Il governo sempre appeso a un Matteo

Che spettacolo! Rieccoci al governo Conte appeso a un Matteo. Ma è una maledizione? Cos’ha fatto di terribile “Giuseppi”, in una vita precedente, per meritarsi questa pena? Ha pestato talmente i piedi a un Matteo che s’è beccato la profezia nefasta: “Ne incontrerai continuamente sulla tua strada e proveranno in tutti i modi a farti le scarpe”?

Che spettacolo! Il Matteo di Rignano, a oltre tre anni dall’abbandono della politica e a sette dal “basta ai veti dei partitini”, dall’alto della sua creatura da 3-4 per cento (ma c’è chi ipotizza addirittura il 2 per cento e, considerando “un margine d’errore nei sondaggi di 2 punti, potrebbero essere prossimi allo zero”, dicono gli esperti), fa proprio, modernizzandolo, il detto cartesiano: m’agito dunque sono. Incurante dell’opinione degli italiani, che a maggioranza promuovono il blocco della prescrizione e in stragrande maggioranza (77 per cento) pensano che la sua battaglia contro la riforma Bonafede sia fatta al solo scopo di cercare visibilità (le inchieste di amici e parenti non c’entrano, eh), alza ulteriormente il tiro.

Certo, non annuncia la rottura con Conte (ma – spettacolo irresistibile – dichiara che la prossima settimana lo incontrerà “per mettere fine al teatrino”… lui!), ma in compenso non rinuncia alla rottura… (e che rottura): Punto 1: se non verrà cancellata la riforma della prescrizione entro Pasqua, Italia Viva (e vegeta, soprattutto) presenterà la mozione di sfiducia a Bonafede;

2) abolizione del Reddito di Cittadinanza, che è un “fallimento”, per “mettere i soldi nel taglio delle tasse alle imprese” (aridanghete, i miliardi già dati non bastano? No, visto che non ce ne siamo accorti);

3) elezione diretta del premier, ribattezzato “Sindaco d’Italia”. Tradotto: ora che il governo, faticosamente, ha portato a casa la manovra, disinnescando l’aumento dell’Iva e facendo tornare i conti, si possono far ripartire i giochi di Palazzo. Chessò, un nuovo Nazareno sulle Riforme, che tanta fortuna gli ha già portato una volta… dritto dritto fino a Palazzo Chigi.

E chissenefrega dei 2,3 milioni di italiani in difficoltà che col Reddito di Cittadinanza hanno tirato un respiro di sollievo e dei primi 40 mila che hanno trovato un lavoro (e se lo perdono subito, come raccontato al Fatto, senza Reddito non avrebbero diritto a un sussidio). Chissenefrega se adesso quel respiro torna a bloccarglisi in gola e restano in apnea in attesa di capire se, tra uno slalom pachistano e un convegno saudita, Matthew (aspirato pure lui: fa un po’ Toscana, un po’ ribalta internazionale) avrà la meglio.

Che spettacolo! Sentire l’ex sindaco di Firenze – ed ex presidente della Provincia, ex premier, ex segretario Pd… ex Tutto – lanciare l’elezione diretta del Sindaco d’Italia, manco pensasse di poter essere lui (mica crede davvero che gli italiani lo sceglierebbero? Hanno già dato. Non c’è un Marattin, un Cerno, uno Scalfarotto che gli apra gli occhi? Dobbiamo appellarci alla Boschi?).

Che spettacolo! Che tutto questo venga annunciato – in Parlamento? Macché – a Porta a Porta! Ormai le condizioni/minacce si dettano in tv (o sulla stampa, sui social o al Papeete). D’altronde se le aziende considerano i cittadini consumatori, alcuni politici – forse perché si credono conduttori – ci considerano telespettatori. Che spettacolo, nel vero senso della parola!

Deprimente, ma pur sempre spettacolo. Quando i titoli di coda?

NIente compromessi sul salario minimo

Dopo un anno dai primi tavoli di discussione, il tema del salario minimo legale torna al centro del dibattito della maggioranza di governo con un deciso colpo al ribasso sull’iniziale proposta dell’attuale ministro del Lavoro, Nunzia Catalfo. Se fino a poche settimane fa la soglia minima era fissata in 9 euro lordi di trattamento economico minimo (tredicesima compresa) – a cui va aggiunta il salario indiretto (contributi sociali, oneri Tfr, ferie e altri diritti previsti nei contratti nazionali) – da alcuni giorni circola l’ipotesi di scendere tra 7 e 8 euro.

Ieri Catalfo ha fatto muro, ma l’ipotesi non è tramontata. Dietro si nascondono rischi notevoli per il futuro del mercato del lavoro e dell’economia italiana e una visione ben precisa. A ciò si aggiunge l’assenza di una discussione su misure che riducano l’impatto negativo dei contratti di breve durata e del lavoro stagionale. Tema affrontato in Spagna, dove la recente legge che aumenta il salario minimo prevede una retribuzione oraria più alta proprio per i lavoratori assunti per periodi brevi, così da rendere più oneroso per le imprese il ricorso a tali contratti, restituendo una retribuzione più alta ai lavoratori. Un discorso analogo andrebbe affrontato in Italia per i contratti part-time, che hanno trovato ampia diffusione negli ultimi anni. Oggi in Italia – secondo i dati Inps – il 29% dei lavoratori guadagna meno di 9 euro lordi l’ora (4,3 milioni di lavoratori), quota che si riduce al 15% considerando come soglia gli 8 euro. Scegliere una soglia piuttosto che un’altra significherebbe escludere circa due milioni di lavoratori a cui si aggiungono i molti che oggi non vengono neppure reputati tali e sono retribuiti a mezzo di tirocini; o le partite Iva che in questi ultimi anni hanno subito una riduzione delle proprie tariffe. La povertà salariale coinvolge ampi strati della società. Non si tratta solo di lavoratori nei settori più poveri come il turismo, dove il 28% è sotto la soglia dei 9 euro, ma – ricorda l’Istat – riguarda anche il 27% dei dipendenti dell’Istruzione, il 14,3% del manifatturiero e il 18% delle attività professionali, scientifiche e tecniche.

Negli ultimi decenni la politica ha scelto di mantenere bassi i salari e di ridurli. Qualsiasi discussione che riapra la partita è subito tacciata di irrazionalità, come fosse un pericolo per la tenuta del Paese. In realtà a rischio c’è solo quella parte abituata a rimanere a galla svalutando il lavoro, facendo dei bassi salari la propria leva competitiva. Per celare questo obiettivo politico, si persevera nel sostenere che “nessuno in Europa ha un salario minimo così elevato” e che in ogni caso la soglia non può esser posta oltre il 60% del valore dei salari mediani. Un argomento falso visto che nel 2020, Belgio, Francia, Germania, Lussemburgo, Olanda, Irlanda e Regno Unito hanno tutti un salario minimo orario superiore ai 9 euro lordi.

Il ragionamento per cui la soglia non deve superare il 60% dei redditi mediani è una pura convenzione che non tiene conto del fatto che in Italia la svalutazione salariale ha colpito proprio i salari mediani (quelli relativi al 50% più povero dei lavoratori) che si collocano al di sotto della media Ue (dati Eurostat). Serve il coraggio di dire che il computo dei salari mediani deve tenere conto del monte straordinari non pagato, del sotto-inquadramento diffuso, dei contratti che prevedono retribuzioni più basse pur rimanendo nella legalità: tutte strategie di risparmio sul costo del lavoro adottate dalle aziende. La sensazione è che il governo non intenda alzare la soglia del salario minimo per garantire i margini di profitto che le imprese meno produttive sono riuscite a ottenere con l’abbassamento di tutele e salari. Teme di varare una legge che fissi a 9 euro lordi il salario minimo perché determinerebbe una redistribuzione del reddito nazionale dai profitti ai salari per quasi 7,5 miliardi, secondo la stima dell’Inps. La necessità di controbilanciare gli interessi delle parti sociali, in primis Confindustria, sembra prevalere su un approccio determinato ad affrontare il problema del lavoro povero.

Imporre un salario minimo legale sotto la soglia dei 9 euro significa relegare l’Italia nella parte bassa della divisione del lavoro in Europa, perseverando in una sua specializzazione nei settori a più scarso valore aggiunto. Le imprese non avrebbero alcun incentivo a specializzarsi in settori più produttivi né a investire per accrescere la produttività media dell’economia. Come dimostra il caso tedesco, citato nei giorni scorsi dal Financial Times, aumentare la parte bassa della distribuzione dei salari attraverso l’introduzione di un minimo legale dignitoso, stimola la produttività e non crea disoccupazione. Le imprese più piccole e improduttive saranno spazzate dal mercato e i lavoratori troveranno un impiego presso aziende più produttive, con contratti più stabili e salari più elevati. È una scelta storica: ribaltare il declino italiano o renderlo strutturale.

Mail box

 

Fiat e Mediaset si trasferiscono in Olanda per eludere il fisco

Egregio Direttore, tempo fa le notizie che la Fiat e Mediaset, per fare i due nomi più importanti, hanno trasferito le loro sedi legali in Olanda, sono passate quasi inosservate, malgrado i molti personaggi che ogni giorno fanno commenti politici in tutti i mass media. In realtà, le notizie non sono di poco conto perché Fiat e Mediaset trasferiscono le loro sedi legali in Olanda perché in quel Paese si pagano meno tasse, ma per l’Italia questo significa un minor introito di tasse. Non vorrei parlare di evasione fiscale ai danni dell’Italia, ma certamente possiamo parlare di elusione fiscale e cioè queste aziende, pur rispettando le leggi, sfruttano i risvolti delle medesime per pagare meno. Per me questo comportamento non va bene, perché un’azienda deve pagare le tasse nel Paese dove lavora e produce; e perché mai noi con l’Unione europea protestiamo con forza contro Amazon, Facebook, Microsoft, ecc., che operano in Italia, ma pagano le tasse nei loro Paesi?

Franco Rinaldin

 

Sono troppi i politici dispersi nella caverna di Platone

E se guardo i politici, sempre lì, in tv, deliranti e pronti ad addossare ad altri le responsabilità del loro non-governo, in un Paese che è in crisi e in recessione, come dice Cacciari, che lo grida fino a diventare paonazzo: competenze e impegno ci vuole per governare! E mi viene in mente il “mito della caverna” di Platone. Li vedo dentro, i parlamentari, nell’oscura caverna, schiavi di se stessi, imprigionati nei loro privilegi che non vogliono mollare, incollati alle loro poltrone. E se qualcuno di loro, putacaso, tentasse di uscire viene ricacciato dentro. Ed è in questo contesto di voluta inefficienza che si colloca la “guerra” per non modificare il meccanismo della prescrizione, che ha finora preservato il descritto sistema di corruttela. Dentro la caverna oscura i politici vedono solo le ombre degli oggetti posti al di fuori. E tali oggetti non sono le cose stesse ma soltanto imitazioni del reale. Al di fuori della caverna c’è la cruda realtà, devastata da una pesante crisi economica e culturale. Quel che preme ora è come far uscire dalla caverna i parlamentari, gli esperti che li consigliano e i giornalisti conniventi. Solo liberandosi dalle catene, grazie all’ascesa filosofica e partendo dalla conoscenza del mondo reale potranno assurgere al mondo superiore delle Idee che è illuminato dall’Idea del bene. Continua Platone nel dire: i gradi della conoscenza sono quattro. Ma io mi fermo qui, è inutile continuare. Solo ogni tanto da parte dei politici si sente qualche citazione e magari pure sbagliata.

Linda Zammataro

 

Il caso Zaki riapre la ferita mai rimarginata di Regeni

Il brutale assassinio di Giulio Regeni – riacutizzato dall’arresto per reati di opinione di Patrik Zaki – dovrebbe generare una presa di distanza dell’Italia dall’Egitto. Una dittatura violenta guidata dal presidente Al-Sisi, che ha recluso già 60 mila prigionieri politici. E invece l’enorme volume di commercio di armi italiane con il Cairo fa ripiegare il nostro governo su una reazione più di facciata, che reale. Se il governo preferisce gli affari, possiamo noi cittadini organizzare una reazione dal basso contro la dittatura egiziana? Sì, boicottando viaggi di turismo in Egitto. Come in molti abbiamo iniziato a fare da quando il caso Regeni ha evidenziato non solo la brutale violenza inferta al nostro connazionale, ma la mancanza di considerazione verso il nostro Paese delle autorità egiziane, con pratiche dilatorie e risposte vaghe, nella certezza di poter contare sulla scarsa autostima e coesione degli italiani. Invece, un brusco calo di turisti nazionali in Egitto sarebbe percepito dalle autorità del Cairo con molta più preoccupazione delle blande iniziative governative, depotenziate da affari indisturbati.

Massimo Marnetto

 

DIRITTO DI REPLICA

A precisazione dell’articolo di ieri dal titolo “L’Agenzia Spaziale ora fa l’investitore a rischio nelle startup” mi urge far presente che il prof. Roberto Battiston, già presidente di questa Fondazione, non riveste ad oggi la carica di direttore scientifico della Fondazione E. Amaldi, né in altro modo ha influenza sulle decisioni inerenti il costituendo fondo di venture capital “Primo Space”. Le sarò grato qualora voglia procedere, a tutela di codesta Fondazione, a tempestiva rettifica di quanto riportato nell’articolo, pregandola per il futuro, qualora necessitasse di ulteriori informazioni, di prendere contatto con codesta Fondazione con un preavviso che non si riduca a poche ore prima della stampa, onde darci modo di chiarire quanto necessario.

Lorenzo Scatena, segretario Generale fond. Amaldi

 

Ringraziamo per il chiarimento su un dubbio nato (spiegazione a beneficio del lettore) per il modo con cui Battiston è stato presentato in video e interventi, ancora online e non rettificati, legati a recenti occasioni ufficiali e rimasto aperto nell’articolo proprio per l’impossibilità di avere un confronto con la Fondazione. Abbiamo provato nei tempi disponibili a contattare la fondazione tramite gli indirizzi indicati sul sito, la domanda a mio parere era molto semplice e non richiedeva grosse elaborazioni. A ogni modo, ora che abbiamo aperto un canale di comunicazione, sono convinta che in futuro confrontarsi sarà più facile.

Vds

Agli Oscar del Pallone, la Dea meriterebbe miglior film, script e regia

Gentile redazione, è da due giorni che a casa mia, complici marito, cognato e due figli maschi, non si parla d’altro che della vittoria dell’Atalanta contro il Valencia, l’altra sera a San Siro agli ottavi di Champions League. Pare che a Milano si sia spostata l’intera città di Bergamo e il trionfo ha qualcosa di miracoloso. Bravi tutti, ma la squadra di Gasperini ha davvero le carte in regola per accedere ai quarti, se non alla finale?

Ermanna Di Cesare

 

Cara Ermanna, di certo l’Atalanta ha le carte in regola per essere considerata, finalmente e ufficialmente, il fiore all’occhiello del malandato e antiquato calcio italiano. Sono anni che davanti alla tv ci lustriamo gli occhi ammirando il gioco del Barcellona e del Liverpool, dell’Ajax e persino del Salisburgo; e finalmente, dopo figure barbine collezionate in serie, anche noi riusciamo a esportare qualcosa del genere, l’Atalanta, una piccola macchina da gol dai meccanismi quasi perfetti e con interpreti tutti degni della statuetta di miglior attore non protagonista come l’ultimo eroe, l’olandese Hans Hateboer, che essendo il solo a non avere ancora fatto gol, nella partita più importante della storia dell’Atalanta, due sere fa, di gol ha pensato bene di segnarne addirittura due, sempre arrembando, sempre osando, sempre volando come il vento. Se in Italia ci fosse una notte degli Oscar del Pallone fatta come Dio comanda, il miglior film lo vincerebbe l’Atalanta, la miglior regia Gasperini, la migliore sceneggiatura il direttore sportivo Sartori, che non potendo comprare CR7 o Ibrahimovic compra Ilicic e Kulusevski (quando Ilicic sembra al capolinea e Kulusevski nessuno sa chi sia), la migliore colonna sonora i 63 gol segnati in 24 partite di campionato (tetto record) cui si aggiungono i 12 in 7 gare di Champions, i migliori effetti speciali Ilicic e Gomez, quelli che spruzzano genio in ogni giocata, e l’Oscar al merito il presidente Percassi. Nella stagione in cui Sarri, chiamato alla Juventus per portare il bel gioco, abdica da se stesso trasfigurandosi in una copia malriuscita di Allegri, e in cui Conte, portato sulla panchina dell’Inter a 12 milioni all’anno, riesce nell’impresa di uscire subito dalla Champions soccombendo a un modestissimo Borussia Dortmund (che solo ora, con Haaland, Reyna e Emre Can è diventato squadra seria), Gasperini e l’Atalanta ci fanno inorgoglire. E attenzione: perché i miracoli che un anno fa fece l’Ajax, ora in Europa potrebbe ripeterli l’Atalanta. Il nuovo, tanto atteso made in Italy.

Paolo Ziliani

A casa gli italiani di Wuhan: “No riprese tv, troppi pregiudizi”

È finita la quarantena per i 55 italiani portati via lo scorso 3 febbraio da Wuhan. Una quarantena di 18 giorni, tre giorni più lunga del previsto, trascorsa tutta nella struttura militare della Cecchignola, a Roma.

“Vi chiediamo di non riprenderci con le telecamere, perché da domani torneremo alle nostre vite e non vogliamo essere guardati come persone potenzialmente nocive agli altri. Stiamo bene, lo attestano tutti i controlli e lo stesso certificato che ci hanno rilasciato, vogliamo proteggerci dai pregiudizi”, avrebbero spiegato alcune delle persone dimesse. “Sono definitivamente sicuri – dicono i medici militari – Non ci deve essere rischio di isolamento da parte di nessuno”, ribadisce il ministro della Salute Speranza, “anche due ministri li hanno abbracciati…”.

Dall’altra parte del mondo, però, la situazione Coronavirus resta drammatica. La crociera dell’orrore della Diamond Princess – bloccata in Giappone – ha fatto le sue prime vittime: sono morti i due anziani coniugi giapponesi contagiati. Sono invece risultati tutti negativi al primo test per il Coronavirus i 34 italiani che si trovano sulla nave, al netto ovviamente di uno dei connazionali trovato positivo al Covid-19 nei giorni scorsi. Se anche il secondo test andrà bene, si procederà al volo di rimpatrio in Italia.

Mentre la Diamond Princess continua a essere un incubatore di contagi con 13 nuovi casi che portano a 634 il totale delle infezioni, diminuiscono nettamente i nuovi malati in Cina anche se, nota l’Oms, “non è ancora tempo per abbassare la guardia”.

Secondo gli aggiornamenti della John Hopkins University, i morti in totale sono 2.130 mentre i contagiati sono 75.752.

Cerciello Rega, la difesa dell’americano “30 frasi tradotte male dalla Procura”

Una trentina di frasi intercettate tradotte in modo sbagliato dalla procura. Quella che ci sarà al processo per l’omicidio Mario Cerciello Rega, il carabiniere ucciso il 26 luglio scorso a Roma, si prospetta essere una battaglia, a colpi di intercettazioni, tra accusa e difesa. Gli imputati sono Lee Finnegan Elder e Gabriel Christian Natale Hjorth, i due allora 19enni americani, accusati di omicidio.

Il primo è il giovane che quella notte d’estate sferra undici coltellate al carabiniere dopo una compravendita di cocaina finita male. E proprio il suo legale, Roberto Capra, annuncia lo scontro in aula. Lo ha rivelato ieri Il Corriere pubblicando alcune intercettazioni che secondo l’avvocato sarebbero state tradotte male dai periti della Procura, aggravando così la posizione del suo cliente. Per sapere se si tratta di errori reali bisogna ascoltare gli audio delle conversazioni, che saranno depositate a processo il 26 febbraio. I colloqui sui quali punta la difesa di Elder risalgono al 2 agosto: sono conversazioni ambientali in carcere tra il giovane, il padre e l’avvocato americano Peters Craig. Erano già state oggetto di polemiche in quanto conversazioni con un difensore.

Ora tornano al centro della questione. Sono una trentina le frasi per il legale Capra tradotte male. Come al minuto 41.25 quando il 19enne dice: “And that’s when I called mom and told her, you know, […] police station and they’re saying I killed a cop. And then I was like, they want to know if I’ll have an Italian lawyer”. Traduzione: “Allora ho chiamato mia madre e le ho detto di trovarmi alla stazione di polizia e che mi stavano dicendo che avevo ucciso un poliziotto”. Nella versione dei carabinieri, portata nei documenti di Capra, la frase diventa: “Ho chiamato casa dicendo di aver fatto la decisione sbagliata, colpendo un poliziotto”. La difesa parla anche di frasi omesse negli atti dell’accusa. Al minuto 38.15 Elder dice: “Well that’s what I told them […] I didn’t know that he was a cop. I thought he was a random criminal guy […] mafia guy”. Traduzione: “Non sapevo che fosse un poliziotto. Pensavo fosse un tizio qualunque, un malvivente […] un mafioso”.

in realtà, in questi stessi documenti della difesa, c’è un passaggio in cui si parla esplicitamente di carabinieri. Al minuto 19.16 Elder dice: “I see two cops sneaking up behind us and then the big guy tackles me, the smaller guy my friend”. Tradotto: “Ho visto due poliziotti arrivare alle spalle, poi quello grande mi ha aggredito e quello più piccolo ha aggredito il mio amico”.

La guerra sulle intercettazioni non impressiona gli investigatori, convinti che eventuali errori saranno evidenziati, in caso, da un terzo perito nominato dal Tribunale. Gli inquirenti sono certi che i due americani erano consapevoli di avere davanti due militari. Per l’accusa ne sono prova le dichiarazioni rese dell’altro americano: “Natale – si legge negli atti – ha dichiarato contrariamente ad Elder, che i due (militari, ndr) avevano effettivamente pronunciato la parola carabinieri, anche se lui non avesse creduto che lo fossero”. C’è poi la versione di Andrea Varriale, il quale agli investigatori ha detto che il collega Cerciello “aveva ribadito che erano carabinieri ”.

“Boccassini era con chi depistò Mi attacca solo per assolversi”

Avvocato Genchi, Ilda Boccassini nei suoi confronti va giù duro, la definisce una persona “pericolosa per le istituzioni perché aveva creato un archivio di dati pazzesco”. Secondo la pm milanese lei vedeva “complotti e depistaggi ovunque”. A parte il fatto, piuttosto ovvio, che dopo 27 anni le indagini le hanno dato ragione, il depistaggio di via D’Amelio è ormai un fatto acclarato, lei come replica?

Piuttosto che infangare l’onorabilità di persone per bene, Ilda Boccassini farebbe bene a riflettere sul suo passato e chiedere scusa alle istituzioni per i suoi errori se non altro per rispetto di Giovanni Falcone del quale sosteneva di essere amica anche se, invero, nei tabulati dei suoi cellulari non ho trovato nemmeno il frammento di una sola telefonata con lei dai primi mesi del 1990 fino al 23 maggio del 1992.

Boccassini sostiene di avere contribuito a esautorarla dalle indagini: “Non mi piaceva il suo modo di lavorare, così fu allontanato – ha detto – Tinebra non voleva perdere la mia capacità lavorativa, quindi da quel momento Genchi non si è più occupato di stragi”.

Guardi, io non sono mai stato cacciato dal gruppo “Falcone Borsellino” e c’è una lettera che lo dimostra, inviata da Boccassini e Sajeva dopo che Arnaldo La Barbera aveva diffuso la voce che avevo abbandonato le indagini per “motivi di sicurezza”. Nella lettera i due pm comunicano a Tinebra di essere “sorpresi” della mia decisione, perchè avevo mostrato di essere “ben consapevole dell’onere e dei rischi dell’indagine”. In realtà io sono andato via per non avere voluto partecipare ai depistaggi delle indagini che La Barbera sia apprestava a compiere e che ha potuto portare alle estreme conseguenze solo grazie allo stretto rapporto che in quel periodo ha intrattenuto con Ilda Boccassini. Rapporto che ha imposto anche agli altri magistrati della Procura di Caltanissetta che a lei sono subentrati e che non hanno potuto fare a meno che continuare ad avvalersi di La Barbera che lei e solo lei aveva accreditato fino al punto da renderlo insostituibile nelle indagini di tutte e due le stragi.

E questo rapporto di fiducia con La Barbera che conseguenze ha avuto, secondo lei, per le indagini?

Ilda Boccassini a distanza di quasi un trentennio da quegli eventi non si rende ancora conto di essere stata – probabilmente senza volerlo – la prima vera responsabile dei depistaggi delle indagini sulle stragi che grazie a lei Arnaldo La Barbera ed altri, sopra e sotto di lui, hanno potuto compiere.

È un’accusa grave. Cosa glielo fa pensare?

La sua repentina fuga da Caltanissetta dopo avere contribuito ad accreditare il falso pentito Vincenzo Scarantino, il suo passaggio dalla Procura di Palermo e il ritorno a Milano, ne sono una conferma. E poi c’è un episodio personale.

Si riferisce alla pista americana?

Esattamente: quand’era pm a Caltanissetta, dopo avermi richiesto ed autorizzato ad analizzare i computer e i dispositivi informatici di Giovanni Falcone, oltre che ad acquisire i tabulati delle sue utenze cellulari, non mi ha consentito di verificare dalle sue carte di credito l’effettiva trasferta in America alla fine di aprile del 1992, che Falcone aveva scrupolosamente annotato nel suo data bank Casio, che delle manine di Stato su cui la Boccassini non volle mai indagare avevano provveduto a cancellare.

 

È sempre tele-Salvini. La Lega parla quanto M5S e dem insieme

L’Agcom ha sanzionato la Rai per il mancato rispetto del pluralismo politico nei suoi notiziari. Bene, è un primo passo. Se Salvini dominava la scena questa sui tg Rai nel 2019, la situazione non è mutata nemmeno a gennaio, visto che al leghista va il record di parola sia nel tg di Carbone (23 minuti, in crescita da dicembre) che in quello di Sangiuliano (15 e 35’’, in crescita anche questo); il solo Tg3 è sembrato attento a contenere una logorrea mediatica non sempre meritevole di racconto (5 minuti e 44’’, in calo).

Sia sul Tg1 che sul Tg2 Salvini parla più del premier e più di un capo di Stato non certo taciturno, visto che al Tg3 Mattarella è primo con 13 minuti. Nei programmi Rai il quadro si fa più fosco: qui Salvini parla per 151 minuti, molto di più di Mattarella (89), il doppio di Zingaretti (74), anche se c’è spazio per Cuperlo, Delrio e Bonaccini (poco più di 30’ a testa), ma pure per Giorgetti (59) e la Borgonzoni (26). La Meloni poi ha 58 minuti, Renzi 48, Di Maio 32, accompagnato da Spadafora e Patuanelli (23 e 19).

Dunque: Salvini parla nei talk della Rai quanto Meloni, Renzi e tutti i grillini; mentre i tre della Lega (Salvini, Giorgetti e Borgonzoni, in tutto 236 minuti) poco meno di Pd (172) e 5 Stelle (74) messi assieme, cioè del primo e secondo partito alle politiche 2018, che per il garante è il riferimento per pesare la rappresentazione in video.

La Rai ricorrerà al Tar, ma la multa, come si vede, se l’è meritata, reiterando a gennaio le scorrettezze dei mesi passati.

Però, qui c’è un “però”. Detto infatti della Rai, ci chiediamo quousque tandem possa continuare lo scempio plateale che del pluralismo, anche solo formale, fanno le reti Mediaset; quel polo pur privato del duopolio nazionale che abusa di fatto di un bene pubblico che gli è concesso quale l’etere.

Se in Rai la situazione è fosca, a Mediaset è drammatica. Anche a gennaio nei tg, ma soprattutto nei talk dell’azienda-partito, la sovra-rappresentazione a favore della destra va oltre la decenza. Censurabili sul piano del pluralismo soprattutto il Tg5 e i talk di Rete4: al Tg5 l’uomo del Papeete sovrasta tutti gli altri anche a gennaio parlando per oltre 22 minuti, seguito da Silvio Berlusconi (17 minuti e 20’’) e da Zingaretti (16), mentre Di Maio (13), Conte (12) e Mattarella (11) sono lontanissimi. Se il Tg5 traccia il solco, a difenderlo ci pensa Rete4: nei suoi talk (Fuori dal coro, Diritto e rovescio, Quarta Repubblica, Stasera Italia) a gennaio parlano quasi soltanto Meloni, Salvini e Borgonzoni, per 5 ore e 25 minuti (!), mentre degli altri i più ciarlieri, cioè Bonaccini (52), Sgarbi (48), Casini (39), Mastella (38), Paragone (36), Mulè (26) e Cofferati (25) dispongono di qualche manciata di minuti. Per giunta, poi, basta un colpo d’occhio per accorgersi che, a parte Bonaccini, Cofferati e (forse) Casini, nei primi dieci sono tutti schierati dalla stessa parte e che dei 5 Stelle non c’è neanche l’ombra.

Cosa fare, allora, di fronte a questo disastro e soprattutto chi può fare? Qui è evidente che i poteri dell’Agcom, pur limitati, non sono proprio di carta, valendo pur sempre il dispositivo della discussa legge Mammì che fa riferimento, anche se per la Rai in maniera più cogente, al rispetto del pluralismo per tutte le reti. Insomma non c’è solo la Rai da sanzionare. E poi c’è la politica, che con una legge di sistema potrebbe sancire quel pluralismo esterno che l’ odioso duopolio non garantisce.

E veniamo a La7. Sebbene con misura e tratto giornalistico differenti, nemmeno lei riesce a sottrarsi alla non certo irresistibile fascinazione salviniana. Sia il Tg che i talk della rete contribuiscono a gonfiare la visibilità del leghista: nel TgLa7 Salvini parla poco più di Zingaretti (10 minuti contro 9), ma Mattarella, Di Maio, Conte, Segre e Meloni seguono con 3 minuti e anche meno; nei talk il leghista straripa con 4 ore e 20 minuti, lasciandosi molto indietro gli altri, da Renzi (2 e 20’) a Bonaccini e Zingaretti (2 e 10’ circa per uno), a Di Maio (2 ore), fino a Calenda, Conte, eccetera, in una ripartizione che pur rispettosa di un equilibrio generale regala all’ex comunista padano una visibilità oltre ogni limite. Oro puro in tempi di personalizzazione della politica. O di politica personale. Alla luce della quale anche qui forse un’occhiata l’Agcom dovrebbe darla.

“Sardine? Mi cacciano e non capiscono il Sud”

“Le Sardine non hanno capito il Sud”. Bruno Martirani fino a qualche giorno fa era l’anima del movimento a Napoli. Poi dopo la manifestazione flop di martedì scorso, con meno di 300 persone, è stato espulso.

Martirani, che cosa è successo?

Sono stato cacciato con un click dal gruppo e dalla pagina delle Sardine che io stesso avevo creato, defenestrato senza nessuna spiegazione, il mio gruppo è stato rinominato da Sardine napoletane a Sardine #areanord. La politica al tempo della non-democrazia digitale.

Perché questa volta il fish-mob non ha funzionato?

Avevo ripetutamente segnalato agli organizzatori che di martedì sera la partecipazione di coloro che lavorano sarebbe stata complicata, così come lo è quella di coloro che vivono in periferia, visto lo stato disastroso dei trasporti pubblici. Come se non bastasse, ci è stato subito “comunicato” che dal palco non avrebbe parlato nessuno di noi Sardine napoletane, alla faccia della partecipazione.

Mattia Santori, volto noto dei pesciolini, non è salito sul palco accusandoti di averlo “aggredito in maniera strumentale e organizzata”, avresti “scavalcato l’organizzazione”, ma l’organizzatore non eri tu?

La manifestazione si chiamava “Sardine per il lavoro” e tutti i vari rappresentanti del mondo del lavoro li ho portati io, gli operai della Whirlpool, della Novolegno di Avellino e delle altre vertenze lavorative aperte in Campania, come la Auchan-Conad erano tutti stati invitati a salire sul palco, sta dicendo una bugia ma non ho rancore, mi sentivo in una dimensione asfissiante, bisognava sempre coordinarsi con tutti, ma perché uno che non conosce il territorio dovrebbe dirmi cosa devo fare?

Non sei una Sardina, ma uno dei “centri sociali e Potere al Popolo” come sostengono i tuoi ex sodali?

Faccio politica da tanti anni e rivendico di provenire dagli spazi liberati di una città laboratorio come Napoli, qui ci siamo liberati dai nazifascisti da soli, non abbiamo bisogno di nessuno. Al Sud servono nuove modalità di fare politica, serve trasparenza e reale apertura nei processi democratici. Erano convinti che l’anti-salvinismo sarebbe bastato ma non funziona così qui. Se vuoi fare il leader nazionale devi ascoltare quelli che hai intorno e se malauguratamente sbagli lo ammetti e chiedi scusa, Santori va avanti ripetendo lo stesso schema e senza mai porsi un dubbio, qui non funziona così.

Secondo diversi analisti in Emilia-Romagna le Sardine hanno contribuito alla vittoria del dem Stefano Bonaccini, perché in Campania lo schema non ha attecchito?

Le ultime infelici uscite, come la foto con Luciano Benetton, e la proposta di fare un Erasmus tra Nord e Sud ha determinato l’allontanamento di tante persone. Bonaccini il giorno dopo le elezioni ha ribadito di voler procedere con l’autonomia regionale, come fa Santori a dire qualcosa contro? Il problema non sono solo i decreti sicurezza, che è sacrosanto abrogare, ma il fatto che molti di noi sono immigrati in Europa o al Nord, questi sono temi divisivi su cui non vogliono esprimersi e fanno orecchie da mercante.

Le Sardine si sono fermate a piazza Dante? La politica deve essere diversa da Nord a Sud?

Non so, di certo con questo finto meriodionalismo al Sud non andranno tanto lontane. Da Roma in giù la partecipazione politica non si attiva con le stesse modalità perché ci sono problemi diversi. Noi lottiamo per avere il tempo pieno a scuola, in Emilia-Romagna si parla di asili nido gratuiti. Non è questo il modo di cambiare la politica. A Sud le Sardine non funzionano. Bisogna parlare di temi concreti che incidono realmente sulla risoluzione delle difficoltà quotidiane delle persone invisibili e in difficoltà.

Carola “agì correttamente”. I motivi dell’arresto ingiusto

Carola Rackete non doveva essere arrestata per resistenza a pubblico ufficiale. E neanche per il suo atto di resistenza o violenza – l’ormai famoso “speronamento” – contro la nave della Guardia di Finanza. Da ieri sono pubbliche le motivazioni che hanno spinto la Corte di Cassazione a respingere il ricorso della Procura di Agrigento sull’arresto, non convalidato dal gip nel giugno scorso, di Carola Rackete, la capitana della Sea Watch 3. E si tratta di motivazioni che aprono uno scenario nuovo sulla gestione dei soccorsi. Torniamo a quei giorni e riepiloghiamo la vicenda.

La capitana della Sea Watch 3 è nel porto di Lampedusa con 42 naufraghi a bordo. Da 48 ore non arriva l’autorizzazione allo sbarco e la situazione sulla nave sta peggiorando. Alle 2 di notte del 29 giugno decide di attraccare senza alcuna autorizzazione. Una motovedetta della GdF con 5 finanzieri a bordo tenta di impedire l’operazione: “La comandante”, spiegheranno di lì a poco, “non ha fatto nulla per evitarci. Poteva schiacciarci. Voleva attraccare a tutti i costi”. Rackete, giunta in caserma, si scusa: “Non era nelle mie intenzioni venirvi addosso. La mia intenzione era quella di completare la mia missione, non di speronarvi”. La Procura di Agrigento arresta Rackete che risulta indagata per “favoreggiamento dell’immigrazione clandestina”, “resistenza a pubblico ufficiale, “danneggiamento” e “resistenza o violenza contro nave da guerra”.

“Le ragioni umanitarie – dichiara in quelle ore il procuratore capo di Agrigento Luigi Patronaggio – non possono giustificare atti di inammissibile violenza nei confronti di chi in divisa lavora in mare per la sicurezza di tutti”. L’arresto di Rackete non viene convalidato dal gip di Agrigento, Alessandra Vella, che ritiene obbligatorio l’attracco a Lampedusa. Tesi condivisa anche dalla Corte di Cassazione. Vediamo perché.

Innanzitutto, secondo la Cassazione, non è contestabile l’articolo 1100 del codice della navigazione – che prevede fino a 10 anni di carcere – perché la motovedetta della GdF è sì una nave militare, ma questa caratteristica non ne fa automaticamente una nave da guerra. Rackete ha agito correttamente rispettando le norme internazionali sul “salvataggio in mare”.

“L’obbligo di prestare soccorso – sostiene la Cassazione – non si esaurisce nell’atto di sottrarre i naufraghi al pericolo di perdersi in mare, ma comporta l’obbligo accessorio e conseguente di sbarcarli in un luogo sicuro”. Per la Procura di Agrigento, infatti, non vi era “la necessità di condurre a terra i naufraghi” perché la stessa Sea Watch 3 avrebbe dovuto essere “considerata place of safety – cioè un porto sicuro – dal momento che i naufraghi erano stati messi adeguatamente in sicurezza e assistiti in attesa di una individuazione in via definitiva del luogo di sbarco”. In sostanza “il dovere di soccorso doveva ritenersi, in quel momento, già adempiuto”. “Non può essere qualificato ‘luogo sicuro’, per evidente mancanza di tale presupposto una nave in mare che, oltre a essere in balìa degli eventi meteorologici avversi, non consente il rispetto dei diritti fondamentali delle persone soccorse”. La motivazione della Cassazione “costituisce un punto di riferimento decisivo per valutare la materia dei soccorsi in mare” commentano in una nota i tre avvocati di Rackete, Alessandro Gamberini, Leonardo Marino e Salvatore Tesoriero. “Il soccorso – concludono – non si esaurisce nel salvataggio in mare, ma quando è garantito un porto sicuro nel quale siano assicurati i diritti dei naufraghi”.

L’ex ministro dell’Interno Matteo Salvini, accusato di sequestro di persona per aver ritardato il rilascio del nulla osta allo sbarco nel caso Gregoretti – rischia anche il processo per diffamazione ai danni di Rackete che all’epoca definì “delinquente” e “sbruffoncella”– ha commentato: “Se è vero quello che leggo, che si può speronare una nave della GdF, è un principio pericolosissimo per l’Italia e gli italiani”.