il capitolo iniziale fu scritto nella prima metà degli anni Cinquanta, quando il Sudan stava negoziando la sua indipendenza dal governo congiunto britannico ed egiziano – noto come il “condominio” – che governava dal 1899. Temendo le trame del raìs egiziano Gamal Nasser, il principale partito di opposizione dell’epoca – guidato da Sadiq el Mahdi, che diventerà premier più tardi – cercò aiuto diplomatico ed economico dal nemico giurato dell’Egitto: Israele. Ma ottenuta l’indipendenza la luna di miele durò poco, si interruppe alla fine degli anni Cinquanta. Un golpe militare, e l’incantesimo dell’eloquenza di Nasser, trasformò il Sudan in un nemico di Israele. Khartoum mandò pure un simbolico contingente militare per assistere l’Egitto durante la Guerra dei Sei giorni nel 1967. Per dieci anni successivi non ci furono più contatti, nemmeno quelli clandestini fra le agenzie di sicurezza. Israele conosce bene il motto arabo “il nemico del mio nemico è mio amico” e si mise all’opera per sostenere segretamente le forze di opposizione (armata) al governo sudanese. Istruttori sul terreno e dal cielo lanci di armi e munizioni per aiutare le forze ribelli del generale Joseph Lago.

La guerra civile finì a metà degli anni 70, ma non fu la fine del coinvolgimento di Israele. Su ordine del premier Menachem Begin, il Mossad e la Marina israeliana – sfruttando la conoscenza del terreno – misero in piedi due grandi operazioni segrete per evacuare attraverso il Sudan gli ebrei etiopi verso la Terra Promessa. Con “Operation Brothers” prima e con “Operazione Mosè” poi, gli israeliani portarono via attraverso il Sudan quasi 50.000 falasha, gli ebrei etiopi. Ma il ponte aereo e le tangenti pagate segnarono la fine del leader sudanese Jaffar al-Nimeiri, rovesciato con un golpe nel 1989 dal generale Omar al-Bashir, all’epoca profondamente influenzato da un religioso carismatico, Hassan al Tourabi, e il Sudan divenne una teocrazia militare e Osama bin Laden vi trovò rifugio per 6 anni. I legami con l’Iran si fecero più stretti e il Sudan fu usato come centro di smistamento per le armi da mandare ad Hamas, a Gaza. Israele non poteva restare a guardare. A partire dal 2009 i caccia con la Stella di David hanno attaccato mercantili e colonne di camion che trasportavano armi iraniane ai depositi sudanesi.

In questi ultimi dieci anni le relazioni si sono ribaltate ancora. Bashir è stato incriminato nel 2009 dalla Corte penale internazionale dell’Aja per crimini di guerra e contro l’umanità per i massacri nel conflitto nel Darfur del 2003. Da allora come d’incanto l’attrazione dell’ex generale per l’Iran è svanita mentre ha cercato di consolidare i suoi legami con l’Arabia Saudita, mandando truppe (20.000 soldati) a combattere nello Yemen in cambio di denaro e petrolio. Nel 2019 disordini interni e un’ondata di opposizione a lungo repressa si sono fatti strada a Khartoum portando al crollo del regime e al suo arresto.

Adesso con Bashir in cella – che sarà consegnato alla Corte Penale dell’Aja – le condizioni sembrano mature per nuovi rapporti con l’Occidente. Non tutti sono soddisfatti. I tifosi del vecchio regime ancora nell’apparato non accettano la svolta di al-Burhan e del nuovo governo di transizione. La notte di Khartoum è spesso lacerata dalle raffiche di kalashnikov, la partita sudanese non è finita.

Mail Box

 

Il “complotto” di sinistra contro il leader della Lega

Gentile Direttore Marco Travahlio, Questa e ’ la barzelletta piu ‘ bella che io abbia mai sentito!!! un migrante che si sente prigioniero in Italia, vuole tornare in Gambia per curarsi bello smacco per la sanità italiana, visto e considerato che a loro nulla fa mancare a discapito degli italiani, poi mi domando, vuol tornare in Gambia!! ma non era scappato dalla guerra? o questo fa il finto scontento per guadagnarsi un posto Doc, ho una storia messa in piedi contro Matteo Salvini dai soliti noti del centro sinistra.

Visto e considerato che il vice Sindaco di Rimini, Gloria Lisi sostiene che il rimpatrio non e ‘ possibile per colpa di Salvini, praticamente si sta’ consumando il secondo caso di sequestro di persona commesso da Matteo Salvini!! per favore vediamo di essere seri!!!!

Saluti. (Sarei felice che pubblicaste anche lettere in difesa di Salvini, come quelle contro, inviate da parte di gente di sinistra. Grazie).

Riccardo Ducci

 

Accontentato. Come natura crea.

M. Trav.

 

DIRITTO DI REPLICA

Nell’articolo di Natascia Ronchetti sul Fatto di ieri, si afferma che il divieto di pubblicità sui giochi non si applica se la pubblicità viene fatta in ottemperanza alle convenzioni tra l’Agenzia Dogane e Monopoli e i concessionari.

In proposito, si precisa che l’Agenzia ha eliminato tale obbligo da tutte le convenzioni rinnovate dal 2016 in avanti e che, in ogni caso, ha stabilito che il divieto previsto dal dl Dignità prevale su eventuali previsioni convenzionali”.

Lorenzo Pisoni, ufficio stampa Agenzia Dogane e monopoli

 

Prendiamo atto della precisazione sul vincolo della promozione del gioco che l’Agenzia Dogane e Monopoli ha iniziato a eliminare dal 2016 mano a mano che scadevano le convenzioni. Ma va detto che le convenzioni durano nove anni. Quella con Sisal per il Superenalotto è stata rinnovata solo nell’autunno del 2019. Che poi Sisal non abbia più fatto pubblicità, subordinando la convenzione (così come ha fatto l’Agenzia) al decreto Dignità, è un altro discorso.

N. R.

 

Ho letto l’articolo del 21.02 “Descalzi da Fraccaro a Chigi…” dove si afferma che mi sarei precipitato da Londra a Roma in elicottero per incontrare Matteo Renzi allora primo ministro. Non ricordo francamente dove fossi, probabilmente proprio a Roma. Certamente ricorderei, se lo avessi fatto, un viaggio in elicottero da Londra a Roma. Sarebbe stato un volo di almeno 10 ore più 3 soste per il carburante che a nessuno verrebbe in mente di fare.

Paolo Scaroni, ex ad Eni oggi presidente del Milan

 

Con riferimento all’articolo “L’Agenzia Spaziale ora fa l’investitore a rischio nelle startup” a firma di Virginia Della Sala, pubblicato sul Fatto il 20 febbraio 2020, si precisa quanto segue.

L’affermazione dell’occhiello per cui “Sotto Battiston l’Asi aderì ad un fondo di venture capital che sarà gestito dalla fondazione di cui risulta direttore scientifico” è falsa in quanto il fondo in questione sarà gestito da Primomiglio SGR e non certo dalla Fondazione “E. Amaldi” (Fea), essendo tale attività riservata per legge agli intermediari autorizzati; inoltre io non sono direttore scientifico della Fondazione Amaldi e non ho nessun incarico che riguardi il fondo. Coordino, per conto di Fea, il Comitato Scientifico del New Space Economy Expoforum (Roma dicembre 2019).

Sotto la mia presidenza l’Asi ha aderito al progetto di istituzione del Fondo, con una delibera del CdA dopo un procedimento che ha visto l’approvazione del progetto da parte del Miur, ministero vigilante. È seguita una fase preparatoria da parte della SGR presso gli investitori, terminata nel settembre 2019.

Questa fase è stata seguita prima dal commissario e poi dal nuovo presidente Asi. Dal novembre 2018, infatti, non ho avuto più alcun ruolo in Asi e dall’estate 2019 ho lasciato anche l’incarico di presidente Fea. Ogni atto o decisione successiva spetta agli organi dell’Asi, inclusa la decisione finale di adesione o meno al fondo o di Fea in cui siedono i rappresentanti dell’Asi. La descrizione del fondo è inoltre grossolanamente errata: da parte di Asi si tratta di un “investimento” e non di una “elargizione”, con una attesa di ritorno economico importante e non certo “a fondo perduto”. Lo strumento del fondo è usato largamente negli Usa, UK, Francia, e Germania proprio nel settore delle start-up spaziali e con questa iniziativa si intende coprire questo gap competitivo.

Roberto Battiston

 

Prendiamo atto della estraneità del professor Battiston da ogni procedimento attuale legato al Fondo da lui stesso voluto quando era alla presidenza dell’Asi, estraneità che rischiava di non apparire così scontata per la diffusione di alcune informazioni che, alla luce delle attuali precisazioni, appaiono fuorvianti anche perché fornite attraverso canali ufficiali (Asi e New Space Economy Expoforum).

Vds

Quell’edicola di via della Vetra, a Milano, da dove partì il contagio

Trovandoci a Milano, ieri mattina siamo passati in quell’edicola che sta sul principio di via della Vetra de’ Cittadini dalla parte che mette al corso di Porta Ticinese (quasi dirimpetto alle colonne di San Lorenzo) e proprio lì abbiamo visto una donnicciola chiamata Caterina Rosa urlare contro un tizio – tal Guglielmo Piazza, genero della comar Paola – che strofinava sui palazzi strane carte che, da lontano, parevano giornali. Sui muri alla fine era rimasta una sostanza untuosa di color nero su cui si leggevano malamente quelli che dovevano esser stati titoli di prima pagina: “Italia infetta” (Giornale), “Virus, il Nord della paura” (Repubblica), “Avanza il virus, Nord in quarantena” (Messaggero), “Vade Retro Virus” (Libero), “Un governo in quarantena” (La Verità). Sì, lo diciamo per i non manzoniani, è un adattamento al coronavirus delle prime scene della Storia della colonna infame, libro in cui pure ci si avvertì sulla “rabbia contro pericoli oscuri, che, impaziente di trovare un oggetto, afferrava quello che le veniva messo davanti; che aveva ricevuto una notizia desiderata, e non voleva trovarla falsa”. Ma, ragazzi, non s’era detto: informazione puntuale e utile? Non s’era detto: fare tutto quel che serve per arginare il virus, ma senza diffondere il panico? Che poi abbiamo pure letto sul Medical Journal of Parapagal che gridare isterici, farsela sotto (o volere che gli altri se la facciano sotto) e invocare questa o quella soluzione draconiana aumenta il rischio di contagio, a non dire – ed è di gran lunga la cosa più fastidiosa – che non è elegante.

Ogni persona ha diritto a essere ascoltata. Questo ci insegna Gesù

Al centro del racconto del Vangelo di questa ultima domenica prima del tempo della Passione (o di Quaresima), troviamo i discepoli che, pur avendo occhi e orecchi ben funzionanti, non riescono a vedere e capire la via che Gesù mostra loro: “‘Ecco, noi saliamo a Gerusalemme, e saranno compiute riguardo al Figlio dell’uomo tutte le cose scritte dai profeti; perché egli sarà consegnato ai pagani, e sarà schernito e oltraggiato e gli sputeranno addosso; e, dopo averlo flagellato, lo uccideranno; ma il terzo giorno risusciterà’. Ed essi non capirono nulla di tutto questo; quel discorso era per loro oscuro, e non capivano ciò che Gesù voleva dire” (Luca 18,31-34).

Giustapposto ai discepoli, troviamo una persona cieca che, a Gerico, sta mendicando per sopravvivere e che viene presentata come la figura del credente che coglie l’occasione che si presenta, esprime il suo desiderio senza esitare, non si rassegna, manifesta la propria fiducia e, una volta soddisfatto, non scompare ingrato: “Com’egli si avvicinava a Gerico, un cieco che sedeva presso la strada, mendicando, udì la folla che passava, e domandò che cosa fosse. Gli fecero sapere che passava Gesù il Nazareno. Allora egli gridò: ‘Gesù, Figlio di Davide, abbi pietà di me!’. E quelli che precedevano lo sgridavano perché tacesse; ma lui gridava più forte: ‘Figlio di Davide, abbi pietà di me!’. Gesù, fermatosi, comandò che il cieco fosse condotto a lui; e, quando gli fu vicino, gli domandò: ‘Che vuoi che io ti faccia?’. Egli disse: ‘Signore, che io ricuperi la vista’. E Gesù gli disse: ‘Ricupera la vista; la tua fede ti ha salvato’. Nello stesso momento ricuperò la vista, e lo seguiva glorificando Dio; e tutto il popolo, visto ciò, diede lode a Dio” (Luca 18, 35-43).

Può sorprendere che Gesù chieda a una persona disabile “Che vuoi che io ti faccia?”. Per noi è evidente che una persona non normodotata voglia essere normodotata, che una persona malata voglia recuperare la salute perduta. Noi non abbiamo bisogno di conoscere il pensiero e il vissuto di una persona così, perché pensiamo di conoscere già l’essenziale. E quindi non pensiamo neppure che ci sia bisogno di ascolto. Per Gesù è diverso: qualsiasi essere umano, prima di essere uomo o donna, sano o malato, straniero o compatriota, correligionario o di un’altra religione, prima di tutto è un essere umano, con la sua dignità e responsabilità, con la sua capacità di scelta e di giudizio, degno di essere interrogato e ascoltato, degno di essere considerato soggetto e non oggetto.

Questa persona, cieca, che tanto ha insistito per poter avere vicino Gesù, che lo ha riconosciuto come il Messia atteso (“Figlio di Davide”), viene guarita con attenzione e delicatezza. Senza alcun gesto magico ma attraverso un dialogo che lo riscatta. E così, l’impossibile diventa possibile, cade la grande barriera, inizia una vita nuova: il cieco torna a vedere. E che fa? Si mette a seguire Gesù. Giusto, pensiamo noi. Ma così facendo si unisce a coloro che, proprio poco prima, avevano cercato di impedire quell’incontro.

Ma che volete, non si incontra mai Gesù da solo, c’è sempre gente con lui. È così nei racconti evangelici, è così sempre, anche oggi. Per qualcuno sarà anche spiacevole o addirittura sarà un ostacolo alla fede, ma è così: non si incontra mai Cristo senza i cristiani. E per sentirsi dire “la tua fede ti ha salvato”, bisogna accettare Gesù con la sua folla di seguaci maldestri, che spesso capiscono poco o nulla di quello che Gesù dice e vuole. E allora mettiamola in un altro modo: anche se dobbiamo ammettere che i cristiani siano il maggior ostacolo per potersi liberamente avvicinare a Cristo, è consolante che Cristo stesso non disdegni la loro compagnia ma, anzi, li incoraggi a seguirlo lungo la via del discepolato.

*Già moderatore della tavola Valdese

Virus, il gesto di Giorgia che la sinistra deve cogliere

 

“Sul coronavirus Fratelli d’Italia, sin dall’inizio, ha dato la sua massima disponibilità a collaborare perché questo è il momento di lavorare e non è il momento delle polemiche. Ma chiediamo al presidente Conte di venire a riferire in Parlamento”.

Giorgia Meloni

 

Da sempre, chi non vuole prendere atto che in Italia l’elettorato di centrodestra è (quasi) sempre stato maggioritario rispetto a quello di centrosinistra, lamenta l’assenza di una destra repubblicana. La cui definizione non è stata mai declinata con precisione, se non per contrasto. Certamente non fu destra repubblicana il vecchio Msi, troppo compromesso con il reducismo fascista e di Salò. Neppure lo è stata Forza Italia, partito personale e dunque troppo condizionato dagli interessi aziendali di Silvio Berlusconi. Ci ha provato Alleanza Nazionale che, coinvolta suo malgrado da Gianfranco Fini nella guerra contro l’alleato dominante Berlusconi, ha poi finito per smarrirsi nella casa di Montecarlo. Quanto alla destra odierna, Matteo Salvini ne incarna l’aspetto più becero e xenofobo (chiamasi sovranismo) giocando una partita tutta sua poiché la Lega in quanto tale è soprattutto un partito che governa quasi tutto il Nord produttivo e che bada al sodo. Il contrario di Fratelli d’Italia, che ha un leader certamente più solido e preparato, Giorgia Meloni, ma una classe dirigente non sempre all’altezza, o perché troppo vecchia (quella trasmigrata da An), o perché ancora troppo giovane e impreparata. Non è stato facile per la Meloni costruire un profilo autonomo e diverso dall’imperversante salvinismo, eppure ci sta riuscendo come dimostrano i sondaggi in costante crescita. Lo ha fatto rovesciando, in un certo senso, la tattica resa celebre dal generale prussiano Von Moltke: marciare divisi per colpire uniti. Che è diventata: marciare uniti per colpire divisi. Per esempio, Salvini e Meloni teorizzano entrambi il rischio di una sottomissione dell’Europa cristiana all’Islam attraverso l’invasione incontrollata di migranti economici. Con la differenza che dopo la strage di turchi in Germania a opera di uno psicopatico mentre il cosiddetto Capitano si è limitato a una generica solidarietà, la leader di Fdi ha sottolineato con una forte condanna che nella “nostra Europa non può esserci spazio per violenza, razzismo e xenofobia”. Tre paletti degni di una destra europea, sia pure critica con le istituzioni di Bruxelles, ma nemica di ogni deriva eversiva. Altro esempio: Salvini e Meloni conducono una dura opposizione al governo Conte con l’obiettivo delle elezioni anticipate per cogliere un probabile successo. Però, sul rischio di un’epidemia di Coronavirus in Italia, mentre Salvini ha cercato di sfruttare l’emergenza sanitaria a proprio uso e consumo, la Meloni ha offerto collaborazione a chi, nel governo e nelle amministrazioni locali di ogni colore, si trova in prima linea, poiché “non è il momento delle polemiche”. Forse la destra della Meloni prima di definirsi con un profilo di destra repubblicana (cioè compiutamente in sintonia con i valori della Repubblica e della Costituzione) dovrà compiere altri decisivi passi. Che sarebbe interesse della sinistra agevolare (nell’interesse di tutti) invece di passare il tempo a cercare i globuli neri nel sangue dell’avversario (copyright Alessandro Giuli). Per rimarcare una superiorità politica e morale tutta da dimostrare.

Record di caldo e ribellione ecologica in Francia

In Italia – Il tepore di questo inverno fallito continua a imperversare: 21 °C in Liguria e Sardegna lunedì 17 e martedì 18 febbraio, 5-8 °C più del dovuto, al Nord spuntano le foglie dei salici e in Romagna fioriscono albicocchi e peschi. A metà settimana un breve sbuffo più fresco ha innescato perfino i primi temporali dell’anno sulla costa riminese, mentre sotto il foehn tornava il fuoco nei boschi della bassa Val Susa. L’ennesima vampata tiepida è in corso e culminerà domani con 20 °C al Settentrione. Mercoledì 26 febbraio alla Camera dei deputati, in presenza delle autorità italiane ed europee, saranno presentati il Soer 2020 (State of the Environment Report), l’Annuario Ispra dei dati ambientali 2019 e il Rapporto Ambiente – Snpa, strumenti fondamentali per fare il punto sui problemi locali e comunitari di clima ed ecosistemi. E un’atmosfera per niente glaciale accompagnerà, giovedì 27 e venerdì 28, il 24° Alpine Glaciology Meeting all’Università di Milano: una sessantina di scienziati parleranno di monitoraggio di ciò che resta dei ghiacciai in epoca di riscaldamento globale.

Nel mondo – Il Centro-Nord Europa non si era ancora ripreso dalle batoste della tempesta “Ciara” del 9-10 febbraio, quando nello scorso weekend si è sviluppata un’altra, intensissima depressione, “Dennis” secondo il MetOffice. Sabato 15 al suo interno la pressione era di appena 920 ettopascal a Sud dell’Islanda, valore superato, nel Nord Atlantico, solo dal ciclone extratropicale che nel gennaio 1993 fece naufragare la petroliera Braer alle isole Shetland (913 ettopascal). Conseguenze: venti anche a 190 km/h sulle alture della Scozia, piogge fino a 133 mm in 24 ore sui suoli già saturi e inondazioni tra le più estese degli anni recenti nel Regno Unito, specie in Galles (fiume Wye ai massimi in due secoli), 5 vittime, e un nuovo anomalo trasporto d’aria calda subtropicale sul continente europeo. Ecco alcuni record di temperatura massima per febbraio raggiunti domenica 16 o lunedì 17: 28,3 °C a Oloron-Saint-Marie (Pirenei Atlantici), 21,2 °C a Délémont (Svizzera), 18,1 °C ad Amburgo, 9,7 °C all’osservatorio alpino della Kredarica, Slovenia (2514 m), primato sbalorditivo poiché registrato di notte! Impressionanti, poi, le anomalie termiche dell’ultima settimana in tutta la Russia, ben 10-15 °C oltre la norma in un raggio di 4000 chilometri da Ovest a Est. MeteoSvizzera annuncia che il trimestre dicembre 2019 – febbraio 2020 si chiuderà come il più tiepido nella serie climatica nazionale dal 1864, superando i casi del 1989-90, 2006-07 e 2015-16 con circa 2,5 °C sopra media. Sussulti d’inverno invece in Nord America: mercoledì due vittime in un mega-tamponamento di 200 veicoli presso Montreal, causato dal “white-out” per la neve sollevata dal vento; venerdì, nevicate, ghiaccio e caos nel traffico in Virginia e North Carolina. Alluvioni e frane in Indonesia (almeno 4 vittime), Zimbabwe (distruzione di ponti e strade, un morto) e Perù. Uno studio italiano, guidato da Daniele Masseroni dell’Università di Milano e uscito su Hydrology and Earth System Sciences (65-year changes of annual streamflow volumes across Europe) analizza i dati di quasi 3500 stazioni idrometriche in una quarantina di Paesi europei, evidenziando, dal 1950, un aumento dei deflussi fluviali annui nel Nord del continente e una netta diminuzione al Sud. Facce opposte del riscaldamento atmosferico, che da un lato gonfia i fiumi boreali accelerando la fusione di neve e ghiacciai, dall’altro li secca attraverso una maggiore evaporazione nell’area mediterranea. E in Francia oltre 1000 ricercatori esortano alla ribellione ecologica contro una politica inefficace verso clima e ambiente: rebellionscientifiques.wordpress.com.

Perché non esiste più il lavoro?

La domanda viene continuamente posta, con vero allarme, con finta ingenuità, con moderato interesse. Il più delle volte siamo impegnati (o fingiamo) in una singola, locale protesta, per una fabbrica che non andava affatto male ma ha deciso di “delocalizzare” (una sorta di “serrata”, come direbbe il codice, che nessuno denuncia) e ha portato via i macchinari lasciando gli operai sorpresi dal vuoto, un lunedì mattina. Eccoli a battere tamburi e grida in rima per una quindicina di giorni, col sostegno che non si nega a nessuno, ma non include paghe o liquidazioni.

La risposta sarebbe semplice. Non c’è lavoro perché non c’è vaiolo. Estesissime vaccinazioni nel mondo hanno stroncato l’uno e l’altro male. Per il lavoro la missione di polverizzare la più grande organizzazione umana che ci sia stata dopo gli eserciti leggendari di Ciro, Gengis Khan e la Dinastia Xian, ovvero i sindacati dei lavoratori, non è ancora del tutto finita. Sovietici e cinesi hanno (o avevano) trasformato gli operai in soldati, gli Stati Uniti hanno cooptato (in tanti modi più o meno legittimi) i capi sindacali tra i dirigenti di impresa con relativi bonus, per tutti gli altri è stato molto utile il disprezzo e la denuncia in modo da screditare ogni tentativo sui tre fronti dove la lotta al lavoro finora ha vinto: sempre minore il numero di occupati, sempre più basse le paghe, sempre più alto il proclama “le persone non servono, c’è la tecnologia”. Ecco i due pilastri dell’ideologia della Brexit secondo Boris Johnson, primo ministro dell’Inghilterra finalmente affrancata dall’Europa, che aveva strane manie di integrazione di scuole, ricerca e lavoro, con libera circolazione dei talenti: “D’ora in poi affidamento su manodopera locale e sulla automazione”. La manodopera locale, se non era al lavoro già prima, accanto agli “stranieri” bene accetti e ben pagati, ovviamente vale meno, dovrà stare al suo posto e non sognarsi di creare nuove trovate sindacali e nuove assurde richieste per il lavoro che costa sempre troppo. Gli ex compagni di costosissime scuole private frequentate da Johnson gli saranno grati per aver dato loro operai di sicuro dialetto locale, bravi nei canti e nelle danze tradizionali, debolissimi nei diritti dei lavoratori, perché sicuri di avere vinto ora che sono (come gli si è fatto credere) soli a comandare, mentre in realtà sono soli a ubbidire alle trovate dei nuovi tagliatori di teste, a mano a mano che si susseguiranno gli accorpamenti tra imprese, che riducono le spese (tanto c’è l’automazione) tagliando di volta in volta il personale. A questo punto lo sguardo si rivolge al mago di Trump, che ha prodotto un clamoroso balzo in avanti nell’economia americana sei mesi dopo la fine della presidenza Obama. E gli economisti da firma (con l’eccezione del Paul Krugman) hanno preteso di non accorgersi che nessun balzo in avanti avviene in sei mesi e che dunque Trump stava raccogliendo e disonestamente accreditandosi il raccolto di Obama. E continuano a far finta di non vedere che il lavoro, a fine mandato Trump, si allarga per ragioni non nobili: c’è stato un taglio clamoroso delle tasse alle imprese (non ai cittadini) e un generale abbassamento di paghe. Nessuno nega, pur celebrando la presunta vittoria di Trump, che mai, nella storia del lavoro americano, le paghe siano state al livello minimo di questi giorni di fine impero. Intanto Trump studia, ogni due settimane, una nuova politica dei visti che tenga lontani dall’America sia i messicani poveri, che fanno vivere l’agricoltura statunitense, sia i giovani colti che puntano alle grandi università americane. In questo modo priva il Paese di braccia e di teste proprio mentre la grande espansione (sua o di Obama) sarebbe in grado di arricchire il Paese di una straordinaria forza-lavoro a diversi livelli e quasi privi di concorrenza. Per anni, importanti premi Nobel nella medicina e nelle scienze sono toccati ad americani dal cognome impronunciabile in inglese, ma di nazionalità, studi e genialità americani. Trump sogna un mondo tutto americano (quanto a carte e passaporti) e dunque il contrario di ciò che è stata l’America prima di lui. Nel correre dietro al suo folle sogno, si dà da fare per sradicare il lavoro e in questo modo si mette alla testa del più cieco sovranismo. Sentite come lo imita il governo inglese della Brexit, che può avere la stessa ambizione, ma non ha le stesse risorse. Dice Johnson che d’ora in poi per essere accettati nel Regno Unito dovete avete la preparazione scientifica che si veniva a cercare nel Regno Unito, dovete avere già un contratto di lavoro da almeno 27 mila euro (che è difficile ottenere vivendo altrove) e dovete sapere l’inglese, che era (imparare la lingua) la grande attrazione per lavorare con paghe minime. Come si vede, il sipario di ferro della bassa intelligenza e della estraneità alla cultura e alla storia del sovranismo sta calando di fronte a noi come una pesante cortina. Spezzare il mondo e piegare il lavoro sono i due articoli di fede. Chi pensa di opporsi dovrebbe farlo subito.

Che fine ha fatto il povero Gad?

La notizia c’è: “Agcom sulla Rai: danno erariale”. C’è pure una grafichetta sui “rilievi del garante”, con citati tre casi finiti sotto il severo giudizio dell’Autorità garante. Quel che manca – vuoi per una distrazione del redattore, vuoi per una carineria nei confronti di un collega – è il nome di Gad Lerner. L’omissione accade su Repubblica, che ieri ha raccontato le motivazioni della multa Agcom alla Rai. Motivazioni tra le quali ci sarebbe anche una puntata di L’Approdo, in onda su Rai3 con la conduzione proprio di Gad Lerner. Sfiga vuole che Lerner – si badi bene: da noi difeso rispetto al giudizio dell’Agcom – scriva proprio per Repubblica, in cui è tornato lo scorso anno dopo una lunga militanza in passato. Di qui il dubbio amletico per il quotidiano: che fare? Eliminare direttamente la notizia? Scriverla, prendendo le difese del collega? Pubblicare un suo editoriale a tutta pagina? Alla fine vince un precocissimo diritto all’oblio: si scrive la notizia ma si lascia stare il povero Gad, evitando di citare lui, il suo programma e quanto evidenziato dall’Agcom . Molto meglio bombardare il Tg2, che tanto è filo-salviniano. E non ci lavora nessuno di Repubblica.