“In questo giochetto io e mia moglie abbiamo perso 50 mila euro di crediti, ci hanno chiuso l’account e sono stato il primo a diffidarli all’Agcm”. A raccontare il sistema è Luigi, 44 anni utente di SixthContinent ora in contatto con decine di persone a cui era stato chiuso il profilo, con il congelamento del denaro e dei crediti. Sia attraverso le card di importanti marchi (Conad, Esselunga, Eni, Q8) per cui a fronte di una spesa di 20 euro si riceveva una scheda di 25, maturando crediti spendibili sulla piattaforma. Ma soprattutto attraverso le SixthCard: costavano 60 euro e dopo quattro mesi ne valevano 100. “In pratica avevamo un ritorno del 40%, ma quale investimento può produrre tanto? Era come una droga, c’erano premialità che creavano assuefazione, ma il banco è saltato quando alcuni di noi hanno iniziato a spendere all’esterno della piattaforma quello che avevano guadagnato, da quel momento hanno bloccato centinaia di profili. Prima funzionava tutto, si erano inventati il ‘credito di cittadinanza’: in pratica gli iscritti, con il tempo, maturavano crediti per il solo fatto di accedere e muoversi nel sistema”, dice ancora Luigi, dipendente pubblico, che oltre alla moglie aveva fatto iscrivere alcuni colleghi. Al momento del blocco il suo wallet conteneva 40 mila euro versati e 30 mila di crediti. “Dopo mille proteste sono riuscito a riavere indietro i 40 mila, ma i profitti maturati sono rimasti lì. Stessa cosa per mia moglie che ha ricevuto i suoi 30 mila euro senza però riavere i 20 mila crediti sospesi”. Francesca Roveda, amministratrice delegata di SixthContinent, nega: “Noi non blocchiamo mai gli account; se ciò è avvenuto, è dipeso solo dalla necessità di proteggere la società, i brand e gli utenti virtuosi da comportamenti illeciti e gravemente inadempienti o da sospette frodi. In tutti i casi di blocco degli account, la società trasmette all’utente le shopping card acquistate e non godute oppure, qualora non sia possibile, procede al rimborso”.
Il genio amico di Berlusconi che moltiplicava il denaro
Migliaia di profili in un limbo, sospesi crediti per oltre un milione di euro: indaga l’Agcm, l’Autorità garante della concorrenza e del mercato. Parliamo di SixthContinent, una piattaforma di social commerce lanciata nel 2017 in Italia da Fabrizio Politi, 47 anni, nato a Milano e cresciuto nel Livornese.
Una decina d’anni fa, il suo nome rimbalzava tra il gossip e la nautica di lusso. Era fidanzato con una delle Spice Girls e prometteva di rilanciare un cantiere nautico a Pisa. Fino al fallimento, nel 2011, della sua Fashion Yachts. “Colpa della crisi”, assicura Politi, che nel 2016 ottenne l’annullamento dalla Cassazione di una condanna a sei mesi rimediata a Firenze per l’omesso versamento di 96 mila euro di tasse: dal 2015 era stato depenalizzato da Renzi fino a 150 mila euro. Poi il ritorno con quel “sesto continente” che lo scorso anno ha sbandierato circa 170 milioni di euro di fatturato (due anni prima erano 7 milioni) e 600 mila utenti. Anche grazie a una massiccia campagna pubblicitaria con Publitalia ’80, spot negli studi delle Iene, il logo sulle maglie del Monza calcio e le foto con il presidente Silvio Berlusconi. Anni fa Politi voleva il Nobel per l’economia, convinto di aver elaborato l’algoritmo per scardinare il mercato: Mo. Mo. Sy (Moderate Monetary System).
L’idea di SixthContinent è l’aumento della capacità di spesa dei consumatori grazie all’utilizzo del portale. Ogni acquisto genera un portafogli virtuale di crediti spendibili in seguito. L’albero della cuccagna 3.0 alimentato da gift card, abbonamenti Premium e centinaia di marchi più o meno celebri. Molti ci pagano anche tasse e bollette. Ma da qualche mese i fornitori segnalano ritardi e mancati pagamenti, i clienti lamentano di aver perso i soldi. I problemi più gravi a dicembre. “Hanno cominciato a trasformare tutti i saldi in crediti, di fatto non spendibili”, affermano parecchi fruitori. La Ceo Francesca Roveda ribatte: “Non è stata modificata alcuna regola contrattuale. La contestazione riguarda la consegna di alcune card tra la fine del 2019 e l’inizio del 2020. Ma la misura introdotta da SXC era formulata in modo da lasciare al consumatore la scelta di rinunciare a tale conversione in crediti”. L’Agcm ha aperto un’istruttoria sulla creatura di Politi per le presunte pratiche commerciali scorrette. Nel marzo 2018 la società chiuse 6.473 account, 3.226 erano ancora bloccati a fine 2019. Sospese 17.451 shopping card per un valore complessivo di 1.896.098,77 euro.
SixthContinent è una holding con una capofila a San Francisco (California) e un’intermedia a Londra che controlla la SXC italiana. “Siamo già presenti in Spagna, Portogallo e Germania,” dice Politi, che a settembre 2019 ha concluso un crowdfunding da 3,44 milioni di euro (target iniziale: un milione). Tanto da annunciare la quotazione al Nasdaq. Dallo scorso 31 dicembre, però, non si occupa più di SXC Europe e non è più nemmeno portavoce della piattaforma. Si occupa dello sviluppo del prodotto negli Usa. Per oltre due anni la società inglese da cui dipende pure la SixthContinent tricolore è stata gestita dalla Jordan Cosec Limited, uno studio di revisione britannico già emerso nelle vicende del Sole 24 Ore e del passaggio di Lionel Messi al Barcellona. “La chiuderemo e dipenderemo esclusivamente da quella Usa”, risponde Politi, che negli asset societari ha una posizione marginale. Nel marzo 2014 finì ai domiciliari in un’inchiesta milanese sui tentacoli della ’ndrangheta in cui fu arrestato il boss Pino Pensabene. Lasciò così l’incarico nella società inglese per riprenderlo nel 2016 e abbandonarlo definitivamente nel settembre del 2017. Tornò subito libero e lo scorso 31 ottobre è stato assolto in primo grado dalle accuse di concorso esterno in associazione mafiosa, estorsione e riciclaggio “perché il fatto non sussiste”. È stato però condannato a tre mesi (pena sospesa) per violenza privata ai danni di uno degli informatici che avevano lavorato alla sviluppo della piattaforma. L’uomo gli chiedeva 40 mila euro e lo accusava di averlo minacciato, nel 2013, se l’avesse denunciato. “Se fai una cosa del genere, e pubblichi sul web che sono un cattivo pagatore, ti faccio spaccare le gambe da persone di mia conoscenza”, gli avrebbe detto Politi. Che però racconta di aver detto: “Ti spacco io le gambe personalmente”. Comunque ricorrerà in appello. SixthContinent ricorda che Politi non è più socio di maggioranza dal luglio 2019, non ha incarichi e “oggi è solo uno dei circa 2000 soci”. Escono pagine pubblicitarie per rassicurare i clienti e Libero loda il “guizzo geniale” del “ragazzo rovinato dalla giustizia”.
“La sentenza dimostra che non ho mai avuto a che fare con la ’ndrangheta. E l’episodio per cui sono stato condannato non c’entra niente né con la mafia né con SixthContinent”, afferma Politi. Per i giudici “non vi sono elementi concreti per ritenere che egli avesse consapevolezza della provenienza delittuosa del denaro” procurato dal suo socio di allora, Emanuele Sangiovanni, poi condannato a sei anni. Benché quest’ultimo al processo avesse affermato che “Politi era proprietario della società con me, era al corrente delle operazioni che stavamo facendo con dei soggetti calabresi ai quali dovevamo dei soldi”. Poi nel marzo del 2012 sui giornali uscì una notizia su Pensabene e Politi leggendola non si sarebbe affatto spaventato. “Eppure paradossalmente e – verrebbe da dire – per fortuna dell’imputato, in questa fase Pensabene ha ormai deciso di scaricare Sangiovanni”, scrivono i giudici.
Il commissario Ue si tiene le azioni e la nomina
Questioni di sfumature, di equilibrismi tra obblighi e opportunità politiche. In principio, il conflitto di interessi è uguale per tutti, tanto in Italia quanto Europa. Alla fine dei conti, però, lo si riduce a una questione di trasparenza: basta pubblicare le partecipazioni dei politici e il problema è archiviato. La valutazione dei rischi è sempre pesata ad personam e non c’è un meccanismo univoco per stabilirla.
Così a Bruxelles ci si ritrova con un commissario europeo su 26, Josep Borrell, l’Alto rappresentante per la politica estera, che possiede il 2,5 per cento (ossia 184 azioni dal valore di 12.390 euro) di Bayer, 24esima azienda per spesa in attività di lobby in Europa, con 4,295 milioni di euro (fonte: LobbyFactChecks.eu). Tutti gli altri Commissari o non hanno partecipazioni o le hanno vendute. Paolo Gentiloni, commissario europeo all’Economia ed ex presidente del Consiglio tra il dicembre del 2016 e il giugno 2018, fino a novembre 2019 possedeva circa 700mila euro di azioni in giro per il mondo, tra cui 12.127 euro in Eni, 111.141 euro in Amazon e 18.425 in Enel. Pacchetti azionari minimi, sempre minori dello 0,1 per cento, ma sufficienti in sede europea a sentirsi in dovere a impegnarsi a liquidare tutto (cosa che ha fatto, in novembre, a quanto confermato da un portavoce dei commissari europei).
In Italia, quando era primo ministro, la nuova disciplina in materia di conflitto di interessi approvata solo alla Camera nel febbraio del 2016 prevedeva all’articolo 8 che ci sia conflitto di interessi patrimoniale “quando il titolare della carica di governo nazionale possieda, anche per interposta persona o tramite società fiduciarie, partecipazioni rilevanti in imprese operanti nel settore della difesa, del credito o in imprese di rilevanza nazionale nei settori dell’energia, delle comunicazioni, dell’editoria, della raccolta pubblicitaria, delle opere pubbliche di preminente interesse nazionale o dei servizi erogati in concessione o autorizzazione”. A maggio 2019 altre due proposte di legge hanno cominciato l’iter parlamentare. Nessuna proposta finora è arrivata alla fine. Nel caso qualcuna fosse stata in vigore con Gentiloni, le sue partecipazioni in Eni ed Enel sarebbero state da liquidare? Dipende dal significato che si attribuisce a “rilevanti”: un gioco di equilibrismi, ancora una volta.
Nel caso di Borrell a Bruxelles, l’imbarazzo si è risolto con un voto favorevole alla sua nomina dalla commissione giuridica del Parlamento europeo in settembre. Inizialmente i membri avevano chiesto al futuro commissario se fosse disposto a rinunciare alle sue partecipazioni. Risposta via lettera: “Non ho preso in considerazione la possibilità (di liquidare le mie quote, ndr) perché queste azioni rappresentano una piccola parte delle mie proprietà”. “I settori di queste società (energie rinnovabili, farmaceutico e bancario) non sono rilevanti per gli incarichi per i quali sono stato designato”. La commissione, così, ha dato il semaforo verde con 17 favorevoli e sette contrari.
Una questione politica, più che di merito, come ricorda il quotidiano spagnolo El Diario: a votare a favore sono stati popolari, socialdemocratici (di cui Borrell fa parte) e liberali. Le tre famiglie politiche maggioritarie della Commissione Von der Leyen.
Rischia 24 anni con i cronisti, ma la prova resta in cassaforte
In una cassaforte della Procura di Roma è custodito un file, denominato “file saggio”, che contiene l’elenco di chi lavora per i nostri Servizi segreti. Ed è coperto dal segreto di Stato. Non si tratta di una semplice lista di nominativi: l’elenco, il file saggio, è infatti una “prova” nel fascicolo che accusa due giornalisti – Francesco Bonazzi e Nicola Borzi – proprio di rivelazione del segreto di Stato. Oltre i due cronisti, tra gli accusati, c’è un funzionario di banca, Antonio Li Causi che, secondo la Procura di Roma, sarebbe la loro fonte. I tre rischiano una condanna fino a 24 anni di carcere.
Bonazzi e Borzi, tra il 15 e il 17 novembre 2017, pubblicano una serie di scoop sui loro rispettivi giornali, La Verità e Il Sole 24 Ore, che imbarazzano i nostri Servizi segreti. Raccontano dell’esistenza di 1.600 operazioni bancarie, per circa 642 milioni, effettuate tra il 2009 e il 2013, nei conti di Banca Nuova, che appartiene al gruppo della Banca popolare di Vicenza. E proprio nella filiale romana di Banca Nuova, raccontano, hanno i loro conti i funzionari dei servizi e della Presidenza del Consiglio.
La Procura di Roma apre immediatamente un fascicolo e delega alla Guardia di Finanza, in meno di 48 ore, il compito di perquisire i cronisti. Si cerca la talpa che ha rivelato loro l’informazione e, come abbiamo anticipato, secondo la Procura si tratta di Li Causi. E qui scatta il corto circuito.
Per difendersi, Li Causi chiede di poter acquisire una copia dei documenti che lo accusano, incluso il file saggio ma, secondo la Procura, non può: il file è coperto dal segreto di Stato. Secondo le norme, risponde la Procura, Li Causi può solo prenderne visione. La norma, però, se sembra perfetta per un documento cartaceo, non mostra la stessa efficacia per un documento informatico che, per sua natura, è fisicamente composto da molti dati e, per essere analizzato, ha bisogno d’essere acquisito, più che visionato. E il difensore di Li Causi, l’avvocato Gioacchino Genchi – un passato come funzionario di polizia, collaboratore di Giovanni Falcone, poi consulente di molte procure proprio per indagini informatiche – pretende di acquisire copia del documento che intende analizzare per tutelare il suo assistito.
D’altro canto, però, la Procura di Roma non intende violare la norma (articolo 42, comma 8, legge 127 del 2007) che consente a Genchi soltanto una visione, alla presenza della polizia giudiziaria. Genchi ha già eccepito una volta, e con successo, la nullità della richiesta di rinvio a giudizio proprio per non aver potuto aver copia dell’atto: il gup Claudio Carini, due mesi fa, ha autorizzato il rilascio della copia del file secretato e disposto la nullità della richiesta del rinvio a giudizio. Il pm Sergio Colaiocco, nella nuova chiusura d’indagine, ha però nuovamente rigettato la richiesta di Genchi. E così Li Causi ieri non s’è presentato all’interrogatorio. La vicenda è in una sorta di stallo. Toccherà al Gip, nei prossimi mesi, stabilire se il segreto di Stato possa spingersi fino a una tale compressione del diritto della difesa, dando ragione alla procura e al pm Colaiocco, oppure confermare la decisione, già presa due mesi fa, e consentire la copia dell’atto.
Se i due cronisti, con il loro scoop, intendevano gettare una luce sui conti dei nostri servizi, bisogna ammettere che l’operazione è riuscita perfettamente al contrario: sono loro a essere finiti sotto la lente della Procura.
Insieme alla presunta talpa che, però, almeno per il momento, non può difendersi come ritiene. Infine, c’è da registrare un ulteriore paradosso: l’elenco dei nostri 007, ora blindato nella cassaforte del procuratore di Roma, non pare avesse un’analoga blindatura all’interno dei server di Banca Nuova. Si trattava infatti di un comune “estratto conto”, per il quale non c’era un server dedicato, al quale ogni dipendente della banca poteva accedere da qualunque postazione dell’istituto di credito.
Sanatoria case occupate: “La graduatoria slitta, così sono favoriti i clan”
La maxi-sanatoria delle case popolari a Roma è realtà. La Regione Lazio condona la posizione di circa 5 mila famiglie fra “abusive” e “senza titolo” che occupano altrettante case popolari nel Lazio. Circa il 10% sul totale dei 48.048 alloggi di edilizia residenziale pubblica sparsi nella Capitale. Un provvedimento che contribuisce, però, a rallentare lo scorrimento della graduatoria nella Capitale, che ha ormai sfondato quota 13 mila nuclei in attesa. Non solo. A usufruire del provvedimento varato dalla giunta guidata da Nicola Zingaretti, un emendamento al bilancio regionale, potrebbero esserci anche molte delle famiglie collegate ai clan degli “zingari” Casamonica, Spada e Di Silvio, che secondo un recente report dell’Ater Roma (novembre 2018) avrebbe la disponibilità di ben 600 alloggi. Gli stessi clan cui il Comune di Roma – come la stessa Regione Lazio – aveva dichiarato guerra eseguendo quasi 50 sgomberi in 4 anni.
La sanatoria 2020 – l’ultima era stata nel 2007 – è aperta a tutte quelle famiglie con un reddito inferiore a quello di “decadenza” (20 mila euro l’anno) e permette ai nuclei che abitano in un alloggio popolare di regolarizzare la propria posizione pagando il canone mensile agevolato, cui va aggiunta una “sanzione” massima di 200 euro per i successivi 5 anni. Al termine del quinquennio, i “condonati” potranno fare richiesta di acquisto.
Il provvedimento però non piace al Comune di Roma, il cui dipartimento Politiche abitative si occupa di assegnare le abitazioni e deve scontrarsi con la carenza strutturale di alloggi. Negli ultimi anni la media è stata di appena 400 assegnazioni l’anno. Delle 13.204 famiglie in graduatoria, infatti, il 52% è formato da una o due persone (poco più di 6mila nuclei), mentre le case di taglia “piccola” sono appena l’11% del totale 8.023 immobili. Considerando che in virtù del decreto Lupi del 2014, gli occupanti non avevano diritto a entrare nelle graduatorie, dal Campidoglio vedono la sanatoria come una sorta di “regalo” agli abusivi, che va a discapito di chi si trova in lista d’attesa almeno dal 2012.
“Siamo l’unica regione che ha stanziato 70 milioni di euro per un programma da 710 nuovi alloggi in tre anni, 200 dei quali sono già stati realizzati nel 2019”, ha risposto l’assessore regionale Massimiliano Valeriani. La stessa Regione Lazio che ancora non riesce a spendere i 200 milioni di fondi ex Gescal destinati alla realizzazione di nuovi alloggi, fermi da anni presso la Cassa Depositi e Prestiti.
I motivi che hanno portato al condono sono essenzialmente di natura economica, dovuti ai conti disastrate dell’Ater di Roma. Dalla relazione al bilancio consuntivo 2018, emerge, infatti, come l’azienda stimi in ben 282 milioni di euro la morosità totale, di cui “solo” 31 milioni di euro recuperati nel corso di quei 12 mesi. L’azienda regionale è stata costretta a svalutare del 41% le morosità dopo il 2011 e addirittura del 100% quelle antecedenti; fondo svalutazione crediti sono iscritti ben 91 milioni. D’altro canto, nello stesso anno la campagna “Regolarizzati” ha portato solo 415 famiglie a sanare la propria posizione, mentre sono stati appena 19 sgomberi eseguiti. Anche la vendita degli alloggi è stata fin qui un mezzo flop: solo 134 ceduti nel 2018, per un ricavo di 10 milioni di euro. Troppo poco, considerando che sull’Ater di Roma pende un debito di oltre 200 milioni di euro con l’Agenzia delle Entrate per Imu e Ici arretrate non pagate.
Poi c’è il tema della criminalità organizzata e alle famiglie legate ai clan sinti, Casamonica, Di Silvio, Spada e affini, che controllano interi quartieri “popolari”, da Nuova Ostia a Spinaceto passando per gran parte del quadrante est della città. Secondo un recente rapporto della Guardia di Finanza, vi sono oltre 1.000 alloggi che ogni anno passano di mano irregolarmente attraverso compravendite private.
Nelle pieghe del provvedimento varato dalla Regione Lazio, c’è un tentativo di arginare questo fenomeno: all’articolo 141 comma c) si limita la sanatoria “alla circostanza che l’occupazione non abbia sottratto il godimento dell’alloggio ad un soggetto legittimo assegnatario che non sia ancora entrato in possesso dell’alloggio”, o ad un soggetto che, “essendosi assentato, abbia segnalato con atto avente data certa l’avvenuta occupazione”. Una casistica limitata. Non sempre, infatti, chi ha avuto la casa “scippata” ha denunciato, anche in virtù di quel “prestigio criminale” più volte evidenziato dai giudici a rafforzare l’applicazione dei reati “con metodo mafioso”. “Può essere una criticità, ma era necessario dare una chance alle tante famiglie oneste bloccate dalla burocrazia”, ammette Yuri Trombetti, delegato del Pd Roma.
Il via libera alla sanatoria, arrivato in Consiglio regionale, ha creato nuove frizioni politiche sull’asse Campidoglio-Pisana. Virginia Raggi giovedì scorso aveva avallato il voto dell’Assemblea capitolina alla proposta del Pd Roma di fermare gli sgomberi “senza alternative” dei palazzi occupati. Ma non avrebbe accolto con favore la decisione di alcuni consiglieri del M5S Lazio di “far passare” il provvedimento promosso da Valeriani: Marco Cacciatore ha votato a favore, mentre al momento della votazione Roberta Lombardi, Devid Porrello e Valerio Novelli sono usciti dall’aula, lasciando a Valentina Corrado, Gaia Pernarella e Francesca De Vito l’ “onere” di esprimere la propria contrarietà.
“Resto qui in Cina, non metto a rischio i miei figli. Servirebbe il test volontario”
“Ground control to Major Tom”, chiama il comando a terra in quei versi immortali. Per un italiano lo spazio cosmico in cui il maggiore Tommaso creato da David Bowie fluttuava inghiottito dal silenzio è Qingdao. Vincenzo Zarro non vola, al momento: “Sono fermo da quattro giorni”, racconta al telefono dalla città dei grattacieli che si affacciano sul Mar Giallo. Cinquantacinque anni, comandante della Qingdao Airlines, 22 aerei e il cervello nel distretto di Chengyang, vorrebbe tornare a casa: “La compagnia non mi ha posto limiti, i nostri contratti durano quattro settimane e poi stiamo fermi per altre quattro settimane durante le quali in genere rientro a Latina Scalo”, frazione del capoluogo laziale. Non questa volta: il cuore chiama, la ragione dice di non farlo e Major Tom ha deciso di restare in orbita. “Come faccio a tornare nella mia cittadina, poche migliaia di abitanti? Tutti sanno che arriverei dalla Cina. Là i miei figli vanno a scuola, le mamme dei compagni di mia figlia comincerebbero a chiedere alla preside di non farla entrare in classe?”.
Il punto è trovare un modo per rendere accettabile il rischio: “Io e alcuni amici italiani abbiamo chiamato lo Spallanzani e abbiamo scoperto che non esiste un modo per essere sottoposti volontariamente al test se non si ritorna direttamente dalla Cina. Almeno, venerdì ci hanno detto così. Al check-up si può accedere solo con canali sanitari attivati attraverso il 112 o chiamando il 1500 del ministero della Salute. Quindi il test ti viene fatto solo dopo un ricovero. E anche se volessi fare 14 giorni di quarantena, dove potrei farli? In casa, rischiando di contagiare i miei figli? In albergo dove metterei in pericolo altre persone?”. Senza contare che “farla in un posto in cui ci sono persone che continuano a uscire o a entrare è l’errore che è stato fatto a Wuhan”.
Il problema esiste. “E non riguarda solo me. Qui a Qingdao c’è un altro pilota italiano, a Shanghai ne conosco altri cinque. Ho colleghi che sono tornati in Italia, uno se ne è andato a chiudersi in una casetta che ha in montagna. Non conosco nessuno che abbia fatto l’irresponsabile, ma comunque dovrei fare un viaggio in aereo, arrivare in un aeroporto, magari prendere dei mezzi pubblici o un taxi e c’è un lasso di tempo in cui, se avessi il virus, potrei contagiare altre persone. Per questo volevamo fare il test appena rientrati dalla Cina, anche a pagamento, ma ci hanno detto che non è possibile”.
Le istituzioni ci sono, ci sono state fin dai primi momenti, ma gli addetti ai lavori conoscono le possibili criticità: “Bene chiudere i voli diretti, ma poi la gente continua ad arrivare facendo scalo in altri Paesi – prosegue Zarro – È difficile fare in modo che uno non atterri a Francoforte e da lì prenda un altro aereo per l’Italia. Per questo sarebbe utile mettere in piedi un protocollo per discriminare chi è sano da chi non lo è”.
I timori di Zarro nascono da un dato di fatto. “Faccio il pilota, volo in tutta la Cina, sui miei aerei ho portato migliaia di cinesi dalle aree di infezione. Magari non mi ammalerò mai, ma statisticamente ho più probabilità di prendere il virus di chi lavora a casa. Sto su un aereo per tre ore con centinaia di persone, può essercene una contagiata”.
A Qinqdao il comandante vive sitting in a tin can, seduto in una lattina simile a quella inventata da Bowie. La vita in questa città da otto milioni e mezzo di abitanti è una bolla monade dalla quale gli altri simili umani sono il più possibile espunti. “La security del parco condominiale in cui vivo, 15 palazzi da 40 piani, mi misura la temperatura ogni volta che esco e che rientro a casa: se ho più di 37.3 si attiva il protocollo antivirus. Per uscire devo avere un pass rilasciato dall’amministrazione. In qualsiasi locale pubblico devo registrarmi con il cellulare. Così le autorità tengono traccia di tutti i miei spostamenti e se vengo contagiato possono ricostruire i possibili contatti e isolare le persone che ho incontrato. E per rientrare a casa devo mostrare di nuovo il pass, perché nessuno può entrare in un condominio che nonè il suo. E a casa non posso far salire neanche un amico”. Una bolla che si estende a tutta la provincia dello Shandong, 550 contagiati in tutto: “La signora che mi fa le pulizie è tornata nella sua cittadina a 180 km da qui per il Capodanno. Non ha nulla, ma da quando è tornata è costretta a rimanere dentro casa per due settimane”. Chiusa nella bolla. Per ora anche Major Tom resta in orbita.
L’ospedale padovano come in guerra, chiuse chiese e scuole
Vo’ Euganeo sembra un paese senza vita, negozi chiusi, la gente tappata in casa, movimenti ridotti al minimo, chiese sbarrate. È qui, oltre il cordone militare, l’epicentro dell’attacco del Coronavirus, nel cuore del Veneto, sui colli Euganei, a una ventina di chilometri da Padova. Vo’ è un paese di tremila anime, sembra disabitato. Da qui proveniva Andrea Trevisan, il pensionato di 78 anni, morto nell’ospedale di Schiavonia, a Monselice. Un suo amico, che giocava a carte con lui in uno dei bar del centro, è in Rianimazione a Padova, dove è stato trasferito anche un uomo di Mira, transitato per l’ospedale di Dolo. Gli altri infettati veneti sono più di una decina. In totale, undici abitano a Vo’ Euganeo. Ci sono anche la moglie e la figlia di Trevisan.
E questo è uno dei primi punti oscuri. La macchina sanitaria veneta costa 10 miliardi di euro all’anno, è considerata una delle più efficienti d’Italia. Come è possibile che due pazienti, ammalati di influenza, non siano stati controllati, per verificare se fossero affetti da Coronavirus? La domanda per il momento è senza risposta. I sanitari si sono accorti del morbo venerdì, quando per Trevisan era troppo tardi. A quel punto la macchina dell’assistenza pubblica del Veneto si è messa in moto.
E pensare che alla fine di gennaio l’assessore alla sSanità Manuela Lanzarin aveva sostenuto che tutto era pronto per verificare la situazione e far fronte all’insorgere di qualche caso. Attivati i laboratori, gli ospedali, i medici di base. Eppure quei due malati sono rimasti nel reparto di medicina e di geriatria, assieme agli altri, senza che il personale utilizzasse le precauzioni necessarie. Evidentemente qualcosa non ha funzionato, oppure i malati non hanno manifestato i sintomi del virus, che era in incubazione. Le difese annunciate, con una task force che avrebbe dovuto essere operativa da quasi un mese, non hanno funzionato.
Principale osservata, a Vo’, è una piccola comunità cinese, un laboratorio dove sette uomini e una donna sono risultati positivi. Alcuni di loro si recavano in uno dei due bar, ma nessuno è rientrato di recente dalla Cina. Adesso anche loro sono in ospedale, in osservazione. Ma il centro di osservazione si trasferisce nella struttura di Schiavonia, intitolato a Santa Teresa di Calcutta. Nessuno può entrare, nè uscire. Nel grande parcheggio è stata allestita una tendopoli dove si effettuano i test di controllo sui 300 pazienti e sui 600 dipendenti. Al momento non si sono registrati casi positivi. Alta tensione, alcuni dipendenti sono allo stremo. In 150 sono costretti a dormire sulle barelle, in attesa del permesso per uscire, previo esito negativo dei tamponi. “Abbiamo dormito sui letti e sulle barelle della sala operatoria, arrangiandoci con felpe e lenzuola. Siamo stanchi, affamati e preoccupati. Non pensavamo che una cosa del genere potesse succedere a un ospedale di provincia come il nostro. Non possiamo uscire nemmeno in cortile, è una situazione irreale”, ha confessato un’infermiera strumentista trattenuta nel blocco operatorio. I pazienti, invece, verranno dimessi seguendo lo stato di salute di ognuno. E siccome la degenza media è di 6 giorni, in una settimana l’ospedale sarà vuoto per consentire la sanificazione.
“Il reparto di infettivologia dell’Azienda ospedaliera di Padova è in questo momento quello più sotto pressione”, quindi “stiamo cercando di recuperare personale anche da altre Asl”, ha dichiarato l’assessore Lanzarin. I pronto soccorso in Veneto vengono presi d’assalto. Si diffondono voci non confermate di nuovi infetti. Nelle farmacie le mascherine vanno a ruba. La Regione Veneto, d’intesa con i rettori, ha deciso la chiusura per la prossima settimana delle Università venete. A Vicenza il vescovo ha rinviato la cresima di oggi e il sindaco ha cancellato i carri di Carnevale.
La mappa lombarda del virus: non si trova il “paziente zero”
Strade deserte, negozi sbarrati, l’auto della Protezione civile avanza a passo d’uomo. Con un megafono manda sempre lo stesso messaggio: “Avviso alla cittadinanza, oggi sabato 22 febbraio, in base all’ordinanza del ministero della Salute si invitano i cittadini a ridurre le uscite e a evitare momenti di aggregazione”. Atmosfera surreale che si ripete, Comune dopo Comune, in questa zona della Bassa lodigiana che corre a nord verso Pavia. La mappa del contagio in Lombardia contava fino a ieri sera 47 persone risultate positive al Covid-19 e comprendeva almeno 13 comuni. Le ultime due a Milano. Si tratta di un residente a Sesto San Giovanni ricoverato da cinque giorni all’ospedale San Raffaele e di un altro originario di Mediglia già portato all’ospedale di Pavia.
Venerdì i contagiati erano 14. Tra questi anche la 76enne Giovanna Carminati morta ieri nella sua casa di Casalpusterlengo. Attendeva da giorni i risultati del tampone poi rivelatosi positivo. Il suo corpo è stato già sepolto. Una fretta – è stato spiegato –, dovuta ai motivi igienico-sanitari. La donna pochi giorni prima di morire era passata per il pronto soccorso di Codogno a oggi indicato come il vero focolaio del virus. Che ha iniziato a diffondersi tra il 18 e il 19 febbraio. Ovvero giorni dopo che il “paziente uno”, il 38enne di Codogno, facesse il suo primo accesso in ospedale per poi rientrarci in condizioni critiche la sera del 20. L’impennata dei contagi illustrata ieri nei punti stampa organizzati in Regione Lombardia aumenta le ordinanze di chiusura di uffici pubblici ed esercizi commerciali. Non solo nel Lodigiano. A Piacenza scuole chiuse e un invito comune a quello di Casalpusterlengo: restare in casa. Resta chiusa la Unilever dove lavora il 38enne, qui si è in attesa dei circa 120 tamponi effettuati venerdì. Mentre ieri sera il Viminale ha disposto l’uso di guanti e mascherine per gli agenti. Chiuse anche le università lombarde almeno fino al 2 marzo. E così se aumentano i contagi, aumentano anche i casi sospetti che ora dovranno essere trattati in luoghi speciali.
L’ospedale Sacco rappresenta la prima avanguardia contro il virus. Qui al padiglione 62 si trattano i casi conclamati. Si lavora h 24 per tracciare gli anticorpi del cosiddetto “paziente indice”, ovvero il manager amico del 38enne che il 21 gennaio scorso è rientrato da Shanghai e che quattro giorni dopo ha cenato con l’amico. Ieri, in serata, il vice ministro della Salute Pierpaolo Sileri ha confermato l’assenza di anticorpi del Covid-19. Il manager dunque non può essere il “paziente zero” che ha dato il via al contagio nel Lodigiano. L’uomo fin dai primi test era risultato negativo. “Con M. – ha raccontato ieri – abbiamo fatto due cene e preso una birretta”. Da ieri, M, il 38enne di Codogno è ricoverato nell’ospedale San Matteo di Pavia. E sempre da ieri anche la zona del Pavese rientra a pieno titolo nella mappa del contagio.
Tutto parte da Codogno e dal pronto soccorso ormai conclamato focolaio del virus. Qui vive il “paziente 1” in ipotesi contagiato dal 25 gennaio. Nell’appartamento del quartiere San Biagio vive con la moglie incinta anche lei positiva. Quando poi il 38enne è stato ricoverato in condizioni critiche, il virus ha certamente infettato almeno cinque infermieri e tre degenti. Un numero, quello delle otto persone in ospedale, che da ieri è aumentato anche se le cifre non sono state comunicate. Oltre Codogno c’è Castiglione d’Adda. Qui M. frequentava il bar “La tentazione”. Qui tre anziani sono risultati positivi, oltre a loro un amico con il quale il 38enne andava a correre. Un altro compagno di corsa che risiede a Torino e che con i due aveva fatto una gara amatoriale a Portofino è risultato positivo. Da ieri è ricoverato nell’ospedale Amedeo di Savoia. È sposato e ha due figli. A quanto si è saputo, lavora nell’hinterland milanese a Cesano Boscone e per andare in ufficio ha preso diversi treni nelle ultime settimane. Se il triangolo della bassa Codogno-Casalpusterlengo-Castiglione è il centro del focolaio, altri casi sono stati accertati nella cintura attorno composta da dieci Comuni. Da qui si arriva a una coppia di medici residenti a Pieve Porto Morone nel Pavese. L’uomo fa il medico di famiglia, la donna, pediatra, ha lavorato a Codogno. Sono ricoverati nell’ospedale San Matteo. In provincia di Cremona altri tre contagi. Uno di loro ha avuto contatti con il pronto soccorso di Codogno. Si tratta di una donna di 38 anni di Sesto Cremonese, mentre il primo uomo è di Pizzighettone, il secondo di Soresina. A Piacenza, infine, è ricoverato l’infermiere che ha trattato in triage il “paziente 1”.
Un pezzo di Nord chiude per virus. E alla fine bisognerà contare i danni
Pian piano il Nord inizia a fermarsi: si ferma quel che è giusto che lo faccia, quel che è sensato in omaggio al principio di precauzione e quel che è sensato in omaggio agli uzzoli della politica locale. Chiuso per Coronavirus. Non tutto però, la settimana della moda di Milano, per dire, va avanti fino a domattina: “Non riteniamo di bloccare le sfilate”, ha detto il sindaco Beppe Sala. “C’è un grande afflusso, nessuna defezione”, spiega Carlo Capasa, presidente della Camera della Moda.
Nessuna defezione, s’intende, a parte quella di circa mille tra buyers e giornalisti cinesi, nazione che fa il 25-30% del fatturato mondiale del comparto lusso.
Se le passerelle restano aperte, altri spazi, si diceva, chiudono. Chiudono le università in Veneto per una settimana (in Piemonte ci pensano) e chiude lo sport minore almeno per questo weekend; a Vo’ Euganeo, il Comune della prima vittima italiana, e a Monselice chiude pure la chiesa e in generale i vescovi del Nord consigliano a chi andrà a messa di evitare il “segno di pace”. Chiusi a doppia mandata i dieci Comuni del Lodigiano in cui s’è sviluppato il primo focolaio conosciuto, ma chiuse le scuole anche altrove: a Cremona e a Crema (dove non si farà nemmeno la sfilata di Carnevale), ma anche in molti Comuni veneti, nella provincia di Piacenza e, fino almeno a mercoledì, pure in quella di Trento, dove non c’è ancora stato neanche un caso accertato, ma il presidente leghista è preoccupato. Niente scuola e niente gite fuori dal Trentino, dice Maurizio Fugatti, e niente gite nemmeno in entrata. La prudenza estrema nella Lega va per la maggiore: Massimiliano Fedriga, il governatore del Friuli Venezia Giulia (zero casi finora), ieri ha dichiarato lo stato d’emergenza e chiesto al governo di chiudere i confini.
Anche il privato si organizza e questo al di là degli inviti a “stare in casa” (l’assessore lombardo al Welfare Gallera) o a “ridurre la socialità” (Sala). Molte aziende invitano i dipendenti a lavorare da casa o a stare a casa e basta: succede in Veneto e in Lombardia, soprattutto. In ossequio alla prima ordinanza regionale, poi, il Comune di Milano, il Tribunale e altri uffici pubblici hanno lasciato a casa i loro (pochi) dipendenti residenti negli ormai famosi comuni del Lodigiano. Questa zona, specie se l’emergenza dovesse protrarsi e allargarsi, rischia di pagare un prezzo salato al virus: nella provincia di Lodi, dice Assolombarda, ci sono oltre 15mila imprese industriali con 57mila addetti che (dati 2018) esportano 3,7 miliardi di merci.
Il contagio tra le persone, e anche l’ovvio intento di prevenirlo, fanno ammalare anche l’economia: Confindustria Veneto, ad esempio, già chiede interventi di sostegno per le imprese; la ministra del Lavoro, Nunzia Catalfo, ha fatto sapere che il governo è disponibile a dare la cassa integrazione ordinaria agli stabilimenti che si vedessero costretti a sospendere le attività. Stime dei danni al momento sono impossibili, ma – sostiene Coldiretti – “dopo aver provocato perdite alle esportazioni, ora l’emergenza Coronavirus le provoca ai consumi”: turismo, ristorazione, fieristica e via dicendo sono vittime collaterali della paura del contagio. È di ieri la notizia che è stata rinviata a maggio/giugno la più grande fiera mondiale dell’occhialeria, Mido, che sarebbe dovuta iniziare a Milano sabato prossimo: un settore che per l’Italia vale un fatturato di quasi 4 miliardi, il 90% del quale viene dalle esportazioni.
Non una buona notizia, il rinvio di Mido, in una città, Milano, in cui stavano già contando le perdite dovute al blocco degli arrivi dalla Cina: la Fondazione Italia Cina, ad esempio, prevede un calo del 25% delle presenze dal Paese asiatico in Italia (5 milioni di pernottamenti stimati nel 2020, specie nel periodo del capodanno cinese, cioè tra gennaio e febbraio). Secondo Confcommercio, solo le imprese di Milano finora hanno perso 250 milioni di euro.
Mattarella vuole unità nazionale, Salvini si calma solo in serata
Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, prova a stroncare la gazzarra politica attorno alla gestione dell’emergenza Coronavirus. “Confido che senso di responsabilità e unità di impegno assicurino la migliore e più efficace risposta a tutela della salute dei nostri concittadini” ha detto il capo dello Stato elogiando il sistema sanitario e la tempestività della risposta delle regioni. Quando Matteo Salvini fa fuoco per tutta la giornata sulla Toscana guidata da Enrico Rossi e su Nicola Zingaretti. “Abbiamo al governo gente pericolosa: sono giornate complicate e oggi il segretario del Pd ha detto che la priorità è smontare i decreti Sicurezza. Vi rendete conto?”.
La risposta della ministra Paola De Micheli a Salvini (“è uno sciacallo”) provoca un parapiglia sui social, mentre Zingaretti la mette così: “Chi, di fronte a tema così enorme come quello del dovere etico e morale di rassicurare i cittadini, si preoccupa in maniera furbesca a meschina di fare polemica politica conferma di non essere adeguato a prendere in mano le redini del Paese. Si vergogni”. Eppure, nell’attacco a Rossi con vista elezioni regionali, il capo del Carroccio non molla: “Rossi è un poveretto che diceva che chi voleva i controlli è un fascioleghista: ce la metteremo tutta per liberare la Toscana da certa gente”. Giorgia Meloni non partecipa al tiro al piccione e anzi si dice disponibile a dare una mano pur chiedendo al premier Conte di riferire in Parlamento. Pieno sostegno al governo da Matteo Renzi, slitterà il chiarimento già in programma con il premier. Premier che ieri, al Cdm straordinario alla Protezione civile, ha offerto dialogo alle opposizioni prima di varare le misure straordinarie, per provvedimenti condivisi. Tanto che Salvini ha cercato di correggere il tiro in extremis: “Lega interpellata, a noi interessa la salute dei cittadini. Le polemiche le lasciamo agli altri”.