Nelle stagioni delle nomine pubbliche c’è un fiorire di retroscena e messaggi cifrati. E allora, per una volta, rendiamo tutto esplicito e proviamo a spiegare come si costruisce la congiura del silenzio che deve portare Claudio Descalzi, imputato per corruzione internazionale e beneficiario di quello che per i pm di Milano è un grave depistaggio giudiziario, al terzo mandato alla guida dell’Eni.
Primo punto: far sparire le notizie. Da mesi Eni riempie i giornali, Fatto incluso, di pagine pubblicitarie indecifrabili – l’ultima versione è “Eni + HPC5” – che non pubblicizzano niente. Su gran parte dei quotidiani c’è spazio per le pubblicità, ma non per parlare delle inchieste giudiziarie sull’Eni e sul suo ad. Correlazione non significa causalità, ma la sproporzione si vede a occhio nudo.
Ogni tanto ci sono intervistone a Descalzi che parla d’altro: vedi Avvenire del 5 gennaio, riflessioni sulla pace nel mondo in occasione di una iniziativa co-organizzata da Eni con i vescovi e il Papa, amici sempre preziosi. A ottobre scorso il direttore del Sole 24 Ore, Fabio Tamburini, ha dedicato la solita paginata per intervistare Descalzi (“I rifiuti sono il petrolio del futuro”), corredata però da una seconda intervistina giudiziaria (“Sono tranquillo e confido che la verità sia accertata”). Singolare scelta editoriale che ha reso ancora più evidente l’abituale assenza dalle altre interviste delle domande vere.
Secondo punto della congiura del silenzio: la ricerca dei mandanti. Attaccate Descalzi, ci dicono, e così diventate utili idioti al servizio del giornalista-mediatore Luigi Bisignani e di Marco Alverà, l’ad di Snam che punterebbe all’Eni. Ad avere legami con Bisignani, per la verità, era Descalzi che nel 2011 lo informava di una trattativa petrolifera in Nigeria nella quale Bisignani non aveva alcun ruolo formale (ma ambiva a parte della mediazione). È un giudice dell’udienza preliminare, Giusy Barbara, ad aver definito Descalzi “prono” alle richieste di Bisignani. Non il Fatto. Quanto ad Alverà: è figlio del miglior amico dell’ex ad dell’Eni Paolo Scaroni, ha fatto carriera in Eni, è andato a Snam, ha ottenuto lo sblocco del gasdotto Tap. Se tornerà all’Eni, il Fatto lo monitorerà come ha fatto con Descalzi in questi anni e con Scaroni in quelli precedenti. Prendere le distanze da Bisignani, ammesso che ci sia qualche connessione, non gli può certo far danno.
Terzo punto: seminare il dubbio tra i politici. Hanno assolto Giuseppe Orsi dopo lunghi processi e intanto era stato fatto fuori da Finmeccanica, anche l’Eni e Scaroni sono usciti indenni da altre inchieste, come può la vicenda giudiziaria di Milano essere dirimente? Con questa scusa molti politici di maggioranza ed esponenti di governo non si prendono neppure la briga di leggere i giornali. Aspettano la fine dei processi. Ma nel caso Descalzi questo approccio è fallato. Molti fatti sono acclarati: Eni ha pagato 1,2 miliardi al governo nigeriano, quei soldi sono finiti nelle tasche di politici e faccendieri e non dei nigeriani. È corruzione? Questo, ma solo questo, lo stabiliranno i giudici. C’è stato un depistaggio per sabotare l’inchiesta di Milano, tra lettere anonime e fascicoli farlocchi in Procura a Trani e Siracusa? Sì, c’è stato, ai pm di Milano e poi ai giudici spetta stabilire i responsabili e se i beneficiari ultimi, tra cui Descalzi, ne erano informati. Ma chi è al governo può anche valutare se è accettabile confermare un ad, magari beneficiario inconsapevole di un depistaggio, ma con manager di prima linea sotto indagine o licenziati per l’operazione. Altro punto: le società della moglie di Descalzi hanno preso milioni di euro di appalti dall’Eni, senza che nessuno ne fosse informato. È reato? Non spetta a noi dirlo, ma spetta al governo valutare se è un comportamento accettabile.
Scegliere il vertice dell’Eni è una questione politica seria. La congiura del silenzio, quale che sia l’opinione delle parti coinvolte, è inaccettabile.