“Mia madre uccisa dall’alluvione: quest’estate sarà tutto perdonato”

“Ormai il tempo è scaduto…

Perché signora Fiorentini?

Perché la prescrizione cancellerà in un attimo la morte di mia madre e di un’altra persona, il signor Pozzi. Ma il nostro dolore, in prescrizione, non ci andrà mai.

Be’, è la legge che lo prevede: dopo sette anni e mezzo l’omicidio colposo si prescrive.

Esatto, che Paese è questo? In un Paese civile e democratico le morti non dovrebbero mai andare in prescrizione. Noi figli di Enrica Pavoletti ci sentiamo scippati: qualcuno ha deciso che il nostro dolore non avrà mai giustizia.

Simonetta Fiorentini, 52 anni, di professione casalinga, quel maledetto 25 ottobre 2011 ha perso la madre Enrica Pavoletti (78 anni) e insieme a lei, l’esondazione dei fiumi Vara e Magra ha portato via anche Claudio Pozzi, dipendente della società di gestione dell’Autostrada della Cisa, che quel pomeriggio era andato nel garage di casa per tirare fuori l’auto quando è stato travolto dalla “piena”. Danni milionari, strade divelte, paesini di montagna isolati e soprattutto due famiglie spezzate dal dolore: l’alluvione di Aulla e delle zone limitrofe di La Spezia, 542 millimetri di pioggia in sole sei ore, sarebbe stato solo il preavviso alla calamità che pochi giorni dopo (il 6 novembre) colpì Genova con una scia di altri sei morti. Eppure, come capita spesso in questi casi, oltre alla portata decennale dell’evento, si ipotizzò la scarsa manutenzione del Magra, ma anche lavori realizzati “in maniera difforme rispetto al progetto” come sostenuto dalla Procura di Massa tra le cause della morte di Enrica e Claudio. Quattro anni dopo vanno a processo undici persone tra cui l’ex senatore verdiniano ed ex sindaco di Aulla Lucio Barani, il primo cittadino nella data dell’alluvione Roberto Simoncini, gli ex assessori Gildo Bertoncini e Giovanni Chiodetti e altri dirigenti comunali e provinciali: l’accusa è, a vario titolo, di omicidio e disastro colposo. Ma almeno per il primo reato – dopo quattro anni di rinvii, tre giudici sostituiti e il sovraccarico del Tribunale di Massa (la media è di 200 provvedimenti per giudice) – tutto si prescriverà entro l’estate.

Signora Fiorentini, che ricordi ha di quel giorno?

Avevo sentito mia madre intorno alle 16:30, doveva andare a fare una visita dal dottore. Pioveva molto e le strade iniziavano a essere in panne. Quindi mio fratello Graziano decide di prendere l’automobile per andare all’ospedale di Aulla prima di parcheggiare per vedere quanta gente è in attesa. Mia madre rimane in macchina.

E poi…?

Dopo circa mezz’ora, Graziano sente dei rumori, va via la corrente e scende le scale dell’ospedale: l’acqua gli arrivava alla cinta dei pantaloni. Mia madre però era rimasta in auto e non era riuscita a liberarsi: la seconda ondata ha portato via tutto. Graziano è stato salvato solo grazie a una catena umana. Nella vita ognuno forse ha un destino scritto, io non lo so, ma viverlo sulla mia pelle è stato un dolore immenso.

Di chi è la colpa?

Non abbiamo mai capito cosa non abbia funzionato, come mai non ci era arrivato alcun messaggio di allerta. In questi casi sarebbe necessario, e qualcuno dovrebbe prendersi questa responsabilità.

E i lavori degli argini?

Anche in quel caso è emerso che non erano a norma e, per questo, qualcuno la colpa ce l’ha di sicuro. Probabilmente della politica, anche sulla gestione dell’allarme e dell’emergenza. La situazione era già devastante, i fiumi esondati e noi cittadini delle zone limitrofe non sapevamo niente.

Eppure, per l’omicidio colposo tutto si prescriverà presto.

Ogni volta che mettiamo piede in quell’aula di giustizia mi sento devastata: ti riportano tutti a rivivere ogni momento di quei giorni ma la cosa più grave è che ti senti fondamentalmente preso in giro. Per tutta una serie di motivi: i giudici che si alternano (siamo al terzo), gli intoppi burocratici, l’attività dilatoria degli avvocati e il Tribunale di Massa, che è sommerso di pratiche. Sono in pochi giudici e alla fine il processo si è prescritto.

Cosa dovrebbe fare la politica?

Non sono un’esperta, ma forse la prescrizione dovrebbe essere bloccata al rinvio a giudizio e non dopo la sentenza di primo grado come prevede la legge adesso, perché molti processi a sentenza non ci arrivano nemmeno. È incivile che per un reato grave come l’omicidio colposo non si arrivi mai alla verità.

Ha ancora fiducia nella giustizia italiana?

No, assolutamente no e credo sia un sentimento condiviso da molti cittadini: in questi casi, quando ti trovi in un’aula di tribunale per niente, la giustizia è completamente assente.

Lotterete ancora, nonostante la prescrizione?

Certo, io e i miei due fratelli cercheremo giustizia nonostante questa tagliola, altrimenti non avremmo pace. In cinque anni di processo non ci siamo mai persi un’udienza: si sta male il giorno prima, il giorno stesso e quelli dopo, ma poi si va avanti. Poi, però, nonostante le forze e l’energia mentale, tutto viene prescritto: come fanno a esistere certe cose?

La “Stampa” assolve Duilio Poggiolini e dimentica la condanna per tangenti

Mattia Feltri ne ha combinata un’altra delle sue. Su “Buongiorno”, la rubrica di prima pagina della Stampa, con la quale riesce periodicamente a propinare balle ai lettori, l’altroieri ha provato a far passare Duilio Poggiolini come una sorta di martire della barbarie giustizialista alla quale contrapporre il garantismo alle vongole cucinato con la salsa della disinformazione.

L’occasione è quella dell’ultimo film di Gabriele Muccino e del personaggio interpretato da Pierfrancesco Favino, il giovane avvocato idealista che si lascia tentare dai soldi e per questo accetta di difendere e far assolvere un imprenditore mezzo losco che si è arricchito col sangue infetto e ha causato dei morti. “In pratica, Duilio Poggiolini. Quello coi soldi delle tangenti nel puff, per chi non ricordasse”, scrive Feltri per sgomberare il campo da ogni dubbio. “Il mostro” per antonomasia nei film degli anni 90, secondo il nostro ipergarantista che ricorda che il giovedì precedente Poggiolini è stato “assolto” ma per la gioia dei forcaioli nessuna verità processuale potrà cancellare quelle cinematografiche ormai conclamate e quindi Poggiolini rimarrà un mostro conclamato, maledizione che ingiustizia. E così Mattia Feltri riesce a rifilare ai suoi lettori due balle in una.

Anzitutto, e davvero la tempistica appare di difficile comprensione: Poggiolini non è stato assolto pochi giorni fa ma il 25 marzo 2019, e persino i forcaioli del Fatto hanno dato risalto alla notizia, che altri importanti quotidiani hanno sì riportato ma solo il giorno dopo.

E soprattutto: Poggiolini è stato assolto a Napoli nel processo per il sangue infetto, vero, verissimo, come tutti gli altri imputati tra ex dirigenti e funzionari del gruppo Marcucci, al termine di un processo iniziato a molti anni di distanza dai fatti e dopo un lungo rimpallo di competenze territoriali. Ma questa assoluzione mica cancella la sentenza di condanna a 4 anni e 4 mesi (e il sequestro di 29 miliardi di lire, più altri 10 alla moglie) passata in giudicato per le tangenti sulla sanità. Ai lettori del “Buongiorno” questo dettagliuccio è stato omesso.

De Luca non molla, ma il voto di domani può essere decisivo

Spiega un grande elettore del presidente dem della Campania, Vincenzo De Luca, a proposito delle elezioni suppletive del Senato a Napoli di domani: “Tra noi non c’è molto entusiasmo nel sostenere Sandro Ruotolo: non si può chiedere ai capretti di aiutare i cuochi del pranzo di Pasqua”. I capretti sono i deluchiani, e il pranzo di Pasqua è la mancata ricandidatura di De Luca per un nome che lo superi e lo cancelli. Infatti l’elezione di Ruotolo, candidato di un patto tra il Pd, il movimento DemA di Luigi de Magistris, Italia Viva, le Sardine e le galassie della sinistra (con l’eccezione di Potere al Popolo), che ha provato sino all’ultimo minuto a convincere il M5S a far parte dell’operazione, porterebbe argomenti a chi sostiene che si vince solo allargando il “campo largo” del centrosinistra a chi finora non vuole sentire parlare del governatore uscente.

Viceversa, in caso di sconfitta del giornalista, chi avrà la forza di schiodare un De Luca formalmente riproposto lunedì scorso dalla direzione regionale del Pd, mentre i suoi uomini – l’ex capostaff in Regione Nello Mastursi, il capo della segreteria del governatore Bruno Cesario, il presidente della commissione regionale Trasporti Luca Cascone – stanno raccogliendo da quasi un anno le candidature per Campania Libera e le altre liste civiche che faranno da contorno ai dem e ai partiti che ci staranno? E allora tra i deluchiani, un mondo a parte nato nel 1993 a Salerno e allargatosi a tutta la regione seguendo logiche politiche tutte sue e non sempre combacianti con l’interesse del Pd (non è un caso che De Luca e i suoi candidati non abbiano mai utilizzato il simbolo di partito alle Comunali di Salerno), serpeggia la tentazione di propiziare la sconfitta di Ruotolo. Il cui santino elettorale era distribuito ai tavoli della direzione regionale del Pd che ha deciso di offrire il nome di De Luca alle trattative per l’alleanza coi Cinque Stelle e il centrosinistra.

Una ripartenza con stop incorporato. Sia perché proprio quella mattina il M5S ha fatto la prima mossa politica degli ultimi mesi in Campania, proponendo al Pd il nome del ministro dell’Ambiente Sergio Costa, raccogliendo quasi in tempo reale la piena disponibilità di DemA e di Sinistra italiana, e quella sotterranea di un’area dem convinta che con De Luca candidato è altissimo il rischio di correre da soli ed aumenta la possibilità di sconfitta. Sia perché è nota l’insofferenza dei grillini e del sindaco di Napoli verso l’ex sindaco di Salerno: è quasi impossibile anche soltanto avviare il discorso.

La nuova mossa dei pentastellati è di ieri: un’intervista al Mattino con la quale Costa si dichiara disponibile a farsi da parte per la ricerca condivisa di un nome terzo. Che al momento non potrebbe essere che quello del ministro dell’Università, il rettore napoletano Gaetano Manfredi. La cui nomina nel governo Conte, preannunciata a fine dicembre e poi formalizzata il 10 gennaio, apparve in quel momento come la pietra tombale del dialogo tra Pd e M5S, essendo Manfredi il profilo più quotato per mettere d’accordo tutti, con la gioia dei renziani di Italia Viva che avrebbero potuto attribuirsi il merito di aver condotto i primi sondaggi. Ma la politica è l’arte di dimenticare in fretta le incomprensioni.

Ce n’è poi un’altra di mossa, un’idea che serpeggia nei corridoi del Transatlantico: una parte del MoVimento, compresi alcuni dimaiani di peso, sta facendo trapelare la volontà di allearsi con DemA nel caso dovessero fallire le trattative col Pd. Sarebbe abbastanza per condannare De Luca e i dem all’insuccesso in una elezione a turno unico.

Ed è a turno unico, ovviamente, anche l’elezione suppletiva di domani – indetta dopo la morte del professore Franco Ortolani, eletto nel 2018 in quota M5S con oltre il 53% – il cui risultato orienterà il dibattito sulle future scelte per la Campania pure in casa del centrodestra. Forza Italia, il cui candidato ufficiale a governatore è Stefano Caldoro, ha schierato come due anni fa il consigliere comunale Salvatore Guangi. Martedì, Matteo Salvini è stato a Napoli e non ha nemmeno pronunciato il suo nome. Ha invece ricordato che la Lega preferirebbe superare Caldoro e sparigliare le carte con un altro ex rettore, Aurelio Tommasetti. Mentre FdI sta facendo scaldare a bordo campo da mesi Edmondo Cirielli.

Guerra totale tra i 5Stelle sulle alleanze

Nel Movimento dove prima c’era un capo e ora c’è un reggente sono tempi da liberi tutti: perché le anime sono tante ma di struttura vera non ce n’è neppure una. Così quasi tutti dicono quasi tutto, e da un lato è democrazia, dall’altro è confusione in purezza, che poi è quanto si aspettava il fu numero uno Luigi Di Maio quando si è fatto di lato un mese fa. Per questo nella Roma a 5Stelle le arcinemiche Roberta Lombardi e Virginia Raggi se le dicono sulla ricandidatura della sindaca.

Anche se il cuore del ciclone sono gli Stati generali, quel congresso di cui tutti i 5Stelle discutono ma di cui non si sa ancora nulla, le regole, la sede, neppure la data. Perché con l’organizzazione si è partiti male e tardi e si sta proseguendo nella stessa maniera. Ieri la semplice indiscrezione che la tre giorni potrebbe scivolare a luglio, dopo Regionali e amministrative varie, ha provocato una baraonda, e a scatenarla sono stati innanzitutto i dimaiani. Tutti a puntare il dito contro il capo reggente, quel Vito Crimi che dalle parti dell’ex capo Di Maio vedono un po’ troppo autonomo. E comunque lui in serata fa trapelare altro, ovvero che il congresso potrebbe tenersi in almeno due passaggi differenti, il primo a metà marzo, e trasformarsi “in un’assise permanente”. Ma tanto la sostanza quella rimane, va trovato un nuovo capo o almeno una nuova segreteria politica, e soprattutto va deciso cosa sarà e dove andrà il M5S: cioè se e con chi potrà allearsi. Nodo che si complica giorno dopo giorno. Per esempio sul Fatto Irene Galletti, candidata del M5S in Toscana, vicina a Roberto Fico, teorizza che si potrebbe anche andare con il Pd, a patto che rinunci al candidato governatore Giani e ai renziani di Italia Viva. Invece Lombardi sul Messaggero ribadisce che Raggi non deve pensare neppure a ricandidarsi (“è al secondo mandato da eletta”) e che casomai bisogna lavorare ad alleanze con tutti per il Campidoglio, anche con il Pd. E la sindaca, che al bis pensa, eccome, va di dinamite: “C’è chi ama parlare di alleanze politiche, di giochi di poltrone e giochi di palazzo. Personalmente preferisco lavorare per i cittadini”. In serata il suo capo staff Max Bugani. veterano del M5S, fa notare: “Oltre 24mila like al post della sindaca”. Cioè rilancia. Il deputato Francesco Silvestri, referente regionale del M5S, prova a tenere assieme i pezzi: “È importante che Raggi e la sua squadra continuino a lavorare ricevendo il massimo supporto, ma è sbagliato discutere ora di alleanze o corse solitarie”. Ma scappano tutti da ogni parte, nel Movimento dove il senatore ligure Mattia Crucioli ringhia: “Prendo le distanze dalle leadership”. Ce l’ha con i vertici, cioè con Crimi e con il facilitatore Danilo Toninelli, che non decidono se indire o meno un voto sulla piattaforma Rousseau su un accordo con i dem in Liguria. Mentre la candidata Alice Salvatore ribadisce il no ai dem, e cita a sostegno un sondaggio.

È guerra totale, e magari prima di un congresso è normale. Però quando farli, questi Stati generali? Alla Camera un altro ligure, Sergio Battelli, stilla malumore: “Non si può certo aspettare l’estate. Come ci arriveremmo?”. Con molta confusione, quella che prevedeva Di Maio. Voglioso di tornare, da rimedio.

 

Conte aspetta al varco Renzi. Il M5S non vuole lo strappo

Il giorno del dentro o fuori, quello in cui “andrà fatta chiarezza” come scandiscono da Palazzo Chigi, dovrebbe essere mercoledì 4 marzo. Ma prima, già a metà della prossima settimana, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte guarderà negli occhi Matteo Renzi e cercherà di smussare, e in parte esaudire, le richieste vere o presunte dell’ex premier ossessionato dal non esserlo più. “A patto però che Renzi si presenti con spirito dialogante, per confrontarsi sul serio”, dicono da Chigi. In caso contrario, “ossia se si presentasse chiedendo l’abolizione del Reddito di cittadinanza o cose del genere”, nessun piano B o particolare timore, giurano. Conte andrà dritto con il suo copione, che prevede comunicazioni alle Camere sull’agenda di governo da qui al 2023, e due relative votazioni: cioè con la conta per verificare se l’avvocato ha ancora una maggioranza in Parlamento.

Certo, “se arriveranno voti fuori del perimetro di governo, saranno ben accetti”, ammettono. Ma niente pressing sui Responsabili, niente tela da tessere con telefonate o incontri per sostituire Italia Viva. “Conte non fa queste cose, non fa giochetti”, assicurano. E d’altronde, fuori della porta a borbottare, ci sono molti Cinque Stelle di governo, convinti che Conte non debba costruirsi una maggioranza diversa, con ex forzisti, ex dem, ex M5S, ex tutto. “Meglio discutere con Renzi e tenere nella maggioranza Italia Viva, buttandolo fuori gli si farebbe un favore” è la tesi di tanti, dimaiani e non. Anche perché “imbarcare i forzisti per noi sarebbe un bagno di sangue”. E allora meglio sperare che “l’aiutino” non serva o almeno che non porti a nuovi gruppi.

Per questo dal Movimento hanno chiesto a Conte cautela e di fermare operazioni di reclutamento che lo staff del premier nega con forza, ma che fonti del M5S descrivono come reali. Anche se poi lo stesso Movimento è diviso, spesso confuso. Così se certi grillini di governo predicano calma e insistono sull’esigenza di trattare con Renzi per anestetizzarlo, poi c’è il capo politico reggente, Vito Crimi, che picchia di nuovo sull’ex Rottamatore: “Nel momento in cui Renzi fa queste sparate o si mette di traverso su ogni cosa, fa male al Paese. Ha parlato di questo incontro con Conte dicendo che può mettere fine al teatrino, quindi lui stesso ha definito teatrino ciò che ha fatto”. Per poi aggiungere: “Non stiamo a tirare a campare, ci interessa solo l’interesse dei cittadini”. Come a dire che il M5S non si aggrappa alle poltrone.

Parole che però non sono piaciute a parte del Movimento: “Vito va troppo in autonomia e dovrebbe parlare di più con Conte”. Tradotto: dovrebbe essere meno dritto e cercare di riportare il premier più in asse con i grillini e meno vicino al Pd che cannoneggia Renzi. E sono riflessioni in cui ovviamente c’entra altro, c’entra il fatto che Crimi sta cercando di tenersi equidistante dalle varie anime del M5S che litiga su quando e come fare gli Stati generali, cioè il congresso. Ma Crimi proverà comunque a tirare una linea martedì prossimo, in un incontro con i ministri a 5Stelle, incentrato su come gestire il guastatore Renzi e soprattutto il delicatissimo passaggio in Parlamento di Conte. “Il premier non può venire al buio alle Camere, prima del 4 deve avere certezze su cosa farà Iv” è la preoccupazione dei 5Stelle. In questo quadro, il renziano Ettore Rosato fa l’ecumenico: “Suggerisco a Crimi di abbassare la tensione e lasciare che il governo si occupi delle emergenze di queste ore. La prossima settimana discuteremo con serenità dei temi di governo che abbiamo posto”. Ed è chiaro il riferimento al caso Coronavirus, che secondo voci parlamentari potrebbe spingere Iv a scalare la marcia.

Nell’attesa, su Facebook Renzi alterna clava e carezze. “Ho fatto io il primo passo chiedendo un incontro a Conte, perché la serietà viene prima delle ripicche personali”, si autocelebra. Poi ricorda “i 4 grandi temi messi sul tavolo”: lo sblocco dei cantieri, l’abolizione “o modifica” del Reddito di cittadinanza, una “giustizia giusta” e “l’elezione del sindaco d’Italia”. E ripete: se arriverà “un buon compromesso” tutti contenti. “Altrimenti faremo un passo indietro, magari a beneficio dei cosiddetti responsabili” è la velenosa coda di Renzi. Scorpione, sempre.

La dem Borioni abbandona la riunione contro Salini

Un duro scontro tra Fabrizio Salini e Rita Borioni. Con la consigliera in quota Pd che abbandona la sala del Cda Rai e se ne va infuriata, sbattendo la porta. Una scena che descrive plasticamente il duro braccio di ferro tra M5S e Pd sulla tv pubblica. Con il partito di Zingaretti che continua a chiedere un riequilibrio in suo favore, con una direzione di Tg e altro, che però ancora non arriva. Ieri, infatti, doveva essere il Cda con le nomine dei Tg, con l’arrivo al Tg3 di Mario Orfeo (in quota Pd), con lo spostamento di Paterniti a Rainews o all’approfondimento. Nomine saltate di nuovo per la persistenza di un veto del M5S nei confronti di Orfeo. Così si è proceduto alla sola nomina di Marcello Ciannamea (vicino alla Lega) alla direzione distribuzione. Poteva anche essere il Cda delle dimissioni di Salini proprio per l’impossibilità di procedere sul piano industriale, e invece l’ad ha scelto di rilanciare, con un discorso che ha chiamato i consiglieri a fare gruppo. “Abbiamo fatto tanto, molte cose positive e qualche errore”, ha detto l’ad elencando i successi, a partire da Sanremo. “Ma la narrazione che sui media viene fatta sulla Rai è sbagliata. Dobbiamo essere compatti e collaborativi affinché questa rappresentazione cambi”, ha detto l’ad.

Dopo di lui ha preso la parola Borioni, che ha contestato il “va tutto bene” elencando le criticità, a partire dalla multa di 1,5 milioni dell’Agcom (la Rai farà ricorso). Mentre Borioni parlava, però, Salini l’ha interrotta più volte. “Basta, fammi parlare o me ne vado!”, la reazione di Borioni. Detto fatto: urla, musi lunghi e porte sbattute. Tutta cascina nel fieno della destra, Lega e FdI, che s’infilano che è una bellezza nello scontro tra Salini e Pd, ormai giunto al capitolo finale. Marcello Foa, infine, ha giustificato la scelta di Annalisa Bruchi alla direzione del Prix Italia perché “è competente e sa l’inglese”.

“Ma questa non è la tv Un contraddittorio su tutto è impossibile”

Lei è l’autorevole “Bianchina”, lui il battitore libero che va in tv con lo smanicato e i capelli fuori posto. Insieme funzionano, tanto che Carta bianca, il talk show del martedì sera su Rai3 condotto da Bianca Berlinguer, è ormai alla quarta stagione. E Mauro Corona ne è ospite fisso. Eppure nel pomeriggio in cui a Viale Mazzini si diffonde la paura per il Coronavirus – l’azienda ieri, oltreché discutere di nomine, stava ragionando di non mandare gli inviati nei luoghi del contagio così da evitare rischi – l’Agcom contesta in maniera piuttosto surreale proprio uno dei frequenti siparietti tra la giornalista e l’opinionista. Tra i tanti episodi contestati dall’Autorità c’è infatti anche un breve spezzone della puntata del 3 dicembre scorso.

Qui però il mancato pluralismo – di cui dovrebbe occuparsi l’Agcom – non c’entra. La contestazione si concentra su una frase pronunciata da Corona riguardo al Fondo Salva Stati: “Italiani, mettete i risparmi sotto al materasso”. Illegittima, secondo l’Autorità garante: “C’è il rischio di una informazione sommaria, incompleta e parziale in relazione all’approfondimento di tematiche e temi complessi, quali per esempio i risparmi degli italiani, affrontati senza la presenza di esperti o in ogni caso senza contraddittorio o ancora senza adeguato approfondimento”.

Una critica che, parlando con il Fatto, Bianca Berlinguer definisce “incomprensibile”.

E invece l’Autorità spiega così il provvedimento: “Pur avendo la conduttrice stigmatizzato questa affermazione, l’informazione fornita su un tema complesso risulta del tutto sommaria. È stato trattato in maniera non corretta e adeguata un argomento di significativa importanza sul piano politico nazionale, con evidenti implicazioni di forte interesse per i cittadini, rimettendo al commento di un opinionista la valutazione sulle scelte del governo senza alcuna contestualizzazione o rappresentanza di posizione diverse”.

In questo modo l’Agcom sembra stabilire la necessità di un immediato contraddittorio per qualsiasi intervento, non bastando la “stigmatizzazione della conduttrice” ammessa dai commissari nello stesso provvedimento.

E proprio su questo aspetto la Berlinguer è netta: “Sotto il profilo più strettamente televisivo, cioè quello che mi compete, seguendo il ragionamento dell’Agcom ogni commento o uscita improvvisata di un ospite dovrebbe prevedere un contraddittorio, un’opinione alternativa, il parere di un oppositore anche rispetto a una battuta estemporanea. Ma questa non è televisione”.

Anche perché, appunto, la giornalista di Rai3 aveva in effetti contestato subito l’affermazione di Mauro Corona: “Io non la condivido, ma è comune a tanti. Ma stiamo parlando di una battuta. Non avevamo alcuna intenzione né io né Corona di fare ‘un dibattito sul risparmio degli italiani”’.

Con questo sistema si dovrebbe in effetti ripensare completamente la struttura delle stesse trasmissioni, inclusi dibattiti e interviste, con l’Agcom che ne diventerebbe così autore neanche troppo occulto per vigilare su ospiti e conduttori, bilancino alla mano. Impensabile, anche secondo Bianca Berlinguer: “Quanto scrive l’Agcom mi lascia perplessa. È come se io dovessi tenere una squadra di esperti opinionisti da contraddittorio in panchina, pronti ad accendersi alla bisogna. Vuol dire negare il linguaggio e l’essenza stessa di una diretta televisiva”.

L’eterno Mario Orfeo che punta al Tg3: berlusconiano e renziano, adesso tifa Pd

Sembra quasi incredibile, ma le nomine Rai si bloccano e si arrovellano ancora intorno a un nome, quello di Mario Orfeo, che in una Rai sempre più in crisi d’identità e di mission, e sempre più ostaggio dei partiti, svetta come un gigante in mezzo a un mare di mediocrità. E tiene in pugno chi di dovere, in questo caso il Pd, che per reclamare un posto nei telegiornali ha scelto lui, l’ex dg voluto da Matteo Renzi.

Tanto che viene da chiedersi: ma nell’insistere così tanto su Orfeo è il Pd che si sta facendo fregare da Renzi o viceversa? Nel frattempo Orfeo sta lì e se la gode, dallo scranno della presidenza di Raiway, dove è stato confinato dopo la sua uscita di scena da capo azienda. Raiway è la società per azioni che si occupa di gestire le antenne e i ripetitori, quindi che c’azzecca un giornalista che sa tutto di pezzi, titoli, menabò, servizi e notizie? Vai a sapere.

Napoletano, classe 1966, Orfeo inizia a lavorare prestissimo: a 18 anni è già a Napolinotte, giornale locale dove entrò, si dice, grazie ai buoni uffici del nonno, il senatore diccì Ludovico Greco. Suo zio, invece, Vincenzo Maria Greco, era stretto collaboratore di Paolo Cirino Pomicino, l’uomo più potente nella Napoli anni Ottanta. “Mi deve molto, ora quasi non mi risponde al telefono”, ha raccontato qualche tempo fa l’ex ministro del Bilancio a un interlocutore.

La svolta, però, arriva nel 1990 quando, anche grazie alle sue sponde nella Dc, Orfeo approda nella redazione napoletana di Repubblica, a soli 24 anni. Qui si fa talmente apprezzare che, nel 1994, Ezio Mauro lo chiama a Roma, all’ufficio centrale. Nella Capitale continua a ben frequentare: Pier Ferdinando Casini e, di rimando, il di lui allora suocero Francesco Gaetano Caltagirone. Il quale, a sorpresa, nel 2002 lo prende a dirigere il Mattino. Tornato a Napoli, stringe ottimi rapporti con Italo Bocchino e Mara Carfagna, coppia che gli è utilissima per arrivare, nel 2009, alla guida del Tg2, dove il direttore a quei tempi doveva essere nella manica di Gianfranco Fini e Silvio Berlusconi.

Berlusconiano, dunque? Macché. Orfeo è trasversale, bipartisan, multicolor. Si fa concavo e convesso. Però è un gran lavoratore, il classico “culo di pietra”, una macchina da titoli, suggerimenti, intuizioni. Alle 8:30 ha già letto tutti i giornali, compresa la stampa locale. Quasi impossibile sorprenderlo. Caltagirone nel 2011 lo rivuole con sé, alla direzione del Messaggero. Lì Orfeo si smarca dall’etichetta di berlusconiano e torna centrista. Ma va d’accordo con tutti: Monti, D’Alema e Napolitano, che lo nomina commendatore. Nel 2012 viene richiamato di nuovo in Rai, alla guida del Tg1, dopo l’uscita di scena di Augusto Minzolini. E da quella plancia, fiutato il nuovo vento che spira da Firenze, inizia a tessere rapporti col mondo renziano, Maria Elena Boschi in particolare.

Il suo Tg1 va a gonfie vele e con Renzi s’intende a tal punto da esser lui il prescelto per la sostituzione di Antonio Campo Dall’Orto alla direzione generale della Rai, dove resterà dal giugno 2017 al luglio 2018. Un solo anno in cui però fa in tempo a far scappare dalla Rai Milena Gabanelli e Massimo Giletti, e a imporre il contratto multimilionario per Fabio Fazio.

Nel frattempo, da paffutello è diventato smilzo, perdendo 18 kg, si dice, per amore. Aria sempre un po’ scanzonata da ragazzone mal cresciuto, tifoso del Milan, col Pd tornato al governo si è riaffacciato sulla scena.

A Raiway a parlar di antenne si annoia. “Ma non ci sarebbe un bel telegiornale pure per me…?”. Luigi Di Maio si è messo di traverso. “Tutti, ma non lui…”. Vito Crimi sembrava aver ceduto, ma poi tutto si è impallato di nuovo. Se vogliamo, un fallimento. Prima piaceva a tutti, ora solo a una parte. E il tormentone Orfeo continua.

Dal Tg2 alla Berlinguer: l’Agcom fa l’Inquisizione

L’ha fatto davvero. Nel motivare la maxi-multa da 1,5 milioni inflitta la scorsa settimana alla Rai, l’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni ha deciso di mettere bocca sui contenuti giornalistici prodotti dalle sue testate. Nel mirino degli uffici di via Isonzo sono finiti il Tg2 e dieci servizi andati in onda dal gennaio 2019.

L’accusa al telegiornale diretto da Gennaro Sangiuliano, nominato in quota Lega e ora nel mirino del Pd, è netta: “Mancato rispetto dell’obbligo di completezza, imparzialità e obiettività dell’informazione” che genererebbe conseguenze “di ordine erariale”. Il j’accuse, come raccontato dal Fatto, prende le mosse dal reportage mandato in onda il 19 e il 20 maggio 2019, sei giorni prima delle Europee, sulle politiche migratorie adottate dalla Svezia. Il tema “risulta esser stato trattato in maniera univoca, con voci esclusivamente a sostegno della mancata integrazione e dei problemi legati a essa, dunque senza un effettivo contraddittorio”, si legge nella delibera firmata dal presidente Angelo Marcello Cardani. Che accusa la testata di aver riportato “informazioni incomplete e parziali”, volte a determinare “l’orientamento politico” del telespettatore su “un tema rilevante del dibattito pubblico, anche in Italia, in vista dell’imminente appuntamento elettorale”.

Alla gestione di Sangiuliano, la delibera – con l’esclusione di Mario Morcellini che ha votato contro e di Francesco Posteraro, astenuto – contesta diversi altri episodi. In un’edizione del 4 marzo 2019, si legge nel testo contro il quale la Rai è pronta a fare ricorso al Tar (e definisce i rilievi “completamente infondati e gravemente lesivi della propria libertà editoriale e d’impresa”), “si commenta ironicamente” l’intervista di Fabio Fazio andata in onda su Rai1 al presidente francese Emmanuel Macron. Sul quale, riferendo in un’altra occasione del modo in cui Parigi ha affrontato le proteste dei Gilet gialli, “l’editorialista racconta di (…) episodi che hanno messo a nudo il carattere reazionario e in qualche modo repressivo della sua presidenza”. “Giudizi netti, categorici e univoci” che “non sono accompagnati da alcun contraddittorio”, argomenta l’Agcom. Che sottolinea, poi, come nel raccontare l’incontro del 28 febbraio 2019 tra Donald Trump e il leader nordcoreano Kim Jong-un “nell’edizione del Tg2 delle 20:30 il corrispondente afferma che ‘Trump è stato abile’. Eppure, appena mezz’ora prima, lo stesso corrispondente, nell’edizione del Tg1 delle 20, aveva definito il vertice ‘un fallimento’ e una ‘battuta d’arresto’”. Contestata anche l’intervista del 25 gennaio 2019 a Steve Bannon, “presentato come ‘teorico della destra sovranista americana’, senza specificare la ragione, il contesto o la motivazione”. Il fondatore di Breitbart News “è stato capo dei consiglieri della Casa Bianca”, risponde Sangiuliano, anche se aveva lasciato l’incarico nell’agosto del 2017. Invece il servizio del 5 dicembre 2019 sulle elezioni nel Regno Unito “dava conto soltanto del candidato Boris Johnson, senza alcun cenno agli sfidanti e alle loro proposte politiche”.

Poi c’è il fronte italiano. L’Agcom contesta il modo in cui il Tg2 ha raccontato le tappe del tour elettorale di Salvini per le Regionali, in particolare le edizioni “del 6 novembre 2019, del 13, 14, 15 e 17 gennaio 2020 e poi ancora del 6 febbraio 2020”, nelle quali “si lamenta la diffusione di servizi dai toni enfatici e propagandistici in merito alle visite a Ostia, a Tor Pignattara e in Emilia Romagna (chiamata al voto il 26 gennaio, ndr) del leader della Lega”.

Sbilanciato anche il modo in cui il 5 giugno 2019 il Tg2 Post tratta il tema dei minibot: a intervenire è solo il leghista Claudio Borghi e “la rappresentazione è risultata univoca” perché “non sono state illustrate in maniera corretta le diverse opzioni e posizioni al riguardo”. Diverso il caso dell’omicidio del carabiniere Mario Cerciello Rega. Quel 26 luglio, il Tg2 delle 13 “è l’unico dei Tg Rai – si sottolinea – ad attribuire nei titoli e nel lancio da studio e nel servizio, con assoluta certezza, che i responsabili dell’omicidio sono indicati come ‘due nordafricani’”, quando i presunti killer sono due statunitensi. “Li avevano definiti così le principali agenzie e il sito dei carabinieri – ribatte il direttore – e noi già nell’edizione delle 18 avevamo corretto, a differenza di altri Tg dell’azienda”.

Una scudisciata anche a Gad Lerner per la puntata de L’approdo andata in onda il 5 luglio su Rai3 in cui si mettevano in discussione le politiche migratorie del governo senza “possibilità di replica e di contraddittorio”. Che è mancato anche il 30 settembre 2019 al Tg2 che riferiva della “proposta referendaria di Calderoli” e il 3 dicembre quando durante Cartabianca, Mauro Corona è stato interpellato sul fondo salva-Stati. Un cartellino giallo se lo becca anche un programma di intrattenimento come Realiti di Enrico Lucci in cui il 5 giugno scorso il cantante neomelodico Leonardo Zappalà, in arte “Scarface”, diceva di Falcone e Borsellino: “Le persone che hanno fatto queste scelte di vita le sanno le conseguenze”.

Nella delibera l’Agcom si occupa anche di temi che le sono più consueti. Nei notiziari tra agosto 2019 e gennaio 2020, si legge, si è verificata “una costante, reiterata e sistematica sottorappresentazione della prima forza politica presente in Parlamento”, il M5S, che ha avuto “un totale di 21 h 45’ 22’’, pari al 19,99% del totale del tempo di parola”. A fronte del 20,48% garantito alla Lega e al 23.15% del Pd.

Zimbabwe, Italia

Dieci anni fa il premier B. stalkerava il suo uomo all’Agcom, Giancarlo Innocenzi, perché trasformasse l’Autorità garante delle comunicazioni in un Tribunale Politico della Verità (la sua) e multasse la Rai per Annozero di Santoro, Ballarò di Floris e Parla con me della Dandini fino a provocarne la chiusura. Non sapeva che Innocenzi era indagato e intercettato a Trani. Così, il 14 novembre 2009, fu sentito ordinare a “Inox”: “Bisogna concertare che l’azione vostra consenta… sia da stimolo alla Rai per dire ‘chiudiamo tutto’, ma non solo su Santoro: aprite il fuoco su tutte le trasmissioni di questo tipo”. L’Agcom, non avendo quel potere, non si mosse. E persino Mauro Masi, dg berlusconiano della Rai, definì le pretese censorie del premier sui contenuti dei programmi giornalistici “roba che nemmeno nello Zimbabwe”. Il Pd, ovviamente, reagì sdegnato. Ma ora, tramite la stessa Agcom, peraltro scaduta da mesi e in prorogatio in attesa delle nomine, è riuscito là dove B. aveva fallito: una diffida e una multa da 1,5 milioni alla Rai per una serie di vere e/o presunte violazioni di par condicio, contraddittorio, imparzialità, correttezza, completezza ecc. Con 36 pagine di motivazioni che, se non si offendesse il simpatico Stato africano, definiremmo serenamente “roba da Zimbabwe”. O da Minculpop. Infatti l’unico commissario serio, il professor Mario Morcellini, s’è rifiutato di votarle.

Tantopiù che la sanzione arriva proprio mentre il Pd&Renzi, una volta tanto uniti, tentano di riprendersi la Rai sloggiando il dg troppo indipendente Fabrizio Salini e liberando un tg per Mario Orfeo, uomo per tutti i gusti e le stagioni. Ergo l’autoproclamato Tribunale Politico della Verità picchia duro sul Tg2 per cacciarne il salviniano Gennaro Sangiuliano. Poi, per non farsene troppo accorgere, dà una sberla anche a Bianca Berlinguer e a Gad Lerner, senza dimenticare La vita in diretta, Realiti di Enrico Lucci e persino il festival di Sanremo (con la ridicola accusa di “scorretta rappresentazione dell’immagine femminile”, proprio nell’edizione del monologo di Rula). Gli improbabili inquisitori – il presidente bocconian-montiano Angelo Marcello Cardani e i commissari Antonio Martusciello (ex manager Publitalia, deputato FI e sottosegretario di B.), Antonio Nicita (descritto dai biografi come “vicino a Orfini”, e ho detto tutto) e Francesco Posteraro (ex vicesegretario della Camera e soprattutto amico di Casini) – frullano in un gran calderone le vere violazioni della par condicio su cui hanno competenza e le insindacabili scelte giornalistiche che non li riguardano neppure di striscio.

L’Agcom deve misurare gli spazi riservati ai partiti in campagna elettorale e sanzionare gli eventuali squilibri. Infatti depreca la “costante, reiterata e sistematica sotto-rappresentazione della prima forza politica in Parlamento, il M5S”, cui i tre tg dedicano un “tempo di parola” inferiore a quello della seconda (Pd) e della terza (Lega). Poi però s’impiccia nei contenuti di tg e programmi, abusando del suo potere con veline da Minculpop. L’apoteosi è il capitolo dedicato al servizio di Manuela Moreno del Tg2, un anno fa, sui quartieri-ghetto svedesi, dove l’integrazione dei migranti è fallita, la polizia non mette piede e gli islamisti impongono la legge coranica (a proposito di “scorretta rappresentazione del ruolo della donna”). Un caso mondiale, trattato non solo dal Tg2 (con tre servizi che davano la parola anche a un imam), ma pure da Bbc, Cnn, Fatto, Stampa, Repubblica, Corriere, Messaggero, Foglio e Piazzapulita. Secondo i Torquemada de noantri, il Tg2 non doveva occuparsene per “l’imminente appuntamento elettorale europeo”; perché “l’Ambasciata di Svezia” ha protestato (cioè l’oste ha garantito che il vino è buono); e perché “il tema dell’integrazione e delle relative politiche costituiva uno dei principali argomenti di confronto politico” (quindi, per dire, non si parla di mafia nigeriana, sennò qualcuno potrebbe pensare che esistano dei delinquenti anche fra gli immigrati). Altra multa al Tg2 perché il direttore fa “editoriali univoci, nel senso letterale di rappresentare un’unica voce” (la sua: ora l’Agcom spiegherà a Scalfari e Feltri che i loro editoriali devono rappresentare anche le voci di Molinari e Travaglio, e viceversa). E osa financo intervistare Bannon (come tutte le testate del mondo) e parlar male di Macron, notoriamente infallibile. Meravigliosa la censura alla Berlinguer perché, a Carta bianca, Mauro Corona invitò a levare i risparmi dalle banche e nasconderli “sotto il materasso” e lei non organizzò su due piedi il “contraddittorio con un opinionista” pro banche. Strepitosa la critica a Lerner che, a L’approdo su Rai3, mostrò “le torture nelle carceri libiche” e ospitò critiche a Gentiloni e Minniti per l’accordo con Sarraj, ma senza “garantire la possibilità di replica e di contraddittorio dei diretti interessati” (i torturatori? A quando il contraddittorio di Bagarella nei programmi sulla mafia?).
Pare uno scherzo, invece è tutto vero. Ma nessuno si scandalizza, perché il bersaglio principale è il Tg2 “sovranista”. I lettori sanno quanta simpatia nutriamo per Salvini&C.. Ma la libertà di stampa vale per tutti, anzitutto per le minoranze. Chi fosse tentato di dire: vabbè, tanto l’unico che salta è Sangiuliano, si ricordi la frase del pastore Niemöller citata da Brecht: “Prima vennero a prendere gli zingari. E fui contento perché rubacchiavano. Poi vennero a prendere gli ebrei. E stetti zitto, perché mi stavano antipatici. Poi vennero a prendere gli omosessuali, e fui sollevato, perché mi davano fastidio. Poi vennero a prendere i comunisti, e io zitto, perché non ero comunista. Un giorno vennero a prendere me, e non c’era rimasto nessuno a protestare”.