Notizie nascoste, messaggi cifrati e sospetti: congiura del silenzio per il terzo mandato

Nelle stagioni delle nomine pubbliche c’è un fiorire di retroscena e messaggi cifrati. E allora, per una volta, rendiamo tutto esplicito e proviamo a spiegare come si costruisce la congiura del silenzio che deve portare Claudio Descalzi, imputato per corruzione internazionale e beneficiario di quello che per i pm di Milano è un grave depistaggio giudiziario, al terzo mandato alla guida dell’Eni.

Primo punto: far sparire le notizie. Da mesi Eni riempie i giornali, Fatto incluso, di pagine pubblicitarie indecifrabili – l’ultima versione è “Eni + HPC5” – che non pubblicizzano niente. Su gran parte dei quotidiani c’è spazio per le pubblicità, ma non per parlare delle inchieste giudiziarie sull’Eni e sul suo ad. Correlazione non significa causalità, ma la sproporzione si vede a occhio nudo.

Ogni tanto ci sono intervistone a Descalzi che parla d’altro: vedi Avvenire del 5 gennaio, riflessioni sulla pace nel mondo in occasione di una iniziativa co-organizzata da Eni con i vescovi e il Papa, amici sempre preziosi. A ottobre scorso il direttore del Sole 24 Ore, Fabio Tamburini, ha dedicato la solita paginata per intervistare Descalzi (“I rifiuti sono il petrolio del futuro”), corredata però da una seconda intervistina giudiziaria (“Sono tranquillo e confido che la verità sia accertata”). Singolare scelta editoriale che ha reso ancora più evidente l’abituale assenza dalle altre interviste delle domande vere.

Secondo punto della congiura del silenzio: la ricerca dei mandanti. Attaccate Descalzi, ci dicono, e così diventate utili idioti al servizio del giornalista-mediatore Luigi Bisignani e di Marco Alverà, l’ad di Snam che punterebbe all’Eni. Ad avere legami con Bisignani, per la verità, era Descalzi che nel 2011 lo informava di una trattativa petrolifera in Nigeria nella quale Bisignani non aveva alcun ruolo formale (ma ambiva a parte della mediazione). È un giudice dell’udienza preliminare, Giusy Barbara, ad aver definito Descalzi “prono” alle richieste di Bisignani. Non il Fatto. Quanto ad Alverà: è figlio del miglior amico dell’ex ad dell’Eni Paolo Scaroni, ha fatto carriera in Eni, è andato a Snam, ha ottenuto lo sblocco del gasdotto Tap. Se tornerà all’Eni, il Fatto lo monitorerà come ha fatto con Descalzi in questi anni e con Scaroni in quelli precedenti. Prendere le distanze da Bisignani, ammesso che ci sia qualche connessione, non gli può certo far danno.

Terzo punto: seminare il dubbio tra i politici. Hanno assolto Giuseppe Orsi dopo lunghi processi e intanto era stato fatto fuori da Finmeccanica, anche l’Eni e Scaroni sono usciti indenni da altre inchieste, come può la vicenda giudiziaria di Milano essere dirimente? Con questa scusa molti politici di maggioranza ed esponenti di governo non si prendono neppure la briga di leggere i giornali. Aspettano la fine dei processi. Ma nel caso Descalzi questo approccio è fallato. Molti fatti sono acclarati: Eni ha pagato 1,2 miliardi al governo nigeriano, quei soldi sono finiti nelle tasche di politici e faccendieri e non dei nigeriani. È corruzione? Questo, ma solo questo, lo stabiliranno i giudici. C’è stato un depistaggio per sabotare l’inchiesta di Milano, tra lettere anonime e fascicoli farlocchi in Procura a Trani e Siracusa? Sì, c’è stato, ai pm di Milano e poi ai giudici spetta stabilire i responsabili e se i beneficiari ultimi, tra cui Descalzi, ne erano informati. Ma chi è al governo può anche valutare se è accettabile confermare un ad, magari beneficiario inconsapevole di un depistaggio, ma con manager di prima linea sotto indagine o licenziati per l’operazione. Altro punto: le società della moglie di Descalzi hanno preso milioni di euro di appalti dall’Eni, senza che nessuno ne fosse informato. È reato? Non spetta a noi dirlo, ma spetta al governo valutare se è un comportamento accettabile.

Scegliere il vertice dell’Eni è una questione politica seria. La congiura del silenzio, quale che sia l’opinione delle parti coinvolte, è inaccettabile.

Al Tesoro fanno lo scaricabarile sull’“onorabilità” dei nominati

Magari è un caso. O magari c’è qualche nome su cui nessuno vuol mettere la faccia (e la firma). Fatto sta che il ministero dell’Economia si prepara alla grande tornata di nomine primaverili nelle partecipate (20 direttamente, quasi 70 indirettamente) rendendo ancora meno rigidi i requisiti di onorabilità (tecnicamente “eleggibilità”) dei nominati. Negli uffici di via XX Settembre è già pronta una nuova bozza di direttiva ministeriale per normare la procedura. L’unica vera modifica riguarda proprio la verifica dei requisiti: non viene più previsto che a farla sia il dipartimento del Tesoro – delegato alla procedura – ma sarà affidata a “un’autocertificazione fornita dai candidati”, raccolta attraverso le società di “head hunters”, i cacciatori di teste.

Per capire la novità serve fare un passo indietro. Nel 2013 la direttiva voluta dall’allora ministro Fabrizio Saccomanni aveva previsto per le nomine dei requisiti rafforzati. Tra questi, c’era l’ineleggibilità per chi fosse rinviato a giudizio per reati finanziari o per corruzione e la decadenza in caso di condanna anche non definitiva. La direttiva è stata applicata a singhiozzo. Non ha forza di legge, ma le società possono inglobarla negli statuti. Solo alcune lo hanno fatto, e non quelle quotate. FS, per dire, lo ha fatto, inserendo la cosiddetta “clausola etica”, che fa scattare l’allarme già al rinvio a giudizio, anche se la parola finale spetta al Cda. È stata proprio questa a permettere all’allora ministro dei Trasporti Danilo Toninelli di far fuori il renzianissmo Renato Mazzoncini dopo il suo rinvio a giudizio per truffa ai danni dello Stato nell’estate 2018.

Le società quotate, caduto il governo Letta a febbraio 2014, si sono ben guardate dall’applicarla. Chi lo aveva fatto, come Enel, è poi tornata indietro: il colosso dell’energia l’ha annacquata nel 2015, eliminando la decandenza dei vertici dopo il rinvio a giudizio e motivando la cosa con “esigenze di stabilità della gestione aziendale”. Società come Eni e Leonardo (ex Finmeccanica) non hanno inserito la clausola etica. Oggi al vertice della prima siede Claudio Descalzi, imputato a Milano nel processo sulla maxi-tangente pagata per ottenere il giacimento nigeriano Opl 245; alla guida della seconda c’è Alessandro Profumo, imputato in diversi procedimenti, tra cui quello milanese sulla contabilizzazione dei derivati di Mps.

Nel 2017 il governo Gentiloni – ministro Pier Carlo Padoan – ha deciso di mandare in soffitta la direttiva Saccomanni. Il 16 marzo, solo due giorni prima di ufficializzare le candidature ai nuovi cda di Eni, Enel, Leonardo, Poste, Terna, Enav etc., il ministero pubblicò il provvedimento: due paginette in cui venivano eliminati i requisiti rafforzati di onorabilità.

E veniamo ai giorni nostri. Il ministero, risulta al Fatto, ha deciso di emanare una nuova direttiva, sostituendo quella del 2017. Il governo giallorosa, però, ha scelto di non tornare ai requisiti più stringenti ma di fare solo un piccolo restyling. Nella bozza – visionata dal Fatto – si ribadisce che il Dipartimento del Tesoro assicura “un’istruttoria tecnica” da sottoporre al ministro per individuare potenziali candidati servendosi dei “cacciatori di teste” (Eric Salmon, Key2people, Russell Reynolds e Spencer Stuart). Questi ultimi, dettaglio curioso, sono gli stessi da anni, individuati con una gara “senza oneri per lo Stato” (non si capisce, però, perché lavorino gratis). L’unica differenza rispetto al 2017 è al punto C. La vecchia direttiva stabiliva che il Dipartimento accompagnasse la lista dei nominativi da fornire al ministro con una relazione comprensiva anche della “sussistenza dei requisiti di eleggibilità”.

La nuova – se la bozza venisse approvata – prevede solo che venga acquisita “l’autocertificazione relativa al possesso dei requisiti soggettivi e di eleggibilità”. Insomma, la verifica è scomparsa, e quindi la responsabilità cade sul candidato e, eventualmente, sugli organi interni della società dove andrà a ricoprire l’incarico. Contattato dal Fatto, il ministero fa sapere che il cambiamento non è davvero sostanziale e che comunque una verifica sarà fatta. NoOn è chiaro, però, il motivo di questo cambiamento. Nell’appunto tecnico che accompagna la bozza, predisposto dalla direzione generale del ministero, viene specificato che il Dipartimento raccoglie l’autorizzazione, ma “l’accertamento del possesso dei requisiti viene effettuato dalle società, dotate di autonoma personalità giuridica”.

Descalzi da Fraccaro a Chigi per blindare la sua conferma

Braccia lunghe sulle gambe, in elegante abito scuro, seduto lì dove si avvicendano potenti boiardi e aspiranti tali, la settimana scorsa Claudio Descalzi s’è sorbito qualche minuto di anticamera prima di entrare nell’ufficio a Palazzo Chigi di Riccardo Fraccaro, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, politico Cinque Stelle assai attivo sulle nomine nelle aziende a controllo statale. Dimaiano di strettissima osservanza, Fraccaro ha accolto l’amministratore delegato di Eni in cerca del terzo mandato dopo un lavoro preparatorio di abili mediatori. Un piccolo passo per Fraccaro, un grande passo per Descalzi.

Non era semplice combinare un incontro, a pochi giorni dalla tornata di nomine, tra un manager con svariati contrattempi giudiziari – imputato nel processo per le tangenti in Nigeria e in conflitto di interessi per gli affari della moglie – e un esponente di un partito che ha sempre professato trasparenza per gli incarichi pubblici. Quando toccò a Renzi distribuire centinaia di posti in società di Stato, Fraccaro fu il più severo con il premier appena insediato: “Ha fretta per l’infornata di poltrone”, così disse. A differenza del sottosegretario, però, Renzi sfuggì alla corte di Paolo Scaroni, che si precipitò in elicottero da Londra pur di braccare l’allora temuto rottamatore durante una puntata di Porta a Porta. Scaroni fu sacrificato perché Renzi aveva già un accordo per la successione. Durante il governo renziano, Descalzi fu spesso criticato dai Cinque Stelle, che ne hanno chiesto le dimissioni più volte.

Con un’astuta operazione simpatia, pur non avendo risolto nessuno dei suoi guai, anzi vedendoli aumentare, Descalzi s’è trasformato da boiardo da evitare a “manager molto capace”. Le fonti ufficiali di Fraccaro e Descalzi confermano il faccia a faccia a Chigi e parlano, all’unisono, di “colloqui rituali e istituzionali per aggiornamenti sull’attività dell’azienda”. Quel che resta, oltre le spiegazioni formali, è il simbolo di un rapporto profondo che Descalzi è riuscito a stringere con i Cinque Stelle, un rapporto che gli garantisce maggiore serenità e una completa insonorizzazione – neanche una voce contraria o almeno dubbiosa si è levata dal governo – verso un altro triennio ai vertici di Eni. Superato a pieni voti l’esame con Fraccaro, i Cinque Stelle si sono sentiti sollevati e nei giorni scorsi – come dimostra la previsione ben informata dell’agenzia Reuters – si sono spinti a ribadire la fiducia a Descalzi. Hanno diffuso all’estero il messaggio che si attendevano americani, emiratini, egiziani e soprattutto russi, i governi che hanno protetto la corsa dell’ad di Eni e suggellato le convinzioni maturate da tempo dal Quirinale e dall’intero Pd.

Ormai il patto nella maggioranza su Descalzi è pronto e saggezza suggerisce di fare presto, di avere quella fretta che Fraccaro attribuì a Renzi. E l’ex premier, per l’appunto, infuriato per l’esclusione dalle trattative per le Autorità per la Privacy e per le Comunicazioni, si aspetta un segnale. Allora il governo sta tentando di chiudere “l’infornata” – sempre per citare Fraccaro – agganciandola alle scadenze per l’assemblea di banca Mps e dunque entro il secondo venerdì di marzo. Per aumentare il volume delle poltrone, si ipotizza anche il rinnovo dell’Autorità anti-corruzione, che può arrivare fino a luglio, ma che ha un presidente facente funzioni dopo l’uscita a ottobre di Raffaele Cantone. Postilla. Come metodo, per non dire manuale (che ricorda antichi costumi), pentastellati e democratici hanno deciso di inserire un proprio consigliere in ciascun cda.

Siccome i Cinque Stelle accettano il rinnovo di quasi tutti gli amministratori delegati, pretendono più spazio per i presidenti. L’addio certo di Emma Marcegaglia all’Eni offre una prospettiva interessante. Arriva il momento di spartire. Per questo motivo nel governo non si dà troppo credito alle bizze di Renzi: perché dovrebbe alzarsi dal tavolo mentre si servono le portate migliori?

Circo Rignano

Ehi raga, vi sono piaciuto a Porta a Porta? Che statista, eh? Ho tenuti tutti col fiato sospeso per due giorni in attesa della bomba termonucleare. E invece prooooot! Una scoreggina. Ammazza che volpe! Sono l’uomo più sorprendente del mondo, apposta mi invitano a parlare dappertutto e mi pagano pure: li faccio ammazzare dalle risate. Il mondo non mi ha mai capito, gli italiani mi hanno votato contro, i sondaggisti mi gufano, da piccolo i compagni mi canzonavano perché ero grasso? E io traack! Li punisco tutti in un colpo solo. Perchè io sono avanti, sono oltre. Quelli si attardano dietro concetti polverosi tipo valori, ideali, etica, coerenza, politica. Ma io che c’entro? Io la politica l’ho mollata il 4 dicembre 2016. Sì, è vero, mi sono nominato senatore e ho fondato un partito, ma solo perché si guadagna bene, avevo la villa da pagare e gli amici da sistemare, altrimenti – siamo onesti, parlando con pardon – chi se li piglia? Il bello è che tutti mi scambiano ancora per un politico. Mi leccano col pilota automatico alla lingua. Mi intervistano tutti i giorni pensando che abbia qualcosa da dire: io sparo la prima cazzata che mi passa per la testa, e quelli bevono tutto: commenti, analisi, esegesi della mia strategia, come se ne avessi una. Non capiscono che – a parte le battaglie ideali contro le intercettazioni e la blocca-prescrizione, sennò i giudici mi svuotano il partito – non mi frega nulla di nulla e prendo tutti per il culo per stare sui giornali. Volevo abolire la prescrizione e ora che faccio? Annuncio la decima sfiducia a Bonafede che l’ha quasi abolita: ganzo, eh? Ho mandato a picco due premier, Letta e me stesso, sto per fottere pure Conte e che m’invento? Di eleggere il premier per rafforzarlo. Diffido i giallorosa dal tentare nuove maggioranze e che combino? Voto tutti i giorni col centrodestra e propongo una nuova maggioranza col centrodestra per il “sindaco d’Italia” (questa l’ho copiata da Guzzanti travestito da Funari, “er sindaco d’a Germagna, gnaa fa”, da morire dal ridere). Minaccio un giorno sì e l’altro pure la crisi del governo che ho fatto nascere, poi chiedo un incontro a Conte per stabilizzarlo. Fregoli e Brachetti mi fanno una pippa. Sfido io che in giro mi pagano per fare le serate: dove lo trovano un fenomeno così? Era dai tempi dei mangiaspade, dei mangiafuoco, della donna cannone e della donna barbuta che non si divertivano tanto. Pure in Pakistan vado fortissimo, meglio degli incantatori di serpenti sul tappeto volante. E ora scusate, ma sono in partenza per il nuovo tour: sagra della porchetta ad Ariccia e fiera del bue grasso a Carrù. Ho già in testa un paio di numeri da urlo. Pagano bene e si mangia gratis. Un sorriso a tutti gli amici. Anzi un prooooot!

“Era in ritardo, ma elegantissimo Citofonò: ‘Sono Lelio, più che altro’”

La biografia di un’icona dello spettacolo, Lelio Luttazzi, raccontata attraverso testimonianze e ricordi privati: questo è “L’illazione” di Santino Mirabella, da poco in libreria. L’autore sarà sabato alla biblioteca di San Giorgio a Cremano per presentare il libro da cui abbiamo estratto il testo di Rossana Casale.

C’è un video del nostro primo incontro. Io emozionatissima e lui adorabile, accogliente, lusingato dal mio: “L’ho detto a tutti i miei amici che venivo qui. Sono onorata e felice”. Ci siamo subito messi al pianoforte. Lui mi ha fatto ascoltare il brano che voleva che io cantassi per lui in una sua nuova produzione.

Da quella sera fra me, Lelio e sua moglie Rossana, mia omonima, è nata una bellissima amicizia e in breve tempo anche il progetto di un album insieme. Così un giorno di fine giugno che dovevamo lavorare per decidere i brani, si è presentato a casa mia elegantissimo con un grande Borsalino chiaro di Panama e un completo di lino. In ritardo, un mazzo di fiori colorati in mano e gli spartiti sotto braccio al citofono aveva anticipato: “Sono Lelio, più che altro”. L’arrivo era stato preannunciato da Rossana: “Perdonalo, mi ha fatto girare tutti i fiorai di Roma, che pazienza!”.

Insomma, un essere meraviglioso, di altri tempi. Lullaby of Birdland, We’ll be together again, Moonglow, Time after time, The very thought of you, I’m through with love, Polka Dots and moonbeams, Stella by starlight: abbiamo suonato e cantato per ore. Di quella mattinata ricordo soprattutto la sua analisi sul brano So in love di Cole Porter. Una lezione di armonia e composizione fatta con la passione che solo un grande maestro può avere.

Per lui la musica era quella, era il jazz classico, lo swing e il bebop anni ’40. Quello che veniva dopo, diceva, gli faceva venire il mal di testa. Lo diceva con l’autoironia che lo contraddistingueva, come quando al pianoforte si toglieva gli auricolari che aveva fissi per problemi di udito e mi diceva: “Suono senza, se no mi rimbomba tutto. Tu offendimi pure, tanto non ti sento”.

Un grande musicista, un gran signore. Spesso ho avuto invidia per Rossana, il suo silenzioso ma forte angelo custode. Avere al proprio fianco un uomo così è veramente raro.

Non ci siamo mai confidati veramente ma quando mi ha detto: “Lascio Roma, torno a vivere nella mia Trieste, vado a morire lì”, ho capito che, ci fosse un segreto sotto o no, non scherzava affatto, non lo avrei più rivisto. E infatti è stato così. Rossana mi ha raccontato poco di quell’ultimo periodo. Il suo pianoforte, la grande piazza sul molo sotto le sue finestre. L’ho immaginato passeggiare per i ricordi della sua infanzia, i suoi primi spartiti.

Io ho il suo, quello del brano che lui ha scritto per me intitolato Non lo so.

Sulla copertina, la sua dedica, scritta in corsivo: “A Rossana, con stima e immenso affetto”.

“I giovani musicisti italiani? Troppi like, poco studio”

“Icantanti italiani dovrebbero studiare e riscoprire la melodia all’italiana e smetterla di scopiazzare il pop americano!” È perentorio Gabriele Ciampi, compositore e direttore d’orchestra romano, qui da noi ancora poco noto ma in America già una star. Classe 1976, capelli lunghi e dita ribelli che si rifiutano di rimanere conserte mentre parla appassionato, Gabriele è diplomato al conservatorio Santa Cecilia e specializzato alla Ucla, l’Università della California di Los Angeles (dove vive). Negli ultimi tempi, ha fatto parlare di sé per essere un promotore dell’Orchestra al femminile, progetto che sta portando avanti e che lo ha visto cedere in apertura ai suoi concerti la bacchetta a una direttrice: “Gli uomini sanno essere impeccabili, ma le donne aggiungono una creatività e una sensibilità interpretativa differente. La componente femminile è fondamentale.” Nella musica – che ha nel Dna (la sua famiglia produce pianoforti da tre generazioni, ndr) – ama deflagrare l’ovvio, e vanta molti primati come italiano: è stato il primo conductor invitato alla Casa Bianca da Michelle Obama nel 2015 a eseguire un repertorio originale ed è il primo (e unico) a essere giurato ai Grammy Awards.

“Dal 2016 faccio parte della Recording Academy (la società che organizza i Grammy). Però non c’è solo l’aspetto finale, il giudizio sullo spartito e la composizione. In rappresentanza dei musicisti italiani, devo fare scouting per stabilire le nomination. Ho avuto difficoltà a trovare giovani italiani preparati. Manca studio, formazione e originalità: chi ha un po’ di talento va in televisione, o carica un video su Youtube e conta il numero di like”.

Per restare sui Grammy, cosa può dirci su Deborah Dugan (Ceo della Recording Academy), messa in congedo amministrativo – a quanto dichiara – dopo aver denunciato molestie sessuali, irregolarità nei voti e discriminazione di genere?

Da quando era arrivata, Deborah aveva aperto le porte della musica classica alle donne. Allontanandola, l’industria culturale si è dimostrata maschilista. Adesso, temo che il suo imput di cambiamento si arresti. Riguardo, invece, alle accuse di irregolarità, posso dire che ascoltare alcuni brani in gara e reperirne gli spartiti è stato complicato, per altri artisti invece è stato facilissimo.

Per chi ha votato?

Non ho votato per Bocelli, e non perché non lo apprezzi, ma perché ho difeso la musica al femminile: ho scelto Barbra Streisand, che mancava da 33 anni ai Grammy, e per Billie Eilish. In veste di scout, ho proposto per la musica classica, la conductor Beatrice Venezi, giovane e molto brava.

Si è da poco concluso il 70° Festival di Sanremo. Promossi e bocciati?

Tra i giovani, Leo Gassmann ha un timbro interessante e Tecla ha una bella voce da Grammy. Tra i big: mi è piaciuto Alberto Urso, che dovrebbe puntare su un pop ibrido, la canzone non lo valorizzava. Il testo di Gabbani mi è piaciuto, meno la melodia. Anche Bugo mi piace come autore. Anastasio, purtroppo, gridava soltanto e Morgan deludente. Il brano delle Vibrazioni non era niente di che. Nel panorama italiano in generale, invece, mi piacciono molto Annalisa Scarrone (che ha bisogno di canzoni che sappiano valorizzarla) e Arisa, così come mi impressionava la prima Giorgia.

Si è molto parlato di Achille Lauro per via delle sue peformance.

Il personaggio è vincente. Dal punto di vista musicale e tecnico è irrilevante e nemmeno così rivoluzionario: le canzoni sono già sentite, con passaggi armonici che Bowie faceva 50 anni fa.

Ci sono altri italiani celebri all’estero: i ragazzi de Il volo e Vittorio Grigolo, definito l’erede di Pavarotti.

Grigolo è un buon tenore, ma l’esplosione e il tocco di Pavarotti ancora lo devo sentire. I tre ragazzi de Il volo sono interessanti come cantanti pop nei loro brani. Non devono fare il passo più lungo della gamba, esibendosi in pezzi di repertorio: per quello c’è bisogno di molto studio.

C’è poster per te: all’asta vale oltre 80 mila euro

Non solo francobolli, dischi, vestiti, oggetti preziosi, quadri, lettere, automobili, vini, design, autografi, mobili antichi e libri rari. Il mondo sommerso del collezionismo, alimentato da pulsioni sentimentali varie e compulsione di possesso, non poteva che votarsi anche alla principale fucina di sogni, immaginario, iconografia e feticci degli ultimi 125 anni: il cinema.

E così centinaia di persone senza volto (chi al telefono, chi online), collegate da ogni parte del globo, hanno partecipato martedì all’ultima vendita all’incanto indetta a Torino dalla casa d’aste Bolaffi, stella polare di questo settore in Italia, che affonda le sue radici nella filatelica e nella numismatica.

Protagonisti della giornata, lotti particolarissimi: 370 poster cinematografici intrisi di storia. Andati a ruba: ne è stato venduto l’80 per cento circa, per una somma complessiva di 325 mila euro (diritti inclusi). Parliamo di un mercato, quello dei poster e dei manifesti per la settima arte, che vale 250 mila euro l’anno, 2 milioni e mezzo se si abbraccia il pianeta intero. A fornirci i dati è la stessa Bolaffi, che traccia questo identikit del collezionista-cinefilo: “È molto specializzato: alcuni si concentrano su un genere, altri su un regista o un determinato periodo. È un addetto ai lavori, o un fortissimo appassionato tout court. La sua età media oscilla tra i 40 e i 60 anni. Gli americani sono i più numerosi. Alle volte incide in maniera predominante, nelle scelte, la personalità dell’illustratore”.

Ma torniamo alla compravendita di due giorni fa: la locandina comprata al prezzo maggiore è stata quella della prima edizione italiana del Frankenstein di James Whale, anno 1935, col leggendario Boris Karloff. È stata smerciata a ben 87 mila euro, e la base d’asta era di 50 mila. Considerata un capolavoro di grafica espressionista, con i suoi verdi e viola litografici tenuti intenzionalmente saturi, acidi e drammatici, la quintessenza della pellicola viene tratteggiata nel mulino in fiamme e nel volto del mostro-antropomorfo. A disegnarla fu Raffaele Francisi (1901-1945), che aveva uno studio a Roma in piazza di Spagna e morì prematuramente per una malattia contratta in guerra durante la campagna di Grecia.

Al secondo posto si è piazzato il manifesto della prima edizione tricolore di Tempi Moderni (1937), il capolavoro di Charlie Chaplin, venduto a 28 mila euro (la richiesta iniziale era di 10 mila). A disegnarla, in questo caso, Anselmo Ballester (1897-1974), forse il pioniere della pittura cinematografica nella nostra penisola, attivo dal 1915 al 1960, e cioè dal muto ai fasti dell’Hollywood sul Tevere. Con Luigi Martinati e Alfredo Capitani fondò l’agenzia Bcm, padrona a lungo dell’illustrazione cartellonistica cinematografica nazionale. Da parte sua, firmò più di 500 manifesti, e quelli precedenti al secondo conflitto mondiale sono i più introvabili e agognati.

Completa il podio Il figlio di Frankenstein (l’orrido non spaventa i cultori, tutt’altro), con Karloff in coppia col mito-Bela Lugosi (1940), aggiudicato a 23.600 euro, artefice Francesco Giammari (1908-1973), artista di origine corsa.

Degni di nota anche gli exploit del poster ante litteram di Cabiria (1914), il film-kolossal che inaugurò il ménage artistico tra Gabriele D’Annunzio e il regista Giovanni Pastrone (liquidato a 10.600 euro e congegnato da Pier Luigi Caldanzano, della Ricordi di Milano); di quello di Ombre Rosse (1940) di John Ford (4.800 euro) e della locandina dell’esordio nel Belpaese dell’Alice Nel Paese delle Meraviglie (1951) di Walt Disney, comprata a 5.000 euro.

Un record assoluto, in questo mercato parallelo della galassia degli incanti e degli incantesimi, risale al finire dell’estate del 2018. La londinese Sotheby’s batté all’asta il manifesto cinematografico più antico della storia. Una litografia in puro stile Belle Époque realizzata dal francese Henri Brispot, celebre pittore di genere, per promuovere la prima proiezione pubblica dei fratelli Lumière, a Parigi, nel dicembre del 1895. In un seminterrato e al cospetto di pochi eletti. La base d’asta era di 40 mila euro, ma l’antenato degli antenati dei poster per il grande schermo è stato pagato quattro volte tanto.

Il Pablo Escobar dell’eroina tradito dal calcio

Carlos Alberto Salazar, detto “El señor de la bata” (il signore della vestaglia) non vedrà giocare la sua squadra del cuore, il Colombia, alle Olimpiadi di Tokyo 2020. Non solo perché, probabilmente, i Giochi non si disputeranno per via del Coronavirus. Ma perché – proprio mentre acquistava i biglietti per le selezioni dei club sudamericani – la polizia lo ha arrestato.

Colombiano, nato a Pereira, cordigliera occidentale, profilo basso, un jeans e una maglietta, Carlos, 53 anni, si presentava come un commerciante di successo della regione del cosiddetto “Eje Cafetero” (il Triangolo del caffè), mentre si dava alla bella vita viaggiando solo in auto di alta gamma acquistate grazie al più ingente traffico di eroina dell’America Latina. Un commercio che il “señor de la bata” era andato espandendo poco a poco attraverso Panama, Guatemala e poi Messico, dove per passare la frontiera con gli Stati Uniti aveva allacciato un solido sodalizio nientepopodimeno che con Joaquín Guzmán “El Chapo”, il re della cocaina a capo del cartello di Sinaloa, ora all’ergastolo a New York.

Salazar, altro personaggio che come El Chapo sembra destinato ad avere una propria serie tv su Netflix, in realtà era molto riservato circa la sua attività, della quale non amava parlare neanche con i più intimi. Ciò che il re dell’eroina ignorava è che sarebbe stata proprio questa sua reticenza a incuriosire la Dea, l’Agenzia antidroga degli Stati Uniti che da qualche anno aveva iniziato a pedinare ogni suo spostamento.

“Faceva entrare grandi quantità di eroina a New York, da dove veniva distribuita in altre città e in altri stati americani con l’appoggio del più temibile cartello messicano, quello di Sinaloa”, ha spiegato uno degli investigatori dopo l’arresto.

Ma a far scattare l’operazione finale sarebbe stato però l’upgrade che Salazar stava per mettere in atto, reclutando ingegneri chimici per portarli in Messico a insegnare agli uomini dei laboratori del cartello di Sinaloa a processare l’eroina con la stessa purezza di quella che arrivava dalla Colombia, in cambio il cartello più potente del Centramerica l’avrebbe aiutato a far passare la sua merce.

Ma prima della ricerca, a tradire il re della giacca da camera era già stato il suo tenore di vita. “La prima cosa che ci è saltata agli occhi è che durante la sua permanenza in Colombia, in un lasso di tempo tra i 10 e i 15 giorni, non restava mai nello stesso posto. Ogni notte dormiva in case o appartamenti diversi, per spostarsi quotidianamente con un’auto differente, tra le quali i suv di alta gamma, i suoi preferiti”, ha raccontato uno degli investigatori. Per non parlare della quantità di suite degli alberghi a 5 stelle che Salazar visitava nei soggiorni in Centramerica. Da qui la Dea è risalita al traffico: comprando l’eroina dalle produzioni di Cauca e Narino, la stessa regione colombiana alla quale faceva riferimento anche il cartello di Medellin di Pablo Escobar, Carlos Alberto Salazar la spediva attraverso l’America centrale agli Stati Uniti. “L’eroina colombiana è molto apprezzata in America del Nord perché arriva con una purezza dell’87%, una delle più alte del mercato, di gran lunga migliore di quella che si produce in Messico. È così che i narcos possono estrarre da un chilo di eroina fino a 5 chili, il che moltiplica i guadagni” secondo l’Antidroga che calcola che “il Pablo Escobar dell’eroina” negli Usa circa 100 chili di droga al mese negli Usa.

Motivo per il quale, dopo l’arresto del “socio”, era diventato a tutti gli effetti l’obiettivo numero uno dell’Interpol, oltre ad aver un fascicolo tutto suo alla Corte di New York.

Ma a incastrarlo definitivamente è stata la sua vera passione, quella per il calcio. La polizia infatti ha ricevuto la soffiata che “il señor de la bata” era tornato in Colombia per seguire il Torneo preolimpico sudamericano. Ed è proprio lì, al botteghino, mentre acquistava i biglietti per la partita inaugurale tra Colombia e Argentina che la sua carriera è finita. Ora rischia l’estradizione negli Usa. Ah, la Colombia ha anche perso.

I conservatori moderati pensano già al dopo Trump

Considerano Trump “un terremoto”, che sconquassa le fondamenta repubblicane di un’economia liberale sana e ‘sociale’; e sfidano, da posizioni tradizionalmente conservatrici, i ‘fondamentalisti’ del libero mercato, cioè la stretta cerchia dei consiglieri economici del magnate presidente. Sono intellettuali ed economisti di American Compass, il gruppo che Oren Cass, il direttore esecutivo, ha creato “per restaurare un’ortodossia economica che esalti il ruolo della famiglia, della comunità e dell’industria per la libertà e la prosperità dell’Unione”: non un messaggio di sinistra, e tanto meno un messaggio rivoluzionario, ma, piuttosto, un richiamo ai valori repubblicani prima che il partito subisse l’Opa trumpiana e vi si adeguasse.

Intorno al gruppo, gravitano almeno due senatori repubblicani di belle speranze e grosse ambizioni: Marco Rubio, della Florida, 48 anni, già antagonista di Trump nelle primarie 2016, e Josh Hawley, del Missouri, 40 anni. Laureato in economia politica e poi in legge alla Harvard Law School, Cass era direttore economico della campagna presidenziale di Mitt Romney nel 2012. Romney è il punto di riferimento di quanti, fra i repubblicani, restano critici nei confronti del presidente: il 5 febbraio, è stato l’unico senatore repubblicano a votare per il suo impeachment.

Dal 2015 fino a tutto l’anno scorso, Cass ha fatto ricerca e analisi al Manhattan Institute, studiando come rafforzare il mercato del lavoro e temi quali la sicurezza sociale e le regole ambientali e ancora il commercio, l’immigrazione, l’istruzione. Opinionista e autore di libri e di studi, Cass ha lasciato il suo lavoro per fondare il nuovo gruppo American Compass che ha l’ambizione di riorientare la destra Usa, richiamandosi ai suoi valori tradizionali e positivi. E ha svelato i suoi progetti al Washington Post, in un’intervista esclusiva.

A dargli una mano c’è il capo di gabinetto di Rubio, Mike Needham, giornalisti, accademici, tutti con solide referenze nella tradizionale destra americana, moderata e rispettabile. Il responsabile delle ricerche è Wells King, che fino a poco fa lavorava con il senatore Mike Lee, dello Utah, come Romney, alla Commissione economica. Difficile che American Compass possa giocare un ruolo nella campagna elettorale di Usa 2020, anche se Cass e i suoi collaboratori faranno senz’altro sentire la loro voce: il gruppo è appena nato e deve ancora acquisire autorevolezza e influenza. L’obiettivo è di contrastare la deriva ultra-liberista dell’Amministrazione Trump e, nel contempo, la sua tendenza a negare alcuni tradizionali capisaldi dell’economia repubblicana, come la libertà degli scambi, ricorrendo a pratiche ‘protezionistiche’ tendenzialmente più appannaggio dei democratici, oltre che usando le sanzioni economiche come strumento principe di politica estera.

E infatti l’obiettivo a lungo termine è riflettere a quella che sarà “la destra del centro” dopo Trump: una “destra del centro” un po’ mitizzata, perché, in fondo, nessun presidente repubblicano, almeno dagli Anni Sessanta in poi, l’ha rappresentata, con le eccezioni di Gerald Ford – insignificante e fortuita – e di George Bush padre. Nell’intervista al WP, Cass spiega che i conservatori hanno abdicato al loro ruolo, ‘appaltando’ l’economia politica a ‘fondamentalisti’ più libertari che liberali, che considerano il libero mercato come un fine in sé, invece che come uno strumento per migliorare la qualità della vita e rafforzare le famiglie e le comunità. Lo sguardo va già oltre un secondo mandato di Donald Trump, che appare quasi inevitabile, pur se non auspicabile. Passato il terremoto, bisognerà ricostruire.

Parigi, Pavlenski: da rifugiato politico a criminale

Piotr Pavlenski non si fermerà: “Sono contento di quello che ho fatto. Le mie azioni sono artistiche e politiche, voglio rivelare i meccanismi del potere. Porterò avanti il mio progetto porno politico”, ha detto l’attivista russo uscendo dal Tribunale di Parigi dopo tre giorni di fermo. E ha aggiunto: “Pensavo che la Francia fosse il Paese della libertà d’espressione, mi sbagliavo”.

Il primo episodio di quel “progetto” è costato caro a Benjamin Griveaux: il candidato di Macron a sindaco di Parigi si è ritirato dopo che Pavlenski ha pubblicato sul suo blog dei video hot che lo mettevano in scena. Chi altro potrebbe finire nel suo mirino? Al canale Lci Pavlenski aveva già detto che Griveaux era stato solo “il primo” protagonista del suo progetto. Il suo amico avvocato Juan Branco, il cui ruolo nell’affaire è ancora da stabilire, lo aveva confermato alla stampa francese: “È il primo video di una serie”. Pavlenski è stato incriminato per violazione della privacy e diffusione di immagini a carattere sessuale. Dal tribunale è uscito “libero” martedì sera, ma sotto controllo giudiziario e gli è vietato di incontrare la sua ragazza, Alexandra de Taddeo, la studentessa di 29 anni destinataria dei messaggi hot di Griveaux, anche lei incriminata. È inoltre convocato dai giudici il 3 marzo per la rissa del 31 dicembre in cui ha aggredito delle persone con un coltello.

Pavlenski ha ottenuto l’asilo politico in Francia nel 2017 dopo essere stato l’“icona dell’avanguardia della contestazione russa, fino al 31 ottobre 2016”, scriveva ieri Le Parisien. Il giornale ha riportato l’episodio che lo ha costretto a fuggire dalla Russia: una sera, “vestito solo con gli slip e un coltello in mano”, avrebbe violentato una giovane attrice, Anastasia Slonina. La donna, che sarebbe corsa in ospedale “con gli abiti lacerati e un dito tagliato”, ha sporto denuncia.

Per Pavlenski il rapporto invece era stato consenziente. In Russia l’attivista era stato fermato più volte. Ha anche scontato sette mesi di carcere per avere dato fuoco alla sede della polizia politica a Mosca. A Parigi ha occupato illegalmente per alcuni anni un villetta in un quartiere residenziale. Nel 2017 ha incendiato una filiale della Banca di Francia e per questo ha scontato del carcere. Ieri il ministro dell’Interno, Christophe Castaner, non ha escluso che il suo statuto di rifugiato politico possa essere “rimesso in discussione”: “Da una persona protetta, mi aspetto che sia esemplare”. Diverse personalità politiche sono d’accordo con Castaner.

Ma a molti esperti la procedura pare poco probabile: lo statuto può essere ritirato per legge solo per reati ben più gravi, come una condanna penale a dieci anni di prigione. Lo scandalo ha costretto LaRem a cercarsi d’urgenza un nuovo candidato per Parigi, Agnès Buzyn. Stando a un sondaggio Odoxa di ieri, l’ex ministra della Sanità otterrebbe il 17% dei voti al primo turno delle municipali del 15 marzo. Più del 13% che avrebbe realizzato Griveaux. La sorpresa però è un’altra: per la prima volta è Rachida Dati, candidata della destra, che risulta in testa al primo turno (25%) davanti alla sindaca uscente, la socialista Anne Hidalgo (23%). Ma la Hidalgo vincerebbe al ballottaggio del 22 (38% contro 32%).