Girl power: a scuola. La rivoluzione parte dal ciclo

Il senso di tutta una graphic novel sta in una domanda: “Perché nei bagni della scuola la carta igienica è gratuita e gli assorbenti no?”. Perché da sempre – a parte qualche cultura precoloniale che non a caso è stata messa a tacere dagli “evoluti” uomini occidentali – le mestruazioni sono considerate un tabù, un “problema” delle donne che addirittura si evita di nominare: “Ho le mie ‘cose’”, “Sono indisposta”, “Ho il marchese”, quasi aspettassimo nobili a cena. E invece è lo stato più naturale del mondo anche se diverso in ogni donna: c’è chi non se ne accorge nemmeno e chi sbarella per il dolore. Abby lo sa bene e, combattiva e giovane femminista qual è, decide di farne una battaglia: il ciclo mestruale “esiste” e “il sangue è normale”. E così ingaggia, più o meno coercitivamente, le sue tre amiche Sasha – colei cui il primo ciclo è venuto all’improvviso a scuola sui pantaloni bianchi e da quel giorno è chiamata “Bloody Mary” –, Brit e Christine. La loro sarà una sfida di civiltà. Kareen Schneemann, autrice e ingegnera (usiamola, la “a”, non morde), e Lily Williams, illustratrice, hanno scritto È tutto un ciclo dopo aver avviato la webcomic “Mean Magenta”. La natura femminile continua ancora a far paura (e “schifo”): in molti Paesi del mondo, Italia compresa, gli assorbenti sono tassati come un bene di lusso. Nelle scuole americane si acquistano alle macchinette. Da noi, spesso, manco esistono le macchinette nelle scuole.

È tutto un ciclo – K. Schneemann, L. Williams, Pagine: 334, Prezzo: 15,50, Editore: Il Castoro

Un gatto in fuga dalla caverna platonica piena di croccantini

Tuono Pettinato, alias Andrea Paggiaro, è uno di quei fumettisti che di solito fanno cose buone, alcune volte ottime, ma siamo ancora in attesa del suo capolavoro. Il suo ultimo volume, Chatwin, aveva le caratteristiche giuste: dopo anni a fare biografie sintetiche, spiritose, brillanti di personaggi famosi (da Kurt Cobain a Garibaldi), Tuono Pettinato si cimenta con una misura più lunga, una storia più complessa. Un romanzo di gatti, pensanti e tormentati, che a tratti offre degli sprazzi di genialità. Il gatto Chatwin inizia il suo percorso di emancipazione dalla tranquilla vita domestica, tutta croccantini e pennichelle, perché animato da un desiderio di conoscenza, con la inevitabile inquietudine a essa abbinata. La prima parte del libro è quindi una uscita dalla caverna platonica, la scoperta che quella che Chatwin considerava la realtà è invece una sua pallida imitazione, una sequenza di ombre tanto rassicuranti quanto inutili. Poi questo impianto filosofico scompare, per tutto il resto del libro, e riappare soltanto nelle ultime – poetiche – pagine. In mezzo una infinita sequenza di incontri ed eventi che sembra un frullato di Sulla strada di Kerouac (c’è anche un gatto omonimo), Pinocchio e Divina Commedia. Il lettore è costretto a leggere una lista sterminata di nomi di gatti, di descrizioni che vorrebbero essere spiritose, di picchi emotivi che non emozionano. Peccato, perché l’idea non era male e in varie pagine Tuono Pettinato dimostra di avere molto da dire, e niente di banale. Ma non ha avuto il coraggio di scegliere la strada del fumetto filosofico, l’ibridazione con l’avventura on the road però non ha funzionato.

Chatwin Tuono Pettinato – Pagine: 160, Prezzo: 19, Editore: Rizzoli Lizard

 

Valli piemontesi: detective-giardiniere risale da una foglia all’assassino

 

Guido è un maturo giardiniere che ha il talento del naso. I profumi erano il suo lavoro in Francia, a Parigi. Uno di quegli “alchimisti” che decidono le fragranze di successo. Poi è successo qualcosa tra lui e Claire, la sua donna (meglio non anticipare nulla) e Guido è tornato nella natìa valle piemontese, quella che digrada verso la Valle d’Aosta, nel nord della regione. Pochi abitanti, perlopiù arcigni e sobri anziani; la natura crudele d’inverno e il buio delle lunghe notti; la pioggia che non smette mai.

Siamo al cuore della piemontesità di provincia: “In mancanza di qualsiasi divertimento, parlare dietro agli altri è l’unico diversivo da una vita di lavoro. Lavoro che non prevede pause, oltre alla messa della domenica mattina e le veglie nelle sere d’inverno, nelle stalle, scaldati dal calore degli animali. Anche lì però gli uomini intagliano il legno o riparano gli attrezzi, e le donne cuciono. Le mani in mano, mai”. È la civiltà contadina di un altro secolo. Le colpe degli altri, con cui Linda Tugnoli, attrice e regista di documentari, fa il suo esordio noir è infatti ambientato in un non meglio precisato anno del Novecento. Senza telefonini e wi-fi. Il romanzo si apre con Guido che trova il cadavere di una ragazza nel gazebo di una villa disabitata. Lui si trova lì per un sopralluogo nel giardino che dovrebbe sistemare. La donna è stata ammazzata e c’è un indizio decisivo: una foglia Ginkgo Biloba, albero raro che in quel giardino non c’è. Di villa in villa, di visita in visita, il giardiniere-detective risale a una dolorosa storia finita malissimo. E nella sua indagine fa i conti sia con il suo passato familiare sia con quello francese. Tra piante e fiori descritti in maniera minuziosa. Un giallo floreale, decisamente.

 

Le colpe degli altri – Linda Tugnoli, Pagine: 379, Prezzo: 16,90, Editore: Editrice Nord

Quel folle volo di Ulisse incanta ancora

La curva della prua c’è ancora: il legno di leccio della nave più antica del mondo ha solcato fiera il mare dei millenni per giungere fino a noi. Il vivo scheletro di questo corpo navigante risale al V secolo a. C. e – direttamente dal museo archeologico di Gela, dove per quei misteri irrisolti non era mai stata esposta – con la sua perturbante maestosità accoglie i visitatori nella prima sala dell’imperdibile esposizione Ulisse. L’arte e il mito, ai Musei di San Domenico di Forlì (a cura di Francesco Leone, Fernando Mazzocca, Fabrizio Paolucci e Paola Orefice).

È ecumenicamente acclarato dai paleontologi che gli scheletri sono come capsule del tempo, capaci di riferire a distanza di millenni di vite mai esperite, mai direttamente osservate. Dunque è questo il grande fulcro della presente mostra: lo spettacolo dell’osservazione. Qui, il mito di Ulisse, come un fascio di luce che attraversi un prisma di calcide, si rifrange in tutte le sue declinazioni, ed è raro che un’esposizione si trasformi in un vivo teatro.

Saliti a bordo della nave, incontriamo tutti i personaggi dell’Odissea: si inizia dalle divinità, ben rappresentate in consiglio nell’arazzo Assemblea degli dei olimpici di Rubens; singolarmente da antiche sculture romane e greche di Giove, Atena, Demetra, Apollo, Afrodite, ma anche di Circe, Polifemo, delle sirene e soprattutto di Ulisse. Scene e personaggi della sua epopea istoriano i vasi a sfondo rosso e figure nere (e viceversa) della manifattura attica, così come sono scolpiti nei bassorilievi di urne etrusche.

Alle sirene è poi dedicato un focus appropriato: dalla prima iconografia (metà donna e metà uccello), passando per la versione bicaudata (con due pinne separate) a quella che infine tutti conosciamo, così affabulante ed eterea nei dipinti ottocenteschi di Giulio Ariste Sartorio, Sirene (o Abisso verde), o Max Klinger, Tritone e Nereide. Passando per la traduzione dantesca di Odisseo – dove non è più colui che ritorna, ma è l’homo novus che intraprende il viaggio verso la conoscenza – e la lettura più moralizzata dipinta sui cassoni del ’400, è proprio nel corso del Romanticismo che il racconto di Ulisse rifiorirà grazie alle rappresentazioni di artisti come François-Xavier Fabre e Francesco Hayez, di cui possiamo ammirare una grande tela su Laocoonte, e un seduttivo nudo di Aiace di Locride. Infine, dipinti di Marc Chagal e Carlo Carrà, così come un espressivo Ulisse di De Chirico, nella cui opera pulsa la luce dei miti greci, raccontano la fortuna di Ulisse nel ’900.

Ulisse. L’arte e il mito Forlì, Musei di San Domenico, fino al 21.6

C’era una volta in America: il football

“Questo non è il pianeta Terra” disse Cone alla compagna. “Questo è l’inferno”. Ma non lo era. Era soltanto Odessa. (…) Nel 1982, grazie ai trentasette morti ammazzati nella contea di Ector, Odessa si conquistò l’invidiabile primato di città con il più alto tasso di omicidi del paese. (…) Un anno più tardi Odessa salì di nuovo agli onori della cronaca quando qualcuno commise il madornale errore di accusare Leamon Ray Price, un evaso dell’Alabama, di aver barato durante una partita a poker. Price, offeso dall’accusa, se ne andò in bagno e ricomparve poco dopo sparando all’impazzata con la sua trentotto. Si barricò dietro una libreria. (…) Quando giunse sul luogo, l’ispettore Jerry Smith si trovò di fronte una scena da Far West (…). Price si diede alla fuga lasciandosi dietro due morti e due feriti. Commise l’errore fatale quando tentò di intrufolarsi in una casa dall’altro lato della strada. Il proprietario, spaventato dal rumore, fece ciò che ritenne più appropriato: estrasse la sua pistola e lo freddò.

È una pagina di Friday Night Lights (Una città, una squadra, un sogno) di H.G. Bissinger. La copertina (tre giocatori di Football statunitense si tengono per mano), il titolo, l’epoca e il titolo allontanano dalla realtà: quello di Bissinger è un grandissimo saggio, o un articolo di grande cronaca lungo 400 e oltre pagine, crudo nella sua essenza, giocato su tonalità bianche e nere senza dover ricorrere al “colore” per stupire.

Pochi gli aggettivi. Poche le metafore. Poche le concessioni al lettore, non esistono alterazioni per sedurre, ma solo la rara capacità del narratore di scovare un epicentro, anzi l’epicentro, per poi affondare in tutte le stratificazioni della società e tornare al probabile punto in cui tutto ebbe inizio, o il “c’era una volta” rovesciato. Per questo, nel 1989, Bissinger è andato a vivere, per un anno intero, in una piccola città sperduta al centro del Texas, la famigerata Odessa, circa 100 mila abitanti e un tasso di criminalità spaventoso.

A Odessa c’è morte, povertà, razzismo, crisi, solitudine, droga, alcool già da minorenni, ma un unico momento di unione: la squadra liceale di football, l’orgoglio trasversale, o come spiegano gli stessi abitanti, “l’unica ragione di vita”, tanto da raggruppare migliaia e migliaia di persone per ogni match, da catalizzare l’intera settimana in attesa del venerdì sera: due ore di sospensione, di endorfine fondamentali per l’esistenza, in cui si incrociano le speranze dei ragazzi, dei genitori versi i figli, le frustrazioni per chi ha fallito, le recriminazioni, le giustificazioni rivolte a se stessi e alla società intera. E Bissinger affonda nella loro realtà, analizza Odessa, ma parla degli Stati Uniti nella loro complessità, utilizza lo sport come vetrina, alterna la tensione dello spogliatoio con l’azzeramento mentale fuori dallo stesso. In parte è come J.R. Moehringer quando ha scritto il capolavoro su Agassi (Open). Moehringer ha nel curriculum un Premio Pulitzer; anche Bissinger ne ha vinto uno: per il giornalismo investigativo. E con questo libro si capisce il perché.

Friday Night Lights. H.G. Bissinger, Pagine: 407, Prezzo: 20, Editore 66thand2nd

“Hunters”, i nazisti non muoiono mai. Neanche nell’America contemporanea

C’è una frase che viene ripetuta due volte nella prima, lunghissima puntata di Hunters (90 minuti: praticamente un film a sé). La pronuncia all’inizio Biff Simpson, un nazista che si è ricostruito una vita più che rispettabile negli Stati Uniti. Più avanti la ripete Meyer Offerman, il milionario ebreo interpretato da Al Pacino che comanda la truppa dei Cacciatori. La frase è molto simile all’aforisma erroneamente attribuito a Platone con cui inizia il film di Ridley Scott Black Hawk Down. Qui recita così: “Solo i morti conoscono la fine della guerra”.

New York, 1977. A tre decenni dalla fine della Seconda guerra mondiale il conflitto, a quanto pare, non è ancora terminato. Il giovane Jonah lo scopre quando la nonna Ruth viene uccisa in casa sua. A spararle non è stato un ladro ma un ex comandante nazista che in America ha aperto un negozio di giocattoli: Ruth, un’ebrea sopravvissuta ai campi di concentramento, gli stava alle costole insieme al gruppo di Cacciatori messo insieme da Offerman. Hunters (da oggi su Amazon Prime) parte da qui e va oltre. I nazisti nascosti sotto mentite spoglie negli Stati Uniti non sono persone qualunque: sono politici influenti, musicisti famosi, scienziati della Nasa… E hanno un progetto piuttosto ambizioso, quello di creare oltreoceano il quarto Reich.

Qualcuno noterà dei parallelismi tra l’America di fine anni Settanta, “infiltrabile” dai nazisti, e l’America di oggi. Certo il tema non è particolarmente originale: l’eterna lotta fra il Bene il Male, in cui il Bene non è del tutto bene (le atrocità commesse da un individuo ne giustificano l’omicidio?) e il Male è proprio malissimo. Il modo di trattarlo, invece, è inconsueto. La serie creata da David Weil, lui stesso nipote di una sopravvissuta all’Olocausto, è un pastiche che mescola scene di violenza più che scioccanti, toni da commedia e grafiche da fumetto, con abbondanti citazioni dai film di Tarantino (Bastardi senza gloria per la trama e Pulp Fiction per la colonna sonora). Ad alcuni Hunters piacerà molto mentre altri la odieranno: più improbabile che lasci indifferenti.

 

“La figlia oscura”, arriva un’altra genialata della Ferrante

Mentre va in onda con successo su Rai1 Storia del nuovo cognome, il secondo capitolo dell’adattamento di Saverio Costanzo della celebre saga L’amica geniale, un altro romanzo di Elena Ferrante, La figlia oscura, (e/o, 2006), sta per essere adattato in immagini, questa volta negli Stati Uniti dove da tempo è scoppiata una vera e propria Ferrante Fever, che ha portato la misteriosa scrittrice a essere inserita nel 2016 dal Time tra le 100 persone più influenti al mondo. A dirigere la trasposizione per il cinema sarà l’attrice Maggie Gyllenhaal, che per il suo debutto come regista ha scelto un cast stellare formato da Olivia Colman, recente vincitrice del premio Oscar per La favorita, Dakota Johnson, Jessie Buckley e Peter Sarsgaard. Il thriller psicologico vede in scena Leda, un’insegnante di letteratura inglese divorziata, che si concede una vacanza al mare quando le due figlie raggiungono il padre in Canada per completare gli studi e si sente presto più libera e leggera. In seguito all’incontro con Nina, una giovane madre disposta a cambiare la sua vita, riaffioreranno i ricordi di Leda sulla propria maternità e i traumi del passato. Maggie Gyllenhaal intanto interpreta la madre di Elvis Presley in un biopic di Baz Luhrmann.

Sono iniziate le riprese di Bastardi a mano armata, un thriller diretto da Gabriele Albanesi e interpretato da Marco Bocci, Fortunato Cerlino, Peppino Mazzotta e Maria Fernanda Candido e sceneggiato dal regista con Luca Poldemengo e Gianluca Curti, ispirandosi al cult movie Vacanze per un massacro diretto nel 1980 da Fernando Di Leo. Prodotto da Minerva Pictures con Rai Cinema, racconta la storia di un criminale appena uscito dal carcere che raggiunge uno chalet di montagna per recuperare una refurtiva nascosta, prendendo in ostaggio i proprietari.

“Mine vaganti”: buona la seconda

Per chi abbia visto al cinema quel capolavoro di candore che è Mine Vaganti (2 David di Donatello, 5 Nastri d’argento, Premio Speciale al Tribeca di NY) sarà un atto dovuto e insieme un piacere assistere alla sua riduzione teatrale, che è giunta a Roma al teatro Ambra Jovinelli nel decimo compleanno dall’uscita del film.

Non era di certo facile per Ferzan Ozpetek (al suo debutto alla regia teatrale) dare nuova forma e nuova vita alla storia di Tommaso e della sua famiglia così amata dal grande pubblico. Era solo una la strada da percorrere per restituire l’incanto dell’atmosfera, le emozioni così umane e quel tocco di naïveté che costituiscono la firma del regista turco, che ha trovato in Italia il suo genius loci: spogliare, denudare, ridurre all’osso. E puntare sulla parola. Inoltre, ha intelligentemente (e per forza di cose) cambiato il tempo della narrazione. A raccontare la storia del suo coming out con i parenti è lo stesso Tommaso (interpretato da Arturo Muselli con composta ingenuità) a distanza di qualche anno, quando cioè è già stato superato e ben digerito, attraverso un flusso di flashback in cui sfilano rapide istantanee di vita.

Accompagnate dalla medesima colonna sonora – musiche ora pizzicate e lievi, ora larghe e intense –, ritroviamo sul palco le scene più eloquenti e le frasi più paradigmatiche, talmente impresse nella memoria del pubblico da essere attese, finanche recitate all’unisono con gli attori. Ritroviamo soprattutto l’innesco della storia, l’equivoco di fondo tra Tommaso e il fratello Antonio (cui Giorgio Marchesi conferisce il giusto carisma sfuggente), che anticipa Tommaso e si dichiara omosessuale alla famiglia per primo, andando via di casa e lasciandolo in mezzo alla bufera. Da qui, si dipanano i quadri più paradossali ed esilaranti – che raccontano esasperandola la vergogna per la notizia che si è già sparsa in tutto il paesino –, che vedono protagonisti gli increduli genitori, l’ottima Paola Minaccioni e un Francesco Pannofino un po’ troppo in levare (forse voleva strafare da mattatore), e la saggia nonna interpretata da Caterina Vertova con esperienza e soavità.

L’acme di ironia e commozione si raggiunge con l’arrivo in casa degli amici di Tommaso, che generano a cascata una serie di equivoci, sketch e fraintendimenti grotteschi e perciò irresistibili sul binomio sempre vivido essere/apparire. Tra loro, spicca Francesco Maggi (Andrea sulla scena), la cui toccante spontaneità riempie la scena. Ma il vero colpo di genio è la regia dinamica (forse vagante?) dello stesso Ozpetek. Con un gioco sapiente dello spazio, utilizza tutto il palco per le scene corali; piccole porzioni di lato illuminate solo da una luce fissa quando invece il personaggio è da solo; soltanto il proscenio quando Tommaso è nel futuro con il compagno Marco (interpretato dal magnetico Luca Pantini) o quando parla con il pubblico in sala; e la sala intera quando alla storia partecipiamo anche noi. Sottile e intelligente, si legge la firma di Ferzan tra colore e folklore.

Roma, Teatro Ambra Jovinelli, fino al 3 marzo; poi in tournée fino al 5 aprile a Salerno, Vicenza, Verona, Firenze… Mine vaganti Di Ferzan Ozpetek Con Pannofino, Minaccioni e altri

Tocchi di Salinger per illuminare le donne e Berlino

Un quarto d’ora di scrittura al giorno non fanno un autore, ma aiutano a “proteggere il santuario”, parola di J. D. Salinger. E se son rose fioriranno, si potrebbe prosaicamente aggiungere laddove il santuario è chiaramente il talento.

È questa una delle frasi che meglio restano impresse dalla visione di My Salinger Year, il film designato ad aprire, ieri sera, la 70ª edizione del Festival di Berlino, la prima sotto la direzione artistica di Carlo Chatrian. Tentando di apportare una mutazione all’ormai stanca kermesse nell’era post Kosslick (ma il lavoro sarà graduale e i frutti ancora tutti da assaggiare), il neo direttore italiano è partito dalla scelta di inaugurare con un titolo dalla sezione Berlinale Special Gala, evitando di “intaccare” un concorso in cui crede molto.

La commedia di formazione diretta dal canadese Philippe Falardeau gli è dunque parsa la scelta meno rischiosa: un’operetta in pieno spirito “feel good”, ambientata nella seducente New York letteraria anni 90, interpretata da due attrici fra il cult (Sigourney Weaver) e il cool (Margaret Qualley, già osannata in C’era una volta a Hollywood di Tarantino) e che, partendo dal punto di vista femminile, s’intona con la par condicio del regista maschio su un romanzo autobiografico di un’autrice (Joanna Rakoff) che fa perno su personaggi female. Certo è che il 52enne cineasta del Quebec già candidato all’Oscar per il delizioso Monsieur Lazhar nel 2011 non è Scorsese, ma neppure Villeneuve – giusto per rimanere in terra quebecoise – che magari col suo remake di Dune aprirà Cannes o Venezia. Il suo racconto in prima persona dell’aspirante giovane poetessa Joanna (Qualley) incaricata dall’arcigna agente letteraria Margaret (Weaver) a farle da segretaria rispondendo “per protocollo” alle lettere dei fan dell’anziano “suo cliente” Salinger, ha elementi d’accostamento a Il diavolo veste Prada, con la sostanziale differenza di un cambiamento di segno nell’antagonista che contribuisce al Bildungsroman di essere tale. D’altra parte dove sarebbe Salinger senza Il giovane Holden, romanzo formativo par excellence? E il grande scrittore, come è giusto che sia, resta invisibile o semi-visibile: la sua presenza/assenza s’aggira come spirito guida a tutelare tutti gli scrittori o aspiranti tali. E allora ben vengano i fantasmi in un festival che celebra quell’arte di ombre e luci in movimento chiamata Cinema, e ben venga Federico Fellini che anche la Berlinale celebrerà proprio oggi con un gala dedicato al restauro de Il bidone grazie alla Cineteca di Bologna. Il maestro “centenario”, forse, incoraggerà dall’alto i due film italiani ai nastri di partenza per la gara all’Orso d’oro: Volevo nascondermi di Giorgio Diritti e Favolacce dei gemelli Damiano e Fabio D’Innocenzo. Due opere accomunate anche da un protagonista di garanzia certificato e pluripremiato come Elio Germano.

Pelù va in tour col nuovo album: “Qui mi diverto, altrimenti meglio andare a zappare”

Esce oggi Pugili fagili, ventesimo lavoro di studio tra carriera solista e dei Litfiba. “Ho collaborato con Luca Chiaravalli e si è creato uno scontro – racconta il rocker – lui cercava di portarmi verso l’elettronica mentre io spaziavo tra metal, punk, rock. È un album nel quale cerco di spaziare in ogni genere musicale; ci sono anche due collaborazioni con Sarcina e Appino degli Zen Circus. Volevo fare un degno festeggiamento di quarant’anni di carriera: alla mia età o finalmente ti diverti o è meglio zappare l’orto”. Piero dopo un giro negli store (prima tappa a Firenze il 23 febbraio) porterà Pugili fragili in tour: attualmente sono confermate le date del 10 luglio (Marostica Summer Festival), 19 (Oversound festival) e 19 agosto (Festival I colori dell’olio). “Sarà un live per nulla autocelebrativo, io festeggio i difetti. E, soprattutto, vorrei portare avanti il mio impegno per l’ambiente: nel disco il primo e l’ultimo brano (Picnic e Caligola) affrontano questa emergenza. Devo ringraziare i miei genitori che mi hanno insegnato a raccogliere plastica e a fare passeggiate”. Nell’album spicca Nata libera, una canzone sulla violenza delle donne: “Vorrei che ci fosse un impulso in politica e si creassero associazioni per la tutela dei maschi quando sbandano, quando diventano violenti. Porto una fascia rossa al braccio per non dimenticare la violenza che le donne subiscono”. Ultima polemica su Matteo Renzi e il risarcimento: “Sapevo che me l’avrebbero chiesto ed ecco la risposta”. Si slaccia la camicia e appare una scritta sul torace: “No comment”.