Stop ai camerieri, Londra vuole solo immigrati colti

Prima gli Inglesi. La strategia di Londra per l’immigrazione post Brexit è sovranista fin dalle prime righe del documento di presentazione, che “illustra come intendiamo mantenere l’impegno preso con il pubblico britannico e riprendere il controllo delle frontiere… Per troppo tempo, distorto dalla libertà di movimento europea, il sistema migratorio ha fallito nel venire incontro alle necessità del popolo britannico”.

Un manifesto politico a beneficio proprio di quell’elettorato nazionalista che ha confermato il mandato a Boris Johnson nelle elezioni dello scorso dicembre.

Il nuovo sistema, valido dal gennaio 2021, cioè dalla fine ufficiale del periodo di transizione in corso con l’Unione europea per trovare un accordo commerciale, è a punti come quello australiano. Gli europei che intendano trasferirsi nel Regno Unito dovranno, prima della partenza, accumulare 70 punti per ottenere il visto. Tre i requisiti essenziali per i primi 50 punti: avere un’offerta di lavoro da uno sponsor approvato, dimostrare una buona conoscenza dell’inglese e ottenere un lavoro commisurato alle proprie capacità. Gli altri 20 punti si possono ottenere in base a una serie di variabili: un dottorato in una disciplina attinente al lavoro da diritto a 10, che salgono a 20 se la specializzazione è scienze, tecnologie o matematica. L’obiettivo è dichiarato: impedire l’arrivo di lavoro a basso costo e con basse qualifiche, quello in particolare dall’Europa dell’Est che, ma è un dato controverso, sarebbe entrato in diretta competizione con la manodopera poco qualificata inglese, provocando un risentimento sociale che è stato uno dei grandi motori della Brexit nelle aree più disagiate del paese. Per questo il governo ha fissato una soglia minima di stipendio in entrata per i nuovi immigrati: 20.480 sterline annue, abbassata, dopo le rimostranze di interi settori, rispetto alla prima, irrealistica proposta di 30 mila, visto che la media nazionale è intorno ai 28 mila.

La ministra degli Interni Priti Patel, figlia di immigrati che in base al suo piano non avrebbero i requisiti per entrare, ha illustrato le misure ieri a Bbc Breakfast e ha parlato di “una svolta storica, che attrarrà i migliori al mondo, potenzierà la nostra economia e le nostre comunità e libererà il potenziale del nostro Paese”.

Obiezione: il Regno Unito è già a corto di lavoratori in settori come l’edilizia, l’agricoltura e l’assistenza medica e sociale. Il piano prevede anche quote nei comparti più bisognosi e una pragmatica flessibilità specifica per il servizio sanitario, ma perché i lavoratori europei dovrebbero venire a cercare impiego in un Paese dove sarebbe complicato rimanere?

“Se il piano resta questo è pura follia” commenta al Fatto Stefano Potortí, imprenditore italiano attivo a Londra nel settore dell’ospitalità, che prosegue: “Già da due anni, per effetto della Brexit, abbiamo grosse difficoltà a trovare personale. Dati alla mano non ci sarebbero abbastanza inglesi per coprire i posti disponibili”.

Alle proteste delle associazioni di categoria il governo risponde con noncuranza e in modo spiccio: adattatevi, assumete inglesi e impegnatevi a formarli e trattenerli. Con una disoccupazione al 3,8%, resta il dubbio che quella di Downing Street sia strategia più che sostanza: ingraziarsi i propri elettori mostrando la faccia feroce agli odiati negoziatori europei. Che però potrebbero ricambiare ponendo condizioni simili ai futuri immigrati britannici in Europa. Più sovranismo per tutti, insomma. Intanto nell’ultima bozza dell’intesa sulla Brexit, secondo il Telegraph ci sarebbe una clausola relativa alla restituzione di “oggetti culturali rimossi illegalmente nei loro Paesi di origine”. La Grecia rivuole i pezzi del Partenone in mostra al British Museum? Atene smentisce che la richiesta sia legata alla Brexit ma parla in modo più generico di azioni destinate a combattere il commercio illecito di antichità.

Bosnia, la calamita nazionalista

Odio etnico, guerre di propaganda prima delle elezioni di fine anno, antiche ferite di guerra mai sanate, che leader nazionalisti a Est riaprono facilmente come cerniere. Nei Balcani succede ancora. Di nuovo lì dove tutto è cominciato: a Sarajevo, dove si contestano in questi giorni quegli accordi di Dayton siglati nel 1995, negoziati che posero fine alla guerra di Bosnia, dando inizio all’unione dei tre popoli che da sempre abitavano il territorio: croati, serbi e musulmani, detti bosgnacchi.

“Quello che voi sperimentate ora in Europa con la ‘politica dell’identità’ dei leader populisti nei Balcani è noto da sempre” sottolinea Dejan Sajinovic, giornalista di Nezavisne Novine di Banja Luka, in Srpska Republica, entità autonoma della Federazione bosniaca, il cui leader è Milorad Dodik. “Per noi Trump non è stato una sorpresa, in lui abbiamo riconosciuto subito il profilo di Dodik” dice Dejan.

Dodik da giovane: un moderato socialdemocratico di sinistra durante il conflitto, critico di gerarchi e gerarchie militari, entrato al Parlamento con supporto americano e internazionale nel 1998. Un politico pronto a parlare di genocidio, che dopo una sconfitta elettorale evaporò, per reincarnarsi nel 2006 nell’opposto di se stesso. L’ultimo, attuale Dodik: separatista, nazionalista dalla parlata xenofoba, che promette ai serbi di Bosnia un referendum di secessione per l’indipendenza della Srpska. Ha trovato il suo regno nell’elettorato cresciuto in quella parte dell’emisfero slavo dove il serbatoio dell’odio non è stato mai prosciugato, dove disinformazione e propaganda vengono esercitate come scienze esatte. Finito nella lista nera Usa, nei quali ha il divieto d’entrata, Dodik ha puntato la sua bussola al Cremlino di Mosca, poi verso Belgrado. “È cambiato per pragmatismo, ha capito che se fosse diventato estremista, avrebbe vinto le elezioni. Non solo i serbi, ma tutti i balcanici rispondono ancora alla sirena del nazionalismo, è un gioco che ogni politico fa con la sua etnia” dice Dejan. Sta parlando dei capi politici dei sei Paesi candidati all’entrata nell’Ue – Serbia, Montenegro, Albania, Bosnia Erzegovina, Nord Macedonia – presenti al summit previsto a maggio in Croazia. “Il referendum di Dodik è come il muro di Trump: la gente sa che non lo farà mai, piace la strategia provocatoria”, dice Dejan.

La destabilizzazione della regione avviene su base etnica. Dodik, che ieri ha ordinato lo stop ai lavori a tutti i serbi membri di organi statali, finché non verrà cambiata la legge costituzionale per la nomina dei giudici dell’Alta Corte, si dichiara parte dell’unione dei serbi: quelli residenti in Montenegro, dove con una legge adottata nel 2019 si minaccia la proprietà delle terre dove sorgono le chiese ortodosse; serbi di Kosovo, ancora residenti delle enclavi che sorgono attorno ai monasteri slavi; serbi bosniaci della regione autonoma, i cui territori pubblici ora reclama Sarajevo come propri.

È questa l’ultima disputa che fa tremare il Paese che rischia di essere “trascinato nel gioco di potenze rivali”. Europa e America hanno perso interesse strategico, hanno lasciato che il loro vuoto venisse riempito da Russia, vicina ai serbi e contrari alla Nato; Turchia, vicina ai musulmani che sono favorevoli all’Alleanza Atlantica; Cina, “lontana da ogni etnia, ma pronta ad aiutare chiunque accetti i suoi soldi, potenze mondiali che peggiorano problematiche regionali”. È la profonda convinzione dell’analista politico di Balcan insight, Srecko Latal, che lo ricorda da uno Stato “percepito come il buco nero dei Balcani, ma le nazioni limitrofe, governate da autocrati senza interessi per il bene comune, non sono diverse”.

Guerra vuol dire guerra. Non è una parola da sprecare per una metafora superficiale. “Lavoravo come corrispondente durante il conflitto, sono molto cauto nell’usare quella parola. Nonostante questioni irrisolte e incidenti etnici, le persone comuni si sono riconciliate relativamente. Ma se qualcuno prova di nuovo a dividere la Bosnia, la guerra tornerà”. La speranza perduta, ma alimentata per 20 anni, di far parte della famiglia occidentale, secondo il giornalista, sta facendo alzare la tensione. Finito l’incanto, tornano le vertigini in un posto pieno di fantasmi, rancore sotto la pelle. “Il problema giace in prospettiva: qui l’Unione sta scomparendo, la popolazione si sente tradita, la storia ci ha insegnato che l’Europa ha in mano la chiave della nostra pace. Non ho più risposte, ma una domanda: come userà la chiave? Anzi: la userà?”.

Armi, arrestato il capitano della Bana

Genova

Dopo aver bloccato nel porto di Genova il 3 febbraio scorso la nave Bana, battente bandiera libanese, la Procura del capoluogo ligure ieri ha arrestato il comandante Jouseff Tartiussi, 55 anni, anch’esso libanese. L’accusa è di traffico internazionale di armi in concorso con soggetti da identificare, fra cui militari turchi. L’inchiesta degli inquirenti genovesi era partita dalle dichiarazioni di un sottufficiale del cargo (attualmente trasferito in una località segreta dopo la richiesta di asilo politico), che, testimoniandolo con un video girato nella stiva della nave, avrebbe mostrato come la stessa fosse recentemente stata impegnata nel trasporto di mezzi corazzati, carri armati, cingolati, obici, mitra, razzi e gruppi elettrogeni fra Turchia e Libia.

Secondo il racconto, riportato dalle agenzie di stampa, i viaggi della Bana fra i due Paesi sarebbero stati almeno tre, tutti con le medesime modalità. Nell’ambito di altri percorsi, al cargo sarebbe stato ordinato di scalare a Mersin, in Turchia, dove avrebbe caricato le armi. La nave, poi, spegnendo i sistemi di individuazione radar sarebbe partita alla volta di Tripoli, in Libia, per scaricare le armi. A bordo avrebbero viaggiato militari turchi di scorta e, forse, uomini dei servizi segreti di Ankara. All’equipaggio sarebbe inoltre stato suggerito di rispondere, qualora fosse stato loro chiesto, che la sosta in Libia era dovuta a un’avaria. La Bana, di norma impiegata per trasportare mezzi civili fra Europa e Medio Oriente, è arrivata a Genova vuota, ma gli inquirenti, che, nel frattempo hanno sequestrato la strumentazione elettronica per ricostruirne con esattezza gli spostamenti, avrebbero trovato tracce del passaggio recente dei mezzi militari nella stiva.

La nave, inoltre, era stata protagonista nei giorni precedenti l’approdo in Liguria di un avvistamento da parte della Marina francese, che l’aveva intercettata in viaggio verso la Libia scortata da due fregate turche. Il presidente francese Macron aveva accusato il leader turco Erdogan di aver violato l’embargo e media vicini al generale Haftar avevano sostenuto che quegli armamenti fossero destinati ad al Sarraj. Il primo ad accorgersi degli strani movimenti della Bana era stato a inizio gennaio il fotoreporter e collaboratore della Reuters Yörük Isık. Che, approfondendone la storia, aveva scoperto come la nave fosse stata fra 2015 e 2017 inserita dagli Usa in una lista di mezzi, persone e imprese sottoposte a sanzioni perché di proprietà di una società di Ali Abou Merhi, imprenditore libanese ritenuto legato a Hezbollah. E come, malgrado la scadenza delle sanzioni, la proprietà resti riconducibile agli stessi soggetti.

Il Ponte Morandi non è pronto, ma lo inaugurano con le Frecce

Una mega cerimonia istituzionale per inaugurare il nuovo Morandi, finito o meno, tre giorni prima delle elezioni del 31 maggio (data ufficiosa). E contestualmente uno spettacolo nel senso stretto del termine, il cui clou saranno le acrobazie delle Frecce tricolori: prima il classico verde-bianco-rosso e poi un’inedita evoluzione per disegnare la croce rossa in campo bianco della bandiera di San Giorgio, vessillo della città. È questa l’idea che Marco Bucci, sindaco di Genova e commissario per la ricostruzione del Ponte Morandi, ha sottoposto al ministero della Difesa, cui ha chiesto di inviare la Pattuglia acrobatica nazionale dell’Aeronautica per celebrare la fine dei lavori del nuovo viadotto autostradale disegnato da Renzo Piano. La struttura commissariale non ha né confermato né smentito l’istanza. Mentre dal dicastero guidato da Lorenzo Guerini è filtrato che, per il momento, non sono state prese decisioni e la domanda resta pertanto pendente.

I problemi sarebbero due. Il primo è di natura squisitamente tecnica: le Frecce tricolori non eseguono disegni a richiesta e non è immaginabile che possano prestarsi ai desiderata delle singole località in cui si esibiscono. Il secondo, più sostanziale, attiene la tempistica dell’operazione. Bucci vorrebbe organizzare tutto per il 28 maggio, malgrado finora non sia mai stata fissata una data di fine lavori definitiva e il commissario, in via ufficiale, abbia solo parlato di conclusione entro l’estate, cioè il 21 giugno al massimo. A Roma si vuole essere certi che quella data, se anche come è scontato non corrisponderà all’apertura del ponte al traffico, rappresenti almeno una svolta concreta. Che sia la chiusura di tutto il lavoro, asfaltatura e attrezzaggio della carreggiata comprese e non di una fase quale che sia. Un timore non peregrino, dato che Bucci non ha perso occasione nei mesi scorsi di organizzare celebrazioni.

Strade riaperte, avvio delle demolizioni, elevazione di pile, montaggio di impalcati, cerimonie, taglio di nastri, annunci e conferenze sono state nell’ordine delle decine e quasi sempre il primo cittadino è stato affiancato dal governatore ligure Giovanni Toti (commissario per l’emergenza nonché finanziatore con la sua fondazione Change della campagna elettorale del sindaco). Occorre, quindi, chiarire bene quale sarà ragionevolmente lo stadio dei lavori a fine maggio. Anche perché in ballo c’è un’altra partita.

La data non è ancora stata individuata con certezza, ma il 31 maggio è il giorno più accreditato per l’organizzazione delle elezioni per la Regione: la cerimonia per la fine dei lavori del nuovo Morandi a 48 ore dalla chiusura della campagna sarebbe uno spot elettorale fenomenale. Cui la Difesa non ha alcuna intenzione di prestarsi se non con la garanzia assoluta che di una cerimonia di fine lavori davvero si tratti. Una garanzia che oggi appare pressoché impossibile. Non solo per quanto affermato dallo stesso Bucci, ma perché le incognite in un’operazione del genere sono evidentemente moltissime. I pessimisti, fra chi attivamente sta partecipando alla ricostruzione, sono senz’altro in maggioranza. Ma c’è anche chi riferisce di come “sei mesi fa sarebbe stato molto riluttante a scommettere sullo stato odierno. Il 28 maggio resta un traguardo ambiziosissimo, ma non lo definirei irrealistico. Sempre che di vera conclusione lavori si parli”. A proposito di imprevisti proprio ieri Placido Migliorino, l’esperto inviato dal ministero delle Infrastrutture a controllare la rete autostradale ligure, ispezionando l’elicoidale che immette anche sul nuovo viadotto connettendo la città con Savona e Milano a Ovest e Livorno a Est, ha riscontrato carenze che non ne permetterebbero l’utilizzo. Nella notte sono stati effettuati accertamenti, ma se i riscontri saranno insoddisfacenti occorreranno ulteriori verifiche.

Evidente che fissare una data a più di tre mesi, tanto più in via riservata, appaia un azzardo giustificabile con un obiettivo grosso come le elezioni regionali. “A noi, cui pure sono finora state segnalate con anticipo tutte le iniziative della struttura commissariale, non è stato detto niente e ne parleremo eventualmente in assemblea”, racconta Egle Possetti, presidente del Comitato dei parenti delle vittime del Morandi. “Certamente unanime, però, è la dissociazione da qualsivoglia tentativo di legare la ricostruzione alla tornata elettorale” chiude Possetti, con presumibile riferimento alla recente campagna avviata dalla Regione con lo slogan “Abbiamo dato a Genova un nuovo ponte”.

L’Agenzia Spaziale ora fa l’investitore a rischio nelle startup

La visione di base non è né giusta né sbagliata: il giudizio dipende da quale idea si ha dello Stato e della sua partecipazione in investimenti ad alto rischio e a fondo perduto. I problemi nascono però quando una operazione che porterebbe 10 milioni di euro pubblici a ingrassare un fondo di venture capital destinato a finanziare startup e imprese in ambito aerospaziale diventa, oltre che opinabile, anche poco trasparente, con le amministrazioni coinvolte – l’ente e i ministeri che devono valutarlo – che si scaricano le responsabilità a vicenda.

Il tuttodiventa ancor più opinabile se, scavando, si scopre che la destinazione di quei soldi rischia di essere decisa dalla stessa persona (il fisico Roberto Battiston) che, da presidente, aveva fatto partecipare l’Agenzia Spaziale (Asi) alla creazione del fondo affidando a una fondazione da lui creata (e al tempo presieduta) il compito di affiancare gli esperti che sceglieranno i progetti da finanziare. Ora, infatti, dopo aver lasciato tutti i suoi incarichi – volontariamente o meno – Battiston potrebbe rientrare nel programma come direttore scientifico della fondazione di cui sopra. Ma ripartiamo dall’inizio.

Ad aprile del 2018, il cda di Asi delibera che l’Italia ha bisogno di dotarsi di “strumenti finanziari innovativi” per il sostegno alle attività spaziali approvando la partecipazione a un fondo di venture capital che si chiama “Primo Space” con 10 milioni di euro su 80 totali (il resto sono quote private e fondi europei). Sono soldi a rischio: le startup, soprattutto a carattere fortemente innovativo, hanno un tasso di fallimento molto alto e, se non ben indirizzate, muoiono assai prima di capire dove vogliono arrivare. La notizia viene diffusa quasi subito, anche perché l’Asi ottiene a maggio il parere favorevole del ministero dell’Istruzione, che vigila sull’ente. Inoltre, l’operazione è promossa dall’allora presidente di Asi, Roberto Battiston, fisico sperimentale, specializzato nel campo della fisica fondamentale e delle particelle elementari, uno dei maggiori esperti di raggi cosmici, ma manager pubblico assai criticato a livello politico per la sua vicinanza a Romano Prodi (è marito della nipote e s’è candidato col Pd) e a livello tecnico per la gestione del ruolo italiano nelle politiche spaziali Ue durante il suo mandato, ritenuta poco efficace.

Molti siti raccontano che “è pronto un piano di investimenti per le Piccole e medie imprese che operano nel settore dello spazio” e che “il fondo di venture capital dedicato all’innovazione spaziale sarà gestito da Primomiglio Sgr”, una società di gestione dei risparmio che fa capo a Gianluca Dettori, considerato uno dei pionieri di internet e da qualche anno specializzato nel finanziamento alle startup (tra i partecipanti, il 14 febbraio insieme a Battiston, a un convegno sulla “Space Economy” a Vicenza).

Il fondo, si legge, “rispetto ad altri partirà con il commitment dell’Agenzia Spaziale Italiana” che, oltre ai soldi, porta anche “network e competenze”. Lo fa attraverso una fondazione creata dallo stesso Battiston, la “E. Amaldi” che supporterà “il team di investimento” nelle attività di “scouting e advisory” e di cui è anche presidente.

Nel giro di pochi mesi, però, tutto cambia: Battiston viene prima rimosso dalla presidenza Asi dal ministro leghista Bussetti, poi perde anche la presidenza dell’Amaldi. All’Asi arriva prima un commissario per sei mesi, poi un nuovo presidente, Giorgio Saccoccia, che di fronte all’affaire del fondo startup anziché prendere una decisione netta chiede, a fine dicembre, un parere ai ministeri del Tesoro e dello Sviluppo economico.

I 10 milioni sono infatti accantonati da tempo, ma il collegio dei Revisori vuole che prima di tenerne conto nel bilancio di previsione ci si assicuri che l’operazione sia autorizzabile e autorizzata. Lo scambio di pareri tra i ministeri – che analizzano tra l’altro l’assenza di un decreto attuativo per questo tipo di partecipazioni (Mise) ma che identificano anche norme europee che superano quelle nazionali (Mise) – si conclude sostanzialmente rimandando la decisione all’Asi stessa e al ministero vigilante, che intanto, con la recente scissione, è diventato quello dell’Università e della ricerca affidato a Gaetano Manfredi a cui ora potrebbe toccare l’ultima parola.

C’è però una poco evidente, ancorché enorme, criticità: al di là delle modalità che hanno portato l’Asi a partecipare a Primo Space anziché a un qualsiasi altro fondo, il direttore scientifico della fondazione “Amaldi” che avrà gran peso nello scegliere i progetti risulta essere – secondo pubblicazioni e pubblicità ufficiali tanto dell’Asi che della Amaldi – proprio Roberto Battiston: lui che, a dicembre, ha anche coordinato il Forum Expo “New Space Economy” omaggiato della presenza di molti ministri giallorosa.

Il timore, dentro e fuori l’Asi e tra chi si chiede se prima di questa partecipazione ci sia stata almeno una procedura di manifestazione d’interesse, è che Battiston abbia un ruolo centrale nella gestione e distribuzione di quei soldi che ha tanto voluto per innovare il Paese. Il Fatto ha chiesto conferma di questa carica sia alla fondazione Amaldi che a Battiston visto che sul sito non c’è traccia di informazioni su chi componga e presieda il comitato scientifico. Ma al momento della stesura dell’articolo non è arrivata risposta.

Un terzo dei clienti italiani: conterà come un governo…

La nuova Intesa Sanpaolo che emergerà dall’integrazione di Ubi – se e quando l’operazione andrà a buon fine – sarà di gran lunga la prima banca italiana in tutti i segmenti operativi. Quasi un terzo di tutti gli italiani che hanno un rapporto bancario ne saranno clienti e la sua rete sarà pari a un quarto di tutti gli sportelli del Paese. Una svolta che nasce da lontano e i cui effetti andranno lontano.

Dopo l’integrazione di Ubi, Intesa dominerà il mercato del credito con quote stratosferiche. Al netto delle cessioni a Bper, dal proprio 17% precedente salirà al 21% di tutti gli impieghi bancari italiani; dal 18 al 21% del totale nazionale dei depositi; dal 21 al 23% del risparmio gestito; dal 16 al 19% delle assicurazioni Vita, con la palma anche nel risparmio previdenziale.

Agli 11,8 milioni di clienti italiani di Intesa se ne aggregheranno altri 3 di Ubi, mentre 1,2 milioni saranno ceduti a Bper: quasi un terzo dei clienti di tutte le banche italiane distribuito in modo uniforme in tutte le regioni. I suoi circa 5mila sportelli saranno un quinto delle filiali nazionali e un quarto della rete delle banche Spa.

Molti clienti che avevano rapporti coi due istituti, specie tra le imprese, dovranno rimodularli e dovrà dire la sua l’Antitrust. In base ai bilanci 2019, con 21 miliardi di proventi operativi netti Intesa Sanpaolo sarà il 7° gruppo bancario in Europa per risultato (era undicesima), il 3° per capitalizzazione di Borsa (era sesta) con 44 miliardi e il 12° per attivi, a un passo da UniCredit, con quasi 930 miliardi. Una preda ormai troppo grande per quasi tutte le banche europee.

Cifre cui si aggiungono i numeri dell’estero. Intesa oggi è presente con circa mille sportelli e 7,2 milioni di clienti attraverso una rete di istituti controllati o partecipati in 12 Paesi in Europa centro-orientale, in Medio Oriente e Nord Africa, ai quali si aggiunge una rete internazionale specializzata nel supporto alla clientela corporate in 25 Paesi.

Questa storia parte nel 1989, quando il Nuovo Banco Ambrosiano sorto dalle ceneri del crac targato Calvi-Sindona-P2 ingloba la Banca Cattolica del Veneto. Poi arrivano le acquisizioni di Banca di Trento e Bolzano e nel 1997 di Cariplo, da cui sorge Banca Intesa che nel 1999 acquisisce Comit. Nel frattempo SanPaolo di Torino acquista Imi, nel 2000 Banco di Napoli e nel 2002 il gruppo Cardine. Dal primo gennaio 2007 i due gruppi si fondono, nel 2008 conquistano Cr Firenze, nel 2010 Banca Monte Parma.

Una capacità di integrazione senza eguali, come pure un grosso fiuto per gli affari. Fiuto dimostrato nel colpaccio del 26 giugno 2017 quando, per la cifra simbolica di un euro l’una, Intesa acquisisce le parti in bonis di Popolare Vicenza e Veneto Banca ottenendo la garanzia del Tesoro, cui lascia le bucce e i crediti marci. Facile fare il “cavaliere bianco” che si immola per salvare d’Italia a spese dei contribuenti.

Sull’altro fronte, il 1 aprile 2007, dalla fusione di Bpu e Banca Lombarda e Piemontese sorge Ubi che nel 2015 da Popolare diventa Spa, per acquisire poi a maggio 2017 Etruria, Banca Marche e CariChieti, tre delle quattro banche finite “in risoluzione” a novembre 2015. Tre giorni fa l’ultimo assalto che attende la risposta degli azionisti di Ubi. Inedita invece l’alleanza con Mediobanca e il suo vassallo Unipol, mossa a tenaglia che rompe vecchie contrapposizioni e rende possibile l’operazione sul fronte dei tetti antitrust bancari e assicurativi.

Gli analisti vedono positivamente l’integrazione quanto a sinergie di costi, generazione di utili e di dividendi, ma c’è pure chi ritiene che Intesa Sanpaolo offra troppo poco per Ubi, nonostante il premio sui corsi di Borsa. L’operazione non prevede esborsi monetari ma solo attribuzione di nuove azioni: un altro colpo da maestro, in grado di generare presto notevoli plusvalenze che compenseranno il “sacrificio” della diluizione patita dalle Fondazioni grandi azioniste di Intesa.

Ma la concentrazione non cambierà solo gli equilibri del settore e nell’Abi: i suoi effetti si trasmetteranno anche alle assicurazioni, alle imprese, ai media, dove Intesa e Mediobanca solo pochi anni fa si scontravano su Rcs. Un tale potere, di mercato ma non solo, si trasmetterà al sindacato, alla politica, al governo: sarà difficile, ad esempio, non tenerne conto per il legislatore chiamato a disegnare leggi su temi di interessi per il nuovo colosso. Difficile pure sottrarsi a un simile peso per le autorità a vario titolo vigilanti.

Qualche decennio fa si diceva che ciò che era buono per la Fiat era buono per l’Italia: da domani lo stesso si dirà di Intesa, non più “banca di sistema” ma sistema essa stessa.

L’assalto a Ubi parte in salita. I soci storici alzano la posta

L’offerta dell’ad di Intesa Sanpaolo, Carlo Messina, di accogliere i vertici di Ubi tra le fila dei propri manager in caso di successo della fusione tra i due istituti, non deve aver suscitato grande entusiasmo. Ieri il cda della popolare lombar ha emesso una scarna nota per dire di non aver ricevuto nulla di più di un annuncio e per far sapere di aver dato mandato all’amministratore delegato Victor Massiah di nominare i consulenti che dovranno valutare l’offerta, “una volta disponibile, con le alternative possibili”. Il titolo in Borsa si è fermato (+0,23%) dopo il boom della seduta in cui era stata annunciata la proposta e Massiah in una lettera ai dipendenti ha precisato che “l’iter dell’operazione è complesso e non è affatto scontato”.

La palla, intanto, passa a Bergamo, dove questa mattina si riunirà il Car, il patto che da pochi mesi guida l’azionariato di Ubi con una quota vicino al 20%. Nato a sorpresa a fine settembre, era riuscito a sparigliare le carte nella travagliata governance della popolare lombarda dove si agita sempre il fantasma del bresciano Giovanni Bazoli, facendo guadagnare a Bergamo il primato su Brescia grazie al salto della barricata della famiglia Beretta. Ma appena entrato in funzione si è trovato davanti lo sbarramento di Intesa. “Ubi è centrale per l’Italia e il suo sistema bancario. Il Car è già al lavoro per valutare il quadro, ma le riflessioni prenderanno il loro tempo”, hanno fatto sapere martedì dal patto. Che oggi si riunisce a Palazzo del Monte, di proprietà della famiglia Bosatelli, industriali dell’illuminotecnica (Gewiss). Non mancheranno poi tutti gli altri componenti dell’accordo nato da un gruppo di fuoriusciti del Patto dei Mille, la storica alleanza dei bergamaschi contro il fronte bresciano del Sindacato azionisti Ubi. E cioè grandi famiglie di imprenditori come Bombassei (Brembo), Pilenga (delle omonime fonderie), Andreoletti (Scame), Radici (Miro Radici), oltre appunto ai bresciani Gussalli Beretta dell’omonima Fabbrica d’Armi, che si dice siano molto vicini a Massiah.

Industriali che nel Car hanno unito le forze con la Fondazione Cassa di Risparmio di Cuneo e la Fondazione Banca del Monte di Lombardia, sotto l’abile regia del discreto notaio Armando Santus. Tutti imprenditori navigati che non sono certo nuovi alle grandi operazioni finanziarie, ma che sono abituati a far bene i conti con il denaro. E qui casca l’asino: l’offerta non è ritenuta soddisfacente, specie per azionisti di lungo corso che dovranno accontentarsi di un ruolo marginale e, con la scomparsa di Ubi, della perdita di una seconda possibilità di accesso al credito di un certo peso. D’altro canto a Milano si dice piutost che nient, l’è mei piutost. Ma bisognerà vedere anche quale sarà la valutazione dei fondi azionisti di Ubi, gli unici disposti a dar davvero battaglia se conviene. E spingere Intesa a rilanciare.

Finiti i Vip, tocca ai parenti: vai con l’ultimo stadio del trash

In origine era la tv dei professionisti dell’intrattenimento: roba vecchia, superata dalla tv dei Vip, dove il talento non è più necessario, anzi, è un deterrente: si rischia di notare la differenza. Ma ormai anche il Vip nudo e crudo appartiene al passato: siamo alla Tv dei parenti. Era fatale: l’essenza del trash televisivo consiste nell’esibire le vite degli altri. Ci si ispira alla Stasi, ma dandole delle piste: una volta scoperti, i panni sporchi vengono messi in scena, coreografati in diretta come una volta si faceva con i balletti. Prendete Sanremo. Chi se ne frega delle canzoni, alla Tv interessa solo una cosa, lo scazzo Morgan-Bugo. Eliminati all’Ariston, ma contesi a peso d’oro nei ricchi contenitori a gettone (nel senso della lavanderia, ma non solo). Barbara D’Urso, la Don Lurio dei pesci in faccia, si aggiudica l’asta e ospita Morgan. Costretta a ripiegare su Bugo, Mara Venier sfodera però l’arma segreta: la sorella di Morgan, che peraltro da due anni non si parlava con il fratello (Pierluigi Diaco cade dal pero: “Davvero aspettavi di farlo in tv?” Eh già, chi l’avrebbe mai detto!). E guerra sia: alla sorella di Morgan la D’Urso risponde con la mamma di Morgan, e perfino con la cameretta di casa Morgan. I Vip sono alla frutta? Niente paura, è arrivata la tv dei parenti. C’è tutto un mondo di affini che scalpita, fidanzatini delle elementari cugini fino al quinto grado che hanno rotto con la famiglia. Ma perché? Aspettiamo la telefonata di Canale5.

Caro Conte, liberi la Rai dai tentacoli continui dei partiti

Gentilissimo presidente del Consiglio Giuseppe Conte, in occasione del discorso di fine anno, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, ha ricordato a tutti noi che “un ruolo fondamentale è assegnato ai media e in particolare al nostro servizio pubblico”. Si riferiva, nello specifico, all’accesso al sapere. Un ruolo fondamentale nell’era delle fake news. Parole che suonano come riconoscimento della Rai, ma anche come sprone a fare sempre meglio, a interpretare sempre meglio la propria missione di Servizio Pubblico. Ma oggi questa missione è resa proibitiva dalla morsa sempre più asfissiante dei partiti: stretta attraverso un controllo assoluto nelle nomine e nella gestione dei fondi messi a disposizione. Ovvero i due pilastri che l’Europa e le organizzazioni europee ci dicono che devono essere sottratti al controllo di partiti e governi per assicurare autonomia e indipendenza dei Servizi Pubblici. Da dipendente prima, da presidente dell’associazione Rai Bene Comune e ora da consigliere di amministrazione Rai espresso dai dipendenti, sento il dovere morale di appellarmi a lei come ultima ancora di salvataggio per il futuro della concessionaria del servizio pubblico multimediale. Da ormai troppi anni si dibatte sulla ingombrante presenza dei partiti e degli interessi privati che molto spesso si sostituiscono ai vari direttori generali e agli amministratori delegati nella gestione aziendale ordinaria e straordinaria. Tante le proposte di riforma presentante negli anni, ma mai nessuna presa seriamente in considerazione da alcun governo perché poco gradita da quei soggetti che preferiscono al servizio pubblico il servizio privato con soldi pubblici. Nonostante i desiderata di chi scambia la Rai come una serva a cui sottrarre sempre lo stipendio, c’è, per fortuna, ancora una parte sana dell’azienda che per immenso senso di responsabilità va avanti producendo risultati di tutto rispetto in un contesto complicato. Siamo ancora infatti ai primi posti per ascolti – seppur con il canone più basso – ma, se non si prenderanno urgenti provvedimenti, rischiamo di subire presto un crollo verticale in termini di offerta, qualità e cultura che sarà il preludio della fine di un presidio essenziale per i cittadini.

Ritengo urgente una calendarizzazione della riforma dei criteri di nomina degli organismi di amministrazione della Rai, proprio come previsto dal programma di governo, sulla base di una delle tante proposte che giacciono in Parlamento che, attraverso un sistema duale, ponga delle solide fondamenta per l’indipendenza editoriale e finanziaria. Egregio primo ministro, a margine di un incontro istituzionale a Sofia lei ha dichiarato di non occuparsi di Rai e di non guardare la tv. Certamente si riferisce al fatto che non intende condizionare le scelte di chi è chiamato a gestire l’Azienda. Scelta degna di ogni considerazione: ma è probabilmente il solo che si astiene da questo tipo di indebita interferenza. In virtù di queste mie considerazioni la invito con sollecitudine ad occuparsi della concessionaria di servizio pubblico e del suo futuro prima che sia troppo tardi: per i dipendenti che ci lavorano, per i cittadini e per il nostro Paese che, mai come ora, ha bisogno di un servizio pubblico in grado di ricostruire un tessuto sociale lacerato e capace di rendere consapevole il cittadino/consumatore rispetto alle improcrastinabili tematiche ambientali. Una Rai Servizio Pubblico che sia protagonista nella promozione della coesione sociale, alla quale in più occasioni ha richiamato tutti noi il Presidente Sergio Mattarella.

 

L’Inghilterra fa orecchie da mercante

“Le parti dovranno, in accordo con l’ordinamento dell’Unione, affrontare il tema del rientro o della restituzione degli oggetti culturali rimossi illegalmente dai loro paesi d’origine”. L’articolo 32a della bozza di accordo tra Unione europea e Regno Unito, filtrata ieri sulla stampa, ha subito fatto pensare che ci si riferisse alla annosa questione dei marmi del Partenone, venduti nel 1816 al British Museum dal governo ottomano di occupazione, e oggi rivendicati con forza dai greci. Un sospetto confermato dalla notizia che era stata proprio la Grecia, appoggiata dall’Italia, a chiedere quell’articolo. In realtà, le smentite di Atene sono probabilmente sincere: non si sta pensando di usare la Brexit per sciogliere un nodo che nulla c’entra con l’Unione.

Ma allora perché quell’articolo? Perché è innegabile che la secessione britannica apra delicate questioni nel mondo dell’arte. Una, per esempio, serpeggia a Milano: visto che una sentenza del Consiglio di Stato ha stabilito che i direttori dei Musei nazionali italiani possono non essere italiani solo se sono cittadini europei, il direttore di Brera (che è inglese, e dunque dal 1° febbraio non è più legalmente europeo) ha ancora i requisiti essenziali per coprire quel posto chiave? Ma quel che preoccupa Paesi come la Grecia e l’Italia non è la libera circolazione dei direttori: è quella delle opere d’arte.

Perché, visto che Londra – con le sue case d’asta e gallerie – è l’epicentro del mercato mondiale dell’arte, la Brexit rischia di suonare come un “bomba libera tutti” per i trafficanti che spogliano ogni giorno paesi come il nostro. Se il governo inglese decidesse di garantire alla sua piazza uno statuto da “paradiso legale”, rifiutandosi di sottoscrivere patti di restituzione del maltolto, i risultati potrebbero essere drammatici. Già oggi le guardie affrontano a mani nude i ladri d’arte (da non immaginare come romantici Lupin: tra loro ci sono mafiosi e terroristi). L’internazionale criminale usa mezzi sofisticati e ignora i confini, mentre le polizie (pensiamo ai nostri eroici carabinieri del Nucleo di tutela) e le magistrature sono frenate da strumenti giuridici antiquati (pressoché impossibile, per esempio, usare le intercettazioni per reati di questo tipo), rogatorie interminabili, resistenze sciovinistiche. Ed è evidente che l’interesse dei Paesi ricchi di opere d’arte e di siti archeologici (Italia, Grecia, Cipro, Spagna, Portogallo e Francia) diverge da quello dei Paesi “consumatori” (Regno Unito e Olanda su tutti). Per intenderci, se quell’articolo non passasse negli accordi finali tra Regno Unito e Unione, potrebbe accadere che un busto di marmo barocco sbarbato col piede di porco da una delle tante chiese di Napoli accessibili solo ai ladri, finisse in vetrina a New Bond Street, senza alcuna chance di far ritorno in Italia anche dopo che il furto venisse scoperto e perseguito dalla nostra magistratura.

Oltre a far pressione sulle trattative, però, ci sono due cose che il nostro governo dovrebbe fare subito: la prima è ratificare la Convenzione di Nicosia, che rafforza molto la protezione internazionale del nostro patrimonio, e che l’Italia non ha assurdamente ancora firmato. La seconda è far approvare finalmente anche al Senato l’ottima legge per la tutela penale del patrimonio che finché Matteo Renzi era presidente del Consiglio rimase in un cassetto, e che invece, al tempo di Gentiloni, i ministri Orlando e Franceschini (e bisogna dargliene atto e onore) portarono all’approvazione della Camera. Ora quella legge giace al Senato, dopo un incomprensibile sbarramento del Movimento 5 Stelle: è l’ora di approvarla, possibilmente senza annacquarla. Proprio perché l’Inghilterra farà, prevedibilmente, orecchi da mercante dobbiamo rafforzare le difese del nostro patrimonio culturale: se non ora, quando?