La Regione di Zaia ha bloccato i test sui cinesi al rientro

Una lettera del direttore generale dell’Area sanità e sociale della Regione Veneto mette in imbarazzo la giunta di Luca Zaia. Mentre il governatore leghista invocava la quarantena per i bambini cinesi nelle scuole del Veneto e Matteo Salvini chiedeva di chiudere i porti, accusando il governo di non tutelare a sufficienza la salute pubblica, il potente braccio destro di Zaia negava i controlli sui cinesi “asintomatici”. Una sottovalutazione? Domenico Mantoan, oggi è capo dell’Aifa, l’Agenzia nazionale del farmaco, l’11 febbraio scriveva al direttore generale dell’azienda ospedaliera di Padova, Luciano Flor, al professor Andrea Crisanti direttore dell’Unità di microbiologia e virologia dell’azienda ospedaliera, alla dottoressa Francesca Russo, direttore del settore prevenzione della Regione e all’assessore alla Salute, Manuela Lanzarin. Si riferiva a notizie “di stampa” secondo cui l’Asl padovana “sta valutando di estendere i controlli microbiologici anche ai soggetti asintomatici provenienti dalla Cina”. In modo formale chiedeva “sulla base di quali indicazioni ministeriali, o internazionali” e se vi fosse approvazione del Comitato Etico. Subito dopo Mantoan ribadiva che “il coordinamento centrale di ogni azione è l’elemento imprescindibile”. E ricordava che “ogni spesa associata alle prestazioni in argomento, su soggetti asintomatici, non rientra tra le prestazioni coperte dal fondo del Sistema Sanitario Nazionale”, sollecitando a valutare se la mole di nuovo lavoro “possa impattare sulla gestione organizzativa e la tempistica di risposta degli esami effettuati su pazienti sintomatici”.

Uno stop vero e proprio. La lettera è emersa il giorno dopo la morte del primo italiano proprio in provincia di Padova. Il consigliere regionale Jacopo Berti del M5S attacca: “Il protagonista è ancora una volta Domenico Mantoan, l’intoccabile capo della sanità veneta, braccio destro di Zaia. L’Azienda sanitaria di Padova, preoccupata per i numerosi rientri di cittadini dalla Cina, aveva espresso all’inizio di febbraio l’intenzione di tenere la guardia il più possibile alta, effettuando il test anche su soggetti che non mostravano alcun sintomo”. La spiegazione: “Uno scrupolo in più rispetto a quanto previsto dalla circolare del ministero, ma Mantoan invece di raccogliere l’allarme inviava su carta intestata della Giunta regionale una lettera dai toni minacciosi con la quale vietava all’Asl di procedere con i controlli”. I Cinquestelle ricordano come proprio Zaia in quei giorni affermasse che la sanità veneta era pronta a mettere in campo ogni mezzo per fermare il virus. “Per non parlare del suo capo Salvini, che riempiva i social di attacchi al Governo, sosteneva che non si stava facendo abbastanza e che qualcuno avrebbe dovuto risponderne di fronte ai cittadini: esattamente quello che stava accadendo del ‘suo’ Veneto! La propaganda non la facciamo noi, ma chi mentre i veneti si ammalano e muoiono, continua a dire di aver fatto tutto quanto era necessario mentre invece ostacolava chi voleva proteggere più possibile i cittadini”.

Interpellato dal Fatto Quotidiano, Mantoan ha replicato: “Abbiamo sempre seguito le indicazioni del ministero. Nessuno è autorizzato a iniziative autonome, che vanno concordate con l’Unità di crisi del ministero”. Poi è scesa in campo la Direzione prevenzione della Regione: “La ricerca in soggetti asintomatici non è indicata da alcuna circolare del governo né da raccomandazioni internazionali. Il professor Crisanti ha citato una recente pubblicazione scientifica del New England Journal of Medicine, che però è stata posta in discussione dalla stessa comunità scientifica”.

Il governo: posti di blocco per isolare lombardi e veneti

Posti di blocco in strada per limitare gli spostamenti nelle due aree più colpite, in Veneto e Lombardia. Possibilità di interrompere le manifestazioni e le attività lavorative, ma anche di chiudere le scuole. Sospensione dei viaggi di istruzione: tutti, nazionali e internazionali. Possibilità di utilizzare forze di polizia e militari per far rispettare le prescrizioni. In risposta all’arrivo in Italia del coronavirus, il consiglio dei ministri straordinario riunitosi ieri a Roma nella sede della Protezione civile fino alle 23 ha messo a punto un decreto legge contenente misure speciali. “Misure proporzionate su base tecnico scientifica”; ha precisato Giuseppe Conte. Il testo, condiviso con le opposizioni, è atteso già oggi in Gazzetta Ufficiale. Un secondo dl, contenente misure ad hoc per l’economia, arriverà in Cdm lunedì.

Negli uffici di via Vitorchiano, a Roma, si sono seduti al tavolo operativo con il premier il sottosegretario alla presidenza del consiglio Riccardo Fraccaro, i ministri della Salute Roberto Speranza, degli Esteri Luigi Di Maio, delle Infrastrutture Paola De Micheli, degli Affari regionali Francesco Boccia, degli Interni Luciana Lamorgese, dei Beni culturali Dario Franceschini, delle Pari opportunità Elena Bonetti, del Sud Giuseppe Provenzano, dello Sport Vincenzo Spadafora, degli Affari europei Vincenzo Amendola, del Lavoro Nunzia Catalfo, il commissario straordinario Angelo Borrelli e il capo della polizia Franco Gabrielli. Il responsabile delle Finanze Roberto Gualtieri, in Arabia Saudita, dove rappresenta l’Italia alla riunione dei ministri finanziari del G20si è affidato a un collegamento telefonico da Ryad. Il titolare della Difesa Lorenzo Guerini, invece, ha parlato da Lodi, città di cui è stato sindaco.

Per evitare il diffondersi del Covid-19 “il decreto legge ci consentirà di intervenire e disporre misure ulteriori di contenimento per impedire l’allontanamento degli individui dalle aree ritenute di focolaio, il lodigiano con 10 Comuni interessati e quella di Vò Euganeo” ha detto il premier, spiegando che “una famiglia in quarantena si è allontanata per trasferirsi al meridione”. Il testo è frutto della “collaborazione con Attilio Fontana e Luca Zaia”, presidenti delle Regioni Lombardia e Veneto, che nel pomeriggio avevano deciso la chiusura delle loro università per una settimana. “Con il provvedimento di oggi rendiamo possibili anche altri interventi fuori da quei territori: con questo decreto il ministro competente potrà intervenire per la sospensione delle gite scolastiche e il ministro Spadafora potrà farlo su eventi sportivi già da domani”, ha aggiunto il ministro della Salute Speranza.

L’obiettivo era quello di ottenere “la massima condivisione possibile su provvedimenti che andranno ad impattare sulla vita di migliaia di cittadini” e l’obiettivo del governo, che sul tema si era confrontato con le opposizioni già il 3 febbraio, è stato almeno in parte raggiunto: per mettere a punto le misure, l’esecutivo ha consultato i partiti delle opposizioni e le Regioni interessate dal contagio. Forza Italia con Silvio Berlusconi e Fratelli d’Italia con Giorgia Meloni hanno garantito la “massima collaborazione”. “La Lega è stata interpellata”, ha confermato il leader della Lega Matteo Salvini”. Poi in tarda serata fonti del Carroccio avevano fatto sapere di aver subordinato il via libera al provvedimento alla sospensione unilaterale del trattato di Schengen che garantisce la libera circolazione tra gli Stati Ue, ma la misura è rimasta fuori dal provvedimento. “Una misura draconiana e sovraproporzinata”, l’ha definita Conte. Fuori anche le ipotizzate restrizioni sulla rete ferroviaria.

Forti i timori anche per la possibilità che il Covid si diffonda nelle carceri: nel pomeriggio il Dap ha disposto l’esonero dal servizio per “tutti gli operatori penitenziari residenti o dimoranti” nelle aree più colpite.

L’Innominato

L’altra sera, facendo zapping, mi imbatto nel programma di Barbara Palombelli su Rete4. Tanto per cambiare c’è l’Innominato (scusate se lo chiamo così, ma appena lo nomino mi fa causa, ritenendo comprensibilmente offensivi il suo nome e soprattutto il suo cognome) che, con l’aria solenne di chi sta svelando il terzo segreto di Fatima, annuncia: “Nel piano choc c’è anche la Pontina”. Buono a sapersi, mi appunto subito la preziosa informazione per non scordarmela. E immagino il sollievo che cotanto annuncio deve aver suscitato nel Lombardo-Veneto terrorizzato dal coronavirus. Dal Padovano a Codogno e Casalpusterlengo è tutto un passaparola: abbiamo una fifa boia, però l’Innominato ha un piano choc autostradale, il che è già incoraggiante, e per giunta contempla pure la Pontina, quindi siamo a cavallo. Mentre prendo buona nota, un amico mi informa che il tizio ha appena ricordato che il su babbo ha già vinto due cause civili contro di me (una perché ipotizzai un conflitto d’interessi del padre del premier che s’interessa di appalti Consip; l’altra perché definii bancarotta il fallimento di una società del medesimo genitore, ora imputato per tre bancarotte fraudolente); e ha svelato di averne presentate altre due in un colpo solo (la n. 14 e la n. 15 in due mesi, stracciando il record precedentemente detenuto da B., Dell’Utri e Previti, però tutt’e tre insieme) per le mie ultime critiche. Che lui, bontà sua, stima in 100 mila euro di danni.

La tecnica delle denunce a strascico serve a intimidire chi si lascia intimidire (quindi non me) e a moltiplicare le possibilità di imbattersi negli stessi giudici che diedero ragione al babbo che aveva torto. Ma è anche un’arma a doppio taglio. Lo sa bene l’altro Matteo, che mi denunciò (ma penalmente: è più sportivo) per “cazzaro verde” e il giudice sentenziò la liceità dell’epiteto per la sua straordinaria aderenza al soggetto in questione. Così ora tutti possono chiamarlo Cazzaro Verde quando vogliono, prima e dopo i pasti. Figurarsi se ora un altro giudice stabilisse che è lecito chiamare l’Innominato “mitomane” o “caso umano”. Milioni di persone che non aspettano altro potrebbero approfittarne per sfogarsi un po’. Ma c’è pure il caso di essere condannati da un giudice poco avvezzo all’articolo 21 della Costituzione, convinto che la libertà di parola sia concessa per elogiare i potenti anziché per criticarli, dunque portato a confondere i giornalisti con i cortigiani (e con qualche ragione, visto com’è ridotta la prima categoria). In attesa di apprendere fra una dozzina d’anni quale critica sia lecita e quale no, meglio andarci coi piedi di piombo.

Chiamarlo l’Innominato mi sa che non basta, anche perché basta aggiungere “mitomane” e/o “caso umano” e quello si riconosce subito. Dunque, quando la Gruber o Floris mi chiederanno di lui, ne dirò solo bene. Altro che mitomane o caso umano (se lo fosse, del resto, il prof. Recalcati che lo ha in cura l’avrebbe segnalato su Repubblica). Egli è anzitutto un bell’uomo: avvenente, magnetico, snello, slanciato e atletico, manderebbe in crisi anche l’eterosessuale più impenitente. Un apollo. E poi è un grande politico, lungimirante, competente, umile e soprattutto coerente. Uno statista che, come al Riformista, mi ricorda istintivamente De Gaulle. Ma anche, se non fosse per quell’inglese ancora lievemente perfettibile, Churchill. Il suo primo e purtroppo unico governo è già nella Storia per i grandi ministri (cito solo Alfano, Madia, Boschi, Guidi, Pinotti, Lupi, Martina, Orlando, Galletti, Poletti, Giannini e Lorenzin) e i balsamici effetti sulla Nazione tutta, che purtroppo – ingrata – non li colse né ricambiò. La sua riforma costituzionale, a sei mani con Boschi e Verdini, fu un gioiello di scienza e sapienza, sventuratamente incompresa dal popolo bue subornato da soloni, gufi e professoroni. La sua Rai monocolore fu un modello di pluralismo, diretta da geni come Campo Dall’Orto e Moiro Orfeo, grazie all’allontanamento di Gabanelli, Giannini e Giletti, noti nemici della libertà. Ma non bastò a bilanciare l’ostilità preconcetta della grande stampa che lo diffamava ogni giorno con le interviste-imboscata di Maria Teresa Meli e i commenti urticanti dei Merlo, dei Messina e dei Riotta.

Lui intanto salvava Alitalia, Ilva, Montepaschi, Etruria, giù giù fino all’Unità: ma nessuno gliene rendeva merito, con la banale scusa che le aziende salvate peggioravano o chiudevano. De Benedetti, anziché ringraziarlo per la soffiata sul decreto Banche popolari che gli aveva fruttato 600 mila euro sull’unghia, osò definirlo “un cazzone che non capisce niente di economia” (senza beccarsi non dico 15 denunce, ma nemmeno una). L’italica ingratitudine tocco l’acme nel 2018 quando il suo Pd toccò il minimo storico, doppiato dagli zotici grillini e dai barbari leghisti. Lui li chiamava “governo di cialtroni”, perché se c’è una cosa che non tollera sono gli insulti, a parte quando accostò Paola Muraro, assessora della Raggi, a Mafia Capitale. E neppure le minacce, salvo quando promise “il lanciafiamme” ai suoi critici nel Pd (il che, se posso permettermi, indebolisce un filino le sue denunce). Grazie a Lui, abbiamo una classe dirigente nuova, brillante, geniale: da Lotti a Boschi, da Marattin a Bonifazi, da Cerno a Scalfarotto, senza dimenticare Teresa Bellanova, una via di mezzo fra Indira Gandhi, Golda Meir e la Thatcher, orgoglio e vanto di Italia Viva, il nuovo partito che tutti sognavamo. Qualcuno fa sterili polemiche sulle conferenze all’estero, ma l’unica fondata è che si fa pagare poco: per 40-50 mila euro, sono regalate. Stiamo parlando dell’autore del docufilm Firenze secondo me, escluso dalle nomination all’Oscar per pura invidia. Ecco: se riesco a dire tutto questo restando serio, è fatta.

Cara umanità, ridi che ti passa (anche quando è proibito)

È contagiosa, ma non è una malattia. Fa emettere suoni istintivi (ragli, gracchi, bubbolii) simili al verso degli animali, eppure è una caratteristica distintamente umana. Può far sgorgare le lacrime, ma non è generata da un dolore, anzi… È la risata, un evento fisico spontaneo in bilico tra natura e cultura: per la psicologia distende il morale; per la biologia, irrora il cervello, attiva i muscoli facciali e fa aumentare la produzione di adrenalina e dopamina, che hanno il compito di liberare le nostre morfine naturali; per la scienza, è un simbolo di evoluzione, poiché soltanto una creatura che abbia imparato a trasportare gli oggetti con le mani invece che con la bocca può lasciare quest’ultima libera di ridere; per la società è un simbolo di gioia.

Ma non è sempre stato così. La risata per secoli è stata ascritta nelle “visioni demoniache dell’esistenza umana” (per dirla come Milan Kundera), in contrapposizione all’angelico che vede il mondo come ordinato e armonioso, poiché la risata è il terreno della rottura, dell’incongruenza, dello sconvolgimento delle certezze. A ricostruirne l’epopea, ci pensa Breve storia della risata di Terry Eagleton (Il Saggiatore, traduzione di Denis Pitter, pp. 216, euro 17), un saggio luminoso e coltissimo, o meglio, un ragionamento storiografico sull’umorismo con il senso dell’umorismo.

L’accostamento al maligno, lo si nota già dalla prima risata della letteratura occidentale: nel libro I dell’Iliade, gli dei dell’Olimpo si prendono gioco dell’andatura zoppicante di Efesto, dio del fuoco. Come pure nel Libro di Salomone nell’Antico Testamento, si narra che Yahweh rida della calamità che ha in serbo per i malvagi. Tra i filosofi greci, Platone inquadra la risata come espressione di derisione malevola; per Aristotele, l’umorismo è offensivo e introduce i prodromi del politically correct: non si ride delle disgrazie altrui. La versione della risata come atto di scherno raggiunge – nell’antica Grecia – il suo culmine con il genere della commedia. A ben rileggere Lisistrata, Le nuvole, Le vespe, Le rane di Aristofane, la risata dissacra le istituzioni. Tuttavia, è pur sempre considerata una parentesi (che quindi si apre e subito si chiude) in cui perdere il controllo ed essere imprevedibili rispetto all’ordine delle cose. Tale lettura della risata come sbeffeggiamento e atto di superiorità, lo si ritrova anche nella cultura romana: Cicerone nel De oratore, evidenzia come si possa ridere della deformità umana poiché qualcuno deve pur piangere, affinché gli altri possano ridere più calorosamente.

Sebbene gli antichi greci fossero soprattutto contrari all’umorismo come questione di classe – un signore può dilettarsi nell’umorismo arguto ma non ridere sguaiato, cosa che invece un servo o un soldato possono fare – è nel Medioevo che avviene la vera demonizzazione della risata. Nella sua Lettera agli Efesini, San Paolo vieta lo scherzo: è la più antica norma monastica contro la risata. Il riso nel Medioevo viene relegato ai margini di tutte le sfere ufficiali dell’ideologia: bandito dal culto religioso, dal cerimoniale dello stato feudale e dall’etichetta sociale. Non è un caso che, ne Il nome della rosa, Umberto Eco racconti che il terrore per la comicità nella chiesa medievale porta all’omicidio e al caos.

Il primo a intravedere la gioia della risata è San Tommaso. Nella Summa Theologiae raccomanda di ridere come forma di gioco terapeutico e piacere dell’anima. Da qui, dopo una breve ricaduta nell’oscurantismo della letteratura vittoriana e della filosofia del primo ’700, l’umorismo è riconosciuto come culto della cordialità (da Voltaire in poi). Ma è con la nascita della borghesia, che l’umorismo, la simpatia e il buonumore iniziano ad assumere un ruolo centrale e creare nuovi modelli di sentimento: meno eroismo, più umorismo. Pensiamo soltanto ai personaggi di Dickens, colmi di manie e peculiarità, che risultano così simpatici (da sun pathos: sentire insieme) e trasmettono con comicità buonumore. Ad aureolare, infine, la funzione sociale della risata, ci pensano sia Charles Darwin, per il quale è “una sorpresa emozionante”; sia Sigmund Freud che la descrive come “il più eminente meccanismo di difesa”; sia Desmond Morris, quello della Scimmia nuda di Gabbani, quando la definisce come il picco estatico del bambino, poiché è il gesto di gratitudine nei confronti della mamma che lo ha raggiunto, richiamata dal suo pianto.

La bacchetta magica di Marinuzzi: il più grande direttore del 900

Si sta facendo strada a poco a poco, a onta degli scarsi reperti discografici, che Gino Marinuzzi (Palermo, 1882-Milano, 1945) sia stato il più grande direttore d’orchestra del Novecento. A suo agio in ogni tipo di repertorio, da Monteverdi a Ernst Bloch e Carl Orff, aduso alla musica italiana, tedesca, francese e russa, dominava col suo stile modernissimo e raffinatissimo sia nel repertorio sinfonico che nel teatro musicale.

Le più grandi orchestre furono soggiogate dalla sua bacchetta. La sua interpretazione del Tristano e Isolda di Wagner, da lui diretto più di cinquanta volte, era divenuta leggendaria; ma non meno quelle di Mozart, di Verdi, di Beethoven, di Wagner, di Rossini, di Donizetti, di Massenet, di Rimskij-Forsakov, dei contemporanei. Dedicarmi al suo culto è una delle missioni della mia vita.

Più difficile è stato convincere che Marinuzzi è anche uno dei più grandi compositori del Novecento. Un punto di svolta sono state le incisioni di tre capolavori sinfonici, il Poema Sicania, la Suite siciliana, la Sinfonia in La. Il Maestro, a differenza della gran parte dei suoi colleghi, era un latinista e grecista, un bibliofilo. La sua biblioteca, la parte erudita e quella musicale, venne dispersa nella vendita della sua villa di Sanremo, non conservata dall’insania della famiglia. Sicania è il nome antico della Sicilia; cinque canzoni popolari siciliane, una delle quali di marcata origine araba, vengono avvolte in una rete contrappuntistica da far girare la testa. La Sinfonia si basa sopra un tema principale, ricorrente in tutti i movimenti, sottoposto a metamorfosi e sovrapposizioni contrappuntistiche tali da non aver confronto. Venne scritta a Milano nel 1942-43: l’Autore era soprintendente della Scala, dopo esserne stato direttore artistico dal 1932; prima aveva reso grande il Teatro Reale dell’Opera.

Dei tre titoli di Marinuzzi dedicati al teatro musicale uno, Jacquerie, venne ripreso a Catania una ventina d’anni fa e anche inciso. È dedicato alle rivolte contadine della Francia trecentesca, e la sua forza drammatica, la sua audacia compositiva, spaventarono lo stesso Puccini, suo intimo amico, ch’era pur egli un compositore d’avanguardia. Andrebbe assolutamente messa in repertorio. Adesso si è avuto il trionfo postumo di Palla de’ Mozzi, del 1933, che non si eseguiva dal 1942. Ho passato anni a supplicare i teatri di rieseguire un capolavoro che onorerebbe qualsiasi compositore. Finalmente l’ha allestito il Teatro Lirico di Cagliari, sotto la rivelatrice bacchetta di Giuseppe Grazioli, autore già d’una strepitosa incisione della difficilissima Sinfonia in La.

La vasta compagnia di canto ha visto svettare Elia Fabbian, Leonardo Caimi, Francesca Tiburzi. La vicenda vede, dopo la morte di Giovanni de’ Medici, le Bande Nere nelle mani del feroce Palla de’ Mozzi e l’azione redentrice e patriottica del figlio Signorello. Alcune parti del capolavoro sono di un avanguardismo ritmico da far impallidire qualunque compositore del Novecento, a principiare da Stravinskij. Altri tratti rilucono di terribili luci belliche. L’armonia d’avanguardia è assorbita da un’impareggiabile arte dell’orchestrazione, che avvolge come nubi trascorrenti tutte le durezze.

Interludî e Preludî sinfonici ampi e sereni rendono il capolavoro un’immensa Sinfonia con voci la quale ha affascinato un colto ma difficile pubblico. Dovrebbe esser eseguita dai teatri con i quali l’Autore ebbe più dimestichezza, dalla Scala all’Opera di Roma al Maggio Musicale Fiorentino al Massimo di Palermo all’Opera di Stato di Berlino al Colón di Buenos Aires al Metropolitan…. Trionferebbe anche lì.

La favola triste e folle di Ligabue: uno di noi

Solitario, anarchico, eccessivo, deforme, infantile, semplicemente geniale e realmente originale. Antonio “Toni” Ligabue è diventato un nuovo film, e questa è una bella notizia. Dietro alla macchina da presa è il bolognese Giorgio Diritti, davanti è un gigantesco Elio Germano che si è fatto rachitico per celarsi mimetico sotto il corpo e dietro la maschera ingombranti del pittore matto. Non a caso, il titolo dell’opera ieri passata in concorso alla 70esima Berlinale e dal 27 febbraio nelle sale italiane, è Volevo nascondermi.

La prima immagine è il nero totale. Ma nessuna assenza di luce o voglia di morire, si tratta solo di un sacco scuro dentro il quale l’esule Toni “Laccabue” ha deciso di rinchiudersi quando è portato in visita dallo psichiatra del manicomio. Da una fessura di quel saio protettivo s’intravede un occhio grande, stralunato eppure lucido: che ne sapete voi di me? Il mio mondo è incomprensibile anche a me stesso, figuriamoci a voi. Senza pronunciarle, queste parole probabilmente le pensa Ligabue mentre grugnisce come l’animale che lo abita, la bestia feroce da cui è impossessato fin dall’infanzia, e che la madre adottiva svizzera voleva scacciare con gli esorcismi.

Tutto, forse troppo, si pensa di conoscere di questo artista stra-ordinario, e tanto è stato rappresentato di lui da averne fatto un carattere esemplare di genialità folle o follia geniale. Per questo il cineasta e il suo attore hanno preferito purificare i riferimenti e cercare ispirazione attingendo ab origine, cioè ai materiali autentici su Ligabue: i super8 che lo ripresero, i suoi dipinti inconfondibili. Persino Elio Germano non ha voluto rivedere la celebre versione del compianto Flavio Bucci (pur ricordandolo con affetto “quale versatile interprete, e non solo nei panni di Ligabue”) per poter creare la propria, nascondendosi nella fragilità dell’uomo/artista e assumendosi tutti i rischi del caso.

D’altra parte la “favola” di Ligabue è un patrimonio nazionalpopolare, riguarda tutti, come a ciascuno appartengono le sue mille contraddizioni, “un individuo diverso partito in salita fin dalla nascita, ma che ha sempre creduto e lottato per la vita, riuscendoci nonostante le sue ferite” dichiara Diritti, che al suo quarto lungometraggio ha ritrovato la vena migliore, quella che gli avevamo riconosciuto nell’esordio Il vento fa il suo giro. Come in quell’opera visionaria si parla la mescolanza delle lingue, dei dialetti: il caos fonetico nel grugnire in Schweitzer-dutsch/emiliano di Tony non scade mai, tuttavia, in ambiguità rispetto al proprio logos, perennemente “alla ricerca di relazioni e sentimenti veri”.

Il film, prodotto da Palomar con Rai Cinema e in uscita per 01 Distribution, è un affresco cromaticamente espressionista che lavora dall’interno sulla vita e l’opera dell’artista, ed è forse l’unico modo per accostarlo, senza imbrigliarlo dentro sche(r)mi artefatti da cui sarebbe fuggito incazzato come una delle sue tigri: il pensiero (confermato dal regista) va al Turner di Mike Leigh, pittore (con)naturato alla sua opera, che si legava sul vascello nel mare in tempesta per assorbirne e restituirne la veemenza. Ma Ligabue era disfunzionale, persino misoponico (non sopportava alcuni suoni e rumori) e su tali difetti ha costruito la sua identità, inseguendo incessantemente il desiderio di vita che gli ardeva dentro. E il film “sensoriale” di Diritti non manca di evidenziare il pathos vitale di quest’uomo, mettendolo a contrasto con i costanti riferimenti alla morte (lo scultore di lapidi suo compagno di laboratorio, la maschera funeraria che gli appare come incubo nel letto da paralizzato…).

Con tanta abbondanza di Verità, la finzione doveva fare un passo indietro, ed è così che Diritti/Germano hanno lavorato: l’uno sottraendo in scelte narrativo/espressive, l’altro partecipando “prosteticamente” alla battaglia interiore con umiltà, “ho attinto dal suo bestiario immaginifico, dai paesaggi del Po che lui vedeva come giungle, dagli sfondi fiabeschi di castelli tedeschi che ricordava dall’infanzia, da un territorio così vibrante che lo rispecchiava e in cui si mimetizzava”. Denso di poesia, tenerezza, situazioni tragicomiche, ed emozioni sottili che restano incollate alla memoria, Volevo nascondermi è anche una riflessione sui gradi di separazione fra l’artista e la sua arte, e fra imitazione e reinvenzione nel rapporto soggetto/oggetto. E tra i non pochi momenti che commuovono, l’inchino del piccolo uomo rachitico davanti all’unica persona che l’ha accolto, rispettato e amato è un istante di sublime intimità/universalità che ci fa ammettere: Ligabue è uno di noi.

Una “sarkozista” poco femminista per Parigi

E se fosse lei la prossima sindaca di Parigi? “Abbiamo l’opportunità storica di vincere Parigi”, diceva Rachida Dati il 16 gennaio scorso presentando il suo programma di campagna, basato su uno dei temi classici della destra, la sicurezza. In quel momento, pareva ancora impossibile che la candidata Les Républicains potesse scippare l’Hôtel de ville alla sinistra, che lo occupa da vent’anni, prima con Bertrand Delanoë, sindaco dal 2001 al 2014, poi con Anne Hidalgo, la sindaca uscente che corre per un terzo mandato. Poco più di un mese dopo, la destra comincia a crederci: per la prima volta, uno studio Odoxa attribuisce alla Dati il 25% dei voti al primo turno delle municipali del 15 marzo, davanti alla Hidalgo con il 23% (che resterebbe però favorita al ballottaggio del 22, anche grazie all’alleanza con i Verdi). Sindaca dal 2008 del settimo arrondissement della capitale, quello chic della Tour Eiffel, nell’ovest, Rachida Dati, 54 anni, filiforme, sempre impeccabile, con il volto un po’ tirato dalla chirurgia, visita da settimane i quartieri popolari del nord-est. In un caffé di Menilmontant ha promesso di creare una polizia municipale armata contro “la delinquenza del quotidiano”, di “portare a zero” il debito della città senza aumentare le tasse locali, di aiutare le famiglie con un sussidio di 1.200 euro all’anno per tre anni ai neo-genitori. Ha promesso anche una città più pulita riorganizzando e modernizzando i servizi di raccolta dei rifiuti. Rachida Dati è una donna ambiziosa e tenace. Nel 2007, a soli 41 anni, diventa la ministra della Giustizia di Nicolas Sarkozy, che ha fatto di lei il simbolo più forte dell’“apertura alla diversità” che l’allora neo-presidente voleva difendere nel suo governo. È nata a Saint-Rémy, in Borgogna, in una famiglia di origini maghrebine. In un’autobiografia del 2011, ha raccontato del padre marocchino, M’Barek, arrivato in Francia nel 63, operaio nella fabbrica Saint-Gobain, e della mamma, Fatim-Zohra, algerina, che ha cresciuto dodici figli. Partita da niente, la giovane Rachida ottiene nel 91 una prima laurea in economia, nel 96 una seconda in diritto, nel 99 il diploma dell’Istituto nazionale della Magistratura. Nel 2002 diventa consigliera di Sarkozy, allora ministro dell’Interno, nel 2004 lo segue al Ministero dell’Economia e nel 2007 ne diventa la portavoce per le presidenziali. Di lei si dice che è “la più sarkozista dei sarkozisti”. Per premierla di tanta fedeltà, l’ex presidente, che resta popolare nell’elettorato di destra ma si espone poco, sarà con lei a Parigi per il meeting del 9 marzo.

Degli anni da guardasigilli restano la legge contro la recidiva e la riforma della giustizia, ma anche polemiche per il suo look troppo chic e lo stile di vita mondano. Nel 2007, finì sulla copertina di Paris Match in abito rosa firmato Dior: un episodio di cui si è dovuta giustificare persino di recente da candidata sindaco. Nel 2008 contro di lei si levarono le polemiche delle femministe francesi per non aver attaccato un giudice che con la sua sentenza aveva annullato il matrimonio tra due musulmani perché la moglie aveva mentito sulla sua verginità. Nel 2009 tornò al lavoro solo cinque giorni dopo aver partorito una bimba di cui taceva la paternità. Voleva essere l’esempio della donna moderna e in carriera, ma cinque giorni erano troppo pochi persino per le femministe che gridarono allo scandalo. Sulla paternità della piccola Zohra, partì un mediatico “totopapà”. Si fece persino il nome dell’ex premier spagnolo Aznar. Il test del Dna stabilì più tardi che il padre era Dominique Desseigne, miliardario amico di Sarkozy che nel 2007 festeggiò al Fouquet’s la vittoria all’Eliseo.

Dalla Russia con amore: Putin tifa ancora per Trump

Vladimir Putin ci riprova. L’intelligence ritiene di avere le prove che la Russia stia interferendo nella campagna per le Presidenziali 2020: Mosca vuole fare rieleggere Donald Trump. È stato il New York Times a rivelare che un allarme è stato lanciato dai vertici dell’intelligence Usa, che il 13 febbraio hanno messo in guardia il Congresso. Il Washington Post riferisce che uno dei funzionari che hanno condotto il briefing, Shelby Pierson, ha ripetuto più volte che la Russia ha “sviluppato una preferenza” per Trump.

S’è anche parlato di se e quando l’intelligence dovrebbe avvisare i candidati democratici di eventuali azioni ostili nei loro confronti di governi stranieri. Trump, che fa campagna in queste ore in Nevada dove oggi si vota, si fa beffe dei suoi rivali, dopo il loro dibattito fratricida di mercoledì scorso. Il briefing – raccontano NYT e WP – ha mandato su tutte le furie il magnate presidente, che vi vede un “atto di slealtà” nei suoi confronti, nel timore che le rivelazioni fatte ai deputati possano essere utilizzate contro di lui dai democratici.

In particolare, Trump teme il presidente della Commissione Intelligence Adam Schiff, il suo grande accusatore nell’impeachment, presente al briefing: “Ne farà un’arma contro di me”. Da qui sarebbe nata la decisione di silurare Joseph Maguire, capo ad interim della National Intelligence e di chiamare l’ambasciatore Richard Grenell a capo dell’intelligence nazionale. Anche Grenell sarebbe però a termine: come scelta definitiva, Trump penserebbe al deputato della Georgia Doug Collins. Richard ‘Ric’ Grenell, ambasciatore a Berlino, diplomatico spigoloso e a vario titolo controverso, era già stato citato come possibile successore all’Onu di Nikky Haley, anche se poi Trump non lo mosse perché soddisfatto di come faceva sentire alla cancelliera Merkel tutta la conflittualità dell’attuale Amministrazione. Grenell fu portavoce degli Usa all’Onu dal 2001 al 2008: tenne l’incarico più a lungo di chiunque altro.

Fonti dell’Amministrazione indicano, però. che l’arrabbiatura di Trump con Maguire e la chiamata di Grenell sarebbero “una coincidenza”. Il WP, invece, afferma che, senza l’incidente del briefing, Maguire sarebbe stato nominato capo dell’Intelligence a titolo definitivo. Trump denuncia da tempo le valutazioni dell’intelligence sulle interferenze russe in Usa 2016 come frutto di una cospirazione ai suoi danni, di cui le attuali asserzioni sarebbero una propaggine. Un recente sondaggio indicava che la maggior parte degli americani pensa che Trump stia incoraggiando interferenze straniere nelle elezioni statunitensi. Fatto da Npr, Pbs NewsHour e Marist, il rilevamento riferiva che il 50% degli intervistati ne è convinto e che ben il 56% ritiene che il presidente faccia poco o nulla per bloccare le interferenze in Usa 2020. A renderli ancora più dubbiosi, c’è la notizia che Trump ha ingaggiato Matt Oczkowski, 31 anni, l’ex responsabile prodotto di Cambridge Analytica, la società britannica fallita che avrebbe usato illecitamente i dati di milioni di utenti Facebook per manipolare le presidenziali Usa 2016.

Lo scrive Politico: Oczkowski, che aveva già lavorato con Trump nel 2016, ha una società chiamata HuMn Behavior. Trump, comunque, va per la sua strada e nel comizio in Colorado ha sollazzato i suoi sostenitori con una battuta sugli ultimi Oscar; riferendosi al film vincitore, il sud coreano Parasite, ha fatto il suo show: “Abbiamo già abbastanza problemi commerciali con la Corea del Sud e gli diamo pure l’Oscar. Il film è buono? Non lo so, ma non possiamo tornare ai classici di Hollywood come Via col Vento e Sunset Boulevard?” . Il presidente ha anche definito l’attore Brad Pitt che aveva fatto battute sull’impeachment un “saputello”. Caustica la replica di Neon, il distributore del film sudcoreano sottotitolato: “Trump è comprensibile. Non sa leggere”.

A un anno dal golpe “Venezuela, Guaidó non convince più”

La circolazione del dollaro, anche se illegale, così come quella delle auto che strombazzano, le code ai distributori di benzina gratuita dove le persone sostano per ore senza sgomitare, prendendo un caffè in più, e la riapertura del mercato nero del carburante a 2 dollari in Colombia. Per non parlare delle aziende italiane che proseguono la produzione a pieno ritmo. Un anno e un mese dopo il tentato colpo di Stato di Juan Guaidó, in Venezuela “si osserva una tiepida ripresa”. A raccontarla è l’ambasciatore italiano a Caracas, Placido Vigo, nel Paese da giugno scorso, quando “le città, Caracas compresa, erano quasi abbandonate”. Vigo non è nuovo al Sudamerica, viene dalle crisi in Argentina e in Bolivia. “Passata la grande speranza, dopo il giuramento di Guaidó il 23 gennaio scorso, alle ultime manifestazioni c’erano meno partecipanti che a quelle iniziali, mentre dall’altra parte ci sono mega-cortei a sostegno di Maduro”, spiega Vigo.

Come si muove il governo? La quotidianità è tesa?

C’è un grande trasferimento di denaro dall’estero da parte di 5 milioni di venezuelani espatriati. Questo ha generato una situazione diversa dagli anni precedenti quando c’era carenza totale di generi alimentari e farmaci. Certo, le sanzioni provocano una gravissima difficoltà per gli approvvigionamenti: qui si spendevano 360 milioni al mese per importare generi alimentari e di consumo.

Gli aiuti internazionali arrivano?

Sì, dopo una prima chiusura per ragioni politiche, attraverso varie agenzie delle Nazioni Unite, Croce Rossa e Unicef, stanno entrando gli aiuti in tutto il Paese. Ma la situazione umanitaria resta molto grave, gran parte della popolazione non può accedere ai beni di consumo con un salario minimo che va dai 3 ai 7 dollari al mese. Ma il governo Maduro, come i predecessori, sussidia la popolazione con la clap, cassa di generi di base.

La comunità italiana come ha reagito alla crisi?

Abbiamo una grande comunità qui e non solo numericamente, ma come grandezza umana e professionale. Visitando 22 città, ho incontrato connazionali che, nonostante la crisi, hanno mantenuto la capacità di fare impresa. Ho visto aziende di 1200 dipendenti nel settore agroalimentare; così come molti imprenditori, come un signore di 92 anni, a cui con la corsa alla nazionalizzazione di Chavez e l’espropriazione statale a risarcimento zero, sono state tolte quattro aziende.

Cosa sta facendo l’Italia?

Il ministero degli Esteri già prima del mio arrivo è riuscito ad avere l’autorizzazione per far entrare un quantitativo ingente di medicine con la massima riservatezza. Ora, ritenendo questa misura non più sufficiente, abbiamo promosso la realizzazione di un ospedale italiano il cui statuto è stato firmato ai primi di febbraio alla presenza del sottosegretario degli Esteri Ricardo Merlo con il presidente della Croce Rossa, dell’avanguardia scientifica dell’Istituto europeo di oncologia e dell’ospedale italiano di Buenos Aires fondato 8 anni prima dell’Unità d’Italia e dell’associazione cancerogena del Venezuela. Abbiamo raccolto 285mila dollari in poche ore dai connazionali. Negli ultimi tre anni lo Stato ha versato più di 3 milioni di euro: un’iniezione di fondi per curare gli italiani indigenti e dare loro sussidi. La nostra comunità qui è davvero italiana: si parla italiano e si insegna ai figli a parlarlo. Crede nella soluzione della crisi e non intende lasciare il Paese da cui ha avuto tutto.

A livello diplomatico, quali sono le relazioni con l’Italia, viste le tensioni con Portogallo, Spagna e Francia?

Credo che la decisione del governo italiano di non riconoscere le elezioni del 2018, ma un’unica istituzione democraticamente eletta: l’Assemblea nazionale e il suo presidente. È una decisione equilibrata e seria nei confronti di un paese in cui vivono 144mila connazionali. Purtroppo, come in tutte le crisi, lo scambio è crollato. Negli anni 70 il Venezuela era il secondo partner commerciale dell’Italia dopo gli Stati Uniti.

A proposito di Stati Uniti, in molti credono che dietro a Guaidó ci sia Trump. Lei cosa ne pensa?

La risposta non è semplice. Purtroppo, passata la grande speranza dopo il giuramento di Guaidó il 23 gennaio, l’interesse è andato scemando, qui e nel resto del mondo che considera il Venezuela una cosa lontana. Noi siamo per il dialogo e crediamo che una soluzione possa venire solo dai venezuelani. Questa situazione va avanti da molto e si è incancrenita: ora è difficile far sedere allo stesso tavolo gli interlocutori.

L’Europa come si sta muovendo?

Sta sostenendo il dialogo. Abbiamo partecipato al Gruppo internazionale di contatto e promosso ogni iniziativa come quella di Oslo che purtroppo è naufragata. Si potrebbe ripartire dall’accordo raggiunto prima dell’interruzione dell’esercizio.

Le elezioni potrebbero essere la soluzione secondo lei?

Tutti le vogliono: ma alcuni vogliono quelle parlamentari, altri le presidenziali. L’opposizione lotta affinché quelle di fine 2020 si svolgano con criteri democratici: chiede il rinnovamento dei comitati elettorali, pulizia delle liste e abilitazione degli esiliati. Gli altri vogliono elezioni subito per dimostrare che il Paese è con loro. Ma non si può andare al voto come in guerra, considerando l’altro un nemico.

Le regioni allergiche al “distanziometro”

Nel 2017, in Liguria, l’allora assessore allo Sviluppo Economico il leghista Edoardo Rizzi chiedeva e otteneva di rimandare l’entrata in vigore della legge regionale contro il gioco d’azzardo. Prometteva tremila slot in meno in poco tempo. Ma invitava anche a non portare avanti guerre di religione contro i piccoli esercenti. E apriva così la strada a proroghe su proroghe, con lo scopo di migliorare la normativa sospesa. Il risultato è che la nuova legge, che avrebbe dovuto riformare il precedente impianto non è ancora arrivata. Tutto è rimasto lettera morta. Caso isolato? Non proprio. Perché non sono poche le Regioni che stanno indebolendo le loro legislazioni per contrastare il fenomeno dell’azzardo. Questo a otto anni dall’entrata in vigore del decreto dell’allora ministro alla Salute Renato Balduzzi. Decreto che prevedeva la possibilità di individuare i cosiddetti “luoghi sensibili” (scuole, ospedali, chiese) e la distanza minima che dovevano avere dai pubblici esercizi che tra slot, videolottery, Gratta e Vinci, offrono l’azzardo.

In assenza dei decreti attuativi, che non sono mai arrivati, le Regioni si sono però mosse in ordine sparso. Ognuna fissando un distanziometro, qualcuna prevedendo un periodo di adeguamento di un anno o due per consentire agli esercenti di spostare il punto vendita. Si accodarono subito anche i Comuni con regolamenti che riguardavano anche l’orario di esercizio.

Solo che da due anni a questa parte le cose sembrano essere davvero cambiate, sotto la pressione della lobby dell’industria del settore. Si assiste infatti a una retromarcia. Per esempio: nel luglio del 2018, proprio mentre entrava in vigore il decreto Dignità, il consiglio della Provincia autonoma di Trento, decideva di rimandare di due anni il distanziometro.

Più tardi, esattamente un anno dopo, la Puglia cancellava tutto con un colpo di spugna: l’esistente non si toccava più, adesso i punti vendita dove è possibile giocare possono rimanere esattamente dove sono. Nel settembre dello scorso anno, la Regione Veneto ha azzoppato i regolamenti comunali più virtuosi, mettendo in salvo gli esercizi pubblici con i giochi d’azzardo più vicini ai luoghi sensibili: anche in questo caso, quel che c’è resta. Più o meno ciò che ha scelto di fare anche il presidente della Campania Vincenzo De Luca. Ha prima ridotto le distanze minime a 250 metri. Poi ha concesso, di fatto, un salvacondotto agli esercizi già esistenti nelle aree vicine a scuole ospedali. Decisione che gli è valsa anche il parere negativo dei suoi stessi dirigenti del settore Salute: l’impugnazione della legge, lo hanno avvertito potrebbe essere più realistica. Il dimezzamento delle distanze, pochi giorni fa, è stato scelto anche dalla Basilicata, che come altre Regioni ha deciso anche di non incidere sull’esistente.