Mastella ci ripensa e resta sindaco: “Me lo chiedono i bimbi per strada”

Sapendo di poter contare solo sul sostegno di 14 consiglieri su 32 e un quindicesimo, il medico eletto in Forza Italia, Nanni Russo, legato a doppio filo all’ex ministra Nunzia De Girolamo, “che non potrebbe mai far parte di una mia nuova maggioranza” perché sono uscite fuori intercettazioni imbarazzanti sul suo conto, Clemente Mastella ha ritirato le dimissioni dalla carica di sindaco di Benevento.

E da domani navigherà nel mare aperto e periglioso delle trattative da Prima Repubblica per ottenere i tre voti che gli mancano, e così sopravvivere agli ultimi 15 mesi di mandato. Acque che conosce benissimo. Abituato a dialogare a destra, al centro e a sinistra da più di 20 anni, Mastella sfodererà la sua spregiudicatezza politica per provare ad allargare il campo di gioco senza disdire l’impegno espresso in più dichiarazioni pubbliche e in un’intervista al Fatto: sottrarsi “all’arraffa arraffa” delle “continue richieste” dei “voltagabbana” che lo terrebbero sotto scacco, e fare “piazza pulita delle fetenzie”.

Non sarà facile. Tra le “fetenzie” di cui si è vociferato nei venti giorni tra le dimissioni e il suo ritiro, c’è una intercettazione dell’inchiesta sui traffici di droga del clan Sparandeo del 24 aprile 2017 – Mastella è sindaco da quasi un anno – in cui due degli arrestati del blitz di gennaio della Dda di Napoli discutono in automobile della possibilità di far assumere due parenti nella società comunale dei rifiuti. Uno dei due chiede se a dirglielo “sia stato Renato” e l’altro risponde “sì”.

“Renato” non è stato identificato dagli agenti della Mobile e vai a capire se davvero due presunti malavitosi avevano entrature tra le municipalizzate. Però il rumore delle indagini, con le trascrizioni delle intercettazioni di Nanni Russo furioso per non aver ricevuto i voti degli Sparandeo ed essersi fermato a “sole” 300 preferenze – “Quei porci di merda…(…) perché a uno gli ho fatto fare il Natale a casa… Ma quante sono 300 persone? Tutte di Nunzia… (…) al di fuori dei nostri sono tutti di Nunzia!” – ha turbato Mastella che ne ha parlato spesso davanti a telecamere e taccuini.

Le dimissioni non erano irrevocabili, ma Mastella era seriamente tentato dal ritorno alle urne in primavera. Ha desistito quando ha capito che la Lega e Fratelli d’Italia non lo avrebbero appoggiato. C’era il piano B di un accordo col Pd, nell’ambito di un pacchetto che comprendeva tre voti zingarettiani in consiglio comunale in cambio del sostegno della senatrice Sandra Lonardo Mastella al governo Conte 2 e poi l’ok dei mastelliani ad aiutare De Luca alle Regionali. Ma necessitava di tempi di cottura più lunghi della finestra dei 20 giorni. Mastella quindi prosegue al buio, e ieri in diretta streaming ha spiegato come continuerà a fare il sindaco. “Il mio accordo è con la città”. Traduzione: cercherò intese istituzionali con chi vorrà starci. “Farò cambi in giunta e cercherò assessori nella società civile”. Per forza, ché nel frattempo due, Anna Orlando e Luigi De Nigris, si sono già dimessi. “In questi giorni diversi bambini mi hanno scritto sui social e mi hanno detto per strada ‘non ti dimettere che ti vogliamo bene’, ecco perché sono rimasto, per loro, per i nipotini che qui non ho”. Sipario.

Di Battista, prove da leader: “Niente beghe, prima i temi”

L’ex trascinatore che sta tornando dall’Iran ha in tasca la sua “proposta politica”, idee e nomi per il Movimento prossimo venturo, e un telefono colmo di messaggi di 5Stelle di vario ordine e grado che vogliono stare dalla sua parte, a prescindere. Ormai Alessandro Di Battista ha già una bozza di manifesto con alcuni punti chiave, “nazionalizzazione”, “rafforzamento dello Stato sociale”, “legge sul conflitto d’interessi”, e di fatto anche una squadra. E su Instagram lo rivendica: “Sto lavorando con un gruppo di persone valide a una proposta, solo idee e progetti”. Non vuole posti, giura: “Ho voglia di dare una mano, ma non chiederò nessuna poltrona: dirò la mia”.

Però una voglia ce l’ha Di Battista, essere il punto di riferimento e magari il capo politico dei Cinque Stelle. Ma prima di decidere per davvero, dovrà liberarsi di tanti dubbi e ignorare certe proposte, anche quelle che non gli sono ancora arrivate. Nel dettaglio quelle di Luigi Di Maio, l’ex capo che si sta già organizzando per tornare a dare le carte, per interposti leader (Appendino e proprio Di Battista, per esempio) o in prima persona. Di sicuro con Di Battista si è sentito regolarmente, anche in queste settimane. Ma Di Maio e l’ex deputato, dicono, non hanno ancora mai parlato di quello di cui dovranno per forza parlare, ossia dei rispettivi piani. Perché Di Maio pensa di cooptare l’ex deputato nel suo progetto, innanzitutto per non averlo come avversario, visto che Di Battista può muovere tanta base e un pezzo del corpaccione parlamentare.

Così ne discuteranno presto, perché da qui a fine mese Di Battista rientrerà dall’Iran. E i loro incontri saranno il vero snodo verso gli Stati generali, il congresso del Movimento che è un mistero per nulla buffo, ancora privo di regole, sede e data, e non a caso la sola ipotesi di un ulteriore rinvio a luglio ha provocato un diluvio di proteste. Tutte contro il reggente Vito Crimi, capo provvisorio che già sente il peso delle mille rogne, a partire dalla collocazione politica. Un nodo che però è anche il principale punto di contatto tra Di Maio e Di Battista, e infatti ieri l’ex deputato è stato dritto: “Il nostro unico futuro è la terza via, ma non si può banalizzare tale concetto parlando esclusivamente della collocazione del Movimento alle elezioni che sono il mezzo, non il fine”. E terza via è la stessa formula che Di Maio e i suoi, prima tra tutti Laura Castelli, rilanciano da settimane. Su quello Di Battista è perfettamente in linea, come era con Di Maio quando cercò inutilmente di fermare il governo con il Pd, lo scorso agosto. D’altronde anche dall’Iran ha dato segnali chiari. Quando qualche settimana fa un’assemblea degli attivisti in Campania ha scandito un netto no all’accordo con i dem con le Regionali, Di Battista lo ha detto ai suoi: “Normale che finisse così, era prevedibile”.

L’ex deputato ritiene che la gran parte della base sia contraria ad alleanze anche tecniche con il Pd, figurarsi se strutturali. E infatti i dem sono già preoccupati. Dopodiché, a chi in queste ore gli ha parlato di liti su alleanze e Stati generali, lo ha giurato: “Non voglio infilarmi in certe beghe, nel politichese, voglio occuparmi di temi”. E ieri su Instagram ne ha disseminati alcuni: “Va rafforzato lo Stato sociale, la parola nazionalizzazione deve tornare a essere una parola bella, e va costruito un multiculturalismo sempre più forte in politica estera. E va fatta questa cazzo di legge sul conflitto di interessi, durissima”. Il tutto verrà tradotto in un documento fatto di punti programmatici a cui Di Battista lavora da settimane, innanzitutto con l’eurodeputato siciliano Ignazio Corrao (amico di vecchia data, laziale come lui) e la senatrice ed ex ministra Barbara Lezzi. Sono loro i motori del “gruppo” a cui fa riferimento Di Battista. E non a caso in serata Corrao scrive su Facebook: “È cosa nota che io sia legato a Di Battista, e ho sofferto per la sua mancanza come gran parte del M5S. Ci sono tanti temi su cui vanno prese posizioni forti e c’è da lavorare a un rilancio coraggioso”. Nel post l’eurodeputato cita non a caso Max Bugani, veterano che ha un solido rapporto con Di Battista. Ma con l’ex deputato hanno legami stretti anche agli ex sottosegretari Simone Valente e Gianluca Vacca e il segretario d’aula alla Camera Daniele Del Grosso. “Ma il gruppo si allarga costantemente, molti eletti ci chiedono come dare una mano”, sostengono.

Però, sullo sfondo c’è già quell’ansia, nella potenziale “mozione” Di Battista. Ossia il timore che l’ex eletto scenda a patti con Di Maio, siglando un patto di non belligeranza con l’ex capo. Quello che tanti non vogliono, tra i suoi, “visto che ora bisogna cambiare”. Perché il congresso tutto da costruire è già in corso. Eccome.

“Niente carriera per il pm che sbaglia”

Ha scelto lui di esserci, sostituendo Maria Elena Boschi che era data presente fino alla sera prima. “Ci teneva molto e voleva intervenire personalmente” raccontano gli esponenti locali di Italia Viva. E così Matteo Renzi ieri mattina nella sede della Camera di Commercio di Brescia si è presentato per primo sul palco per l’inaugurazione dell’Anno giudiziario delle Camere penali.

Ha ottenuto di ribaltare la scaletta intervenendo prima di tutti per poi lasciare Brescia e andare chiudere i lavori dell’assemblea nazionale di Italia Viva. “Ma non sono qui ad aprire una campagna elettorale e a cercare voti, ma per ringraziarvi perché lavorate per fermare la battaglia che i populisti hanno fatto contro i diritti di civiltà giuridica” ha spiegato Renzi in quella che è stata l’ennesima occasione per tentare di dare una nuova spallata al Ministro Bonafede e al governo Conte. “Siamo la terra di Beccaria e non di Bonafede e lo vedrete. Non essendoci i numeri anche certe timidezze e ipocrisie di chi si proclama riformista e segue il giustizialismo pentastellato sarà messo alla prova dei fatti e i numeri in Parlamento con questa legislatura non consentiranno di andare avanti con la proposta attuale della prescrizione”.

Poi ancora contro Bonafede, nemico numero uno al pari del premier. “Bonafede a un certo punto ha avanzato una proposta indecente verso Lucia Annibali: modificare il suo lodo chiamandolo Annibali bis e lei ha detto che certe schifezze con il suo nome non si fanno. Per questo sono orgoglioso di essere compagno di percorso della Annibali”.

Nel mirino del leader di Italia Viva sono finiti “i populisti, quelli che hanno fatto il filmino della cresima a Battisti che è stato esposto il giorno dell’arresto in un modo indegno per un paese civile”. E avanti con i pensieri che gli avvocati volevano sentirsi dire. E hanno sentito. “Bisogna vincere la battaglia culturale che è quella sui principi giuridici perché do per scontato che la battaglia sulla prescrizione sarà vinta. Il giustizialismo è il populismo dei mediocri e sarà sconfitto perché non può trionfare chi va nei talk o sui social a sparare sentenze per ottenere consenso” ha detto il senatore toscano. “Si è creata una situazione populista nella quale si dice che abolendo la prescrizione tutto funziona, ma non è così e non puo esserlo” è stato il pensiero di Renzi che rivolgendosi direttamente ai tanti avvocati in sala ha detto: “Sul tema della prescrizione non si gioca il privilegio di qualcuno, ma un diritto di tutti. State difendendo gli interessi del Paese e la vostra battaglia va contro gli interessi della categoria perché vi farebbe più comodo avere un imputato a vita perché prendereste più soldi. E invece dite no”.

Gli avvocati presenti condividono e lo applaudono. “Tra garantismo e giustizialismo c’è la stessa differenza che c’è tra democrazia e dittatura. E per questo vorrei che si restituisse dignità alla giustizia” ha aggiunto, sfruttando l’appuntamento pubblico anche per un nuovo attacco ai magistrati. “Agli amici del Csm dico che se può capitare l’errore giudiziario non può capitare che il responsabile dell’errore giudiziario faccia carriera anche grazie a quell’errore e diventi un punto di riferimento del Csm”.

Sanzioni: correnti unanimi (anche Davigo) vs. la riforma

“Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente?”, si chiedeva Nanni Moretti, nel mitico Ecce bombo.

Facendo una trasposizione provocatoria nella realtà, possiamo dire che l’Associazione nazionale magistrati ha scelto la seconda opzione e si è fatta notare perché ha deciso di non partecipare, il 26 febbraio, al tavolo tecnico riaperto dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede sulla riforma del processo penale, approvata dal Consiglio dei ministri tra il 13 e il 14 febbraio. Non è successo, per dire, neppure quando ministro della Giustizia era Angelino Alfano e il centrodestra voleva approvare il processo breve per garantire a Berlusconi la prescrizione dei suoi processi.

Come si è arrivati a questo? L’Anm ritiene inaccettabile la previsione di sanzioni disciplinari per pm e giudici legate alla violazione dei tempi di indagini e processi, che con la riforma, se diventa legge, saranno prestabiliti.

In sintesi, il sindacato delle toghe pensa che aver legato possibili sanzioni, sia pure esclusivamente per “dolo o negligenza inescusabile” alla violazione dei tempi processuali sia un messaggio sbagliato al Paese. “È come dire – ci spiega una toga molto attiva dentro l’Anm – che finora i processi hanno tempi inaccettabili per colpa dei magistrati scansafatiche mentre sono, statistiche alla mano, i più produttivi d’Europa. È un atto palese di sfiducia verso i magistrati”. Per un altro magistrato “è come dire ai cittadini che i processi vanno a rilento perché ce li teniamo negli armadi. Pensi che un pm in media ha 1500 fascicoli all’anno da seguire!”.

Il rifiuto per queste sanzioni è autentico, ma dietro la decisione dell’Anm di non incontrare il ministro, c’è dell’altro. E con un peso pari se non addirittura superiore alla contrarietà unanime per questo punto della riforma: il 22 marzo si vota per il rinnovo del Comitato direttivo centrale dell’Anm, il “Parlamentino” e gli attuali componenti della Giunta composta da Area (progressisti), Unicost (centristi) e Autonomia e Indipendenza (la corrente fondata da Davigo, Ardita, Pepe) non hanno voluto lasciare la bandierina della protesta a Magistratura Indipendente ( conservatori). Temono una rimonta della corrente coinvolta, come Unicost, nello scandalo nomine del Csm (il caso Luca Palamara che l’estate scorsa provocò le dimissioni di 5 togati del Csm e del Pg della Cassazione Riccardo Fuzio, accusato di rivelazione di segreto pro Palamara, indagato per corruzione). Storicamente MI è la corrente in mano a Cosimo Ferri attualmente deputato renziano, di Italia Viva ma ora dominata anche da Claudio Galoppi, consigliere della presidente del Senato Elisabetta Casellati.

Proprio MI, risulta al Fatto, ha emesso in poche settimane due comunicati interni alla magistratura che hanno spinto la Giunta Anm alla chiusura con Bonafede, per decisione, ci risulta, unanime. Nel primo comunicato, MI ha accusato la Giunta di essere morbida con il ministro della Giustizia. Accusa respinta con altri comunicati sia di Area sia di Unicost. In particolare dentro Area, diversi magistrati erano pure per continuare gli incontri con il ministro e spiegare i motivi per cui ritengono quelle sanzioni ingiuste e pericolose per la pressione che metteranno sui magistrati a scapito della qualità delle indagini e dei processi. Ma poi c’è stato un altro comunicato di MI, che ha rilanciato l’accusa alla Giunta Anm di essere prona al ministro. E sono saltati i nervi a Unicost per i problemi di diaspora, dato che suoi componenti, come Antonio Sangermano, ex pm a Milano del caso Ruby, sono passati o sono in procinto di passare ad MI. Quindi, ci raccontano fonti interne, il segretario dell’Anm, Giuliano Caputo, di Unicost ha caldeggiato la scelta di non partecipare al tavolo del ministro. Quando si è riunita la Giunta, anche Area e AeI sono state d’accordo. Ma la mattina dopo l’approvazione della riforma, il segretario Caputo aveva usato toni che non lasciavano prefigurare il muro alzato una settimana dopo: “Dalle bozze informali sembra che effettivamente uno sforzo di riforma del processo penale sia stato fatto. E questo può aiutare a velocizzare il processo”. Dieci ore dopo e un consulto, evidente, interno all’Anm, i toni di Caputo si erano già inaspriti: “È sbagliatissimo stabilire una durata predeterminata per i processi e poi scaricare l’inefficienza del sistema sul singolo magistrato. È una risposta brutale”. Quanto alla durata prefissata delle indagini, c’è un allarme lanciato con il comunicato della Giunta: l’obbligo del pm, pena illecito disciplinare, di dare le carte agli indagati, se ha sforato i tempi, anche se non ha concluso le indagini, provocherà “un depotenziamento del contrasto alla criminalità”. Per il ministro Bonafede il rifiuto dell’Anm di andare alla riunione “è un’occasione mancata”. Della riforma, l’Anm uscente ne parlerà il 7 marzo. Dopo le elezioni si vedrà.

“Niccolò non morì per fatalità. La prescrizione ha ripulito tutto”

“Non sono mai andato a un’udienza del processo sulla morte di Niccolò…”.

Perché, Giovanni Galli?

Perché non cercavo niente di più, mio figlio non me lo restituirà più nessuno. Però almeno pretenderei giustizia. E invece è stato tutto prescritto. Ma di una cosa sono certo: chi è stato condannato in primo grado e chi ha permesso che si potesse arrivare alla prescrizione ne risponderà davanti alla propria coscienza per tutta la vita.

Si spieghi.

Chi è colpevole e chi ha cercato di ottenere la prescrizione a ogni costo, ogni volta che passerà da quella strada maledetta dove è morto mio figlio, si sentirà in grossa difficoltà, per non usare altre parole…

Giovanni Galli si aggira ancora per i campi di calcio di Firenze, gli stessi che lo hanno visto crescere fino a difendere la porta della Fiorentina e della Nazionale. E una promessa del calcio era anche suo figlio Niccolò, che dopo le giovanili al Torino e la vittoria del campionato Under 17 nell’Arsenal, decise di tornare in Italia. Bologna era la sua nuova casa, ma quell’esperienza che avrebbe dovuto portarlo a giocare in prima squadra durò pochissimo: il 9 febbraio 2001 Niccolò, tornando dall’allenamento al centro tecnico di Bologna, perse il controllo del motorino e andò a sbattere contro un guardrail in manutenzione con un tubo di acciaio senza protezione. I soccorsi furono inutili. Aveva 17 anni.

Secondo il pm e i giudici del Tribunale di Bologna, la morte di Niccolò Galli non fu solo una fatalità dovuta alla pioggia e al ghiaccio: nel 2007 i giudici di primo grado condannarono per omicidio colposo Rinaldo Capiluppi, funzionario della Coop Costruzioni che aveva in appalto i lavori di manutenzione delle strade, a un anno e quattro mesi, mentre i due funzionari del Comune dell’ufficio manutenzione stradale Fiorenzo Mazzetti e Stefano Fortunati ebbero rispettivamente 11 mesi e sei mesi e mezzo. In appello però era già tutto prescritto. “Non è da Paese civile che l’omicidio possa andare in prescrizione” dice oggi a vent’anni di distanza Giovanni Galli, che nel 2009 è stato il candidato sindaco di Firenze contro Matteo Renzi per il centrodestra: “Le mie simpatie politiche non c’entrano niente e io dico quello che penso – continua – Se uno è colpevole, la prescrizione non deve valere”.

Signor Galli, nessun colpevole per la morte di Niccolò.

Oltre a non aver mai partecipato al processo, non ho mai visto le facce degli imputati, ma se tutto è andato come hanno scritto i giudici, qualcuno avrebbe dovuto pagare. Prima dell’incidente di mio figlio c’erano già due denunce di cittadini della zona secondo cui quel guardrail era pericoloso. Poi abbiamo visto com’è andata a finire.

Nessuno ha mai pagato.

No. Non è possibile che per l’omicidio colposo un processo possa andare in prescrizione. Ci sono casi e casi, ma questo è un reato molto grave.

Perché si arriva a questa tagliola?

C’è chi non aspetta altro che la prescrizione per evitare ogni responsabilità: così gli imputati la fanno franca senza dover rendere conto a nessuno.

Gli avvocati fanno il loro lavoro.

Gli avvocati spesso usano strategie dilatorie. Per esempio, se un imputato presenta un certificato medico il giudice non può rinviare l’udienza di quattro mesi, non ci vogliono quattro mesi per guarire da un’influenza. Lo stesso succede quando non c’è un giudice, un avvocato e così via: e si dilata un processo fino a due anni.

Quale soluzione?

Intanto fermare la prescrizione, soprattutto se si è colpevoli, e poi servono dei tempi certi: si deve arrivare a una sentenza definitiva. Se ci sono troppi gradi di giudizio è inevitabile arrivare alla prescrizione, servirebbero dei tempi stabiliti per arrivare alla sentenza.

Nel caso di suo figlio, cos’è successo al processo?

Gli imputati non hanno fatto appello contro la condanna, non contro la sentenza, perché comunque si sentivano colpevoli. Volevano una riduzione della pena e hanno ottenuto la prescrizione.

Quindi è favorevole alla legge Bonafede?

Se si è colpevoli dopo una sentenza di primo grado, sì, la prescrizione va fermata.

Lei è stato sulla strada dove è morto suo figlio, che ricordi ha?

Ho un solo rimpianto: con mia moglie avremmo voluto essere lì per vedere cosa fosse successo e per aiutare Niccolò nel momento del bisogno. E invece non è stato possibile…

Com’è cambiata la sua vita?

Ti manca sempre qualcosa, eravamo in cinque in famiglia e una parte di noi non c’è più: mia moglie si è dovuta curare, le mie figlie hanno avuto bisogno di un sostegno psicologico. Per quanto riguarda me, nonostante siano passati 19 anni, la bomba che ho dentro non è ancora scoppiata e mi sono aggrappato alla fede: giro i campi di calcio sperando che questo sia solo un brutto sogno. Ogni giorno spero di vedere Niccolò uscire dallo spogliatoio o tornare a casa, ma poi capisco che non è possibile: un giorno lo rivedrò chissà dove e tornerò a passare del tempo con lui.

I pareri. Agcom, contestazioni su talk e tg

Due giorni fa, l’Agcom ha pubblicato le motivazioni della sanzione da 1,5 milioni di euro per la Rai, contestando anche una battuta di Mauro Corona a Cartabianca(“i risparmi metteteli sotto al materasso”) e invocando l’obbligo di contraddittorio (sempre lasciando stare Porta a Porta). Ieri il cdr del Tg2 ha diffuso una nota al riguardo: “Siamo restati sorpresi nel leggere le motivazioni del provvedimento. Ci sembra che costituisca un precedente di estrema pericolosità dal momento che dimostra una volontà di entrare nel merito delle singole scelte editoriali delle redazioni”. Critico con l’azienda, invece, il segretario del Pd, Nicola Zingaretti: “È un danno per i cittadini, che ora per colmo della beffa pagheranno la multa Agcom con il canone. Invece la multa sia pagata dai responsabili, da chi ha fatto la violazione o non ha vigilato”.

 

Corrado Formigli

Non sanno nulla su come si fa tv, lascino decidere ai giornalisti

Il problema è che queste autorità sono di nomina politica e dalla politica dipendono, con le conseguenze del caso che spesso diventano censura. Io ritengo che nel nostro lavoro gli unici limiti debbano essere il codice penale e la deontologia, al di là di questo Autorità e Commissioni, e mi riferisco anche alla Vigilanza Rai, dovrebbero astenersi da giudizi. Anche perché in Italia di solito già si lavora con addosso la capacità di intimidirti che hanno politici e grandi gruppi. Non essendoci conseguenze per chi fa querele temerarie, possono influenzare i giornalisti anche solo minacciando denunce. Se poi ci si mettono pure le autorità, la situazione si aggrava. Durante una trasmissione è anche giusto che si possa andare un po’ sopra le righe, che ci siano ospiti che dicono persino cose sgradevoli o dissonanti. Ma è insopportabile che qualcuno che non ha mai fatto tv, totalmente estraneo a logiche di scrittura di un programma, venga a mettere bocca su come si fa il nostro lavoro.

 

Rula Jebreal

A Sanremo dovevamo portare uno stupratore sul palco?

Quando leggo di un contraddittorio obbligatorio non può che venirmi in mente la mia recente esperienza al Festival di Sanremo. Quando si è saputo che avrei portato all’Ariston un monologo contro la violenza sulle donne, diversi leader politici hanno protestato con la Rai chiedendo un contraddittorio. Forse volevano sul palco uno stupratore? O un assassino? Quando i miei colleghi americani hanno saputo della polemica che si era sollevata erano tutti increduli. Lo stesso accade quando un giornalista trasmette un’inchiesta sulla mafia: non si può certo pensare di avere qualcuno che venga in trasmissione a dire che “la mafia tutto sommato è buona”.
Mi sembra giusto che si intervenga quando c’è da ristabilire una par condicio sulla politica, concedendo il diritto di replica, ma in certi casi, semplicemente, il contraddittorio non può esistere. È inutile chiedere che sia sempre previsto, come invece fa l’Agcom.

 

Luisella Costamagna

L’Autorità dipende dalla politica, che vuole una Rai su misura

Per chi quasi vent’anni fa ha vissuto sulla pelle l’Editto bulgaro, leggere la variopinta delibera dell’Agcom, dove i commissari (tranne uno, Morcellini, che si è rifiutato di firmare) si sono sbizzarriti, con estro dadaista, a mescolare osservazioni fondate e gravi (lo scarso spazio riservato al primo partito in Parlamento, i 5S), stigmatizzazioni di servizi a senso unico, valutazioni sull’immagine della donna a Sanremo, battute di Mauro Corona sui soldi nel materasso – un’accozzaglia che finirà per vanificare anche i rilievi giusti –, sorge spontanea una domanda: perché un’autorità di garanzia, che dovrebbe vigilare su equilibrio e pluralismo, pretende di entrare a gamba tesa nei contenuti, presentandosi come “super-autore” dei programmi tv? La risposta è semplice, ed è sempre la stessa: perché è di nomina politica. Dunque, non essendo affatto indipendente, diventa lo strumento con cui la politica prova a tagliarsi addosso l’informazione che più le piace. Prêt-à-porter. La speranza è che, visto il tentativo così maldestro, nessuno ci caschi.

 

Massimo Giletti

Provvedimento senza senso. Il vero obiettivo sono le nomine

Il provvedimento dell’Agcom è talmente fuori da ogni logica che ci deve far pensare a quale sia il suo vero obiettivo. Contestare la trasmissione di Gad Lerner, per esempio, è assurdo: si occupava di migranti provenienti dalla Libia, doveva forse prevedere il contraddittorio di un torturatore? E Bianca Berlinguer doveva invitare qualche dirigente di Antonveneta per replicare a Corona? Dunque è evidente che il punto è un altro e devo constatare che in tanti anni non è cambiato nulla. Ai tempi di Mauro Masi e di Giancarlo Innocenzi all’Agcom, dicevano che certe cose non succedevano neanche in Zimbabwe e in effetti è ancora così, se non peggio: l’obiettivo di questa manovra è metter mani sulle nomine, dal Tg2 in poi. Lo dico dopo essermi allontanato dalla Rai proprio a causa della politica, insieme ad altri colleghi come Massimo Giannini o Milena Gabanelli. Vedendo che la situazione è ancora questa provo un certo sollievo per essere, libero, da un’altra parte, ma mi viene anche una certa tristezza.

 

Luca Sommi

Regole assurde, non rendano la televisione il regno dell’ovvio

Socrate tendeva a contraddire il suo interlocutore con l’ironia, strumento assoluto per mettere a nudo le convinzioni altrui.
Così faremo noi. Cosa chiede l’Agcom? Che in tv ci sia sempre il contraddittorio, su ogni cosa. Anche in caso di paradosso, come è avvenuto nello studio di Bianca Berlinguer, dove lo scrittore Mauro Corona ha invitato i risparmiatori a mettere i loro risparmi “sotto al materasso”. Paradosso o meno – Corona è plausibile che li metta lì – la cosa è evidentemente impossibile, perché non sappiamo, spesso, cosa ci dirà la persona che abbiamo invitato in studio. Cosa doveva fare la Berlinguer, avere un esperto di economia in freezer da scongelare all’occorrenza? E se Corona avesse detto che non lava mai i calzini – anche questo plausibile, detto da lui – chi doveva avere in studio? Un ossessivo compulsivo che li lava maniacalmente più volte al giorno? Quando funziona la tv è il luogo dell’imprevisto, dell’inaspettato: non rendiamola il regno dell’ovvio. Con regole bizzarre.

 

Petra Reski

In Germania è impensabile un intervento sui contenuti

In Germania la televisione si basa su un sistema federale, nel senso che ogni Land ha diritto ad essere rappresentato in una sorta di autorità che decide sulle telecomunicazioni. Mai però ho sentito dire che questa autorità potesse mettere in discussione i contenuti di una trasmissione o avere voce in capitolo su come strutturare un programma.
Diverso è il discorso su come regolare le presenze dei partiti e sul pluralismo: lo stesso problema che in Italia c’è con Matteo Salvini, in Germania c’è con l’Afd (Alternative für Deutschland ), ovvero il partito di estrema destra. Su questo si può intervenire, ma non certo su come impostare la trasmissione. Quello dice ha chiesto l’Agcom è impossibile da realizzare: non si può avere un contraddittorio su ogni cosa. Pensare di avere qualcuno che contesta ogni frase è ridicolo, non si potrebbero neanche più fare interviste singole.

 

A cura di Lorenzo Giarelli

 

 

Partiti contro. I raduni di Pd e Iv

 

Democratici

Ormai Zingaretti dà per scontato l’addio di Italia Viva

Poca gente, un’atmosfera di sospensione fuori dall’Auditorium di via della Conciliazione a Roma, dove si riunisce il Pd per l’Assemblea nazionale. Dentro, l’aria è rarefatta. Nicola Zingaretti, in camicia bianca, che parla davanti a una platea semivuota. In prima fila, Dario Franceschini. Assenti molti dei ministri, perlopiù impegnati nell’emergenza coronavirus, assenti pure Delrio e Marcucci. “È arrivato il tempo”: lo slogan della giornata è vago, il clima è scarico. La realtà – nelle sembianze del coronavirus – è più forte delle polemiche politiche.

Il segretarioavrebbe dovuto annunciare il congresso tematico, il partito nuovo. Nulla di tutto ciò: resta “l’avvio di un percorso” per arrivare a un “Manifesto per l’Italia e per la costruzione di un nuovo campo progressista”. Si parla di assemblee da tenere in campo neutro, per attrarre nuove parti di Italia. È nello stile del segretario: ammorbidire, arrotondare, evitare i conflitti. “No, io non ho capito quando ci sarà il congresso”, dice Giorgio Gori, candidato in pectore di Base Riformista.

Ancora. Zingaretti pareva pronto ad andare al voto appena possibile. Ma ieri Goffredo Bettini, seduto in prima fila, riceveva tipo confessionale Franceschini, Gianni Cuperlo e Andrea Orlando. Per ribadire, poi: “I Responsabili sono necessari”.

Nel foyer dell’Auditorium l’uscita di Renzi dal governo si dà per certa. Intanto, il segretario detta la linea: via i decreti sicurezza di Salvini. Il nemico numero uno. L’Assemblea inizia eleggendo Valentina Cuppi, sindaco di Marzabotto, presidente del partito. Frecciatina all’ex premier, nemico numero 2: “Quando la politica è solo gestione del potere emergono i picchiatori e i trasformisti seriali”. Poi Zinga chiede più coraggio al governo, sostegno agli alleati per le Regionali e definisce un “errore” il referendum sul taglio ai parlamentari.

Alla fine si accovaccia e abbraccia Anna Ascani, vicepresidente dem. Gli ex renziani sono ormai i più cari. Il compito di coordinare il percorso di allargamento è affidato al sindaco di Firenze, Dario Nardella. Conferme dal dibattito: Eugenio Giani, candidato governatore in Toscana, ribadisce in tutte le salse il suo orgoglio Pd: non è più troppo renziano.

Emergono due ordini del giorno: uno per mantenere lo sbarramento del proporzionale al 5%, uno per cambiare gli accordi con la Libia. Tutto votato e approvato, relazione di Zinga compresa. Unità celebrata, scelte rimandate.

Wanda Marra

 

Italo viventi

Renzi va in pausa per il Coronavirus: non vedrà Conte

Certi avvenimenti aiutano a rimettere tutto in prospettiva: cosa sono le convulsioni politiche di un piccolo partito, di fronte al panico nazionale per i focolai di un’epidemia sanitaria? Nulla. E infatti il Coronavirus intenerisce Italia Viva, ne sopisce le cattive intenzioni. Matteo Renzi ci fa una battuta: “Mettiamo in quarantena le polemiche – dice –. Se il paese soffre, ci si stringe attorno alle istituzioni”.

Se mai ci sarà una resa dei conti con il premier Giuseppe Conte, non è questo il momento. Renzi proporrà al presidente del Consiglio di rinviare l’incontro in programma la prossima settimana, che poteva essere un redde rationem. Non è il caso: già è difficile far cadere un governo per una norma sulla prescrizione, nei giorni del Coronavirus sarebbe follia.

Così Renzi e i suoi annunciano l’armistizio durante l’assemblea nazionale a Roma. Ma sotto la superficie dell’ “unità nazionale”, il fossato è sempre più profondo. Ecco i quattro punti del programma di Renzi: il “sindaco d’Italia” (una legge elettorale maggioritaria su due turni, con elezione diretta del premier), una “giustizia giusta” (il rovescio della riforma Bonafede), un piano shock sulle grandi opere e la “revisione profonda” – ovvero l’abolizione – del reddito di cittadinanza. Se è questo il pacchetto di proposte che prima o poi sarà sottoposto a Conte, suona come un’autentica provocazione per gli alleati. Tradotto nella retorica renziana: “Io voglio far rialzare, non far cadere il governo, ma non possiamo mica dimetterci da riformisti”.

Il resto dell’assemblea di Iv è tutto dedicato alle gentilezze verso gli ex compagni. Il più dolce è il senatore Giuseppe Cucca: “Da quando sono uscito dal Pd ho ripreso a respirare”. Quando si dice lasciarsi civilmente… “Sono omologati a un livello molto basso. Il Pd è un mortorio”.
Poi racconta un aneddoto: “Nell’ultima riunione di maggioranza sulla Giustizia, un autorevole esponente del Pd arriva in ritardo e pretende di liquidare la discussione con quattro parole. Santa Maria Elena Boschi (testuale, ndr) sta zitta e lo guarda. Poi gli risponde, ed è come una pressa da una tonnellata che schiaccia l’interlocutore. Era impossibile ribatterle, Maria Elena ha detto solo cose giuste. Con un sorriso e il viso angelico”. È il momento più alto dell’assemblea: Iv è un partito da 4% che si sente al centro del mondo. Non c’è virus, semmai l’effetto Dunning-Kruger: una distorsione cognitiva che porta le persone a sopravvalutarsi.

Tommaso Rodano

 

 

“Dal Piemonte alla Liguria: la Lega punta a indebolire le leggi anti-lobby dell’azzardo”

“Il Piemonte ha la legislazione contro il gioco d’azzardo più avanzata d’Italia. Ora la Lega vuole annacquarla con una proposta di legge che elimina l’obbligo per i punti vendita dell’azzardo fisico di allontanarsi dai luoghi sensibili. Poi penso alla Liguria, che ha approvato una proroga sine die, alla provincia autonoma di Trento che sembra orientata a fare lo stesso. Penso al Veneto, che ha cambiato la normativa nel 2019, comprimendo i regolamenti comunali più incisivi. Penso alla Lombardia… Ormai ci sono due visioni della società contrapposte: c’è chi pensa agli amici e chi pensa ai più deboli”. Per Giovanni Endrizzi (M5S), senatore e coordinatore del comitato gioco d’azzardo e mafia della commissione Antimafia, molti presidenti di Regione sul contrasto al fenomeno hanno innestato la retromarcia.

Senatore Endrizzi, lei cita amministrazioni in mano al centrodestra. Tutte prone davanti alla lobby dell’industria del gioco?

Diciamo che da parte della Lega non vedo certo slanci virtuosi. Ma ci sono esempi negativi anche a sinistra. Basti pensare alla Puglia di Emiliano, che ha sabotato la propria legge, prevedendo un salvacondotto per l’esistente. L’Emilia Romagna di Bonaccini, che aveva bisogno del voto dei 5 Stelle, invece per ora tiene duro. Che dire? Un atteggiamento supino di fronte alle pressioni? Sì, non vedo altri motivi. Poi i fattori che possono incidere sono tanti: la ragnatela delle conoscenze, le offerte di consulenze, gli interessi personali. Non escludo il fenomeno della corruzione.

E le preoccupazioni economiche per la perdita di posti di lavoro nel settore?

Non hanno reale fondamento. Parliamo di denaro che viene preso dalle tasche della povera gente, perché è dimostrato che l’entità della raccolta è inversamente proporzionale al reddito: giocano di più quelli che hanno maggiori difficoltà. Ma quel denaro potrebbe essere speso in un altro modo. Incentivando intere filiere. E va ricordato l’articolo 41 della Costituzione: la legge deve orientare l’attività economica a tutela dell’interesse collettivo. Parlo di tutela della salute, su cui hanno competenza le Regioni. Tutela che non può essere subordinata ad altri interessi.

La raccolta da offerta fisica, cioè non derivante dal gioco online, è però diminuita…

Una flessione dell’1,7% è una tenuta e il gioco fisico traina l’online, che è esploso, portando la raccolta a superare i 110 miliardi. Un record. Siamo ancora in emergenza, non ci sono cambiamenti che possano giustificare un allentamento della protezione sociale.

Parliamo della vigilanza sul rispetto del divieto di pubblicità del gioco disposto dal decreto Dignità. È inefficace?

L’Agcom, che ha questo compito, per la predisposizione delle linee guida ha guardato da una parte sola: quella dei concessionari, degli operatori del settore. L’Agcom non è sottoposta al controllo del governo. Per questo il nuovo presidente, la cui nomina deve essere calendarizzata, dovrà essere libero da conflitti di interessi, di comprovata esperienza e indipendenza.

Cinque anni fa Pier Paolo Baretta, attuale sottosegretario all’Economia, disse che la situazione sul gioco d’azzardo era sfuggita di mano…

Non so se fosse una resa, bisognerebbe chiederlo a lui. È un fatto che non ha mai accettato di fissare un tetto alla raccolta. Io dico che la politica si è voltata da un’altra parte e non è più riuscita a recuperare il terreno perduto.

Intanto la delega all’azzardo non è ancora stata assegnata…

Dovrebbe essere conferita all’insegna di una discontinuità.

Sveglia, onorevoli! Qualcuno chieda a Conte di Descalzi

Ancora per qualche mese almeno, ci sono oltre 945 parlamentari eletti: c’è almeno un coraggioso che chieda al governo di venire a spiegare in aula perché vuole confermare Claudio Descalzi alla guida dell’Eni? Il dibattito pubblico è silenziato dalla pubblicità che l’azienda ha riversato sui giornali, dalle minacce di querela ai giornalisti, dai soldi con cui ha lubrificato amicizie, dai vescovi alla Coldiretti, dalle prove di fedeltà politica come le assunzioni di giovani per dimostrare gli effetti virtuosi di Quota 100. Ma voi, cari parlamentari, non avete nulla da dire?

In fondo basta poco. Basta presentare un’interrogazione parlamentare per chiedere al governo di venire in Aula a spiegare. Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte e il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri dovrebbero presentarsi alla Camera o al Senato e rispondere ad alcune semplici domande, ammesso che qualche parlamentare abbia voglia di farle. Primo: il processo per corruzione internazionale in cui Descalzi è imputato lo considerate irrilevante? Eppure Descalzi ha gestito una operazione che ha portato oltre 1 miliardo nelle tasche di politici nigeriani, anziché dello Stato nigeriano. Vogliamo aspettare la conclusione del processo perché siamo tutti garantisti? Benissimo, però allora anche l’Eni deve fare lo stesso: invece ha licenziato manager soltanto indagati mentre altri, diretti collaboratori di Descalzi come Claudio Granata, sono accusati dai pm di Milano di un gravissimo depistaggio giudiziario per sabotare il processo di Milano.

In questi anni troppi politici ed esponenti di governo (anche di questo) hanno accampato imbarazzanti giustificazioni, tipo che non hanno seguito la vicenda sui giornali e che aspettano le sentenze. Ecco, forse qualche parlamentare dovrebbe verificare se hanno il coraggio di venire a ripetere le stesse cose in Parlamento, davanti a tutti gli italiani. Anche perché una sentenza c’è stata già nel 2018: due dei mediatori dell’affare nigeriano che hanno scelto il rito abbreviato sono stati condannati a Milano a quattro anni di reclusione per corruzione internazionale. Quindi un giudice ha stabilito che l’operazione oggetto dell’inchiesta principale in cui è imputato Descalzi è stata corruttiva.

Sono cose complesse, come è complessa l’operazione del 2016 con cui Eni ha rifilato alla Cassa Depositi e Prestiti le sue azioni di Saipem un attimo prima che crollassero in Borsa, scaricando sugli italiani un conto da 450 milioni di euro. Ma c’è anche una vicenda più semplice da sottoporre a Conte e Gualtieri: ma davvero volete tenere alla guida dell’Eni un manager la cui moglie si è presa di nascosto 300 milioni di euro di appalti dall’Eni? Questo dovrebbero capirlo anche i meno sofisticati tra i deputati e i senatori: la moglie, Marie Marie Madeleine Ingoba, prende appalti dall’Eni e cede il controllo delle aziende a un amico giusto un attimo prima che il marito diventi amministratore delegato nel 2014. Tutto regolare? Forse legale, di sicuro imbarazzante e inaccettabile per un qualunque piccolo azionista di Eni.

Se ci fosse un parlamentare coraggioso, disposto a presentare una interrogazione al governo per trasformare il mercimonio segreto delle nomine in un’occasione di democrazia partecipativa, dovrebbe fare al governo una semplice domanda: è possibile gestire un’azienda come l’Eni dando ai suoi 32mila dipendenti il messaggio che lo standard etico richiesto dall’azionista, il Tesoro, è quello dimostrato dal suo amministratore delegato?

Se ci fosse un parlamentare coraggioso, dovrebbe chiamare Conte e Gualtieri in Aula e chiedere: caro presidente del Consiglio, caro ministro dell’Economia, voi che siete persone rispettate e rispettabili, potreste spiegarci perché dall’amministratore delegato dell’Eni accettate comportamenti che giudicate inaccettabili per i vostri colleghi di governo? Nessun ministro che avesse assegnato anche 300 euro di appalti a società della moglie potrebbe restare al suo posto.

Una prima crepa già si intravede: come raccontato ieri dal Fatto, 11 parlamentari 5 Stelle – memori dell’identità originaria del Movimento e di battaglie su nomine molto meno controverse, come la riconferma di Ignazio Visco a Bankitalia – hanno scritto a Vito Crimi chiedendo trasparenza e discontinuità sulle nomine. Se Giulia Grillo, Federica Dieni, Antonio Zennaro e gli altri riusciranno a portare un po’ di trasparenza nelle oscure trattative sul futuro di Descalzi, avranno la gratitudine di tutti gli azionisti dell’Eni, cioè di tutti i contribuenti italiani e di molti fondi esteri che certo preferirebbero un manager più impegnato a produrre petrolio che a difendersi in tribunale.

Palermo si mette in vetrina a suon di spot, ma rischia tutto

Eppure Fabrizio Palermo è fortunato. L’ad di Cassa Depositi e Prestiti allestisce una luccicante vetrina per Cdp e per se stesso, tre giorni di gran lustro e gran sfarzo con ministri, dirigenti, giornalisti, mentre i colleghi boiardi tribolano in attesa del giudizio della politica. La prima settimana di marzo, da mercoledì mattina a venerdì pomeriggio, alla vigilia della tornata di nomine per le aziende a controllo statale, curiosa coincidenza, Palermo ha prenotato la ribalta con i “Cdp Open Days”. Una sorta di raduno con tutte le società partecipate (come Poste) o sostenute da Cdp, 3.000 ospiti, 500 imprese, 400 interventi, 50 banchetti di aziende, decine di tavoli tecnici, persino una riproduzione celebrativa del buono fruttifero postale: una spesa di 2 milioni di euro, di cui 700 mila soltanto per una copiosa campagna pubblicitaria sui media e negli aeroporti di Fiumicino con 120 schermi digitali, più altri 45 fra Linate e Venezia. Quotidiani e luoghi pubblici invasi dal marchio Cdp.

Cdp immobiliare, invece, offre i cartelloni al centro di Milano e al quartiere Eur di Roma per un valore di 300.000 euro. Uno sperpero modello Iri, e non per caso.

Il 4 marzo sarà dedicato alle imprese, il 5 al mitico territorio con i sindaci, il 6 al risparmio con le banche. In tre giorni Palermo parlerà sei volte, avendo come apripista il premier Giuseppe Conte e i ministri degli Esteri Luigi Di Maio e dell’Economia Roberto Gualtieri: gli uomini che decidono le nomine. Per completare la benedizione istituzionale, tra gli oratori sono previsti anche Luciana Lamorgese (Interno) e Stefano Patuanelli (Sviluppo economico). Più pentastellati che democratici. Già, perché il giovane Palermo si duole di essere figlio di un quadro politico superato, quello del governo gialloverde. L’ex delfino di Giuseppe Bono di Fincantieri, dunque, non ha convocato i manager delle più grandi aziende d’Italia che gravitano attorno a Cdp, centinaia di amministratori locali e mezzo esecutivo perché punta a una nuova poltrona ma per difendere quella che ha in dote, e alla bisogna farsi trovare pronto per qualsiasi altra.

Per la fu maggioranza gialloverde Cdp doveva salvare l’economia italiana con centinaia di milioni di euro di finanziamenti. La scelta cadde su Palermo. Dopo l’uscita del mai amato presidente Massimo Tononi, gli azionisti – il ministero del Tesoro e le fondazioni bancarie – hanno riportato in Cassa l’esperto Giovanni Gorno Tempini, che fu amministratore delegato con Franco Bassanini. Un brutto segnale, soprattutto perché arrivato dal dem Gualtieri, una prima linea del Pd, il partito che a suo tempo gli avrebbe preferito il più qualificato Dario Scannapieco della Bei, che Palermo sorpassò all’ultima curva con l’aiuto pentastellato. Palermo scade in Cdp tra diciotto mesi. A metà del percorso ha capito che i suoi danti causa – i Cinque Stelle – sono indeboliti e che bisogna muoversi in anticipo. Per un po’ ha pensato a Leonardo per ritornare nell’industria dopo la stagione in Fincantieri col maestro Bono, adesso ha capito che non è il momento di proporsi. Il governo giallorosa è tutt’altro che compatto, è vero che i partiti si sono imposti di ritoccare più che toccare i vertici delle aziende statali, ma è altrettanto vero che cambiando soltanto un tassello rischia di precipitare tutto. E la grande rissa sta già esplodendo.

I renziani hanno adocchiato Giuseppe Giordo per Leonardo, dove lo statista di Rignano non ha accettato mai la scelta di Gentiloni di portare Alessandro Profumo. Ma anche Domenico Arcuri di Invitalia (targato Conte-D’Alema) mira a Leonardo e, se non ce la facesse, una parte dei Cinque Stelle e Palazzo Chigi lo vedrebbero bene in Cdp; Claudio Descalzi è in corsa per il tris in Eni, ma la certezza l’avremo con le liste ufficiali da presentare in assemblea. Con la calma piatta che si profilava fino all’altro ieri, Palermo potrebbe vedersi negare l’auspicato trasloco – certo, lui smentirà – e restare sereno in Cdp. Con l’alta marea stile Renzi 2014 (che travolse l’epoca dei Sarmi, Conti, Scaroni e Cattaneo), Palermo potrebbe affondare e, come dicono gli osservatori più cattivi, passare da Cassa a casa. Qualche giorno fa ha riunito i collaboratori per chiamarli alla massima concentrazione per i “Cdp Open Days” con un presidio totale sui quotidiani. L’unica minaccia sull’evento è il Coronavirus.

(3 – continua)