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Mediaset, holding olandese a residenza fiscale italiana

A pagina 12 dell’edizione di ieri del Fatto Quotidiano è stata pubblicata la lettera di un lettore male informato. Non corrisponde infatti a verità l’affermazione secondo cui Mediaset intenderebbe trasferire la propria sede legale in Olanda “perché in quel Paese si pagano meno tasse”. Come noto, il progetto Mediaset prevede che la nuova holding olandese Mfe abbia residenza fiscale in Italia e quindi tutte le imposte versate da Mediaset Italia continuerebbero a restare interamente nel nostro Paese.

Direzione Comunicazione Mediaset

 

Le sentenze della Consulta non sono appellabili. Purtroppo

Gentile Direttore, le scrivo in merito al suo editoriale del 13 febbraio “E ora, tutti fuori”, per chiederle un approfondimento su tale argomento e se il governo o chi per esso ha effettuato un ricorso verso questa sentenza, che come lei ha scritto sarebbe addirittura incostituzionale perché verrebbe applicata solo a certi tipi di reati e non ad altri. Nella sempre più vasta confusione che regna indisturbata anche nei piani alti delle varie Corti e Consulte un po’ più di coerenza e Costituzione non guasterebbe. Un caloroso saluto a tutta la redazione del Fatto.

Emiliano Teobaldelli

 

Caro Emiliano, le sentenze della Consulta non sono appellabili. E, almeno in questo caso (vedi il commento del giudice Esposito a pag.13 del Fatto di mercoledì 18 febbraio), aggiungo: purtroppo.

M. Trav.

 

È nell’interesse comune rispettare la normativa dell’Ue

Egregio Direttore, noi facciamo parte da molti anni dell’Unione Europea e dobbiamo quindi accettare, seguire e rispettare la normativa europea in tutti i campi, il che, secondo me, va molto nel nostro interesse e nella nostra convenienza. Se però vogliamo uscire dall’Unione europea allora facciamo un referendum come è stato fatto in Gran Bretagna e decidiamo in merito ma fino a quel momento noi facciamo parte dell’Unione europea e secondo me a conti fatti penso che a noi convenga restare nell’Unione Europea.

Franco Rinaldin

 

Sfratti Aler a Milano, l’umanità è morta

Sono un’assidua lettrice del Fatto e voglio portare alla vostra conoscenza questa mia emblematica esperienza. Ho assistito il 19 febbraio 2020 a uno sfratto Aler a una donna sola in situazione di grande difficoltà. Sono entrata nell’appartamento svuotato della donna sfrattata e ho potuto verificare la sconvolgente situazione di degrado in cui la stessa si adattava a vivere: un solo calorifero funzionante in tutta la casa, muffa in ogni angolo e sul soffitto. Eppure per questo appartamento l’Aler aveva rifiutato l’accordo per un piano di rientro del debito, e alle richieste di spiegazione aveva proceduto con risposte arroganti, espresse in neanche tanto fine burocratese. Non sono mancate le richieste di aiuto agli enti pubblici che si occupano del problema casa a Milano: tante parole, a volte affettuose, ma mercoledì scorso, la donna era sola; anche l’assistente sociale di zona a cui si era rivolta perché la sostenesse con la sua presenza, ha risposto che le avrebbe fatto sapere. Ora, io sono solo una persona che non sa girarsi dall’altra parte, ma mi pare che questa diffusa situazione a Milano sia, ormai, esplosiva: gli affitti sono così alti che una persona sola che ha la fortuna di avere uno stipendio normale non può farcela, e se non ce la fa deve essere aiutata. Le mie tasse servono anche a questo! Milano non è solo una vetrina della moda delle fiere, del turismo, Milano deve essere una città per gente normale che ha diritto a vivere dignitosamente. In quel momento cruciale non c’era nessuno a denunciare lo scandalo all’ispettore Aler che, probabilmente, seppure con scarsa sensibilità, eseguiva solo il suo lavoro. Aler va controllata anche nelle singole situazioni segnalate. E mi viene il dubbio che in questo sistema milanese ci sia qualcosa di malato, perchè il consumo di suolo pubblico è sotto gli occhi di tutti, si costruisce in ogni angolo, allora perché gli affitti e le condizioni di ingresso sono così spaventosamente esosi? Occorre un sistema di controllo efficace, un piano strutturale alla portata delle condizioni di un cittadino medio e di un piano di assistenza per chi non ce la fa.

Marianna Saraceno

 

Renzi gira il mondo, ma resta fisso al 4% dei consensi

Spero che, al più presto, qualcuno che vuole bene all’ex premier Matteo Renzi gli spieghi che lui e il suo partito personale (Italia Viva) hanno, secondo i sondaggi più favorevoli, al massimo il 4.2% di consensi. Con una così miserrima percentuale sarebbe il caso, se non vuol cadere nel ridicolo, la smettesse di atteggiarsi a Deus ex Machina della politica italiana.

Mauro Chiostri

 

I nostri errori

Nell’intervista all’avvocato Genchi, per una svista gli ho attribuito un’inesattezza: la lettera inviata al procuratore Tinebra, dopo il suo allontanamento dalle indagini sulle stragi, venne firmata dai magistrati Ilda Boccassini e Fausto Cardella (e non Sajeva). Dell’errore mi scuso con gli interessati e con i lettori.

g.l.b.

Il corpo delle donne Lo sfogo di Armani: la “liberazione” deve partire dalla moda

 

Gentile redazione del Fatto, vedo in Internet che Giorgio Armani ha fatto dichiarazioni molto interessanti sul rapporto tra moda e corpo femminile. Anzi su come la moda “abusa” del corpo della donna, a margine della Settimana della moda di Milano. “Si parla di donne stuprate in un angolo. Le donne oggi sono regolarmente stuprate dagli stilisti, e mi ci metto anch’io. È indegno quello che succede. Penso a certi manifesti pubblicitari in cui si vedono donne provocanti, seminude: succede che in molte si sentano obbligate a pensare anche loro di mostrarsi così. Questo per me è uno stupro”. Mi sono sempre definita una femminista tiepida, ma adesso a quasi sessant’anni mi rendo conto che quella dell’immagine per noi donne è una vera dittatura. Me ne rendo conto perché alla mia età non è più necessario essere “belle” e capisco che io stessa sono più tranquilla rispetto alla mia immagine esteriore. Forse anche Giorgio Armani se n’è accorto solo ora. La domanda che vi faccio è: meglio tardi che mai? Oppure è vero che il tempismo è tutto e quindi lui è fuori tempo massimo?

Maria Chiara Maiello

 

Cara Maria Chiara, “femminista tiepida”, la sua stessa presa di coscienza ci dice che è sempre “meglio tardi che mai”. E dunque lo sfogo di Re Giorgio è benvenuto per più d’una ragione. Perché lo stesso stilista ha voluto subito includere se stesso in questo meccanismo e quindi non lo si può tacciare di opportunismo. Armani ha detto anche: “Sono stufo di sentirmi chiedere le tendenze del momento. Le tendenze non sono niente, non ci devono essere. La cosa più importante è vestire le donne al meglio oggi evitando il ridicolo, non discutere di cosa va di moda. Piantiamola di essere succubi di questo sistema”. Non è poco che chi detta la moda dica: adesso basta. Proprio perché è stato l’autorevole Re Giorgio (l’ultima e unica icona di eleganza, sinonimo di buon gusto, la bandiera più raffinata del made in Italy) a fare queste affermazioni “rivoluzionarie” sul corpo femminile, ci sono possibilità che si inneschi un processo di liberazione della donna. Che forse, per essere autenticamente efficace, può iniziare solo nel mondo della moda dove l’aspetto esteriore è molto (anche se non tutto). Per farlo c’è bisogno del contributo di tutte (e di tutti). Perciò ringraziamo Giorgio Armani, per la sua intelligenza e per la forza con cui ha comunicato questo messaggio (non certo usando eufemismi). E se è concessa una (apparente) frivolezza in un contesto più serio: grazie anche per averci insegnato cos’è la classe.

Silvia Truzzi

“Noi, gli altri Zaki da Milano a Berlino: così Al Sisi ci spia”

C’è sempre qualcuno alle nostre manifestazioni, a Milano come a Roma. Anche l’ultima volta alla presentazione del libro dei genitori di Giulio Regeni ho notato che c’erano persone che ci osservavano. Questi però non li conoscevo. Facce nuove”. Ahmed, il nome è di fantasia, è un ragazzo egiziano, vive da diversi anni nel capoluogo meneghino e fa parte di uno dei movimenti protagonisti della rivoluzione di piazza Tahrir del 2011. Ha scelto di parlare in anonimato perché torna spesso in Egitto, dove vive ancora la sua famiglia. Proprio come Patrick Zaki, il ricercatore egiziano arrestato lo scorso 7 febbraio al Cairo mentre rientrava da Bologna, città dove stava frequentando un master in studi di genere. Quello che descrive Ahmed, confermato anche da altri attivisti e da report stilati da organizzazioni non governative, è un modus operandi sistematico attraverso il quale i servizi segreti egiziani spiano i loro connazionali all’estero, in particolare chi ha militato o milita in organizzazioni politiche o sindacali opposte al regime, dai laici di piazza Tahrir ai Fratelli Musulmani.

Sembra un romanzo di spionaggio, ma non lo è. Tra gli expat egiziani l’attività delle talpe è nota: a Milano li chiamano “quelli del consolato”, anche se non ci sono molti dubbi sulla loro reale appartenenza, visto che gli uomini operativi in Italia sono stati avvicendati proprio in coincidenza con il cambio della guardia dei Servizi del Cairo deciso da al-Sisi. La loro strategia è semplice: controllare e intimidire i giovani egiziani che vivono all’estero e hanno lasciato il Paese negli ultimi 6 anni. Questi ragazzi spesso hanno solo un passaporto, quello egiziano, che va rinnovato e per questo motivo presto o tardi sono costretti a tornare a casa incrociando le dita e sperando di non essere tirati in ballo da qualche inchiesta, proprio come successo a Zaki. Si subisce, dunque, ma non si denuncia perché prima dell’impegno politico ci sono la propria incolumità e quella della propria famiglia. “Quelli del consolato” ricorda Ahmed “ci seguivano già nel 2016. Quell’anno, durante una fiaccolata in piazza della Scala, poco dopo la scomparsa di Giulio Regeni, addirittura si avvicinarono per presentarsi”. E non è nemmeno un fatto limitato all’attività degli expat, come denunciato anche dal legale della famiglia Regeni: “Gli egiziani ci spiano anche qui in Italia”, ha detto l’avvocato Alessandra Ballerini.

Ma il comportamento dei Servizi egiziani sembra essere lo stesso ovunque ci siano grandi comunità di dissidenti. “Mio marito è stato arrestato in Turchia perché il suo visto era scaduto e il suo nome compariva in una black list di presunti terroristi stilata da alcuni Paesi arabi”, racconta Ghada Naguib. L’abbiamo raggiunta al telefono nella sua nuova casa a Istanbul, dove è fuggita nel 2015. Suo marito è Hismah Abdallah, oggi presentatore della tv egiziana al-Sharq con base nella città turca. Istanbul è una delle città dove molti attivisti politici egiziani, per la maggior parte vicini ai Fratelli Musulmani, hanno trovato rifugio dopo il colpo di stato del 2013.

Lo è anche Berlino, qui con una composizione più laica, dove Safwan Mohammed, giornalista e attivista, è scappato nel 2017. “Le nostre attività sono costantemente monitorate, lo sappiamo”, racconta nel corso di una conversazione su una app criptata. “Ogni volta che c’è un’iniziativa, ogni volta che ci vediamo, vengono a scattare le foto, li vediamo”.

Ma il controllo fisico e i pedinamenti non sono l’unico strumento che il regime di al-Sisi utilizza per raccogliere informazioni fuori dal Paese. Ci sono anche gli attacchi informatici: “Io ne ho subiti numerosi dal 2016 a oggi – racconta Ahmed –. La prima volta il mio telefono non funzionava più, si bloccava, era lento e non riconosceva più il carica batterie, allora ho mandato la segnalazione ad Amnesty Tech e mi hanno confermato che ero stato vittima di un attacco”. Nel 2019 il fenomeno si è intensificato con un’altra decina di attacchi, la maggior parte dei quali di tipologia phishing: attraverso l’invio di email apparentemente riconducibili a banche, uffici postali o piattaforme di pagamento: si estorcono alle vittime password, codici di accesso, numeri del conto corrente o dati della carta di credito.

Un’indagine condotta da Amnesty International conferma il racconto di Ahmed. L’organizzazione per i diritti umani ha evidenziato che dall’inizio del 2019, mentre la repressione si intensificava anche in Egitto, decine di difensori dei diritti umani sono stati oggetto di attacchi phishing. Amnesty ha scoperto anche un’altra coincidenza inquietante: l’elenco delle vittime del 2019 coincide in larga parte con quello di coloro che avevano subito attacchi col Nile Phish, scoperti nel 2017 da Citizen Labe dall’Iniziativa egiziana per i diritti della persona. Quasi tutte le vittime erano indagate per aver ricevuto fondi dall’estero, accusa che viene spesso mossa agli oppositori politici. “Esaminando l’identità degli obiettivi, le tempistiche, il loro apparente coordinamento e le notifiche inviate da Google, concludiamo che questi attacchi sono stati probabilmente eseguiti da o per conto delle autorità egiziane”, spiega Ramy Raoof, ricercatore egiziano in sicurezza digitale, che ha stilato il report di Amnesty International.

I paesi fantasma nell’epicentro padano del virus

Ogni minuto che passa il paese si svuota, ogni angolo, ogni via del centro è deserta, nessuno a piedi, solo auto. Chi guida porta la mascherina. Le farmacie sono prese d’assalto. Mascherine terminate, nuovi ordini partiti e poi amuchina, tutti a chiedere come tenere pulite le mani. Il centro di Codogno, 14 mila abitanti nella bassa lodigiana, ieri appariva deserto e sotto assedio dal coronavirus. E così anche Casalpusterlengo e Castiglione d’Adda, il triangolo del contagio come nelle regione cinese di Hubei. Ma è ancora decisamente prematuro paragonare Codogno a Wuhan dove il virus è nato. La paura però c’è. Lo si intuisce sui volti dei genitori che corrono a prendere i bimbi a scuola, alcuni escono in lacrime. Non è panico, ma poco ci manca.

L’allarme si allarga a dieci comuni della zona. Qui nel triangolo della bassa dove i primi 15 casi tutti italiani (da aggiungere, ci sono anche i due contagi in Veneto) hanno terremotato società civile e istituzioni. In piazza XX settembre, il bar-ristorante Mania è il primo a chiudere dopo l’ordinanza emanata dal sindaco Francesco Passerini. Saracinesche giù fino a domenica almeno. Così dopo il Mania altri ottanta locali, tra bar, ristoranti, sale da ballo. Centri commerciali. Non solo a Codogno, identica ordinanza per gli altri due comuni. La direzione, dunque, è quella di paesi fantasmi e dove non l’ordine ma il consiglio delle istituzioni è quello di non uscire di casa. Così avverrà. A Castiglione sono state sospese le feste di Carnevale. “Il clima – spiega il sindaco Costantino Pesatori – è di grande preoccupazione”. Qui a Castiglione vivono i genitori della coppia. Qui la moglie del 38enne ha lavorato nel negozio di famiglia. E sempre qui c’è il bar frequentato dall’uomo e da dove è in parte iniziato il contagio. A Castiglione c’è anche il medico di base che aveva in cura il 38enne: anche lui contagiato.

A Codogno, ieri, le scuole hanno chiuso in anticipo e tali resteranno almeno fino a mercoledì, fine delle brevi vacanze di Carnevale. Sono usciti prima anche i bimbi della scuola dell’infanzia nel quartiere San Biagio dove vive il 38enne con la moglie. La casa prima era occupata dai genitori di lei che poi si sono trasferiti a Castiglione.

Ai tavolini del bar-tabacchi un gruppo di adolescenti, usciti prima, scherzano. I volti sereni. Chiedono: “Ma le scuole allora stanno chiuse?”. Via Vittorio Emanuele, sede del Municipio. Il sindaco non c’è, è a Milano. Dentro riunioni varie con il capo dei vigili. L’assessore ai lavori pubblici Severino Giovannini è appena tornato dalle scuole: “La situazione non è delle migliori, molti bambini piangevano perché vedevano i loro compagni andare vie con i genitori e loro no, ora con la preside si è deciso di chiudere”. Questo la parola d’ordine: chiusura e quarantena. Quanto poi giustificata non è dato sapere. Ma nel giorno dell’emergenza che non pare destinata a finire a breve è meglio così. La gente qui vuole sapere, capire.

Il centralino del comune è andato in tilt fin dalle prime ore del mattino quando si è sparsa la notizia del contagio. Ma c’è anche chi chiama le farmacie. “Si ci chiamano anche per sapere cosa devono fare per prevenire”, spiega una farmacista di piazza XX settembre. A Casalpusterlengo invece ha sede l’Unilever dove l’uomo lavora come ricercatore. Anche qui l’ordinanza ha chiuso i locali pubblici da ieri. Sono circa 120 i colleghi di lavoro del 38enne messi sotto monitoraggio.

In serata, poi, in piazza Venti settembre l’atmosfera appariva irreale, nessuno in giro, solo le luci gialle a illuminare la grande chiesa di mattoni rossi, dove con tutta probabilità il parroco domenica non celebrerà la messa. Almeno così gli è stato consigliato dal sindaco.

Il mese del “paziente beta” tra bar, ristoranti campi di calcio, lavoro e un viaggio in Liguria

Codogno e Castiglione d’Adda. Due paesi della Bassa lodigiana e due luoghi. Bisogna partire da qui per comprendere il viaggio fatto dal virus cinese che ha contagiato prima un 38enne (lo chiameremo beta) e poi altre 14 persone sempre in queste zone della bassa. Nel quartiere San Biagio l’uomo vive con la moglie incinta anche lei contagiata. Qui, da ieri, la palazzina è pressoché deserta. Serrande abbassate, sguardi bassi e passi veloci.

Francesco, 28 anni, racconta: “Abito qui: una settimana fa ho visto quel ragazzo, siamo saliti assieme in ascensore…”. Francesco parla con la mascherina sul volto. Nessuno degli inquilini è stato contattato dalle autorità sanitarie. Non ci sono transenne, né militari o tute bianche. Carlo, zaino e giaccone blu, appare preoccupato: “Sono andato via dal lavoro e sono venuto subito a casa, mi hanno detto di fare così. Ora chiamerò il 112 per farmi fare il tampone”. Una signora corre via veloce, dice: “Ho chiamato il ministero per sapere cosa devo fare. Quel ragazzo? Sì, lo vedevo spesso, una settimana fa l’ho incontrato sulle scale”. Una ragazza, invece, è stata mandata a casa dal lavoro, è impiegata a Piacenza. Un altro vicino spiega: “Qui fino a poco tempo abitavano i genitori della signora incinta, poi hanno lasciato la casa e si sono trasferiti a Castiglione. Poco tempo fa abbiamo fatto anche una riunione di condominio, c’erano lui e la moglie. Preoccupato? Come tutti…”.

Poco più in là, c’è una farmacia, un bar e una scuola per l’infanzia. Sul marciapiede i genitori discutono: “Non sappiamo cosa fare – racconta un signore – comunque sono venuto a prendere mio figlio”. nel pomeriggio arriverà la notizia della chiusura, almeno fino a mercoledì, di scuole e asili nidi. In serata, quella di Trenord che dispone lo stop delle stazioni di Codogno, Maleo e Casalpusterlengo.

Tutto parte da qua e da un bar a Castiglione d’Adda frequentato dall’uomo. Qui tre clienti sono risultati positivi, oltre a loro il figlio del titolare che gioca a calcio con il 38enne. L’uomo, impiegato alla Unilever di Casalpusterlengo, pratica diversi sport.

Il contagio, per quanto spiegato ieri dall’assessore regionale lombardo al Welfare Giulio Gallera potrebbe essere avvenuto dai contatti con un amico italiano rientrato da poco tempo dalla Cina, oggi ricoverato all’ospedale Sacco di Milano e al momento negativo al virus. L’uomo torna dalla Cina il 21 gennaio, quando la stretta sui controlli in aeroporto non è ancora iniziata. Con il 38enne l’amicizia è forte. I due si vedono spesso. Nell’ultimo periodo vanno a cena ben 6 volte. Poi il 38enne di Codogno domenica scorsa inizia ad avere la febbre e va in ospedale. Qui non spiega di aver avuto contatti con una persona rientrata dalla Cina. I medici certificano una banale influenza di stagione. L’uomo, tornato a casa, nella serata di giovedì peggiora radicalmente. Non respira. Con la moglie incinta torna all’ospedale di Codogno e qui la donna spiega ai medici i contatti con l’amico rientrato in Cina. Scatta l’allarme e i primi tamponi confermano il virus.

Ieri i genitori del ragazzo sono andati a trovarlo in ospedale e sono usciti devastati. L’uomo, infatti, è intubato. Il cosiddetto “paziente indice”, ovvero l’uomo rientrato dalla Cina – un impiegato a Fiorenzuola – a oggi sta bene e non ha il virus. Particolare non da poco e che può volere dire due cose: o che non è lui il paziente zero oppure che il contagio passa anche da chi ha già avuto il virus ed è guarito.

I primi sintomi del 38enne iniziano attorno al 15 febbraio. In tutto questo tempo sono decine le persone con le quali è venuto in contatto. Lui e anche la moglie, insegnante, a casa per la maternità e impiegata nel negozio di famiglia a Castiglione d’Adda. Un conoscente dell’uomo è risultato positivo, mentre nella notte di giovedì altre due donne e un uomo sono stati ricoverati d’urgenza per problemi respiratori. Tutti hanno il coronavirus. Ma sono circa 250 le persone (120 solo all’Unilever) che sarebbero venute in contatto con Beta e perciò sono in quarantena. In isolamento il medico condotto di Castiglione d’Adda che aveva in cura l’uomo e anche i genitori di lui e di lei sono stati sottoposti ai tamponi.

La donna, inoltre, aveva partecipato a un corso pre-parto, mentre il marito oltre a frequentare un corso alla Croce Rossa e a giocare in una squadra locale, ha fatto diverse corse, una in Liguria. Dove potrebbero già essere sette i sospetti contagi.

L’avvoltoio Salvini si è ridotto a “umarell”

Ormai ridotto al ruolo di triste umarell – gli anziani nullafacenti che mani dietro la schiena guardano i cantieri dicendo la loro –, Matteo Salvini ha detto la sua sull’epidemia del Coronavirus attaccando il ministro Speranza e il governatore della Toscana Rossi che “accomunati dalla stessa ideologia culturale e politica fanno a gara a chi minimizza di più su questo drammatico tema”. Testuale. Poi lo hanno avvertito che nella “sua” Lombardia, e nel Veneto di Luca Zaia, cioè in amministrazioni accomunate “dalla stessa ideologia culturale e politica”, c’è ma tu guarda “un drammatico tema”. Dopo essersi nascosto in un tombino si è azzittito per poi ricomparire a Milano con la coda tra le gambe alla conferenza stampa del “suo” presidente della Regione Attilio Fontana e degli assessori competenti. Dopodiché lo avrebbero visto ingoiare un cucchiaio di Nutella come profilassi al virus dell’imbecillità politica, però a quanto pare inguaribile. Infine il solito attacco a Conte che gli serve come alka-seltzer prima di andare a nanna. Commentare Salvini è come sparare sulla croce rossa (per restare in argomento), anche se questa volta perfino le sue nocive emissioni vocali possono servire a qualcosa. A ricordarci che: 1. Nella presente situazione è bene ascoltare esclusivamente chi sa: e dunque prima di tutto i virologi e tutti coloro, nel campo della sanità, che per conoscenza ed esperienza sono in grado di spiegare e gestire l’epidemia. 2. Che, fino a prova contraria, il ministro della Salute e le Regioni, di ogni “ideologia”, hanno fatto e stanno facendo tutto ciò che è necessario ad arginare un’emergenza purtroppo globale. 3. Che i politici di ogni risma, in campagna elettorale permanente, farebbero cosa buona e giusta a mettersi sulla bocca, al posto della mascherina protettiva, un grosso tappo di sughero ben sigillato, per una quarantena all’occorrenza estendibile.

Il morbo colpisce in Italia Il governo: “Quarantena”

Ora che il nuovo coronavirus è arrivato in Italia ci si interroga sulle risposte e sulle quarantene. Ci sono 15 casi in Lombardia, cinque “in gravi condizioni” e due di in Veneto, a Vo’ Euganeo, ricoverati a Padova in attesa dell’ultima conferma dallo Spallanzani di Roma. Hanno 67 e 78 anni, frequentavano lo stesso bar, anche loro sono “gravi”. Misure straordinarie nei Comuni interessati. Quasi tutto chiuso. Chi sospetta contagi è invitato a non andare nei Pronto soccorso ma a chiamare i numeri d’emergenza. Cinque contagiati sono medici. La paura dilaga, ieri un treno è stato bloccato a Lecce per controllare un giovane cinese, risultato negativo,

Il focolaio nel Lodigiano è un terremoto, anche perché si cerca ancora il paziente zero dal quale è originato. Se non è l’ora del panico poco ci manca. A Codogno (Lodi) e altrove molti fin da ieri mattina hanno chiuso negozi e attività e si sono tappati in casa. C’è chi faceva incetta di generi alimentari. È scesa la Borsa di Milano. E fin da ieri mattina il governo ha stretto le maglie: il ministro della Salute, Roberto Speranza, ha stabilito con ordinanza “misure di isolamento quarantenario obbligatorio per i contatti stretti con un caso risultato positivo” e “la sorveglianza attiva con permanenza domiciliare fiduciaria per chi è stato nelle aree a rischio negli ultimi 14 giorni con obbligo di segnalazione da parte del soggetto interessato alle autorità sanitarie locali”. Diventa obbligatorio segnalare, per tutti. La violazione ha rilievo penale.

È una misura più rigida di quella già adottata l’8 febbraio per gli allievi delle scuole di ogni ordine e grado. Non è chiaro perché, in un primo momento, il principio di precauzione sia stato applicato per i bambini e i ragazzi che vanno a scuola, peraltro dopo diversi giorni di discussione nel governo, e solo ieri per gli adulti rientrati non oltre due settimane fa da Wuhan e dalle zone più colpite in Cina. Che peraltro, in molti casi, sono i genitori e i fratelli maggiori dei bambini e spesso si sono già messi in autoquarantena da soli. Il leader della Lega Matteo Salvini attacca il governo per le misure troppo blande. Oggi dovremmo avere i risultati delle analisi sull’amico del 38enne che si è ammalato per primo in Lombardia. Era rientrato dalla Cina prima che fossero introdotte le misure in Italia, ma non ha sintomi ed è negativo. Se ha gli anticorpi vuol dire che anche soggetti sani possono trasmettere il virus, se invece il paziente zero fosse rientrato più tardi per il governo sarebbe un guaio.

Per le quarantene si può rimanere in casa, sotto la sorveglianza delle aziende sanitarie, ma non sempre è facile isolare le singole persone. La Difesa ha messo a disposizione duecento posti in due strutture alloggiative dell’Esercito e dell’Aeronautica: una con oltre 130 posti a Piacenza, l’altra con 50-60 posti a Milano. Sono le soluzioni più sicure, come alla cittadella militare della Cecchignola alle porte di Roma, dove sono stati portati i 57 italiani rientrati con i voli speciali da Wuhan: ieri anche gli ultimi sono andati a casa, non hanno il virus.

L’Italia è dunque il quarto Paese europeo, compresa la Gran Bretagna, in cui si registra una trasmissione locale del virus. Al 20 febbraio la Germania aveva notificato 16 casi, due importati e gli altri secondari, tutti però riconducibili ad un dipendente della casa automobilistica Webasto, in Baviera, a sua volta contagiato da una dirigente cinese. In Francia sono 12 (5 importati e 7 secondari) e c’è stato un morto. La Gran Bretagna nove, uno solo importato. In Italia fino all’altroieri erano tre, i due turisti cinesi ricoverati allo Spallanzani di Roma e l’ultimo italiano rientrato da Wuhan, dichiarato guarito ieri. Ora i diciassette tra Lombardia e Veneto. È un’altra cosa.

Flop Ue sul bilancio Nord contro Sud per pochi spiccioli

Secondo il premier polacco Mateusz Morawiecki, quello di ieri sul Bilancio europeo era “il vertice più difficile della storia della Ue”. E in effetti lo è stato.

Il Consiglio europeo, quello dei capi di Stato e di governo, è finito male, senza un accordo, senza una data fissata per il prossimo incontro. Si è litigato sulla moneta bruta, per strappare qualche miliardo in più per i propri interessi nazionali, con una clima da tutti contro tutti. Meglio, da Paesi ricchi, autodenominatosi “frugali” (ah, il peso delle parole) contro gli “amici della coesione sociale” ribattezzatisi “Amici dell’ambizione europea”.

Un dato significativo è quello della tempistica. Quello fallito ieri è stato il primo Consiglio fissato dopo l’uscita della Gran Bretagna dalla Ue il 31 gennaio. Solo 20 giorni dopo, l’Unione ha mostrato che non ha coesione, sintesi interna, capacità di forza centripeta. La sua ambizione a rappresentare un’alternativa alla critica e alla forza d’urto delle forze politiche nazionaliste esce sconfitta.

Il senso dello scontro, al quale non ha saputo porre rimedio nemmeno l’ultimo tentativo del presidente Charles Michel di porre sul tavolo una mediazione striminzita, aiuta a capire lo stato di difficoltà. I “frugali”, Germania, Olanda, Austria, Svezia e Danimarca, cioè i Paesi che sono contributori netti e che avrebbero voluto ridurre i propri oneri, non hanno voluto sentire ragione sulle richieste della stragrande maggioranza dell’Unione che chiedeva maggiori risorse distribuite in modo più complessivo. Nella lotta a tirare la coperta del bilancio dalla propria parte, i ricchi hanno messo in discussione le risorse alla coesione e alla politica agricola e, in nome degli investimenti green, hanno puntato a garantire le proprie imprese.

Ma comunque alla fine non ha vinto nessuno.

L’ultimo documento di Michel ha avanzato la proposta di stanziare per il bilancio comune della Ue l’1,069 per cento del reddito nazionale lordo (Rnl), una cifra inferiore di circa 10 miliardi rispetto ai 1.094 miliardi di euro (l’1,074% del Rnl) della proposta iniziale di Michel. I “frugali” avrebbero voluto un bilancio ancora più ristretto, circa dell’1% del Rnl, poco più di mille miliardi in sette anni, mentre il Parlamento europeo aveva auspicato un bilancio dell’1,3% del Rnl, quindi 300 miliardi circa in più.

Il problema delle risorse è il lascito più importante della Brexit che riducendo la Ue da 28 a 27 Paesi ha lasciato un “buco” di circa 80-90 miliardi che i Paesi più ricchi dell’Unione non vogliono coprire.

Ma lo scontro è più profondo, ruota attorno ai soldi e delinea concezioni diverse sul futuro della Ue. I cosiddetti frugali, oltre a sostenere uno sforzo economico ridotto, hanno puntato a mantenere il privilegio dei rebates, gli sconti concessi ai Paesi contribuenti netti, che versano più di quanto beneficiano (si tratta di un privilegio ottenuto negli anni 80 dalla Gran Bretagna grazie a Margaret Thatcher e poi mai eliminato). Anche l’ipotesi di ridurlo progressivamente, lasciandolo inalterato per il 2021, è stata sonoramente respinta.

L’Italia, pur ponendosi nella coalizione degli “ambiziosi” ha cercato, insieme alla Francia, di fare da mediatore tra le due posizioni – è circolata la foto del pranzo tra Conte, Macron e i “frugali” –, ma ha fermamente respinto le posizioni dei Paesi ricchi battendosi anche per soluzioni più innovative come la crescita delle entrate dirette con tasse sulle grandi corporation del Web o dell’Energia. Questa impostazione ha permesso a Giuseppe Conte di ricevere il mandato, insieme a Romania e Portogallo, “di elaborare una controproposta in linea con un disegno più ambizioso” per il bilancio dell’Unione europea.

Anche il presidente dell’Europarlamento, David Sassoli, ha espresso delusione per “l’incapacità del Consiglio europeo di trovare un accordo sul prossimo quadro finanziario pluriennale e sulle risorse proprie. Nessun Paese da solo può affrontare adeguatamente queste sfide e mantenere la posizione attuale”, ha aggiunto.

Con ogni probabilità, a marzo verrà convocato un nuovo Consiglio europeo straordinario e probabilmente si troverà una mediazione. Ma la rottura di ieri non potrà non pesare.

“B. mandante delle stragi? Per ora non ricordo”

“Silvio Berlusconi è tra i veri mandanti delle stragi?”. La domanda a Giuseppe Graviano questa volta l’ha posta Antonio Ingroia, ex pm di Palermo e oggi avvocato di parte civile al processo ’ndrangheta stragista. Questa volta, però, il boss di Brancaccio si è innervosito. Prima ha rivendicato verità per l’omicidio del padre, Michele Graviano, ucciso nel 1982, verità che a suo dire è “rimasta per 37 anni in un cassetto della Procura di Palermo. Aprite quel cassetto prima, io risponderò dopo”. Poi, redarguito dalla giudice Ornella Pastore, ha detto: “Dottoressa, io per il momento non mi ricordo”.

Insomma, Graviano non ha rinunciato a mandare messaggi. Anche ieri che è apparso per la prima volta insofferente. Da settimane il boss è protagonista di interrogatori fiume davanti alla Corte d’assise di Reggio Calabria che lo sta processando per l’omicidio di due carabinieri nel 1994. Se però nelle altre udienze il boss si era dimostrato molto loquace, questa volta non è riuscito a trattenere il suo fastidio per le domande poste da Ingroia, il magistrato che ha rappresentato l’accusa al processo a Marcello Dell’Utri, poi condannato in via definitiva a sette anni per concorso esterno a Cosa Nostra.

Graviano ha confermato: “Ho incontrato per tre volte Berlusconi”. Poi, però, quando Ingroia ha chiesto “se in uno dei tre incontri” fosse presente proprio Dell’Utri, il boss ha cominciato a perdere la calma, negando di avere mai visto l’ex senatore: “No, io non l’ho mai conosciuto, l’ho già detto. Ma se continuate con queste domande, a cui ho già risposto al pubblico ministero, va a finire che mi stanco”, ha avvertito il padrino. Che è arrivato ad alzare la voce quando Ingroia ha chiesto se Berlusconi fosse “tra i veri mandanti delle stragi”. “Io non parlo, prima voglio la verità sulla morte di mio padre. Il processo di mio papà per quasi 38 anni ha soggiornato in un cassetto. È sufficiente aprire quel cassetto. Ancora che cercate l’agenda rossa e gli autori dell’omicidio Agostino? Aprite i cassetti in Procura che sono chiusi da quasi 40 anni, è una vergogna”, è stato lo show del boss, che ha spiegato di fidarsi “solo del procuratore Lombardo”.

Quando ha risposto a Ingroia, invece, Graviano è apparso sprezzante: ha usato spesso il dialetto siciliano, consapevole che il suo interlocutore poteva capirlo, e ha attaccato la Procura di Palermo “dove c’è qualche giudice che è stato fatto eroe, anche se è un vostro collega mi spiace dirlo, ma sapete che la storia ci insegna che a volte le medaglie al valore vengono tolte…”. A chi si riferiva Graviano? Secondo Ingroia a Giovanni Falcone: per il boss il magistrato ucciso a Capaci avrebbe coperto il pentito Totuccio Contorno. “Graviano non è ravveduto né pentito – ha ricordato Ingroia – Dice e non dice, invia messaggi in modo trasversale in più direzioni, sia ambienti interni che esterni. Li manda alla politica, alla mafia, e li manda anche a quell’area grigia che con la mafia spesso ha fatto accordi indicibili”. Ma perché allora cita il nome di Berlusconi? “Lui usa il termine tradimento – sostiene l’ex pm – e quindi cerca quello che dal suo punto di vista è un risarcimento per patti che lui ha rispettato. Ancora una volta la storia della mafia è storia di patti inconfessabili in cui c’è la responsabilità del livello criminale, ma c’è anche la responsabilità di altri livelli che della criminalità si sono avvalsi”.

“Aiuto, Silvio è scomparso” “No, sta bene e torna presto”

Dai social è sparito da lunedì 10 febbraio quando è stato pubblicato il suo ultimo post sulle foibe. Ma dal 14, giorno di San Valentino, sembra addirittura sparito dalla circolazione, tanto da risultare irraggiungibile persino per gli esponenti più in vista di Forza Italia. Chi lo dà fuori dai confini nazionali per una fuga d’amore, chi in vacanza in una delle sue tante residenze, chi, allarmatissimo, lega la misteriosa assenza a problemi di salute fino a far temere il peggio spargendo il panico. Che fine ha fatto Silvio Berlusconi? Quasi tutti gli azzurri s’interrogano preoccupati, dopo averlo visto sparire dai radar e inutilmente cercato per avere lumi sulle mosse da fare con il toto-responsabili che impazza e Matteo Renzi pronto a fare ponti d’oro agli eletti forzisti.

E già perché con la maggioranza in grande agitazione e il governo Conte appeso ai risicati numeri del Senato, tra gli azzurri c’è incertezza e smarrimento per le sollecitazioni interessate che arrivano da più le parti. Certo, superato lo scoglio della fiducia a Palazzo Madama sulla vicenda delle intercettazioni, la necessità di correre immediatamente in soccorso dell’esecutivo barcollante sembra archiviata. Ma le manovre sottotraccia continuano lo stesso. Anzitutto con i “responsabili” che mirano ancora a organizzarsi autonomamente così assottigliando ulteriormente le file forziste. Ma anche per le minacce di defezioni legate ad altre vicende. A cominciare dalle candidature da definire per le Regionali in Puglia, Veneto, Toscana e Marche, per le quali la presenza di Berlusconi viene invocata per limitare gli appetiti annessionistici di Matteo Salvini e Giorgia Meloni.

Per non parlare della Campania dove il destino della senatrice azzurra Sandra Lonardo, sembra legato alle scelte del più celebre consorte Clemente Mastella, sindaco dimissionario di Benevento, che lamenta una fatwa salviniana nel suoi confronti e pretende soddisfazione con l’aiuto di Berlusconi.

Un’atmosfera politica ad altissima fibrillazione, dunque, in cui i problemi interni al partito-azienda si incrociano con le illazioni e le supposizioni sull’assenza del leader, soprattutto quelle che, dicono alcuni, sembrano alimentate da chi cerca solo di avvantaggiarsene. Di chi si tratta?

Il primo della lista nera è Paolo Romani che, dopo aver annunciato di voler traghettare un nutrito drappello di senatori azzurri in soccorso del governo Conte, è ora accusato di rimestare nel torbido per essere arrivato a dipingere l’ex Cav. in condizioni estreme di salute. Sarà vero? A suonare su questo tasto, per la verità, sono anche altri insospettabili forzisti interpellati dal Fatto e che appellandosi al più rigoroso anonimato evocano “un ricovero per controlli”. Sussurri maliziosi che contrastano con le tranquillizzanti versioni fornite da altri prediletti dal leader che sorridendo minimizzano: “È a Lugano per dimagrire”. O, rilanciano, delineando una controffensiva: “È sulla strada del ritorno, sta per concedere interviste ai giornali, pronto ad affilare le armi per gli appuntamenti programmati con la segreteria in vista di un rientro alla grande anche in tv”. O che addirittura infiocchettano l’assenza e l’imminente ritorno – è il caso di un altro amatissimo da Silvio – sfornando particolari succosi sui suoi nuovi orizzonti sentimentali: “Ma quale piede nella fossa, si mettano l’anima in pace i suoi nemici: è andato all’estero con la nuova fiamma a folleggiare per San Valentino ”.