Prima gli Inglesi. La strategia di Londra per l’immigrazione post Brexit è sovranista fin dalle prime righe del documento di presentazione, che “illustra come intendiamo mantenere l’impegno preso con il pubblico britannico e riprendere il controllo delle frontiere… Per troppo tempo, distorto dalla libertà di movimento europea, il sistema migratorio ha fallito nel venire incontro alle necessità del popolo britannico”.
Un manifesto politico a beneficio proprio di quell’elettorato nazionalista che ha confermato il mandato a Boris Johnson nelle elezioni dello scorso dicembre.
Il nuovo sistema, valido dal gennaio 2021, cioè dalla fine ufficiale del periodo di transizione in corso con l’Unione europea per trovare un accordo commerciale, è a punti come quello australiano. Gli europei che intendano trasferirsi nel Regno Unito dovranno, prima della partenza, accumulare 70 punti per ottenere il visto. Tre i requisiti essenziali per i primi 50 punti: avere un’offerta di lavoro da uno sponsor approvato, dimostrare una buona conoscenza dell’inglese e ottenere un lavoro commisurato alle proprie capacità. Gli altri 20 punti si possono ottenere in base a una serie di variabili: un dottorato in una disciplina attinente al lavoro da diritto a 10, che salgono a 20 se la specializzazione è scienze, tecnologie o matematica. L’obiettivo è dichiarato: impedire l’arrivo di lavoro a basso costo e con basse qualifiche, quello in particolare dall’Europa dell’Est che, ma è un dato controverso, sarebbe entrato in diretta competizione con la manodopera poco qualificata inglese, provocando un risentimento sociale che è stato uno dei grandi motori della Brexit nelle aree più disagiate del paese. Per questo il governo ha fissato una soglia minima di stipendio in entrata per i nuovi immigrati: 20.480 sterline annue, abbassata, dopo le rimostranze di interi settori, rispetto alla prima, irrealistica proposta di 30 mila, visto che la media nazionale è intorno ai 28 mila.
La ministra degli Interni Priti Patel, figlia di immigrati che in base al suo piano non avrebbero i requisiti per entrare, ha illustrato le misure ieri a Bbc Breakfast e ha parlato di “una svolta storica, che attrarrà i migliori al mondo, potenzierà la nostra economia e le nostre comunità e libererà il potenziale del nostro Paese”.
Obiezione: il Regno Unito è già a corto di lavoratori in settori come l’edilizia, l’agricoltura e l’assistenza medica e sociale. Il piano prevede anche quote nei comparti più bisognosi e una pragmatica flessibilità specifica per il servizio sanitario, ma perché i lavoratori europei dovrebbero venire a cercare impiego in un Paese dove sarebbe complicato rimanere?
“Se il piano resta questo è pura follia” commenta al Fatto Stefano Potortí, imprenditore italiano attivo a Londra nel settore dell’ospitalità, che prosegue: “Già da due anni, per effetto della Brexit, abbiamo grosse difficoltà a trovare personale. Dati alla mano non ci sarebbero abbastanza inglesi per coprire i posti disponibili”.
Alle proteste delle associazioni di categoria il governo risponde con noncuranza e in modo spiccio: adattatevi, assumete inglesi e impegnatevi a formarli e trattenerli. Con una disoccupazione al 3,8%, resta il dubbio che quella di Downing Street sia strategia più che sostanza: ingraziarsi i propri elettori mostrando la faccia feroce agli odiati negoziatori europei. Che però potrebbero ricambiare ponendo condizioni simili ai futuri immigrati britannici in Europa. Più sovranismo per tutti, insomma. Intanto nell’ultima bozza dell’intesa sulla Brexit, secondo il Telegraph ci sarebbe una clausola relativa alla restituzione di “oggetti culturali rimossi illegalmente nei loro Paesi di origine”. La Grecia rivuole i pezzi del Partenone in mostra al British Museum? Atene smentisce che la richiesta sia legata alla Brexit ma parla in modo più generico di azioni destinate a combattere il commercio illecito di antichità.