Paul senza patria

Un secolo fa Paul Celan nasceva a Cernauti, oggi Cernivci. Il capoluogo della Bukovina ha avuto vari nomi a seconda della componente etnica al potere: asburgica, rumena, russa e infine ucraina. Gli ebrei non hanno mai avuto potere, ma dopo il crollo dell’Urss Cernivci ha dedicato al grande poeta un busto, una via e un festival di fine estate, il Meridian. Il ribollente minestrone di popoli si era intanto semplificato appiattendosi sulla componente ucraina in un borsch slavato.

La prospettiva multietnica è fondamentale. Celan ha manifestato talento linguistico fin dalla scuola e amava tradurre. Era negato in matematica e non so quanto tenesse conto delle date: oltre che un secolo dalla nascita è passato mezzo secolo dalla morte, avvenuta buttandosi nella Senna a Parigi, verso fine aprile 1970. Il 12 maggio si è celebrato il funerale e la sepoltura nel cimitero di Thiais, dove si trova un altro scrittore ebreo, orfano austroungarico, Joseph Roth. La volontà di morire deve essere stata forte: Celan è cresciuto nuotando nelle acque del fiume Prut.

Per farsi un’idea della sua vita ci sono Paul Celan. Biografia della giovinezza (Giuntina) di Israel Chalfen e la cronologia del volume di liriche nei Meridiani (Mondadori) a cura di Giuseppe Bevilacqua. Bevilacqua conosceva personalmente Celan ed è il suo principale studioso. Lascia perplessi la sua versione della più nota lirica celaniana, Fuga della morte. Fin dall’incipit dove il “latte nero” diventa “negro”.

Gli studenti dei Paesi di lingua tedesca lo imparano a scuola con buona pace del divieto adorniano sulla poesia dopo Auschwitz. I genitori di Paul, Leo e Fritzi, sono morti nei lager. Lui è sopravvissuto a un campo di lavoro. Con loro finisce la resistenza di Celan nei confronti della dimensione ebraica, una forma di ribellione all’autorità paterna. Inizia il senso di colpa per non avere assecondato il padre nei suoi progetti di emigrazione in Sudamerica e non avere costretto lui e la madre a lasciare la casa nel ghetto nell’imminenza del rastrellamento. “Tutti i poeti sono ebrei”, arriverà a scrivere citando la Cvetaeva. E la sua ultima parola pubblicata sarà “Sabbath”. Così si conclude la poesia datata 13 aprile 1970, I vignaioli.

Su Celan ha pesato l’accusa di plagio da parte della moglie del poeta ebreo francese di lingua tedesca Yvan Goll. La comunità letteraria parigina ha difeso Celan. A partire dal Gruppo 47, con gli intellettuali tedeschi aveva un rapporto più difficile anche per l’attenzione che ha messo sul genocidio. Si è inserito nella vita artistica parigina, ma ha sempre sofferto la perdita della patria, rimasta viva solo nella Muttersprache, la lingua tedesca imparata dalla madre. Per questo non l’ha mai abbandonata benché fosse la lingua degli assassini e padroneggiasse francese e rumeno. Il rapporto con Ingebor Bachmann, desiderosa di uscire dall’ambiente dov’era fiorito il nazismo, trova sfogo letterario nel romanzo di lei Malina e in alcune liriche di Celan. In particolare Corona: “Noi ci amiamo come papavero e memoria,/ noi dormiamo come vino nelle conchiglie”. Helmut Böttiger racconta il loro dolente amore in un libro edito da Neri Pozza, Ci diciamo l’oscuro.

Celan sposa Gisèle Lestrange e avrà da lei un figlio, Éric. Somiglia a Paul e ci siamo incontrati a Cernivci. Era la prima volta che metteva piede qui. Tra il quartiere ebraico, il cimitero semiabbandonato e la grande sinagoga trasformata in cinema, gusci svuotati restituivano il rumore delle preghiere e delle feste ma anche degli spari e degli ordini. Quel mondo sopravvissuto solo nei versi sembrava a Éric tanto più prezioso mentre nella parte orientale del Paese infuriava la guerra. Éric giocava con una moneta, l’inflazionata grivna, facendosela roteare tra le dita e mi ha detto di lavorare come illusionista in Francia. La multietnicità declinata al presente crea conflitti, al passato rimpianti e letteratura.

C’è posta per Nenni, Pertini e i socialisti

Succedeva ancora nelle vecchie case, magari di campagna, di ritrovare un baule pieno di carte, di lettere, un intero epistolario… È risuccesso nel 2017 alla nipote di Pietro Nenni, Maria Vittoria: un valigione dimenticato chissà dove in tanti anni di vita avventurosa che racchiudeva, nientemeno, il carteggio fra due protagonisti del socialismo, dell’antifascismo, della prima democrazia repubblicana lungo 53 anni: da una letterina del 1927 che riguarda la fuga di Filippo Turati promossa spericolatamente da Sandro Pertini e altri, complice come autista un giovane Adriano Olivetti, e poi altri in motoscafo da Savona alla Corsica e quindi alla Francia all’ultimo biglietto di auguri a Nenni ormai vicino a morire, il giorno di Capodanno del 1980.

Una montagna di lettere, telegrammi, biglietti, integrati dalle risposte rintracciate presso l’archivio della Fondazione Turati-Pertini. Scomparso il Partito socialista, meno male che ci sono attive alcune sue importanti fondazioni – Turati, Kuliscioff, Nenni, Brodolini, Modigliani, Buozzi, Matteotti, ecc. – a tener viva la storia e L’anima socialista titolo di questo appassionante, e passionale, libro pubblicato da Arcadia, a cura di Antonio Tedesco e Alessandro Glacone.

In mezzo ci sono gli anni, durissimi, dell’esilio di entrambi in Francia, quello del ritorno precario in Italia, col compagno Sandro che sfiora spesso la morte, vive con Saragat la prigione a Regina Coeli, salvati con un colpo di mano da film dagli eroi socialisti della Resistenza romana, il giovane giurista Giuliano Vassalli, il “maggiore rosso” Peppino Gracceva e il medico delle carceri Monaco. Nenni, dalla nave che lascia Ponza dopo il 25 luglio, intravede col binocolo l’antico compagno di lotte sindacali a Forlì nello sciopero generale contro l’intervento italiano in Libia, Benito Mussolini, che, arrestati dal Savoia, invece arriva. Lettere dalle quali sgorga una amicizia veramente fraterna (anche con Saragat a lungo), cementata dal fuoriuscitismo e dalle galere e anche dalla profonda diversità dei caratteri, dei comportamenti. Sono gli anni in cui Sandro, al confino di polizia, disconosce la vecchia madre la quale ha osato chiedere per lui la grazia al Tribunale fascista. Le lettere più interessanti sono quelle successive alla caduta del mussolinismo con un Partito socialista ridotto a zero. Sono loro a raccogliere i resti dell’organizzazione dedicandosi, indirettamente e non, alle prime “brigate Matteotti”. Pertini va solo a Milano, sparacchia raffiche di mitra sotto la Prefettura di corso Monforte dove ritiene che soggiorni Umberto II. Nenni, quando lo apprende, si mette le mani nei radi capelli: “Il solito Sandro!” In quelle ore (mi raccontò Italo Pietra, trentenne comandante delle brigate partigiane dell’Oltrepò) l’inarrestabile Sandro ha fatto togliere e portare all’obitorio i cadaveri deformati da calci e pugni di Mussolini e della Petacci e appesi in Piazzale Loreto: “Vergogna, vergogna! Antifascisti dell’ultima ora!”.

Al primo Congresso del Psiup un partito con tante, troppe anime che alle Amministrative del ’46 ha superato il Pci, ma sul frontismo è spaccato in due e Pertini con Ignazio Silone, con una piccola corrente si oppone al correntone “fusionista” di Nenni e tanti altri, alleandosi ai “giovani turchi” guidati da Italo Pietra, Vassalli, Zagari e alcuni giovanissimi di matrice trotzkista come Formica e Ruffolo. E pareggiano coi filo-Pci. Ma Nenni, purtroppo, non cede di un millimetro. La loro sarà una scissione “da sinistra” contro l’ostinato frontismo di Nenni che poi se ne pentirà tutta la vita. Dice no alla mozione firmata Pieraccini, Foa, Lombardi sostenuta da Pertini per liste separate. È il massacro socialista del Fronte Popolare. Nenni non scrive per cinque anni una nota di diario e quando ricomincia, annoterà una frase drammatica del tipo: giornalista sono nato, giornalista sono stato, giornalista sarei dovuto rimanere.

Pertini è sempre contro “la deriva correntizia”. Nenni apre ai cattolici. Dopo Budapest riaccoglie volentieri i “giovani turchi” divenuti la sinistra di un Psdi clientelare e governativo, mentre Pertini sarebbe restio. Fase difficile fra i due, di silenzio epistolare. Poi Sandro ha di nuovo un ruolo importante quale presidente della Camera che svolge con decisione e prestigio. Rammaricato semmai di venire sacrificato al compromesso Dc-Pci per far posto a Ingrao. Gli anni 70 sembrano a Nenni tristi, riflette “con malinconia” sui 70 anni della Liberazione. Viene candidato al Quirinale e però non riesce mai. “Plebeo sono nato, plebeo sono restato”, nota. Nel ’76 lascia il posto proprio a Sandro, lui che è stato il più vero fautore dell’alleanza coi cattolici. Pertini lo accusa anzi di aver sostenuto in realtà Antonio Giolitti. Forse è vero. Avanzano anni tragici. E Sandro, compagno di tante lotte, emerge come un vero eroe, assai più che come un “generoso combattente”. Un eroe che si pone quale primo difensore delle istituzioni, del Parlamento, della Repubblica democratica, contro le tante stragi fasciste, contro i tanti attentati e rapimenti (il caso Moro) delle nefaste Br. Infine Craxi. Di nuovo il dissenso fra i due: positivo Nenni come su tutto il gruppo dei cinquantenni, negativo Pertini. Che però ha il coraggio di incaricare, dopo Spadolini, per il governo del Paese. Poi il sipario finale su di un carteggio fra due giganti, diversissimi fra loro, della politica e della moralità in politica. Una storia politica e umana forte, intensa, da combattenti.

Muezzin ferito in moschea, la polizia: “Non è terrorismo”

London Central Mosque a Regent’s Park, primo pomeriggio di ieri. Il muezzin, 70 anni, si prepara per Salat al- ‘asr, la preghiera del tardo pomeriggio, quando viene accoltellato alla spalla da un giovane bianco. L’uomo viene bloccato dai fedeli e poi arrestato dalla polizia. Le immagini riprese da un testimone lo mostrano a terra, jeans, felpa rossa e piedi nudi, il coltello ancora sul pavimento, mentre gli agenti lo ammanettano. Le ragioni del suo gesto non sono ancora chiare, ma alcuni testimoni hanno raccontato che frequentava la moschea da mesi.

“Stava pregando alle spalle del muezzin quando lo ha accoltellato”.

Secondo uno dei presenti, Murshid Habib, l’aggressore sarebbe “un terrorista e razzista bianco”. Una versione non confermata dalla Metropolitan Police, per la quale l’aggressione non sarebbe di matrice terroristica. L’anziano muezzin è stato subito ricoverato e non è in pericolo di vita. Il Muslim Council of Britain, che rappresenta oltre 500 associazioni di musulmani del Regno Unito, ha condannato l’accaduto: “I dettagli non sono ancora chiari, ma è profondamente angosciante avere notizia di una attacco di questa natura, con fedeli colpiti in una moschea, un luogo di rifugio spirituale”.

Il primo ministro Boris Johnson in un tweet si è detto “molto rattristato” dall’accoltellamento: “I miei pensieri vanno alla vittima e tutte le persone coinvolte”.

I Verdi marciano sul fortino dell’Spd

Per la politica tedesca, dilaniata dal declino dei grandi partiti tradizionali, le elezioni di domenica nella città Stato di Amburgo possono essere una boccata d’aria antica: i socialdemocratici, qui padroni del gioco, e i cristiano-sociali arretrano nei sondaggi, ma tengono; e ne profittano i Verdi, quasi raddoppiando i suffragi nelle intenzioni di voto. La destra di Alternativa per la Germania (AfD), che altrove, specialmente all’Est, fa paura, è stazionaria. Una domenica elettorale senza risultati sconvolgenti sarebbe un balsamo per il Paese traumatizzato dalla strage di Hanau e la cui politica è implosa dopo la rinuncia di Annegret Kramp- Karrenbauer alla guida della Cdu e, quindi, alla successione di Angela Merkel alla cancelleria. Grandi manovre sono in corso per trovare un’alternativa ad Akk, che, da quando era alla presidenza del partito, aveva solo raccolto sconfitte elettorali. C’è il timore che la Cdu, per recuperare consensi, sposti a destra il suo baricentro. Chi può spingerlo in tale direzione è Friedrich Merz, l’avvocato finanziario sostenuto da Wolfgang Schaeuble, presidente del Bundestag, e dall’ala economica del partito cristiano-sociale, che nel dicembre 2018 fu battuto da Akk. L’ambizione di Merz nonostante dieci anni di sonno politico, dopo essere stato capogruppo al Bundestag e membro del Parlamento europeo, è chiara: conquistare il controllo del partito e accentuarne la componente conservatrice.

All’inizio del Secolo, la Merkel, che ha sempre avuto la capacità di sbarazzarsi dei rivali per tempo, prima che diventassero troppo minacciosi lo aveva ‘fatto fuori’. Ma la cancelliera non pare in grado, ora, di decidere il futuro della Cdu. L’intreccio di voci sulle candidature e l’accelerazione delle manovre sul ‘dopo Kramp Karrenbauer’ lasciano supporre che la tabella di marcia proposta dalla presidente del partito dimissionaria sia già saltata: a Berlino si parla di un possibile congresso straordinario della Cdu prima dell’estate. Se i risultati di Amburgo non riserveranno sorprese sarà la prima domenica elettorale senza patemi, o almeno senza grossi patemi, per la Cdu e l’Spd da molto tempo a questa parte. I socialdemocratici sono in vantaggio nei sondaggi con il 38% delle intenzioni di voto: un dato robusto, seppure in calo rispetto all’oltre 45% del 2015. I Verdi salgono al 23% (dal 12,3% del 2015), propongono come sindaco Katharina Fegebank, e scavalcano una Cdu sostanzialmente stabile (da meno del 16% al 13%). La Linke è quarta con l’8% (dall’8,5%). AfD le resta dietro pur salendo dal 6 al 7%. I liberali, scendendo dal 7,5 al 5%, rischiano di rimanere fuori dal parlamento della città Stato. Con un esito del genere, le maggioranze di governo possibili ad Amburgo sarebbero numerose e non ci sarebbe in alcun modo il rischio di uno scenario ‘tipo Turingia’.

Folle e razzista, eppure il killer aveva tre pistole

È costata la vita a undici clienti di due shisha-bar la strage compiuta dalla follia di destra del lupo solitario di Hanau, in Assia, nella serata di mercoledì. Che il bancario fosse un caso borderline per le autorità non è un’assoluta novità. Già il 9 novembre scorso Tobias Rathjen, 43 anni, aveva inviato una lettera di “denuncia” di 19 pagine al capo della Procura generale, Peter Frank. su fantomatici 007 che controllavano i cittadini tedeschi. Eppure, nonostante questa palese alterazione, secondo quanto riportato da fonti della sicurezza al quotidiano tedesco Redaktionsnetzwerk Deutschland, Tobias aveva acquistato online legalmente l’arma usata nella sparatoria: una pistola Glock 17, calibro 9. Arma assai diffusa, usata anche dal responsabile della strage del 2016 nel centro commerciale Olympia di Monaco.

Rathjen possedeva altre due pistole, una Sig Sauer calibro 9 e una Walther. Anche la Sig-Sauer era stata acquistata online nel 2014. L’attentatore possedeva un porto d’armi dall’estate 2013 e – secondo la legge tedesca – l’amministrazione aveva verificato la sua idoneità al porto di armi un anno fa. Nella lettera di novembre, Tobias puntava il dito contro “un’organizzazione sconosciuta dei servizi segreti” che “sorvegliava migliaia di cittadini tedeschi”. Ma la sua follia paranoide non toglie nulla al movente razzista della strage né al richiamo all’ideologia della supremazia della razza. È questo il filo che ieri ha sottolineato la cancelliera tedesca nel condannare l’attentato: “Il razzismo è un veleno, l’odio è un veleno e questo odio esiste oggi nella nostra società” ha detto Angela Merkel, che poi ha tirato un filo rosso tra gli attentati di destra degli ultimi anni e l’ultimo episodio dei Shisha-bar.

La ricostruzione: mercoledì sera, intorno alle 22 l’assassino è entrato nel bar “Midnight” e ha ucciso 5 persone. Quindi è uscito dal locale, ha preso la sua auto e si è diretto a due chilometri di distanza dove ha aperto il fuoco nell’“Arena bar & cafè”, uccidendone altre 4. Poi è tornato a casa, ha ammazzato la madre di 72 anni e infine si è tolto la vita. Un delitto motivato “da un atteggiamento profondamente razzista” e “da pensieri aggrovigliati e astruse teorie cospirative”, ha detto il procuratore federale Peter Frank che conduce le indagini. Di sicuro Tobias ha lasciato più di una traccia per interpretare il suo gesto. Nei giorni scorsi, in un documento di 24 pagine caricato su Internet, avvertiva i tedeschi che deportare gli stranieri non basta più, è necessario eliminarli. La microcriminalità introdotta dagli immigrati va estirpata alla radice, passando poi a elencare circa 20 paesi, tra cui Turchia, India e Israele “che vanno totalmente distrutti”. Ma anche gli Stati del Centro e Sud America andrebbero rasi al suolo, si legge nel documento. In un video postato sul suo canale Youtube prima della strage, spiega poi “al popolo americano” che il loro paese è infestato da società segrete sotterranee, dove i bambini verrebbero maltrattati e uccisi e dove si adorerebbe Satana.

Le teorie del complotto e della cospirazione, armamentario ideologico non estraneo alla destra estrema, si tingono di follia quando Rathjen sostiene, in più di un documento che una fantomatica organizzazione segreta, attraverso metodi di lettura del pensiero, gli stesse rubando le riflessioni. Prova ne è, riferisce Bild, che i suoi film preferiti dopo decenni diventassero serie, come se qualcuno leggendo nella sua mente, gli avesse rubato l’idea. Mettendo in relazione l’ultimo episodio con l’attentato di Halle, l’omicidio del politico della Cdu Walter Luebcke e gli attentati contro gli stranieri del Nsu, Merkel punta un faro sull’estremismo di destra.

Il debutto di Mini Mike Bloomberg, generale senza un vero esercito

Il paradosso di Michael Bloomberg si è reso evidente sul palco del primo dibattito tra candidati Democratici a cui partecipava anche il miliardario di New York, mercoledì sera. Bloomberg ha il potenziale per conquistare (o comprare, almeno) la Casa Bianca e sfrattare Donald Trump, ma al momento ha ben poche chance di vincere le primarie dem. “La performance di Mini Mike nel dibattito è stata forse la peggiore nella storia dei dibattiti”, questa la recensione di Trump su Twitter. Eppure per “Mini Mike”, alto poco più di un metro e 60, la sfida non è ancora davvero cominciata: nelle primarie del Nevada, dove si vota nel weekend, non è neppure sulle schede. La sua scommessa è sugli Stati al voto nel Super Tuesday, martedì 3 marzo. È lì che ha investito.

Le elezioni presidenziali del 2012 sono costate 6,6 miliardi di finanziamenti raccolti dai candidati, quelle del 2016 appena meno, 6,4 perché Trump otteneva spazi tv senza pagare grazie alle sue polemiche e insulti a Hillary Clinton. Il 2020 batterà ogni record, perché Bloomberg ha già investito almeno 400 milioni dei suoi 60 miliardi di patrimonio. E nel dibattito di Las Vegas ha esortato gli elettori a connettersi con la sua campagna su mikebloomberg.com ma, a differenza degli altri, ha detto: “Io non vi chiedo soldi”. Paga tutto da solo. E nella media dei sondaggi nazionali elaborata dal sito FiveThirtyEight è già al terzo posto, al 16,6 per cento. Sopra l’altro moderato, Joe Biden, al 16,2 ma ancora sotto Bernie Sanders, il radicale “socialista” al 25,3.

La sua strategia mediatica è alimentata da risorse illimitate ed efficace: combatte con spot tv, con meme satirici a pagamento su Instagram, con influencer arruolati per parlare bene di lui (mentre il New York Times lo osteggia). Bloomberg investe molti soldi e li investe bene. Eppure non esiste ancora un “popolo di Bloomberg” e forse non esisterà mai, a giudicare dal dibattito di Las Vegas. Bloomberg è stato a lungo un repubblicano, nel 2004 finanziava George W. Bush mentre altri degli attuali candidati dem gli facevano opposizione sulla guerra in Iraq, ha ricordato Sanders. Trump si diverte a twittare un frammento di intervista a Fox News in cui Bloomberg definisce Trump “un’icona di New York”. Ma ci sono problemi più seri. Sulle questioni razziali Bloomberg è un disastro, continua a difendere – pur tra mille distinguo – il programma stop and frisk che ha applicato da sindaco di New York: controlli a campione della polizia tra 2002 e 2013 concentrati su ragazzi delle minoranze nere e latine. Una specie di persecuzione razziale che, nelle intenzioni, doveva evitare che questi ragazzi uscissero di casa armati o si dessero allo spaccio, sapendo che era alta la probabilità di essere fermati dalla polizia.

Bloomberg, prima di lanciare la candidatura, ha cercato di prendere le distanze dal programma che però da sindaco ha sempre difeso e sul palco di Vegas ha detto che era andato “fuori controllo”. Hanno avuto gioco facile i suoi sfidanti, a cominciare da Biden, a osservare che il problema non era l’eccesso di controlli, ma la natura stessa del programma. In un Paese dove gli agenti immobiliari perdono la licenza se dicono ai clienti il tasso di criminalità del quartiere, perché può essere un modo laterale per dire se i vicini di casa sono bianchi o neri, la profilazione razziale della polizia di New York è difficilmente difendibile per chi vuole il voto degli afroamericani, decisivi per i Democratici. Bloomberg poi ha un problema con le donne.

Il suo scetticismo sul movimento MeToo contro le molestie è noto – molti degli accusati sono conoscenti di Bloomberg –, ma durante il dibattito Elizabeth Warren gli ha inflitto un colpo che ha lasciato il miliardario balbettante. Nel suo ’impero mediatico Bloomberg e’ stato accusato da varie donne di comportamenti scorretti e sessisti, i casi si sono poi chiusi da transazioni stragiudiziali e accordi di riservatezza. Bloomberg è disposto a sciogliere le donne dall’obbligo di tacere perché possano raccontare cosa è successo?, chiede la Warren. Bloomberg risponde che lui ha sempre valorizzato il talento femminile e che “nessuna di loro ha mai accusato me direttamente”. Il commento della Warren diventa virale: “Spero abbiate sentito la sua risposta: con alcune donne sono stato gentile”. Pur avendo arruolato un team di 2.000 persone, inclusi molti commentatori di Bloomberg Opinion, “Mini Mike” si è dimostrato preparatissimo su tutte le questioni ambientali ma su razza e donne, i suoi prevedibili punti deboli, è sembrato improvvisare. Se non riesce a reggere i colpi dei suoi educati colleghi Dem, figurarsi cosa potrebbe succedere su un palco contro il ben più aggressivo Trump.

L’ex sindaco si è costruito una rete impressionante di sostegno dell’establishment democratico – ha investito 100 milioni di dollari nelle sole elezioni di mid-term 2018 – ma per conquistare il partito deve distruggere i suoi avversari radicali e popolari. Il primo bersaglio è Bernie Sanders, che lui ha definito “comunista”. Il vecchio senatore del Vermont non ha battuto ciglio: lui si definisce socialista, in un’accezione che equivale a quella europea di socialdemocratico, e ha fatto una lezione a Bloomberg: “In America il socialismo c’è già, per i miliardari, a cui non viene neanche richiesto di pagare le tasse, mentre ai poveri vengono spiegate le virtù dell’individualismo”. La partita interna ai Dem inizia a farsi violenta, ne resterà uno solo.

“Il Jobs Act ha allontanato il Pd dagli operai”

Il problema è noto da tempo, almeno da quando nel 1994 il centrodestra sbancò il collegio di Mirafiori. La domanda è sempre la stessa e affligge leader politici e sindacali, tanto che la stessa Cgil nel 2007 pubblicò un volume a riguardo: come riannodare il rapporto tra sinistra e lavoratori? L’ultimo azzardo di risposta arriva dai dialoghi di questi giorni tra Massimo D’Alema e il segretario generale della Cgil Maurizio Landini, che ieri hanno partecipato a un dibattito moderato da Bianca Berlinguer e hanno anche condiviso parte della stesura della rivista Italianieuropei sull’argomento.

La ricetta del Lider maximo ha sapore antico: “Bisogna recuperare un rapporto fisico col mondo del lavoro. È prevalsa una forma di partito sempre meno in grado di coinvolgere e motivare”. E questo anche nella scelta dei propri rappresentanti: “Meccanismi come le primarie sono respingenti per un operaio. La politica è diventata un mestiere per la borghesia, quando invece la sinistra dovrebbe portare in Parlamento gli operai, altro che società civile. Quando sentite parlare di società civile mettete mano alla pistola, perché significa escludere strutturalmente il mondo del lavoro”.

Ed eccoci all’atteso leitmotiv: “C’è una generazione di dirigenti di sinistra che non sa come parlano gli operai, bisogna imparare di nuovo questo linguaggio”.

Un momento di rottura in questo rapporto, secondo Landini, è arrivato con il Jobs Act di Matteo Renzi: “Quando era presidente del Consiglio disse che era la cosa più di sinistra che aveva realizzato. In realtà aveva riportato il lavoratore alla condizione di merce pura, che può essere comprata e venduta. Provvedimenti come questi cambiano il significato delle parole: oggi per un lavoratore precario la sinistra è diventata parte del problema”.

Più dolce invece l’analisi dell’ante-Renzi, su cui pure spesso la Cgil si era interrogata in passata. L’unico mea culpa è di D’Alema: “Avremmo dovuto prevenire il Jobs act partendo dall’Articolo 18 e ampliando quei diritti anche ai lavoratori che ne rimanevano fuori”.

Persa l’occasione a suo tempo, l’idea può essere in qualche modo forma di ispirazione anche secondo Landini: “Nel mercato del lavoro di oggi dobbiamo considerare i diritti di tutti, qualsiasi tipo di contratto abbiano. Mi piacerebbe che un giorno nella segreteria della Cgil ci fossero le partita Iva”. Anche perché è proprio “la mancanza di diritti” a generare “insicurezza” e da lì il rifugio dei lavoratori in partiti che danno risposte ben più immediate rispetto al centrosinistra.

E allora, nella versione del segretario Cgil, la direzione dovrebbe essere quella resa palese dalle Sardine, che hanno manifestato un bisogno di una parte di popolazione di essere resa partecipe. Su questo, però, D’Alema ha qualche dubbio: “Vanno benissimo la Sardine, ma potremo essere davvero soddisfatti soltanto quando avremo una mobilitazione operaia. Le piazze delle Sardine rappresentavano un elettorato già di sinistra”.

Un ragionamento che porta sempre lì: “Ci vorrebbe un Landini che insegnasse ai dirigenti di sinistra come si parla ai lavoratori. Non so se sarebbe disposti a farselo insegnare, mi limito semplicemente a dare buoni consigli. Forse, come direbbe qualcuno, perché non posso più dare il cattivo esempio”.

Salario minimo, Catalfo rilancia i nove euro l’ora

Era stata data per chiusa, ma la partita del salario minimo sembra riaprirsi. Al tavolo di maggioranza di ieri sera, infatti, la ministra Nunzia Catalfo è tornata a proporre i 9 euro lordi l’ora come soglia minima della retribuzione che invece nelle ricostruzioni dei giorni scorsi, in particolare del Sole 24 Ore, sembravano sostituiti da un altro tipo di calcolo che di fatto riduceva l’importo a 7,80 euro. La storica proposta del M5S, infatti, è quella di fissare per legge una soglia minima, a 9 euro lordi l’ora, appunto, circa 1.100 euro netti al mese, da applicare a tutti i contratti collettivi, sotto la quale non si potrebbe mai scendere. Le obiezioni a questa ipotesi sono provenute sia da parte delle imprese, che giudicano troppo alta la soglia individuata dalla ministra e quindi problematica per il costo del lavoro, sia da parte dei sindacati che rifiutano che la legge possa stabilire minimi contrattuali che dovrebbero, dal loro punto di vista, essere prerogativa delle organizzazioni sindacali.

Un’ipotesi emersa venerdì scorso, avanzata al tavolo di maggioranza dal Pd, è stata quella di ricorrere a una percentuale (70%) della “retribuzione mediana”, cioè la retribuzione che si colloca al centro della scala tra le retribuzioni più basse e quelle più alte, come criterio di riferimento del salario minimo (uno schema ripreso dalle proposte che vengono fatte dall’Ocse). Secondo questo criterio, la soglia minima sarebbe stata intorno ai 7,80 euro, ma il condizionale è d’obbligo.

Ora, invece, Catalfo ha presentato un nuovo criterio, distinguendo tra la “retribuzione complessiva proporzionata”, che è quella assicurata dai contratti collettivi nazionali di riferimento, e la “retribuzione complessiva sufficiente” non inferiore ai 9 euro lordi. L’impianto prevede il rinvio al trattamento economico complessivo previsto dai Ccnl nazionali maggiormente rappresentativi per definire la retribuzione proporzionata alla qualità e quantità del lavoro e 9 euro quale soglia da cui deve partire il trattamento economico minimo del Ccnl nazionale maggiormente rappresentativo quale parametro per definire la retribuzione sufficiente. Il confronto andrà avanti nei prossimi giorni e lunedì si farà un nuovo punto allargando il tavolo a sicurezza, pensioni, ammortizzatori e formazione.

All’incontro di ieri, presieduto dalla ministra, hanno partecipato per il M5S Maria Assunta Matrisciano, presidente della Commissione Lavoro del Senato, Claudio Cominardi e Davide Tripiede. Per il Pd il sottosegretario al Welfare Francesca Puglisi, Tommaso Nannicini e Marco Miccoli. Presente anche Italia Viva, con Anna Maria Parente e LeU con Francesco Laforgia e Guglielmo Epifani.

Intanto, ieri, l’Inps ha reso noti i dati sulle assunzioni, riferiti ai soli datori di lavoro privati, nell’anno 2019. Rispetto al 2018 sono aumentati i contratti a tempo indeterminato, di apprendistato, stagionali e intermittenti; sono risultati, invece, in diminuzione i contratti a tempo determinato e quelli in somministrazione.

Nel complesso, nel 2019 le trasformazioni da tempo determinato a indeterminato sono state 706.000 (+170.000 sul 2018, segnando un +31,8%). In crescita risultano anche le conferme di rapporti di apprendistato giunti alla conclusione del periodo formativo (+18.000, +27,6).

Secondo Luigi Di Maio, che è stato il ministro del Lavoro, il risultato è merito del “suo” decreto Dignità che ha ristretto le condizioni per stipulare contratti a tempo determinato: “Oggi (ieri, ndr) l’osservatorio Inps sul precariato sui datori di lavoro privati ci dice che nel 2019 abbiamo avuto 365.216 contratti stabili in più, un valore più che doppio rispetto al 2018. Quando ti giri indietro e continui a vedere i frutti di un lavoro portato avanti con il decreto Dignità hai ancora più voglia di continuare a lavorare per aiutare le persone”.

Ecco quel che ha detto ieri Conte su Aspi: una traduzione

Per aiutare i lettori, sentiti esperti multidisciplinari e il nostro broker di fiducia, vorremmo qui proporre una comprensibile traduzione delle parole che Giuseppe Conte ha pronunciato ieri sulla complessa querelle tra governo e Autostrade per l’Italia. Dichiarazione ufficiale: “C’è un procedimento di revoca (per il crollo del ponte Morandi, ndr) che si sta avviando a conclusione. Il governo sta andando avanti con la procedura di revoca ed è interesse della controparte fare una proposta transattiva: perché è chiaro che, se dovesse arrivare una proposta transattiva da Autostrade prima che si concluda la procedura, il governo avrebbe il dovere di valutarla. Se proponesse di tutelare l’interesse pubblico ancora più della revoca dovremmo valutarla, ma solo in quel caso”. Traduzione: “Ehi, Mion, Benetton? C’è nessuno? Guardate che è tutto pronto, mica possiamo tenere bloccata ’sta cosa in eterno… Qua mi costringete davvero a revocarvi la concessione: per noi è un casino assurdo, ma voi fallite eh… Eddai, su, fate una proposta un po’ meno offensiva dello sconticino sui pedaggi per cinque anni: qualcosa a Di Maio gli dobbiamo dare”. Dichiarazione ufficiale: “Ora non si dica che il governo vuole transigere o sta facendo una proposta”. Traduzione: “Adesso non fate scrivere ai giornali che siamo noi che vi abbiamo fatto un’offerta che stavolta m’incazzo… Eddai, ma davvero con tutti i soldi che avete fatto non volete aprire il portafogli? Ma roba da matti, qua finisce che per colpa di questi dementi dopo il ponte cado pure io…”.

A Milano buche in centro e periferia (ma democratiche)

Chiedo scusa ai romani, ma Milano non si fa mancare niente. Credevate, cari abitanti di Roma, di essere la capitale delle buche? Non vi allargate. Le abbiamo anche a Milano. Nelle strade, soprattutto lungo i binari del tram, e sui marciapiedi. La mia preferita è la Luisona. La chiamo così perché la vedo da anni e mi ci sono affezionato. Mica è in periferia: è proprio davanti alla stazione Centrale, in piazza Duca d’Aosta, lungo i binari del tram, a pochi metri dal Pirellone sede della Regione. È una voragine lunga qualche metro che viene rattoppata da anni, periodicamente, con l’asfalto nuovo. Alla prima pioggia, la crepa torna a mostrarsi. Al primo gelo, la buca risorge. Ha qualcosa di filosoficamente carsico: sparisce e riaffiora, scompare e ritorna. Una metafora della vita, un monumento all’Eterno Ritorno, un’opera d’arte concettuale più efficace della “Mela Reintegrata” di Michelangelo Pistoletto, piazzata pochi metri più in là, sul piazzale della stazione. Se un’auto ci finisce dentro – nei suoi periodi di gloria, quando la Luisona è felice, lunga e profonda – la gomma geme, la ruota rischia, il semiasse scricchiola. I milanesi lo sanno e ci stanno attenti. Soprattutto i taxisti, abituati a guidare sulle corsie riservate a loro e ai tram, dunque a fare gimkana permanente tra rotaie scivolose e Luisone traditrici e assassine.

Le buche, a Milano, causano incidenti, danni alle auto, cadute di ciclisti e motociclisti, scivoloni e fratture dei pedoni, specialmente anziani. Qualcuno dei danneggiati prova a chiedere il risarcimento al Comune. Non tutti, in verità: chi ha voglia di fare una causa – lunga e costosa – a una grande amministrazione con schiere di avvocati pronti a rintuzzare ogni attacco? Di chi osa comunque provare a sfidare il Comune, solo una piccola parte ottiene soddisfazione. Infatti nel 2018 (ultimo anno con cifre disponibili) sono arrivare a Palazzo Marino 2.037 richieste di risarcimento, ma solo il 29 per cento è stato accolto. Alla fine, qualche danno a chi si fa male, il Comune lo paga: una cifra media di 2.010,93 euro nel 2016; 1.540,73 nel 2017; 1.015,98 nel 2018. Pochi i dati disponibili. Si sa però (la fonte: Istat e Aci) che dei 725 incidenti stradali che nello scorso triennio hanno causato lesioni gravi in Italia, ben 84 sono avvenuti a Milano, provocando 90 feriti.

Ma siamo a Milano. Fosse Roma, sarebbe la notizia d’apertura dei telegiornali della sera, sarebbe campagna martellante. Qui al Nord, invece, non fa notizia. All’ombra della Madonnina, i giornali vedono sempre il lato bello delle questioni. Segnalano che l’assessore alla Mobilità, Marco Granelli, dal 4 novembre a oggi ha attivato ben 13.119 interventi di riparazione stradale. E che l’amministrazione ha stanziato quest’anno per la manutenzione delle strade 49 milioni di euro, più che negli anni passati: erano 22,4 nel 2019; 13,2 nel 2018.

Non bastano, a sentire i cittadini che si lamentano. In periferia, ma anche in centro: le buche sono democratiche. Sono state segnalate piccole voragini accanto alle rotaie del tram nella centralissima via Magenta, fondo sconnesso in Ripa di Porta Ticinese, una buca in via Solari da far invidia alla Luisona. Qualche tempo fa un’auto della Polizia municipale ha dovuto bloccare via Nino Bixio, a Porta Venezia, perché una buca metteva in pericolo le auto che si trovavano a passare di lì.

Un gruppo di cittadini ha aperto una pagina Facebook, “Caccia alla buca”, che segnala le più grosse e le battezza con un nome (come la mia amata Luisona). Dietro c’è un “comitato degli arrabbiati”, animato da Orietta Colacicco, di Piattaforma Milano, che vuole essere un laboratorio civico del centrodestra. Politica. Ma le buche ci sono, e non sono né di destra né di sinistra.