I dolori della sindaca Chiara tra piazza S. Carlo e i bilanci

Rischia una pena molto alta, che sarà ridotta di un terzo perché ha deciso di essere processata col rito abbreviato: “Ritengo importante che il giudizio sulle responsabilità, per me che rivesto un ruolo pubblico, arrivi il prima possibile”, aveva dichiarato a dicembre. Oggi comincia il processo contro Chiara Appendino per i fatti di piazza san Carlo, mentre presto terminerà un altro processo, quello sul caso Ream.

Nel caso piazza San Carlo la sindaca M5S di Torino, in concorso con il suo ex braccio destro ed ex capo di gabinetto Paolo Giordana, l’ex questore Angelo Sanna, il presidente di Turismo Torino Maurizio Montagnese e un componente della commissione provinciale di vigilanza, deve difendersi dalle accuse di omicidio colposo, lesioni colpose e disastro per quanto avvenuto la sera del 3 giugno 2017 in piazza San Carlo, nel centro di Torino.

Lì si erano radunati migliaia di tifosi della Juventus per assistere alla finale di Champions League contro il Real Madrid, trasmessa su un maxi-schermo. La piazza era sovraffollata, condizioni di sicurezza scarse, vie di fuga assenti. Molto probabilmente per via dello spray al peperoncino utilizzato da una banda di giovani rapinatori (già condannati per omicidio preterintenzionale), si scatenò il panico tra i tifosi e la calca provocò moltissimi feriti (circa 1.500 quelli curati negli ospedali cittadini), due donne morte per le conseguenze dello schiacciamento, Erika Pioletti e Marisa Amato, mentre una terza persona, Anthony Bucci, è deceduta il 31 gennaio quasi certamente per i postumi dei traumi subiti quella notte. L’inchiesta ha fatto luce su una catena di carenze organizzative e varie responsabilità. Nei giorni scorsi il gip Maria Francesca Abenavoli ha rinviato a giudizio nove persone, mentre oggi verrà definito il calendario di udienze per la discussione del procuratore aggiunto Vincenzo Pacileo, gli interventi delle parti civili e le arringhe dei difensori.

Appendino e gli altri rischiano una pena molto alta, ma se Appendino venisse condannata non subirebbe conseguenze immediate. Rischia invece la sospensione dalla sua carica se dovesse essere condannata in un altro processo, quello per il caso Ream.

Lo scorso 6 febbraio i procuratori aggiunti Enrica Gabetta e Marco Gianoglio hanno chiesto al tribunale di condannare la sindaca M5S e l’assessore al Bilancio Sergio Rolando a un anno e due mesi di reclusione. Pena lievemente più bassa, un anno, quella chiesta per Giordana. Il processo vede i tre imputati accusati di falso in atto pubblico e abuso d’ufficio in merito all’iscrizione a bilancio di un debito da cinque milioni di euro: l’amministrazione pentastellata ne ha tardato di un anno l’iscrizione nel bilancio, ma per le opposizioni del consiglio comunale e il collegio sindacale andava iscritto nel rendiconto del 2016. Se venisse ritenuta colpevole di abuso d’ufficio, allora scatterebbe la sospensione in base alla legge Severino.

Il 28 febbraio la parola andrà ai difensori della sindaca Luigi Chiappero e Maria Turco. Resta ancora aperta, infine, la posizione di Appendino nell’inchiesta che ruota intorno all’ex portavoce Luca Pasquaretta. Quest’ultimo aveva ottenuto un incarico di collaborazione (cinquemila euro) con il Salone del libro, un incarico che sarebbe stato illegittimo, ragione per cui è accusato di peculato. Per Appendino, indagata di concorso in peculato, potrebbe esserci un’archiviazione.

Il sostituto procuratore Gianfranco Colace ha chiuso da tempo l’indagine inviando l’avviso di conclusione dell’inchiesta a Pasquaretta e altre persone, ma stralciando la posizione della sindaca in attesa di concludere gli interrogatori chiesti dagli indagati. Lunedì la funzionaria del comune Elisabetta Bove, indagata, avrebbe fornito risposte per scagionare Appendino, ma la Procura non ha ancora preso una decisione.

La carica dei 40 per la sfida impossibile a Zaia

“Zaia lo possiamo battere soltanto con la Vacca Mora…”. Prego? “Sì, il trenino che collega Adria con Venezia e che impiega quasi due ore per percorrere una cinquantina di chilometri. Noi dobbiamo sfidare il governatore leghista sui temi concreti, dove la sua amministrazione non ha fatto niente, anzi ha fallito”. Omar Barbierato è il sindaco di Adria, in Polesine, e non si può definire un sindaco del Pd, visto che lo ha sfidato alle ultime amministrative, sconfiggendolo al ballottaggio con tre liste civiche.

Non a caso cita la Vacca Mora, la linea dei pendolari gestita da Sistemi Territoriali, una costola della Regione, esempio di atavica lentezza e confutazione dei proclami della giunta leghista, secondo cui in Veneto tutto funziona alla meraviglia.

Barbierato è uno dei 40 sindaci veneti usciti allo scoperto non appena il Pd ha indicato, seppur spaccandosi, come avversario di Luca Zaia alle elezioni di maggio il vicesindaco di Padova, Arturo Lorenzoni. Un “civico”. Anzi, un docente universitario prestato alla politica che nel capoluogo del Santo ha fatto una piccola rivoluzione, portando nella giunta di Sergio Giordani una buona parte della società civile progressista.

I sindaci furono, all’alba del Duemila, l’arma civile di Massimo Cacciari, che tuttavia non riuscì a scalzare il monopolio di Giancarlo Galan, il quale una decina d’anni dopo passò il testimone alla Lega. I sindaci ritornano quattro lustri dopo, in questo primo scampolo di campagna elettorale, con un appello a tutto il centrosinistra, l’invito a superare le manovre spericolate di Matteo Renzi o i distinguo di Carlo Calenda. Fare un fronte unico, anzi, se possibile allargare lo schieramento a tutti gli oppositori di Zaia. Tentativo estremo per un’impresa che nel Veneto Bianco non è mai riuscita.

Padova e Belluno, Rovigo e Adria, Piove di Sacco e Dolo, Camposampiero e Ponte nelle Alpi, tutti uniti per “affrontare il passaggio delle elezioni regionali senza incertezze, con forza, determinazione, e soprattutto unità”.

Già Renzi sta muovendo le sue pedine, e per farlo si è affidato all’ex coordinatore regionale di Forza Italia, addirittura un ex assessore di Zaia (al Sociale, dal 2014), poi eletto in Parlamento e tuttora sindaco di Garda. Calenda, invece, ha fatto seguire gli incontri preparatori della scelta di Lorenzoni.

È a questi due diversi atteggiamenti che guardano i sindaci, interpretando la linea di apertura di Lorenzoni. Ritengono che “affrontare le elezioni in un clima conflittuale, che porti lo scontro nel campo del centrosinistra, sia dannoso e inspiegabile agli occhi della gente”. Non guardano solo allo steccato della sinistra, ma “a tutte le forze democratiche, riformiste, progressiste e liberali”. Quindi, oltre che a Italia Viva e Azione, anche a +Europa, ai socialisti, agli ambientalisti, in generale ai moderati.

Non hanno ricette, parlano con concretezza. Alberto Polo, sindaco di Dolo: “Sarebbe un errore spacchettarci, apriamoci al mondo civico”. Alessio Albertini, sindaco di Belfiore: “È un appello di buon senso a stare uniti, già la sfida è impossibile, se cominciamo a dividerci…”. Jacopo Massaro, sindaco di Belluno: “Zaia si può battere solo marcando ciò che ci divide da lui”. Ad esempio? “La Sanità di tutti viene privatizzata, con strutture e posti letto in diminuzione. Il Veneto è l’area più inquinata d’Europa, ma nel programma regionale l’ambiente non è in cima all’agenda. Si sostiene la Grande Distribuzione, mentre le piccole imprese e i commercianti stanno morendo. Le pare poco?”.

“Se il Pd scarica Renzi e Giani, si può fare un patto in Toscana”

“Se il Pd scaricasse Renzi e Giani…”.

Cosa succederebbe, consigliera Galletti?

Be’, sarebbe un segnale politico molto forte che noi del Movimento 5 Stelle dovremmo prendere in considerazione. Anzi, le dico di più: quando vedrò quel gesto, mi siederò al tavolo con loro. Ma sono disposti a farlo?

Irene Galletti, 43 anni, nata e cresciuta a Pisa, è la candidata del M5S alle elezioni regionali toscane di maggio: considerata molto vicina al presidente della Camera Roberto Fico, a fine gennaio è riuscita a battere per 200 duecento voti l’uomo di Luigi Di Maio in Toscana, Giacomo Giannarelli. Ora prova a “stanare” i dem: “Se il Pd si derenzizzasse anche in Toscana, potremmo aprire una trattativa”.

Cosa vuol dire, in concreto?

La differenza della Toscana rispetto ad altre regioni dove stiamo cercando un’intesa con il Pd si chiama Matteo Renzi. Lui è quello che in questo momento sta creando scompigli, ricattando continuamente il governo Conte e qui anche Giani. Al momento quindi non siamo noi che abbiamo chiuso la porta al Pd ma sono loro che l’hanno fatto scegliendo Renzi: loro ci chiedono di entrare in casa, ma poi chiudono la porta.

Ce l’avete con Renzi, ma a livello nazionale governate insieme.

I due “Matteo”, Renzi e Salvini, sono due facce della stessa medaglia: rappresentano il sistema e con loro non ci siederemmo mai a un tavolo. Con il Pd è diverso perché ci sono dei valori comuni: l’antifascismo, il rispetto delle regole, la lotta alle diseguaglianze, l’ambiente. Ci possiamo confrontare sui temi. L’importante è che il Pd sia libero dal potere renziano.

Va bene, e se dovessero mollare Renzi?

Immaginando questo scenario, al momento improbabile, ci metteremmo al tavolo con loro e inizieremmo a parlare di temi come il Tav di Firenze, l’aeroporto e gli inceneritori. Noi siamo per il “no” a tutte queste cose, ma almeno ne potremmo parlare: magari saremmo in disaccordo su tutto ma se volessero sorprenderci, ne sarei felice.

In questi mesi avete trovato molti punti d’incontro con il Pd, come sull’economia circolare.

Certo, io ho cercato il dialogo dal primo giorno in cui ho messo piede in consiglio regionale. Sui singoli temi abbiamo discusso e votato spesso con loro: questo non vuol dire necessariamente allearsi ma se loro presentano un piano “no inceneritori”, noi lo votiamo. Sull’economia circolare loro ci sono arrivati solo adesso e ne sono contenta: è un primo punto di partenza.

Quali sono i primi tre punti del vostro programma che potreste sottoporre al centrosinistra?

Lo stiamo scrivendo in questi giorni girando per i territori: per me il tema fondamentale è l’ambiente, che dovrà essere la matrice di ogni nostra scelta. Poi vengono il lavoro e la sanità.

A un ipotetico ballottaggio Giani contro il candidato della Lega, chi indichereste?

Non ho mai dato indicazioni di voto né verso destra né verso sinistra ma i valori comuni sono con il centrosinistra e non con la Lega di Matteo Salvini.

Con cui vi siete alleati nel 2018.

Infatti abbiamo perso così tanti voti per quei 14 mesi al governo con la Lega: siamo stati visti come parte del sistema.

Chi votava prima del M5S?

I miei miti da giovane erano Falcone e Borsellino e per questo sono sempre rimasta colpita da Antonio Di Pietro: votavo Italia dei Valori e qualche volta ho votato il centrosinistra, ma mai il Pd.

Lei che è vicina a Roberto Fico che tipo di leadership vorrebbe per il M5S del futuro?

Vorrei una leadership condivisa e mi piacerebbe vedere una donna fare il capo politico, come Chiara Appendino. Sarò “sessista” ma vorrei che questo accadesse anche per la presidenza della Regione Toscana: una donna governatrice. Magari è la volta buona.

Inchieste, amici e prescrizione Perché Matteo va alla guerra

Matteo Renzi ha combattuto una battaglia campale contro le intercettazioni e a favore della prescrizione. Negli stessi giorni il Gip Gaspare Sturzo ha rigettato (in parte) la richiesta di archiviazione per il presunto traffico di influenze sul caso Consip contestato a Babbo Renzi. Se proviamo a intersecare i piani della cronaca giudiziaria con quelli della politica scopriamo una chiave di lettura intrigante all’attivismo dell’ex premier. C’è un altro procedimento che vede indagato un amico dei renziani nel mondo della magistratura, il pm di Roma Luca Palamara, ex componente del Csm. In quell’inchiesta perugina come è noto ci sono ore di conversazioni imbarazzanti di Luca Lotti e Cosimo Ferri, due parlamentari amici di Renzi (non indagati), captate con il trojan iniettato nel cellulare di Palamara.

Cosa c’entrano questi procedimenti con il complesso iter politico delle riforme del ministro Alfonso Bonafede?

Le nuove norme sulla prescrizione introdotte dal Governo Conte si applicheranno solo ai procedimenti penali nati dopo il gennaio 2020. Anche la normativa sulle intercettazioni approvata ieri al Senato e che ora dovrà passare alla Camera entrerà in vigore solo per i procedimenti penali iscritti dopo il 30 aprile del 2020.

Quindi sia le nuove norme sulla prescrizione sia quelle sulle intercettazioni non si applicano a nessuno dei procedimenti che riguardano Tiziano Renzi, Luca Lotti (a giudizio per favoreggiamento nel caso Consip) o Luca Palamara.

Però c’è un aspetto interessante da considerare: Matteo Renzi ha visto gli effetti sulla vita pubblica, sulle carriere politiche e professionali dei suoi amici e familiari più stretti dei due istituti in discorso. Allora la domanda da porsi per comprendere la ragione della grande forza impressa da Renzi alla sua battaglia politica contro le intercettazioni e a favore della prescrizione è questa: cosa sarebbe accaduto se le nuove norme (volute dal ministro della giustizia Alfonso Bonafede e osteggiate da Renzi) fossero state efficaci ai tempi del caso Consip o del caso Csm? E cosa sarebbe accaduto se il regime applicabile invece fosse stato quello auspicato da Bonafede e compagni?

Partiamo allora dal caso Consip. Gran parte delle intercettazioni che dovranno essere usate dai pm per proseguire le indagini contro Tiziano Renzi e compagni sono state captate grazie a microspie e trojan autorizzati dal Gip di Napoli al pm Henry John Woodcock che però aveva iniziato a indagare per reati diversi e più gravi di quello contestato al padre di Matteo Renzi.

Il traffico di influenze illecite ha una pena massima molto bassa pari a 4 anni e sei mesi e non permette ai pm le intercettazioni. Nel caso in questione erano state autorizzate dal Gip, non contro Tiziano Renzi ma contro Alfredo Romeo, per colpire una presunta associazione a delinquere con al centro Napoli e Romeo stesso. Intercettando l’imprenditore campano, per quel reato grave anche a Roma nei suoi uffici, era stata captata la sua fitta serie di incontri con Carlo Russo, il quale a sua volta parlava di Tiziano Renzi con Romeo, spendendo quel nome e quel cognome a sua insaputa a detta del Babbo.

Quelle intercettazioni erano utilizzabili però, secondo i magistrati napoletani e romani perché c’era una connessione tra l’indagine A su Romeo e quella B su Romeo e Renzi Sr.

La stessa interpretazione ‘lasca’ del concetto di connessione tra i due reati (cioé quello che ha permesso al pm di ottenere le intercettazioni e quello che ha scoperto ascoltando ‘a strascico’) è stata usata dai pm di Perugia per contestare ad alcuni magistrati che facevano presunte rivelazioni di segreto (reato non grave e non intercettabile con trojan) parlando con il pm Luca Palamara, indagato per corruzione, reato che permetteva il trojan.

A gennaio scorso però la Cassazione a Sezioni Unite ha improvvisamente cambiato orientamento e ha statuito che le intercettazioni ‘a strascico’ per un reato diverso e più lieve sono utilizzabili solo se il reato così scoperto per caso è a sua volta uno di quelli che permette l’intercettazione. La Corte ha così messo una mina sotto l’inchiesta Consip e sotto l’inchiesta Csm che certamente gli avvocati faranno esplodere alla prima udienza utile. Il decreto approvato ieri con la fiducia anche di Italia Viva (che ha votato senza Matteo e turandosi il naso) mette una toppa meno stretta del buco. Si prevede sì che si possano usare le intercettazioni a strascico ma solo se indispensabili ad accertare i reati gravi come la corruzione, quindi non il traffico di influenze contestato a Tiziano Renzi né la rivelazione di segreto contestata per esempio all’ex procuratore generale della Cassazione Riccardo Fuzio sulla base delle parole captate dal trojan innestato nel telefonino di Palamara.

Quanto alla prescrizione, Tiziano Renzi e compagni sarebbero stati meno sereni se la legge Bonafede fosse stata in vigore già ai tempi dei fatti del caso Consip. Il traffico di influenze si prescrive al massimo in 7 anni e mezzo comprese le interruzioni processuali. Poiché i fatti dell’inchiesta Consip risalgono al massimo all’estate 2016, nell’ipotesi peggiore per Tiziano (al momento teorica) di un processo, la prescrizione scatterebbe alla fine del 2023.

Anche se Tiziano Renzi, va detto, non ha alcuna colpa se a distanza di tre anni e mezzo dai fatti i pm e il Gip non hanno ancora trovato l’accordo per fargli sapere il suo destino.

Sulle registrazioni decide il pm, via libera al Trojan

Il decreto legge sulle intercettazioni, votato con la fiducia in Senato, viene approvato dal Consiglio dei ministri il 21 dicembre scorso in tutta fretta per evitare la quarta proroga consecutiva a firma del ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, in modo da differire la riforma del suo predecessore, Andrea Orlando, diventato nel frattempo vicesegretario del Pd e alleato di governo.

Bonafede, quando fu nominato Guardasigilli con l’ex maggioranza gialloverde, per prima cosa bloccò proprio la riforma Orlando del 2017. Dunque, non è mai entrata in vigore e Bonafede, dal luglio 2018, ha firmato 3 proroghe.

A dicembre, invece, il decreto legge che apporta modifiche di sostanza come chiesto da pm e avvocati, per una volta uniti e contrari a quella normativa che prevedeva la delega per la cernita delle intercettazioni alla polizia giudiziaria, in linea gerarchica dipendente dal governo e non al pm, indipendente dall’esecutivo. Per quelle ritenute irrilevanti dalla pg non era previsto neppure il solito “brogliaccio”, il riassunto scritto per i pm, ma solo l’indicazione di luogo, data e ora della registrazione; per la difesa vietato fare fotocopie persino delle intercettazioni rilevanti, mentre per quelle considerate irrilevanti dalla pg e depositate in una cassaforte sotto responsabilità dei pm, previsto esclusivamente l’ascolto, complicatissimo.

Con la nuova legge, che dovrebbe avere il via definitivo alla Camera la settimana prossima, ci sono miglioramenti fondamentali: torna al pm la supervisione delle registrazioni e quindi l’ultima parola su quale materiale considerare rilevante e quale no. Al pm toccherà anche vigilare perché nei verbali non siano riportate espressioni che ledono la reputazione di singole persone o dati personali, “salvo che si tratti di intercettazioni rilevanti ai fini delle indagini”.

Verbali e registrazioni saranno immediatamente trasmessi dalla pg al pm, che li depositerà entro 5 giorni. Gli avvocati possono fare copie delle intercettazioni rilevanti, inoltre potranno chiedere al giudice di acquisire intercettazioni ritenute irrilevanti dal pm ma importanti secondo la difesa.

Per quanto riguarda le indagini in corso, il decreto ha chiarito un punto fondamentale per i procuratori, che a dicembre erano pronti, come rivelato dal Fatto, a inviare in merito una lettera al ministro Bonafede, se il 1º gennaio fosse entrata in vigore la vecchia legge Orlando, pur senza una norma transitoria: per le intercettazioni in corso valgono le regole attuali, le nuove si applicheranno alle iscrizioni di notizia di reato datate dal 1º maggio 2020, quando la legge entrerà in vigore. Il decreto, in realtà, prevedeva il 1º marzo, ma le procure, ha fatto sapere il Csm, non sono ancora pronte e quindi sono stati concessi altri due mesi affinché siano dotate dei neo archivi digitali per la custodia delle intercettazioni.

Nel testo approvato ieri è stato recepito pure l’emendamento che supera una sentenza di gennaio delle Sezioni Unite della Cassazione secondo la quale non si possono utilizzare le intercettazioni per un reato diverso da quello per cui sono state autorizzate, se non in caso di connessione con l’originario e autonomamente intercettabile, oppure se prevede l’arresto in flagrante. Invece, con la nuova legge, le intercettazioni si possono usare anche per un reato “emergente” purché siano “rilevanti e indispensabili per l’accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza e per reati gravi”, fra i quali spaccio, usura, e reati corruttivi con pene sopra i 5 anni. Così si salvano indagini e processi importanti, anche in corso, messi a rischio dalla sentenza della Cassazione, come la parte di inchiesta Consip, a Roma, sul traffico di influenze, che ha coinvolto pure Tiziano Renzi. Italia Viva aveva provato a mettersi di traverso in Commissione, ma poi si è arresa. Inoltre, si potrà utilizzare il trojan, il captatore informatico, per i reati contro la Pubblica amministrazione puniti con una reclusione sopra i 5 anni, commessi non solo dai pubblici ufficiali, come già previsto dalla Spazzacorrotti, ma anche dagli incaricati di pubblico servizio, pure se si trovano in una privata dimora. Niente carcere per i giornalisti in caso di pubblicazione di notizie coperte da segreto: restano le norme attuali.

Sui tempi e sull’uso delle intercettazioni, le modifiche al decreto sembrano aver recepito suggerimenti del Csm che ha votato giovedì scorso un parere, relatori Nino Di Matteo e Giuseppe Marra, in cui si apprezza il cambio di rotta rispetto alla riforma Orlando, ma si evidenziano anche alcune criticità. Una riguarda la prevista distruzione di intercettazioni contenute in un fascicolo processuale, dopo la sentenza definitiva, ma che possono essere cruciali anche dopo anni: ci sono processi, ha detto Di Matteo, che si riaprono a distanza di tanto tempo, come quelli per le stragi siciliane.

Intercettazioni, ok anche da Iv

Il governo incassa la fiducia al Senato sul decreto Intercettazioni, ma la battaglia in seno alla maggioranza non è finita: alla fine della giornata, il provvedimento, che ora dovrà essere approvato dalla Camera, passa con 156 sì (i contrari sono stati 118, nessun astenuto), anche grazie ai voti di Italia Viva. Anche se Matteo Renzi non partecipa al voto secondo quanto raccontano i tabulati di fine seduta, che lo danno in congedo. Questo dopo aver precisato in giornata che il via libera accordato dal suo partito non equivale affatto “a una fiducia al ministro della Giustizia Bonafede”. Che rimane nel mirino finché – questo è l’auspicio – non farà un passo indietro sulla prescrizione.

Sempre ieri, alla Camera, Italia Viva è tornata alla carica, votando ancora una volta con l’opposizione. Questa volta sugli ordini del giorno al Milleproroghe (di Enrico Costa di Forza Italia e Lucia Annibali della stessa Iv) volti a posticipare la riforma già in vigore dal 1º gennaio, provvedimenti che però non passano. Al Senato non va meglio. Le scintille nella maggioranza proseguono fino all’ultimo istante prima dell’ok al provvedimento sulle intercettazioni. Che, tra le altre cose, estende la possibilità del cosiddetto trojan anche per i delitti contro la Pubblica amministrazione commessi “da incaricati di un pubblico servizio” oltre che “da pubblici ufficiali”, e consente inoltre le captazioni telefoniche anche ai reati commessi con il cosiddetto “metodo mafioso” o “al fine di agevolare associazioni di stampo mafioso”.

Ma il punto di massima frizione è sull’utilizzo come prova, seppure limitato al caso di reati particolarmente gravi, delle intercettazioni acquisite in altro processo. Alla fine il capogruppo di Italia Viva, Giuseppe Cucca, pur concedendo la fiducia al governo, ha precisato che la soluzione di compromesso trovata “non è pienamente soddisfacente”, tanto per ribadire che si tratta di un decreto mal digerito. Una presa di distanza che indispettisce, a dir poco, Pietro Grasso di LeU. Che si leva qualche sassolino dalle scarpe nei confronti di Matteo Renzi reo, a suo dire, di costringere tutti ad assistere a un dibattito lunare pur di disconoscere il lavoro di tessitura fatto dalla maggioranza e disconoscere la capacità di ascolto di Bonafede: “Delegittimare pubblicamente il provvedimento per poi votarlo, esprimendo la fiducia a quello stesso governo che nei retroscena dei giornali si dichiara di voler far cadere, è un tipo di politica che non mi piace e che vola basso”.

Mattia Crucioli del Movimento 5 Stelle, invece, tuona contro il partito di Salvini, che due giorni fa aveva occupato la commissione Giustizia accusando la maggioranza addirittura di brigare per favorire i pedofili: “La Lega è disponibile, anzi, incline alla mistificazione. Credo che si debba avere finalmente il coraggio di riconoscere l’errore di aver governato per troppo tempo con voi: non sono il rappresentante legale del Movimento, ma voglio chiedere scusa agli elettori a mio nome”.

Marzabotto, la prima cittadina sarà presidente Pd

Una foto della grande piazza delle sardine a Bologna, un post per liberare lo studente egiziano Patrick Zacky ma anche una “raccolta manuale del legname caduto in alveo” pubblicata dal Comune di Marzabotto. E poi, ovviamente, il valore della memoria incarnato da uno scatto con la senatrice a vita Liliana Segre.

Dalla bacheca Facebook del sindaco di Marzabotto Valentina Cuppi, 37 anni, sposata con un figlio, si capisce perché Nicola Zingaretti abbia deciso di puntare su di lei per la presidenza del Pd da sottoporre all’assemblea nazionale di domani. Cuppi, laureata in Filosofia e con un dottorato in Scienze Politiche all’Università di Bologna, ha fatto una lunga “gavetta” prima di essere eletta un anno fa con il 78% dei voti guidando un’alleanza di centrosinistra: prima come consigliera con delega alla Pace e alla Memoria e poi come vicesindaca e assessore a Cultura e Turismo. È lei che negli ultimi anni ha portato in tutta Italia il ricordo dell’eccidio di Marzabotto che tra il 29 settembre e il 5 ottobre 1944 portò all’uccisione di circa 1.830 persone per mano nazista. “Credo che Valentina possa rappresentare al meglio il percorso di apertura che stiamo costruendo – ha detto ieri Zingaretti – a partire da Marzabotto, città simbolo del sacrificio di tanti uomini e tante donne vittime dei crimini nazifascisti contro l’umanità. Combatteremo l’odio con una battaglia culturale ed una mobilitazione che coinvolgerà tutti gli italiani”.

Il segretario dem ha anche sottolineato l’importanza di scegliere un sindaco come presidente del Pd per un “coinvolgimento maggiore degli amministratori democratici nella vita del partito” e che da domani al vertice ci saranno tutte donne: se l’assemblea voterà a favore, Cuppi sarà affiancata dalle due vicepresidenti Anna Ascani e Debora Serracchiani.

Cerno abbandona i dem e si scorda il debito: deve oltre 30 mila euro, ma li chiama “pizzo”

Tommaso Cerno è tornato da Renzi. Una scelta sofferta, procrastinata per mesi e sicuramente scaturita da nobili tensioni ideali. Eppure ci tocca scrivere di vil denaro. Infatti nella battaglia intellettuale ingaggiata da Cerno contro il suo ex partito – e contro una delle sue molteplici personalità – c’entrano pure i soldi: quelli che il neorenziano ha omesso di versare al gruppo con cui è stato eletto. Il 4 marzo 2018 il neo-acquisto di Italia Viva era entrato in Senato grazie alla candidatura ritagliata per lui dai democratici in uno dei collegi di Milano. Il regolamento è lo stesso per tutti gli eletti: chi entra in Parlamento si impegna a versare una quota mensile del proprio stipendio al partito (che dall’abolizione del finanziamento pubblico vive in condizioni economiche molto precarie). L’obolo è di 1.500 euro al mese.

Si può discutere sull’opportunità di questa forma di sostegno alla politica (io ti faccio eleggere e tu mi risarcisci per il tuo seggio) ma è un impegno – peraltro trasversale a partiti e Movimenti – che tutti gli onorevoli dem sottoscrivono al momento della candidatura.

Cerno, per sua stessa ammissione, è insolvente. Ed è stato addirittura lui a lamentarsene mercoledì pomeriggio, ospite in radio di Un giorno da pecora, con un’uscita in odore di situazionismo: “Si chiama pizzo, hanno chiesto il pizzo”. Il senatore si sente vittima di estorisione, insomma. E ce l’ha con la segretaria del Pd di Milano, Silvia Roggiani: “Ha detto che se andavo con i 5 Stelle non capivo niente… la segretaria, questa che faceva la portaborse della Toia. Faceva la portaborse di un’europarlamentare e fa il segretario di Milano… Dopo avermi chiesto il pizzo di 18 mila euro, mi ha detto ‘buona fortuna’. Si chiama pizzo, i soldi per parlare, per esprimere il proprio pensiero”.

Il pizzo – Cerno ne è consapevole – è una realtà drammatica, difficile da associare alla condizione di un parlamentare. Le sue parole sono state criticate, ovviamente, da tutto il Partito democratico, e la Roggiani ha annunciato querela.

Quello che Cerno non dice è che il suo debito non è nei confronti del Pd milanese ma di quello nazionale. E che la somma è molto più alta dei 18mila euro dichiarati in radio. Lo confermano dalla tesoreria del Pd: il contributo mensile dei parlamentari è di 1.500 euro. E Cerno è completamente insolvente. Significa che da marzo 2018 a oggi all’appello mancano 22 o 23 mensilità (a seconda che si conteggi o meno anche febbraio 2020): il senatore deve al Pd tra i 33mila e i 34.500 euro.

Cerno è peraltro l’unico dei “transfughi” che hanno lasciato il Nazareno per raggiungere Renzi e Italia Viva a non aver ancora regolarizzato la sua situazione.

Cerno è stato sollecitato al pagamento alcuni mesi fa per l’ultima volta, ma non ha risposto . In quel periodo era ancora convinto di restare nel Pd. “Sarebbe alquanto strano togliermi di mezzo ora”, disse al momento della nascita di Italia Viva. Anche perché finalmente “i dem sono venuti verso chi, come me, pensava che il futuro della sinistra fosse un big bang con i Cinque Stelle”. Poi ha cambiato idea, è stato di nuovo abbacinato dal fascino decadente del renzismo. La battaglia delle idee non ha prezzo.

“Il sindaco d’Italia? Come no, e pure la contessa regionale”

La vita dei renziani rimasti nel Pd all’inizio è sembrata a tutti difficile. Anche perché su di loro gravava il forte sospetto che fossero una sorta di quinta colonna rimasta dentro, ma nei secoli fedele all’ex premier. Un cavallo di Troia dentro il partito di Nicola Zingaretti. Con tanto di brand: Base riformista il nome della corrente creata da Luca Lotti e Lorenzo Guerini. Col passar del tempo, però, la sensazione è andata via via evaporando. Perché, chi più e chi meno, sui temi più diversi, quasi tutti hanno preso le distanze (o addirittura attaccato apertamente) da colui che prima osannavano come Gesù Cristo risceso in terra. E l’esempio più lampante sono i commenti degli ex renziani al percorso riformista proposto da Renzi mercoledì sera a Porta a Porta, col sindaco d’Italia, l’apertura al centrodestra, eccetera.

La prima bocciatura, secca, ieri mattina, è arrivata da Andrea Marcucci, capogruppo del Pd in Senato, che Zingaretti ha deciso di tenere lì nonostante fosse, fino a poco tempo fa, di comprovata fede renziana. “Io rispetto le idee di tutti, anche quelle di Renzi, non credo però che questa legislatura abbia lo sprint giusto per avviare una complicata stagione di riforme. L’Italia e la maggioranza hanno problemi più seri”, ha detto il capogruppo dem. Come a dire a Renzi: il governo sta in piedi con lo sputo, e tu parli di riforme? Ma che c’azzecca? Ragionamento analogo fa Stefano Ceccanti, che della riforma costituzionale targata Renzi del 2016 è stato uno degli autori principali. “Prima bisogna tenere insieme la maggioranza e far andare avanti questo governo, poi se ne può parlare. Se Renzi ha delle idee, le porti nel tavolo già aperto a Palazzo Chigi. Non mi sembra, però, che si possa esportare il sistema dei sindaci a livello nazionale…”, osserva il costituzionalista e deputato dem, che boccia la proposta anche nel merito.

Altro fedelissimo era Graziano Delrio. Cui non piace come Renzi sta terremotando la maggioranza dopo averla fatta nascere.

“Il governo si sta logorando in questa polemica continua e mettere una bomba a orologeria sotto la sedia di Bonafede non è esattamente un gesto distensivo. Io non dico a Renzi di smetterla, dico che lui sa benissimo come si fa a logorare o a far vivere un governo…”, ha spiegato il capogruppo pidino alla Camera ieri in tv.

Pure Alessia Morani ha avuto la sua bella fase renziana. Sentitela ora: “Con Italia Viva ci siamo visti giusto una settimana fa per parlare di riforme e il sindaco d’Italia non c’era. Magari a me tra un po’ verrà in mente di lanciare la ‘contessa regionale’”. E poi un pizzico di veleno. “Ci sono partiti che crescono in Parlamento (in due sono passati con Iv nelle ultime ore, ndr), noi cresciamo nel Paese…”.

Anna Ascani, altra ex fedelissima, invece tace, forse perché in procinto di diventare vicepresidente del Pd. Ma negli ultimi mesi è stata dura con l’ex segretario. Qualche esempio. “Capisco lo sfogo di Renzi, ma se fossi in lui io non attaccherei i magistrati” (29 novembre). “Col suo tira e molla sul governo Renzi non andrà da nessuna parte” (11 febbraio). “Sulla prescrizione Renzi cerca solo visibilità” (14 febbraio). “La vera colpa di Renzi è che, indebolendo Conte, dà un grande vantaggio a Salvini” (18 febbraio). Addirittura il sindaco di Firenze Dario Nardella, nel recente passato renziano in purezza, nell’ottobre scorso se n’è uscito dicendo che “il Pd deve cambiare nome e sfidare Renzi sui contenuti”. Quasi una bestemmia in Chiesa.

Gli altri, da Lotti a Guerini, dall’ex portavoce Sensi a Fiano, fino a Pina Picierno, restano più defilati. Ma è assai probabile che pure loro non comprendano più la schizofrenica strategia politica dell’uomo di Rignano.

Renzi ricomincia a giocare: “Noi via dal governo al 90%”

Nella versione by “Matteo” di ieri mattina, il suo conflitto con Giuseppe Conte diventa “una telenovela”. L’ex premier riappare in mattinata durante una conferenza stampa sul suo roboante “piano shock”, convocata in pompa magna in Senato. L’abito è ancora scuro, la cravatta rossa. Il premier, viceversa, viene ripreso dalle telecamere a Bruxelles. Partecipa a un complicatissimo Consiglio sul bilancio pluriennale europeo (che promette di chiudersi senza un accordo tra i 27), ma le domande sono quasi tutte su quel che succede in Italia. Il primo attacca, ostenta insofferenza, provoca, rilancia. L’altro, viceversa, mostra indifferenza, sminuisce, arrotonda, cerca di comunicare superiorità, pure se sono giorni che non ne può più.

“Alla fine usciremo dal governo. Ve lo do al 90%”. Parlando con gli amici, Matteo Renzi la mette così. Un messaggio che va fatto arrivare al premier, per ribadire che lui fa sul serio. Quando? Non è chiaro. Ma il prossimo passo tattico è chiaro: l’ex premier andrà a Palazzo Chigi a incontrare Giuseppe Conte. Un incontro ad alto rischio emotivo: è la prima volta che ci torna, dopo le sue dimissioni. E lì gli porterà le sue richieste politiche. Che già sa essere irricevibili per il presidente del Consiglio: giustizia, sblocco dei cantieri, abolizione del reddito di cittadinanza, riforma costituzionale per il sindaco d’Italia. Tutti punti che ribadisce nell’e-news del pomeriggio. Nella quale ribadisce: “Non stiamo al governo a tutti i costi, ma solo se possiamo fare cose giuste”.

Dopo l’ennesimo penultimatum lanciato nello studio di Bruno Vespa mercoledì sera, Renzi prova a recapitare a Conte un altro avvertimento. L’ennesimo tentativo di pesare e di contare, dopo che la proposta di fare un governo per le riforme costituzionali è caduta nel vuoto. Arriverà fino in fondo? Vedendo come si è mosso negli ultimi anni, a costo di dilapidare rapidamente un capitale politico all’epoca imponente, c’è da scommettere di sì. Il rischio irrilevanza per lui vale l’azzardo. Ma va anche detto che una trattativa sotterranea per tenerlo dentro il gioco c’è ancora, portata avanti soprattutto dai governisti del Pd, che fanno capo a Dario Franceschini. Il primo elemento è la legge elettorale: l’idea è di offrire all’ex premier lo sbarramento al 4%. Il secondo elemento riguarda le nomine: ma Renzi non vuol essere trattato come un partner minore, Conte non vuole sovrastimarlo.

Sembrava una giornata all’insegna della pacificazione. In conferenza stampa in mattinata, Renzi aveva annunciato l’incontro in programma con il premier. Era stato lo stesso Conte, mercoledì, a mandargli un messaggio dopo il suo intervento in Senato. “Vediamoci”, aveva risposto lui. La risposta del premier alle mosse di Renzi arriva ieri pomeriggio. All’orizzonte si profila un voto in Parlamento: sarà lì che si vedrà se ci sono i Responsabili e quanti di Iv sono fedeli al loro leader. “Renzi? Sicuramente ci vedremo. Le mie porte sono sempre aperte”. Ma poi, tranchant: “Il sindaco d’Italia? Mi attengo alle posizioni ufficiali. I delegati di Italia viva hanno presentato una proposta di legge elettorale proporzionale. Se ci sono altre iniziative estemporanee non entro nel merito”.

Conte difende Bonafede e prova di nuovo una (mezza) smentita dell’operazione Responsabili: “Sarebbe assolutamente improprio che mi cercassi altre maggioranze”. E annuncia: “Dopo il confronto in maggioranza, farò una comunicazione in Parlamento”.

L’idea è quella di chiedere la fiducia, di scoprire il gioco (suo e del suo sfidante quotidiano) in quella sede. Intanto, le rappresaglie dell’ex premier continuano. È assente per la fiducia alle intercettazioni (risulta “in congedo”). Mentre alla Camera Iv vota ancora con l’opposizione sul Milleproghe. Dice sì agli ordini del giorno di Enrico Costa di Forza Italia e della renziana Lucia Annibali. Entrambi chiedono di posticipare l’entrata in vigore della legge Bonafede (stop alla prescrizione dopo il primo grado) al gennaio 2021.

E Luciano Nobili a Sky Tg24 ci va giù pesante: “Le porte di Palazzo Chigi sono aperte? Certo, mica sono quelle dello studio Alpa”. Qualsiasi linea di dialogo si tenga aperta, il cannoneggiamento va oltre.