Azzardo Italia senza freni Non c’è decreto che tenga

Un treno che non solo non rallenta, ma accelera. La raccolta del gioco d’azzardo l’anno scorso ha raggiunto i 110,4 miliardi. Un nuovo record dopo quello del 2018, quando arrivò a toccare quota 106,8. Significa il 3,3% in più. Con una netta differenza, però, tra l’azzardo da “offerta fisica” – vale a dire quello proposto dalla rete dei punti vendita che hanno il gioco come attività principale o secondaria – e l’offerta online. La prima, con poco più di 70 miliardi, retrocede, con una flessione a livello nazionale dell’1,7%. La seconda marcia sempre più spedita. Era a 23 miliardi, sale a 36. Una vertiginosa impennata del 56%, tra slot machine, videolottery, scommesse, casinò, poker, lotterie.

Una corsa senza freni a dispetto del decreto Dignità, che ha vietato la pubblicità del gioco d’azzardo. Approvato nel 2018, entrato in vigore il 15 luglio dello scorso anno – dopo una moratoria per consentire a concessionari e industria del gioco di chiudere i contratti già stipulati – avrebbe dovuto consentire, secondo le stime della Ragioneria dello Stato, un rallentamento del mercato di circa il 5%. Così non è stato. “Il che potrebbe significare anche che senza il decreto l’incremento avrebbe potuto essere di oltre l’8%”, calcola il senatore pentastellato Giovanni Endrizzi, coordinatore del gruppo gioco d’azzardo della commissione parlamentare antimafia.

Caos? Scarsi controlli? Di certo un ruolo potrebbe averlo giocato anche Agcom, l’autorità per le garanzie nelle comunicazioni, al quale la legge ha attribuito il compito di monitorare il rispetto del divieto e di comminare le sanzioni. Solo alla fine del 2018 ha pubblicato un questionario per raccogliere osservazioni, per capire come orientare le linee guida per la vigilanza. Hanno risposto in tanti, dai concessionari alle associazioni di categoria a cui fanno campo le imprese dell’industria del settore.

“Ha risposto anche l’Osservatorio sul gioco d’azzardo del Lazio, ma del suo contributo, alla fine non c’era più traccia”, dice Endrizzi. Risultato: l’Agcom ha stabilito che non c’è violazione se la pubblicità viene fatta in ottemperanza alla legge o agli atti amministrativi. Proprio come quelli che regolano le convenzioni tra l’Agenzia Dogane e Monopoli e i concessionari. E che in molti casi prevedono proprio l’obbligo di pubblicità.

Un paradosso. Mentre lo spostamento verso il gioco online, meno controllato, fa sempre più vittime. “Su Internet – spiega Simone Feder, psicologo dell’associazione NoSlot –, sono soprattutto le slot a farla da padrone: l’80% della raccolta online dei cosiddetti giochi di abilità arriva da lì. Dopo ci sono le scommesse sportive a quota fissa, un affare da 7,7 miliardi. Intanto la dipendenza patologica aumenta. Adesso per farsi curare arrivano da noi anche intere famiglie”. Quando all’azzardo da offerta fisica, tra bar, tabaccherie o sale Bingo, i grandi numeri di fatto non vengono intaccati. In prima fila, in questo caso, c’è la Lombardia, con una raccolta che ha superato i 14,4 miliardi. Seguono la Campania (oltre 7,6) e il Lazio (più di 7,5). Mentre al Nord svettano anche il Veneto (6,1) e l’Emilia Romagna (6).

Non cambia lo scenario generale. La propensione all’azzardo è direttamente proporzionale al grado di povertà, al Nord come al Sud. In provincia di Rovigo, unica provincia del Veneto con una media di reddito inferiore a quella nazionale, la spesa per il gioco ammonta a oltre duemila euro pro capite.

Anche se il record appartiene all’Abruzzo: 2.241 euro a persona. Solo la Sicilia appare controcorrente rispetto alla leggera flessione: la raccolta, arrivata a 4,5 miliardi, appare in aumento dello 0,58%.

Salario, un solo sindacato sostiene i 9 euro

Sulla strada del salario minimo per legge il governo, anzi il ministero del Lavoro, ha trovato la contrarietà non solo degli alleati o delle imprese, ma anche di quasi tutti i sindacati. Solo alcune sigle, certamente più piccole, appoggiano senza condizioni il progetto di Nunzia Catalfo e tra questi il più rilevante è certamente l’Unione sindacale di base (Usb).

“Cgil, Cisl, Uil e Confindustria lo hanno sempre detto – spiega al Fatto Guido Lutrario dell’esecutivo nazionale del sindacato – non vogliono una legge sul salario minimo e soprattutto non vogliono che la legge stabilisca una soglia minima di salario al di sotto della quale non sia legale scendere. Per loro il minimo salariale lo deve stabilire la contrattazione e pazienza se poi oggi questo minimo è talmente basso che l’Inps ha calcolato in più di 5 milioni i lavoratori poveri di questo Paese”.

La proposta di legge, lo ricordiamo, prevede il rispetto dei Contratti collettivi nazionali, e fissa anche una soglia minima, 9 euro lordi l’ora, sotto la quale la retribuzione non può scendere. “Sembra che gli alleati di governo – aggiunge Lutrario – sarebbero riusciti a eliminare la cifra e a sterilizzare la proposta di legge in una innocua e sostanzialmente inutile proposta che si limita a dire che i minimi salariali sono quelli dei Ccnl firmati dai sindacati maggiormente rappresentativi”. Eppure è lo stesso presidente dell’Inps, Pasquale Tridico, a ricordare che quella soglia favorirebbe diversi milioni di lavoratori visto che molti contratti collettivi hanno i minimi tabellari al di sotto dei 9 euro.

La spinta degli alleati del M5S è quella di utilizzare i criteri diffusi dall’Ocse, e cioè un aggancio del salario minimo al salario mediano, ossia la cifra collocata al centro della scala tra i salari più bassi e quelli più alti. Così facendo, però, avrebbe un peso rilevante il livello molto basso dei salari italiani, che secondo l’Inps sono fermi da almeno 25 anni.

E invece, continua Lutrario, “i 9 euro sono ancora una soglia efficace perché produrrebbero una spinta verso l’alto a tutto il resto dei salari: se si scendesse più in basso, ogni effetto positivo sarebbe compromesso”.

La posizione dell’Usb si colloca alla sinistra dello schieramento politico e la critica ai sindacati più rilevanti e alla sinistra politica fa parte della tradizione consolidata del piccolo sindacato: “Sono loro che si stanno battendo con forza perché i salari non aumentino”. Ma la critica è mossa al momento anche verso i 5Stelle, perché “sembrano aver accettato quello che la casta politica e sindacale stanno imponendo, contro i lavoratori”.

Come abbiamo riportato ieri, la partita non sembra ancora chiusa visto che la ministra Nunzia Catalfo ha rilanciato la soglia dei 9 euro e si vedrà nei prossimi giorni se questa potrà riuscire a reggere alla forza d’urto degli alleati-concorrenti di governo.

Ennesimo guaio dei Pessina: Sangemini e Norda a secco

È da diverse settimane che la Sangemini fa acqua, ma solo in senso metaforico. Perché nello stabilimento vicino l’omonima città umbra la produzione è ferma, mancano persino i tappi e le etichette per l’imbottigliamento, i 90 lavoratori sono in sciopero e non sanno che ne sarà di loro. È lo stesso scenario che stanno vivendo i colleghi di Valli del Pasubio, vicino Vicenza, dove viene confezionata l’acqua Norda. Qui, secondo quanto viene raccontato, non ci sono nemmeno le bottiglie e i 60 addetti sono in ansia e con le braccia conserte.

Non è una coincidenza: entrambi i marchi fanno parte di Acque minerali d’Italia Spa, gruppo che – con oltre 400 dipendenti in tutta il Paese – sta attraversando una crisi di liquidità. Per comprenderne le ragioni, bisogna risalire ai proprietari del gruppo: la famiglia Pessina, nota soprattutto per essere dal 1954 alla guida dell’impresa di costruzioni che porta lo stesso nome e per essere stato l’ultimo editore del quotidiano L’Unità, rilevato nel 2015 e chiuso nel 2017. È proprio dall’edilizia che sono partiti i guai, questa estate. A luglio, infatti, è stato chiesto il concordato “in bianco”, concesso poi dal Tribunale di Milano. Meno cantieri aperti, sommati alle perdite dovute a un appalto bloccato da tre anni per un ospedale a La Spezia, hanno colpito la società che ha comunque ottenuto il via libera dai giudici a mantenere in piedi le attività. Sembra quindi che questa situazione abbia travolto anche gli altri affari di famiglia, anche se il gruppo chiarisce che “non ci sono connessioni tra il concordato di Pessina costruzioni e i problemi degli stabilimenti di acqua. Questi ultimi scontano le difficoltà del mercato di riferimento”.

Quello costruito negli ultimi sei anni dai Pessina è un impero della bibita trasparente: prima, nel 2010, l’acquisizione della Gaudianello, alla quale sono state aggiunte nel 2014 la Sangemini e nel 2016 la Toka. In pratica, oggi è il terzo player nazionale con in mano otto stabilimenti e 27 linee di imbottigliamento. Tutti in attesa di capire che cosa succederà. “Non ci sarà alcuna chiusura”, ha detto l’azienda al Fatto, spiegando che “tra le cause di questa fase di riorganizzazione vi sono gli investimenti di ammodernamento fatti in questi anni e le sensazioni negative legate all’avvio della plastic tax”.

Tuttavia non si possono escludere operazioni di vendita e nuovi tagli all’occupazione. In questi giorni sono in corso trattative con la concorrente San Benedetto.

Come detto, uno dei fronti più caldi è in Umbria, alla Sangemini: sei anni fa la Pessina l’ha rilevata da un concordato, promettendo un rilancio. L’operazione non è stata indolore, perché è costata una trentina di posti di lavoro. Ma le difficoltà non sono finite, tanto che a fine 2018 è stato necessario un nuovo accordo che ha previsto nuove uscite volontarie di lavoratori e cassa integrazione straordinaria per chi è rimasto. Il classico sacrificio accettato dagli operai per evitare conseguenze peggiori e consentire di tenere in piedi la fabbrica.

“Quel piano – spiega Michele Greco della Flai Cgil – è stato firmato perché il rilancio prevedeva investimenti tecnologici, una linea vetro che ci avrebbe permesso di fornire clienti della ristorazione. C’erano anche progetti per rendere più efficienti le linee”. Fatto sta che in questi mesi, raccontano i lavoratori, non è uscita una sola bottiglia di vetro. La produzione è bloccata, ma Pessina assicura che ripartirà per la stagione estiva in tutti gli stabilimenti. Ancora però non è chiaro come questo potrà essere garantito, se ci saranno riduzioni di personale o se si assisterà a uno spezzatino della società.

Benetton, false promesse per imbrogliare il governo

La trattativa sulla concessione di Autostrade per l’Italia è su un binario morto. Diciannove mesi dopo il crollo del Ponte Morandi di Genova, Atlantia – la holding in mano ai Benetton che controlla la concessionaria – fa mostra di non temere la revoca. Ieri, l’ad Carlo Bertazzo si è preso una pagina sul Corriere della Sera per replicare agli ultimatum del premier Giuseppe Conte (“andiamo avanti, se presentano un’offerta la valutiamo”) dando letteralmente i numeri, con l’assurda promessa di spese in manutenzione che Aspi fa già. Leggendola si capisce che il plenipotenziario dei Benetton, Gianni Mion, è convinto di poter prendersi gioco del governo. Gli uomini della famiglia di Ponzano Veneto si fanno forti delle indiscrezioni che riguardano l’atteso parere dell’Avvocatura di Stato, chiamata a esprimersi sulla procedura di revoca. Secondo i giuristi di Palazzo Chigi i maggiori rischi di soccombere in caso di contenzioso non riguardano la legislazione italiana (il codice civile, per dire, rende possibile la revoca per colpa grave) ma quella europea, specie se si decidesse di procedere sfruttando le norme del Milleproroghe che riducono i maxi indennizzi previsti dalla concessione, modificandola. Già nel 2008 la Corte Ue sanzionò il tentativo del governo Prodi di modificare le concessioni autostradali.

Al Corsera Bertazzo ammette che solo dopo il crollo del ponte Morandi “c’è la consapevolezza che la rete ha bisogno di molti più investimenti e manutenzione”. L’offerta al governo – definita “progetto di sviluppo infrastrutturale del Paese” – è il famigerato nuovo piano industriale presentato a gennaio. “Gli investimenti – spiega – sono stati aumentati del 40%, da 10,4 a 14,5 miliardi al 2038”, quando scade la concessione. E sempre al 2038, “la spesa per manutenzione passerà da 200 a 370 milioni l’anno: 7 miliardi, di cui 2 entro il 2023”. Basta guardare i bilanci per avere dei dubbi: nel 2018 Aspi sostiene di aver speso in manutenzioni, sicurezza e viabilità 398 milioni; erano 444 milioni nel 2017. Oggi Bertazzo propone di spendere quello che Aspi già fa. Anche se non si capisce bene come viene calcolata la cifra: il ministero delle Infrastrutture conta, lo scorso anno, 270 milioni effettivi spesi in manutenzione. Discorso simile sugli investimenti: 4 miliardi in più in 18 anni, fanno 200 milioni l’anno, a fronte di una società che ha una redditività del capitale netto investito del 40%, senza eguali nel mondo, e che prima del Morandi viaggiava al ritmo di un miliardo di utili netti su quattro di fatturato. Ma non è tutto. Gli investimenti non sono un dono della concessionaria, vengono remunerati attraverso i pedaggi e a tassi stellari. Più Aspi investe, più guadagna. E infatti il piano industriale presentato a gennaio parla di 5,4 miliardi di investimenti, di cui – risulta al Fatto – solo 1,7 non remunerati dai pedaggi, e solo perché lo sono già stati in passato essendo parte del piano finanziario del 1997. A giugno 2018, per dire, Aspi aveva già presentato un piano che prevedeva 7 miliardi di investimenti in 4 anni. Sono le stesse cifre che girano da anni.

La vera novità Bertazzo la riserva nel consueto scaricabarile. Il manager ammette che “c’è stata scarsa responsabilità” nella gestione della rete autostradale. Ma – precisa – una “responsabilità di tutti”, cioè dello “Stato che affida un’infrastruttura a un privato e deve anche regolare e vigilare”. Siamo al rapinatore che dà la colpa alla polizia. Va ricordato, comunque, che a vigilare su Aspi – le cui colpe i manager dei Benetton oggi addossano tutte a Giovanni Castellucci, l’ad silurato a settembre e che vigliaccamente non citano mai per nome – c’era Mauro Coletta, storico capo della vigilanza ministeriale, oggi indagato nell’inchiesta sul crollo del Morandi.

L’azienda scrive al “Fatto” per difendere il manager

In merito all’articolo pubblicato sul vostro giornale dal titolo “Depistaggi, errori e processi: 10 ‘perché no’ al Descalzi-ter”, a firma di Stefano Feltri e Gianni Barbacetto, precisiamo quanto segue.

La strategia di trasformazione applicata da Claudio Descalzi dall’inizio della sua gestione ha messo la società in condizione di creare valore anche in presenza di scenari di settore estremamente sfavorevoli: la generazione di cassa è raddoppiata, l’indebitamento è stato significativamente ridotto e la produzione è cresciuta del 16% in sei anni, malgrado lo scenario. Oggi Eni è in grado di coprire organicamente costi, investimenti e remunerazione degli azionisti in presenza di una quotazione del Brent a circa 55$, mentre nel 2014 riusciva a farlo soltanto a 114$. Senza contare che Eni rimane leader mondiale di settore non soltanto nell’ambito delle scoperte di risorse energetiche ma anche, al contrario di quello che scrivete, nella tempistica della loro messa in produzione.

La vostra analisi sull’andamento del titolo ci lascia, poi, molto perplessi: il processo di trasformazione messo in campo da Descalzi è riuscito a contrastare i fattori negativi, esogeni alla gestione, avveratisi negli ultimi anni tra cui il crollo dei prezzi del petrolio e gli eventi geopolitici di alcuni Paesi dove Eni opera. Senza la solidità finanziaria raggiunta da Eni negli ultimi anni, il valore sul mercato avrebbe risentito maggiormente dei fattori esterni di cui sopra. Prova di questo sono i rating del mercato sul titolo Eni, che nel maggio 2014 erano 25% positivi (buy), 56% neutrali e 19% negativi (sell), e che a settembre 2019 (data dell’ultimo censimento) erano 70% positivi (buy), 23% neutrali e solo 7% negativi (Bloomberg). Eni è anche riuscita ad avviare un’ampia strategia di transizione verso la decarbonizzazione delle attività, sulla quale ulteriori e importanti sviluppi verranno comunicati nell’ambito della presentazione del prossimo Piano strategico.

Per quanto riguarda gli eventi giudiziari da voi richiamati, Eni ha già fornito a molteplici riprese alla stampa, oltre che naturalmente agli inquirenti, ogni chiarimento e spiegazione utile per la comprensione dei fatti. Fermo restando che delle indagini è bene attendere la conclusione e dei processi le sentenze, Eni ricorda che a oggi si annoverano solo le seguenti sentenze e accertamenti su cui, fermo restando il rispetto del lavoro della magistratura, si dovrebbero concentrare eventuali considerazioni di merito che avete voluto rappresentare: in merito al procedimento Algeria, Eni è stata assolta tre volte (indagini preliminari, primo grado ed appello) e da ultimo anche Saipem è stata assolta perché “il fatto non sussiste”, mentre l’appello contro Eni è stato dichiarato addirittura “inammissibile”.

Se perdita di valore c’è stata in Saipem, oltre che all’impatto derivato dallo scenario sfavorevole che ha compresso il numero di progetti disponibili sul mercato, producendo perdite anche alle altre società contrattiste del settore, essa è attribuibile al danno reputazionale e operativo connesso al processo. Per quanto riguarda sia il procedimento Nigeria (OPL 245) che quello Algeria, il Dipartimento di giustizia Usa (alla cui giurisdizione Eni è anche sottoposta) ha già chiuso da tempo le proprie indagini senza rilievo alcuno. Si aggiunga che l’istruttoria dibattimentale del processo OPL 245 innanzi alla VII sez. del Tribunale di Milano non ha offerto conferme ai capi d’imputazione formulati a carico di Eni o degli altri imputati. Mentre le stime presentate dagli esperti in tribunale sugli effetti che OPL 245 avrebbe avuto a favore del popolo nigeriano hanno confermato che la messa in produzione avrebbe generato oltre 40 miliardi di Pil, 200 mila posti di lavoro ed investimenti diretti di oltre 7 miliardi (per la metà spesi in Nigeria).

Questi sono i fatti. Eni, in ogni caso, nutre il massimo rispetto per il lavoro dell’organo giudicante e ne attende con fiducia gli esiti. Vi invitiamo quindi alla pubblicazione integrale di questa nota, riservandoci di valutare i contenuti dell’articolo e di intraprendere le opportune vie legali in presenza di elementi infondati e diffamatori.

Eni difende l’operato del suo amministratore delegato Descalzi sostenendo, in sintesi, che si poteva fare peggio: che il titolo poteva scendere di più, che in alcuni processi Eni è stata assolta, che su Saipem mal comune mezzo gaudio. Noi rimaniamo convinti che si potesse – che si possa in futuro – anche fare meglio. Quanto ad attendere le sentenze: noi di solito lo facciamo, secondo i pm di Milano invece l’Eni non ha questa pazienza e ha provato a depistare un processo in corso per assicurarsi un esito favorevole. Noi aspetteremo serenamente anche l’esito di questa inchiesta. Speriamo che pure Descalzi e colleghi facciano lo stesso.

La diplomazia di Descalzi “Tutta colpa di Bisignani”

Quello che una volta era il giro delle sette chiese, per Claudio Descalzi è una serie di “incontri istituzionali” con cariche dello Stato: il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Riccardo Fraccaro, il presidente del Copasir (il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica) Raffaele Volpi. Il risultato non cambia: l’amministratore delegato di Eni, alla vigilia delle nomine, tenta la rimonta per far dimenticare gli scandali in cui è coinvolto ed essere riconfermato alla guida della più strategica delle aziende italiane.

In un Paese normale sarebbe fuori gioco. È imputato di corruzione internazionale per la supertangente di 1 miliardo e 92 milioni di dollari pagati dalla compagnia per il giacimento Opl 245 e finiti tutti, invece che allo Stato nigeriano, ai politici locali e a una corte di mediatori italiani e internazionali. È sotto osservazione per il gigantesco conflitto d’interessi in Congo, dove società controllate dalla moglie, Marie Madeleine Ingoba, hanno incassato da Eni 300 milioni di dollari per servizi logistici. È indicato come l’utilizzatore finale di un’incredibile depistaggio, commissionato da Eni – secondo la Procura milanese – per inquinare le inchieste e realizzato dalla security della compagnia anche spiando, dossierando, pedinando e intercettando alcuni dei magistrati impegnati nelle indagini.

Le responsabilità non sono ancora attribuite – le stabiliranno le sentenze – ma i fatti sono accertati. Dunque, delle due l’una: o Descalzi è un corrotto, con un gigantesco conflitto d’interessi in famiglia e un potente apparato d’intossicazione giudiziaria a sua disposizione; oppure non si è accorto di quello che avveniva per anni attorno a lui. Forse la seconda, per un top manager di Stato, è peggio della prima. Ma niente paura: la sua strategia, negli “incontri istituzionali”, è passare al contrattacco. In due mosse: sminuire le accuse e calare il suo asso. Le imputazioni processuali sono da provare, la moglie è autonoma e separata da anni, le accuse sono la vendetta di manager infedeli, tutti licenziati, eredità della gestione precedente – dice la “versione di Claudio” – quando Eni era nelle mani di Paolo Scaroni e del suo amico Luigi Bisignani. Che gliel’hanno giurata, perché Claudio ha rescisso i vecchi legami e ha avviato il rinnovamento della compagnia. L’asso calato con il capo dello Stato e il presidente del Copasir è invece geopolitico: Eni, da sempre, pesa più del ministero degli Esteri e del servizio di sicurezza esterna. Il mondo dell’Oil and gas è più delicato e cruciale di quello delle armi e della difesa. Eni ha attività in scacchieri delicatissimi del mondo e contatti con le compagnie concorrenti, ma anche con gli Stati. Descalzi, da sempre in quel mondo, ha rapporti diretti con gli Emirati, l’Egitto, la Libia. E la Russia. Si accredita dunque come indispensabile a qualunque schieramento politico per reggere il “gioco grande” sulla scena geopolitica. Parla con tutti, Descalzi. Al presidente Mattarella racconta i grandi scenari che si muovono sugli scacchieri internazionali. Al 5 Stelle Fraccaro illustra la vagheggiata svolta verde dell’azienda per forza di cose più nera e fossile che c’è (e intanto 11 parlamentari M5S, tra cui Giulia Grillo, Federica Dieni e Antonio Zennaro, scrivono al capo politico Vito Crimi di vigilare affinché le nomine siano fatte in trasparenza e discontinuità). Al leghista Raffaele Volpi, presidente del comitato parlamentare di controllo sui servizi, spiega come difendere le aziende strategiche da attacchi e scalate straniere. Con Descalzi, Volpi ha avuto un incontro preliminare in cui è stato affrontato il tema della scalabilità, non solo in Borsa, ma sottraendo asset e management sulla scena mondiale.

Il “gioco grande” sullo sfondo è quello degli scontri geopolitici. Gli Usa di Donald Trump contro la Russia di Vladimir Putin con cui Eni ha avuto e continua ad avere rapporti stretti. L’arrivo dei cinesi sugli scenari africani. E lo scontro Italia-Francia: la francese Total è pronta a soffiare i giacimenti petroliferi Eni in Libia come in Nigeria. Anche a costo di alimentari i conflitti regionali, sostenere le milizie libiche, fare lavoro d’intelligence per alimentare inchieste giornalistiche e giudiziarie che azzoppino i concorrenti. Come Eni in Nigeria. Descalzi disegna grandi scenari e invita i suoi interlocutori istituzionali a guardare lontano. Per non far vedere vicino: le difficoltà industriali, i ritardi, i processi, le inchieste, i conflitti d’interesse, i depistaggi.

Il mestiere della tv e le mancanze del nostro Paese

Quando i talk show abbandonano la fantapolitica per la vita e nient’altro, riescono a far fare alla tv il suo mestiere di mediatore sociale. Giovedì a Piazza Pulita è andata in onda un’intervista da pelle d’oca di Nello Trocchia ai genitori di Lorenzo, morto a vent’anni di anoressia. Anni di cure, l’illusione della rinascita in una struttura privata, la ricaduta e la vana ricerca di un approdo nel sistema sanitario; “ma questa parte di Sanità non c’è”, dice il papà di Lorenzo. Parte il dibattito e si torna sulla terra. Gli ospiti di Corrado Formigli, concordi sulla necessità di potenziare il sistema nazionale nella lotta ai disturbi alimentari e alle sindromi psichiatriche, azzardano qualche proposta: la schiscetta preparata dalle mani della mamma invece della merendina confezionata, dice la conduttrice; non è mai troppo presto per prevenire, allarma la nutrizionista; credere nella guarigione fino in fondo, ammonisce la filosofa. Ma il papà di Lorenzo aveva detto che in Italia a mancare non è solo la Sanità; manca una legge che imponga al malato di curarsi, “altrimenti la malattia sceglie per te”. Questa è la battaglia che tutti i survivors si trovano a combattere in questo Paese contro le derive della legge 180 e del basaglismo di complemento. Non si può costringere una persona a curarsi contro la sua volontà, dice Michela Marzano. Ma che cos’è la volontà? Che cos’è la volontà in chi è affetto da un grave disturbo della mente, se non la prima facoltà a essere azzerata?

Quando va in onda

“Inderogabili norme e cautele devono osservarsi da chi parla al microfono o predispone, scrivendolo, un testo per la Radio”.

(da Norme per la redazione di un testo radiofonico di Carlo Emilio Gadda, Adelphi, 2018 – pagina 11)

 

Quando si parla di crisi del servizio pubblico, mentre la Rai viene sanzionata dall’Autorità sulle comunicazioni per violazione del pluralismo ed è bloccata dallo stallo politico sulle nomine al vertice dei tg, s’intende generalmente il servizio pubblico televisivo. E si ignora o si trascura la radio, la cosiddetta “sorella povera” della tv. Eppure, s’è appena celebrata la Giornata mondiale della radio, promossa dall’Unesco fin dal 2011. Si festeggia ogni anno il 13 febbraio perché quel giorno del 1946 iniziarono le trasmissioni della Radio delle Nazioni Unite. E perciò la ricorrenza richiama il valore universale di questo mezzo di comunicazione, tuttora il più diffuso al mondo.

Inventata per comunicare one to one, da uno a uno, nella sua storia la radio è diventata invece lo strumento privilegiato per comunicare one to many, da uno a più. Per sua natura istantanea, capillare, interattiva, è riuscita a rigenerarsi più volte, resistendo prima all’avvento della televisione e poi a quello di Internet. Con il supporto fondamentale della musica, è la colonna sonora della nostra vita quotidiana. Meno invasiva e totalitaria della tv, ci tiene compagnia anche in movimento consentendo all’ascoltatore di dedicarsi contemporaneamente ad altre occupazioni: dalla lettura allo studio, dalla cucina alla guida dell’automobile o alla ginnastica.

Ma la sua funzione congenita, celebrata non a caso dall’Unesco, impegna la radio a un ruolo istituzionale, d’informazione e di servizio pubblico, anche più della stessa televisione. E per questo, nella selva delle emittenti private, le reti radiofoniche della Rai sono tenute a distinguersi per qualità e impegno: a maggior ragione perché si possono ascoltare in diretta via Internet anche all’estero. Ciò non significa, beninteso, che siano condannate ad annoiare gli ascoltatori, a trasmettere soltanto notizie, a rinunciare al divertimento o alla satira.

Il fatto è che spesso si rischia di non distinguere più la radio pubblica da quella privata. Certi programmi si confondono con quelli delle emittenti private. I contenuti si sovrappongono. La qualità dei testi decade. E il linguaggio diventa approssimativo, scurrile, sboccato.

È il trionfo di “Radio cazzeggio”, per usare un termine consono a quel contesto. Programmi fatti di vaniloqui, di chiacchiericcio insulso e inconcludente, di dialoghi fra conduttori che escludono gli ascoltatori piuttosto che coinvolgerli e farli partecipare. Non si può pretendere, evidentemente, che l’intero palinsesto sia impostato sul modello di Radio anch’io, condotta con equilibrio professionale da Giorgio Zanchini sulla prima rete. Né sul tono di trasmissioni più leggere, quali Non è un Paese per giovani o Miracolo italiano su Radio Due. E neppure, di quelle più colte ed esclusive della terza rete. Ma in tante altre si scade frequentemente nella banalità, nello stupidario o addirittura nella volgarità.

Diventano sempre più rari i programmi di autentico servizio pubblico o semplicemente di servizio, dall’ambiente ai consumi. L’intrattenimento predomina sull’informazione. Si parla troppo poco di libri, di arte e più in generale di cultura. E pur mantenendosi a un livello mediamente superiore a quello della televisione pubblica, anche la radio pubblica tende a un’omologazione al ribasso con le reti commerciali. Ma qui, a differenza della tv, non c’è neppure il logo in sovrimpressione per riconoscerle.

Bologna, strage crocevia di due storie criminali

La notizia della chiusura indagini della Procura generale di Bologna in relazione ai presunti mandanti della strage alla Stazione di Bologna, il cui nome di maggiore spicco è il deceduto capo della Loggia massonica P2, Licio Gelli, può essere letta in questa chiave: l’attentato come possibile crocevia o anello di congiunzione tra le due grandi storie criminali italiane del Secondo dopoguerra. Cioè la bancarotta del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi, il banchiere di Dio, impiccato sotto il ponte dei Frati Neri a Londra nel 1982, e il sequestro e l’assassinio di Aldo Moro.

La nuova indagine della magistratura bolognese infatti è partita dall’analisi di una contabile trovata a Licio Gelli durante le indagini per la bancarotta del crac Ambrosiano. Si tratta del famoso appunto Bologna 525779 – X.S..?

525779 – X.S.

525779 era il numero di un conto corrente di Gelli sull’Ubs di Londra. La cifra in gioco oltre 12 miliardi di lire, usciti dall’Ambrosiano. I trasferimenti erano avvenuti tra il settembre del 1980 e il febbraio del 1981.

“Follow the money” si scrive sempre. Eppure “le carte, i documenti bancari – sostenne il giudice istruttore milanese sul crac, Renato Bricchetti – da soli non parlano. Noi sappiamo che i soldi sono usciti dall’Ambrosiano e chi li ha ricevuti, ma in gran parte non sappiamo perché, a quali scopi”.

Sembra che adesso si possa cominciare a comprendere.

L’attentato alla stazione avvenne in un momento storico molto particolare, come solo ora sappiamo grazie ai lavori della Commissione d’inchiesta Moro 2 (che ha chiuso definitivamente i battenti nel dicembre 2018). Erano passati appena quindici giorni (lo testimonia un documento ufficiale del Comitato di controllo sui servizi segreti) da quando al ministero della Difesa erano “rientrati” gli originali dei piani post invasione della Gladio (che erano “spariti” dalla cassaforte del ministro durante il sequestro di Aldo Moro) e che erano stati recuperati – con ogni probabilità – nel covo di via Fracchia, il 28 marzo 1980, dagli uomini di Dalla Chiesa.

E solo oggi sappiamo (perché esiste un documento che è stato desecretato solo dopo la direttiva del governo del 2014) che Tullio Olivetti, proprietario dell’insolito caffè di via Fani, posto all’incrocio del luogo del sequestro di Aldo Moro, il bar Olivetti (luogo di copertura di un grosso traffico d’armi con mafia, terrorismo interno e internazionale), era presente nel capoluogo emiliano il giorno della strage alla stazione. Ma non fu mai interrogato.

Del resto, sia i soldi “mancanti” della bancarotta dell’Ambrosiano (attraverso l’Ambrosiano Group di Managua) sia la storia del sequestro Moro (con l’unico brigatista Alessio Casimirri, che non ha scontato un giorno di carcere, nonostante la condanna per la strage di via Fani e l’assassinio di Moro e altri cinque ergastoli), negli stessi mesi trovarono il loro “paradiso sicuro” nello stesso posto: il Nicaragua. Un Paese di cui il figlio di Licio Gelli è da anni ambasciatore, prima in Uruguay e più di recente in Canada.

Tre coincidenze (come sosteneva Miss Marple) fanno un indizio. Ma comprendere queste interconnessioni può soprattutto aiutare il nostro Paese a voltare pagina.

 

La sindrome di Hybris affligge il leader

Leggete questo ritratto: propensione narcisistica a vedere il mondo come un’arena nella quale esercitare potere e ricercare la gloria personale; zelo messianico e convinzione di essere chiamati a grandi azioni; istrionismo; disprezzo degli avversari e di chi lavora secondo prassi consolidate; eccessiva autostima sconfinante col senso di onnipotenza; perdita del senso della realtà e isolamento; tendenza a parlare di sé in terza persona; irrequietezza, incoscienza, impulsività. A chi vi fa pensare?

Sono i sintomi della Sindrome di Hybris, definita dal medico e politico inglese David Owen e dallo psichiatra Jonathan Davidson sulla rivista Brain nel 2009, che colpisce maggiormente i politici (ne soffrivano Neville Chamberlain, Margaret Thatcher, George Bush e Tony Blair). Non siamo psichiatri, motivo per cui non ci azzardiamo a fare diagnosi, ma è evidente che nel caso in questione la dimensione psicologica, ma diremmo persino ghiandolare, travalica quella politica (del resto non serve essere Michelangelo per fare un identikit in commissariato). Dando per scontato che il soggetto non agisce sulla base di secondi fini (aumentare il proprio potere per farsi leggi ad personam, per esempio) e che non abbia bisogno dello stipendio da senatore (come s’è premurato di informarci), allora deve esserci un impulso interiore che lo sospinge verso il centro della scena politica, da cui aveva giurato di ritirarsi e dove del resto non mancherebbe a nessuno. Potrebbe essere proprio la hybris, per gli antichi greci la tracotanza che spinge a sfidare gli dèi, la smisurata ambizione già accertata ai tempi in cui gli riuscì di mettersi a capo del governo avendo vinto solo le elezioni come sindaco e le primarie del Pd, situazione legittima e prevista dalla Costituzione attuale, che vuole ancora modificare (ma ora la priorità è eleggere direttamente un fantomatico “sindaco d’Italia”, non più riempire il Senato di sindaci e consiglieri regionali).

Il soggetto non ha alcuna visione politica: è sé stesso la sua visione politica. Ha portato nella politica italiana lo storytelling, un dispositivo mutuato dal marketing con cui si crea consenso offrendo una versione persuasiva, seduttiva e falsa della realtà; lui era lo sbloccatore, quello che non si faceva fermare dalle minoranze e dai “ricatti dei partitini”.

Qualcuno parla nel suo caso di delirio narcisistico; ma il narcisismo non è, come si crede comunemente, l’adorazione di sé, bensì un dispositivo per il quale “l’amore rifiutato torna a sé sotto forma di odio” (Christopher Lasch). Egli si sente rifiutato dal popolo di cui voleva essere un caposcout illuminato, una specie di condottiero-principe rinascimentale (“Non siamo stati capiti”, ripeteva all’indomani del referendum perso). Ha fondato un partito personale insieme ai soliti 4 o 5 adepti, convinto di avere un consenso stratosferico da sbattere in faccia al partito che non ha apprezzato la sua reggenza salvifica. Era una proiezione egotica, la stessa che gli impedisce oggi di guardare in faccia la realtà del 4% a cui è dato. I sondaggi sulla fiducia nei leader lo danno sotto a Salvini, Meloni, Conte, Zingaretti, Di Maio, Santori (!), Berlusconi e persino Calenda e Toti. Senza nessuna dissonanza cognitiva, trasforma quel 4% e una truppa di senatori fedeli in un’arma di ricatto. Non gli importa niente della prescrizione (stanti le note vicende famigliari). Gli importa di finire nei trend topic del giorno, incutere timore per le sue mosse imprevedibili, tenere sotto scacco chi è più potente di lui con rivendicazioni demenziali o assurde.

Gli esperti lo chiamano “delirio scacchistico” (descritto da Reuben Fine ne La psicologia del giocatore di scacchi): come gli scacchi “servono come strumenti di gratificazione alle fantasie di onnipotenza”, così la politica serve ad alcuni come sfogo passionale e mezzo per la gratificazione personale.

In Tv ha di nuovo attribuito l’ostruzionismo di cui si sente oggetto al suo “caratteraccio”. Anche questa è una proiezione egotica, oltre che un vezzo antifrastico. Non gli è ancora chiaro che nel suo caso il brutto carattere si somma all’inadeguatezza politica e alla provata inaffidabilità. Ai tempi gloriosi propugnava la disintermediazione: il rapporto tra il leader e il popolo non doveva conoscere attriti ma solo progressivi innamoramenti. Da qui le reprimende contro gli intellettuali e i professoroni, capaci di “defascinare” il leader con l’esercizio del logos. Ora che non ha più nessun popolo se non i fan di Twitter, va avanti a colpi di querele contro chi mette in dubbio il suo equilibrio (dunque non la sua buona fede) e si gioca la residua reputazione bruciandosi sull’altare dell’Ego, spaccando tutto quel che gli riesce. È “l’impulso di Erostrato”, quell’Erostrato di Efeso che appiccò il fuoco al tempio di Artemide solo per il desiderio di passare alla storia.