Perché Sanders può vincere

Le previsioni, recita una vecchia freddura inglese, sono sempre difficili, specie quelle sul futuro. E quelle sulle elezioni americane sono tra le più ardue. Esperti, sondaggi, partiti, bookmakers, non ci azzeccano quasi mai. Soprattutto negli ultimi decenni, da Bush II in poi, a causa della maggiore mobilità elettorale e della crescita di un disagio che parte dal profondo della società americana. E che favorisce candidati radicali, di svolta, capaci di dare risposte al di fuori dei vecchi schemi e dei vecchi partiti.

Il candidato che risponde più di ogni altro a queste nuove esigenze è Bernie Sanders. Ed è quello che ha le maggiori probabilità di vincere su Trump, anche lui personaggio di rottura, ma che non ha rotto, e che Sanders è in grado di mettere in difficoltà – con il suo messaggio anti-establishment e “socialista” – proprio presso il suo elettorato di riferimento, la classe lavoratrice bianca impoverita dallo strapotere del capitale finanziario.

Sanders può vincere perché è in grado di interpretare le domande anti-imperiali e di giustizia sociale ormai diffuse in tutta la società meno che in quello 0,1% che controlla, però, quasi tutto: finanza, media, partiti, governo, Parlamento, Pentagono.

Gli Stati Uniti sono l’unico vero sistema capitalistico rimasto sul pianeta, mezzo secolo indietro rispetto all’Europa, al Canada e al Giappone. Zone dove la ricerca del profitto ha dovuto fare i conti con nemici agguerriti, che in alcuni Paesi hanno finito col sottomettere il mercato alle logiche e agli interessi della società.

Il modello scandinavo, i Paesi scandinavi sono oggi molto popolari negli Usa. Sono in tanti a vederli come un esempio da seguire. Perché? Perché il loro sistema offre protezione efficace dalle avversità più elementari della vita.

È in corso in America la ribellione silenziosa di una società che si sente minacciata nelle sue radici. Che sente la sua stessa “sostanza umana e materiale” messa in pericolo da un sistema che nega ai suoi membri alcuni diritti fondamentali mentre si riempie la bocca di retorica sulla cosiddetta “democrazia liberale”.

Gli Stati Uniti di oggi sono l’ombra della società aperta, prospera e fiduciosa di un tempo. Mezzo secolo di neoliberalismo capitalistico ha fatto sì che una malattia o un incidente serio, la perdita del lavoro o la caduta nel precariato da 8 dollari al giorno siano divenuti minacce che incombono su centinaia di milioni di cittadini.

Il resto dell’Occidente, invece, presenta un’autorità pubblica piena di difetti, ma in grado di offrire ai propri cittadini istruzione e sanità universali e quasi gratuite, un reddito minimo di sopravvivenza, l’accesso ragionevole al servizio giustizia e rischi contenuti di incarcerazione, tossicodipendenza e degrado estremo della salute fisica e mentale.

Gli oppositori di Sanders chiamano tutto questo “socialismo” e la grande informazione, anche quella democratica, insiste sull’argomento che gli Stati Uniti non possono avere un presidente che si dichiara socialista.

L’ intero establishment, Partito democratico incluso, è mobilitato contro Sanders. Come lo era, ma in misura minore, contro Trump. Ogni giorno il New York Times ricorda che Sanders è troppo estremo, che le sue riforme costano troppo e che la sua base elettorale è troppo esigua.

Omettendo di informare i lettori che Bernie Sanders è il politico più popolare degli Stati Uniti; batte regolarmente, e da anni, Trump in tutti i sondaggi sulla presidenza; è l’unico in grado di mobilitare i non votanti e quelli che si dichiarano indipendenti; intorno alla sua elezione si gioca la grande partita della civilizzazione degli Stati Uniti.

Quanto ai costi di una riforma sanitaria “all’europea” e della costruzione di un minimo di decente protezione sociale, basterebbe ridurre l’oltraggioso bilancio della Difesa e smettere di fare le guerre senza fine in Medioriente. Sono proposte molto popolari avanzate da Sanders, la cui adozione salverebbe tra l’altro il dollaro dal collasso per indebitamento dello Stato federale.

La vera questione, quindi, non è se Sanders ce la può fare a vincere. La domanda potrebbe riguardare, semmai, la natura dello scontro e l’esito della partita che si aprirebbe con la sua elezione.

Si finirebbe con la vittoria della società e dei diritti dei cittadini contro una plutocrazia predatoria, coesa, che ha una lunga storia di violenza dietro le sue spalle? O questa macchina spoliatoria prevarrebbe immediatamente, neutralizzando o schiacciando qualunque tentativo di incivilire l’America?

Meglio non correre troppo. Le lunghe marce cominciano sempre con un primo passo.

Mail box

 

Prescrizione, un utile confronto tra vittime e contestatori

Sono un vostro lettore e sono super indignato sulle vicende della prescrizione e sulle fandonie raccontate dai sedicenti garantisti. Chiedo a Marco assiduo frequentatore di Otto e Mezzo, perché non propone alla Gruber un confronto tra un danneggiato dalla prescrizione parente di vittime Eternit, violenze sessuali o altro che hanno visto prosciolti i carnefici e una delle tante anime candide, dalla Bongiorno a Vinicio Nardo (presidente dell’Ordine degli avvocati di Milano), alla Carfagna o altri per vedere con che faccia si rapporteranno alle vittime che vedono il reato prescritto e i colpevoli liberi?

Tanino Armento

 

Ottima idea! Proposta lanciata.
M. Trav.

 

Allarme clima: sarà catastrofe se non si cambia rotta

L’aumento di temperatura ha portato a un anticipo della fioritura e delle date di raccolta di molte specie di frutta e di verdura. Questo espone molte specie al rischio di gelate, grandinate o piogge, che possono danneggiare l’intero raccolto. E dire che c’è chi nega i cambiamenti climatici e nasconde la testa sotto la sabbia.

Gabriele Salini

 

Un sistema elettorale maggioritario è democrazia

Illustrissimo Dottor Travaglio, sono un lettore del suo giornale del quale apprezzo in particolare la difesa dell’indipendenza della magistratura, come garanzia di eguaglianza tra i cittadini. Mi pare però che l’eguaglianza vada difesa anche per regole elettorali: il voto di un cittadino dovrebbe avere lo stesso valore qualunque sia la sua espressione. Invece non è così con i sistemi, detti maggioritari, ma in realtà minoritari, destinati a dare cioè un’ampia maggioranza a chi tale maggioranza non la ottiene nei voti. Disgraziatamente questi sistemi si sono affermati nel nostro paese, particolarmente per quanto riguarda le elezioni regionali e comunali. Prendiamo per esempio le ultime elezioni regionali in Emilia Romagna: il Pd con 749976 voti ha ottenuto 22 seggi nel consiglio regionale (un seggio per 34090 voti), la Lega con 690864 voti 14 seggi (un seggio per 49347 voti), il Movimento 5 Stelle 102595 voti 2 seggi (un seggio per 51298 voti). Il sistema elettore, particolarmente iniquo, ha poi privato di rappresentanza 129502 cittadini che hanno espresso il loro voto nelle urne senza raggiungimento del quorum. La legge elettorale dell’Emilia Romagna non è molto diversa da quella di altre regioni, con la differenza che mentre in Emilia Romagna questa volta si sono recati alle urne il 68% degli aventi diritto, in Calabria hanno votato solo il 44%. Una conseguenza non solo di diversità geografiche, ma anche del fatto che il sistema maggioritario/minoritario dissuade dall’andare a votare quando la situazione sembra predeterminata. Una riprova di questo fatto è che nell’ultima votazione del Veneto del 2015 l’affluenza è stata del 57%. Zaia ha vinto alla grande raccogliendo il 50% dei voti, ma solo il 28,5% degli aventi diritto. Cosa dire poi della lista del presidente? Mi sembra un premio al voto qualunquista e clientelare, particolarmente utile per le rielezioni. Ristabilire in Italia un sistema elettorale proporzionale è una priorità nella difesa di quello che ci resta della democrazia.

Luigi Pepe

 

Matteo Renzi, l’opportunista che vuole riacquistare il potere

Mi sembra che fosse già esplicito sin dall’inizio che Matteo Renzi, avendo già maldestramente danneggiato, disgregato il Partito democratico, e machiavellicamente sostenuto la formazione di questo governo, si sarebbe imprudentemente reinserito in politica, confidando su un ristretto numero di opportunisti a lui riconoscenti per le loro poltrone in Parlamento. Il suo illusorio obiettivo è indubbiamente quello di acquisire visibilità e volere essere ancora protagonista della scena politica, anche simpatizzando con forze politiche di centro-destra.

Salvatore Perezù

 

“The New Pope” di Sorrentino, la serie che fa tendenza

Grazie al Fatto per l’irresistibile articolo di Aldo Busi, una “recensione” su The New Pope, che è un pezzo di grande letteratura e non solo. Io che, come lui (mi si perdoni il paragone irriverente), non guardo i reality, i cuochi e i fantasy, ma ho amato molto The New Pope e anche The Young Pope, gli sono riconoscente per la profondità e insieme la leggerezza con cui ha letto la serie di Sorrentino.

Vanna Lora

 

Ospedale Piombino, un reparto importante a rischio chiusura

In questi giorni a Piombino c’è tanta preoccupazione per il punto nascita del nostro ospedale. Il motivo di tanta preoccupazione è il basso numero di parti previsti, in merito alle linee guida del ministero della salute. Mi auguro si possa trovare un accordo per il bene di questo reparto così importante per il Paese e i suoi cittadini.

Massimo Aurioso

 

I NOSTRI ERRORI

Nell’edizione del 19 febbraio, nell’articolo dedicato alle elezioni in Iran a pagina 19, per una svista all’inizio dell’articolo l’appuntamento elettorale è indicato come “oggi”. Le elezioni saranno domani, venerdì, come specificato nel resto della pagina. Ce ne scusiamo con i lettori.

FQ

Vedova Schifani. La rabbia e l’orgoglio non bastano contro le mafie: serve lo Stato

Gentile redazione, ho letto con sgomento la notizia dell’arresto del fratello della vedova di Vito Schifani, agente morto nella strage di Capaci con Falcone e tutti gli altri: il fratello della signora Rosaria, Giuseppe Costa, appunto, è appena stato arrestato per mafia. “È un Caino, si deve inginocchiare… Per me è come se fosse morto purtroppo”: con queste parole la signora ha commentato la tragica notizia… Ma come si fa, dico io, ad affiliarsi a una organizzazione criminale, che oltretutto ha fatto saltare per aria tuo cognato e distrutto la vita di tua sorella? Bisogna essere proprio senza cuore, oltre che senza etica.
Anna Martinelli

 

Gentile Anna, concordo con il suo “sgomento”, anche se preferirei parlare di tristezza e amarezza verso la signora Rosaria. Mi limito a puntualizzare – ma sono certo che sarà d’accordo con me – che lo stesso giudizio che lei dà di Giuseppe Costa si possa tranquillamente estendere anche a chi non abbia vittime di mafia in famiglia. Quanto all’interrogativo che lei si pone, “come si fa?”, andrebbero interpellati storici, intellettuali, magistrati in grado di dare risposte non banali. E per quello servirebbe uno spazio assai più ampio di quello a noi qui riservato. Mi limito a dare quello che, forse, potrebbe essere lo spunto di una delle prime risposte, ossia che “si farà” fino a quando esisteranno povertà e disuguaglianze, senza le quali nessuna mafia può prosperare. E fino a quando – soprattutto – non esisterà una società civile, un corpo sociale, una coscienza comune, uno spirito dei tempi – lo chiami come le pare – talmente più forte della mentalità mafiosa da renderla ridicola e superflua.

Se mai un giorno questo dovesse accadere, sarà naturale ricordarsi di Rosaria Schifani, che quel giorno del maggio 1992 entrò come un tuono nelle case degli italiani. Emoziona ancora adesso riascoltarla. E l’onda di quella emozione – in un contesto che oggi possiamo ben definire spaventoso – toccò profondamente la generazione di chi in quel momento si affacciava alla vita adulta. Non sarà stato sufficiente, ma sono certo che qualche buon seme è stato lanciato.
Stefano Caselli

Tornano 2.500 cinesi in Toscana ed è psicosi

La polemica esplode sui social network. Ma stavolta non ci sono antivaccinisti da “blastare” su Twitter: l’oggetto della diatriba tra il virologo Roberto Burioni e il presidente della Regione Toscana Enrico Rossi è il coronavirus e, nello specifico, i 2.500 cinesi che stanno tornando dopo il Capodanno. Nel mezzo si inserisce la Lega che, in piena campagna elettorale in vista delle elezioni regionali in Toscana, non perde occasione per criticare il governatore democratico e convocare il virologo in commissione Sanità: “È assurdo che gli italiani rientrati dalla Cina siano in isolamento in un centro militare e i cinesi rientrati in Toscana a casa in quarantena volontaria – va all’attacco il consigliere regionale del Carroccio Jacopo Alberti – ci sono dei protocolli del Ministero della Salute, mi domando come mai non siano uguali per tutti”.

La diatriba aveva avuto inizio lunedì pomeriggio quando il virologo aveva lanciato l’allarme: “E’ assolutamente necessario che i 2.500 cinesi che rientreranno dalla Cina in Toscana rimangano per 14 giorni in quarantena, perché è l’unica arma di difesa che abbiamo”. Ieri pomeriggio però il governatore Rossi ha attaccato via Facebook il virologo: “La Toscana in materia di prevenzione contro il coronavirus sta facendo più di tutte le altre Regioni. E ho i dati per dimostrarlo. Chi ci attacca o non è bene informato, o è in malafede o è un fascioleghista”, ha scritto prima di allegare uno scambio di mail tra il direttore della Asl Toscana Centro, Paolo Morello, e il commissario nazionale, Angelo Borrelli, in cui il primo elenca tutte le misure di prevenzione già attuate e chiede “delucidazioni” sulle “ripetute comunicazioni a mezzo stampa e social sulla necessità di ‘obbligare’ in isolamento tutta la popolazione di rientro dalla Cina”.

Tra le misure adottate, martedì la Regione ha aperto l’ambulatorio “Lilla” all’Osmannoro (periferia a nord-ovest di Firenze) che dovrà vagliare i cittadini da poco rientrati dalla Cina e accogliere i possibili contagiati. Ma proprio durante l’inaugurazione è scattata la protesta dei lavoratori delle aziende vicine che hanno contestato duramente Saccardi: “Qui non li vogliamo” hanno urlato contro l’assessore. Burioni nel pomeriggio ha replicato: “Il governatore sotto valuta il rischio Coronavirus – ha scritto sul suo blog MedicalFacts – la quarantena sarebbe un minimo sacrificio per i 2500 cittadini che porterebbe però una grandissima sicurezza per tutti gli altri”. Ma l’assessore di Italia Viva, Stefania Saccardi, chiude almeno momentaneamente a questa ipotesi: “In tal caso sarà il ministero a dover decidere”.

Pirateria tv, ecco la svolta: denunciati anche i clienti

Esulta comprensibilmente la Fapav (Federazione per la tutela dei contenuti audiovisivi e multimediali) per l’indagine della Guardia di Finanza di Roma che vede indagate 223 persone in tutta Italia in qualità di fruitori di contenuti audiovisivi, film, sport eventi in maniera illecita, cioè coloro che sono in possesso di abbonamenti per Iptv (internet protocol television) pirata. Finora erano stati perseguiti solo i fornitori, i cosiddetti reseller.

Di cosa si tratta ce lo spiega il generale Renzo Nisi, comandante del Nucleo speciale beni e servizi della Guardia di Finanza, investigatori di razza che se anche messo a lustrare scarpe scopre sempre qualcosa. Può sembrare una battuta, ma riassume la storia professionale di Nisi che, nel 2002, da comandante del Nucleo Tributario di Venezia, scoprì lo scandalo Mose: mentre l’inchiesta iniziava a scoperchiare i santuari, fu lui a inchiodare il generale Emilio Spaziante, spia a libro paga del Consorzio Venezia Nuova. Nisi venne trasferito. Motivazione ufficiale: avvicendamento, ufficiosa: su gentile richiesta di politici potenti e interessati.

Fu prima mandato al Comando generale di Roma a occuparsi di organizzazione; poi, promosso generale, trasferito al Comando Provinciale di Genova dove si è occupato delle indagini sui 49 milioni della Lega misteriosamente evaporati e sul crollo del ponte Morandi; quindi, nuovamente trasferito a Roma a occuparsi di contraffazione e tutela del made in Italy.

Un generale tenace, abituato a difendere i suoi uomini, giovane, ha solo 52 anni, con la faccia da bambino e il sorriso a portata di mano. Per fortuna questa volta ha messo a segno un bel colpo che non dovrebbe dare fastidio, al contrario, altrimenti potremmo davvero ritrovarlo a lustrare le scarpe.

Scherzi a parte, ma non tanto, questa indagine ha segnato un cambio di strategia e il merito è ancora una volta del suo comando: “Invece di contrastare chi il contenuto lo metteva in Rete e si faceva pagare abbiamo individuato chi ne fruisce, i clienti – spiega il generale Nisi – Funziona così. Si paga una piccola somma, 9, 10 euro contro un abbonamento a Sky di 90 euro al ‘delinquente’ di turno che, attraverso un server decodifica i programmi e li mette a disposizione su Internet. Poi basta collegarsi a questa pagina per accedere ai codici e avere un abbonamento completo”.

Un cambio di strategia vincente perseguire i clienti, perché, come spiega sempre Nisi, “se non ci fosse mercato i delinquenti non avrebbero più alcuno scopo a delinquere. Siamo partiti dai soggetti che fornivano il servizio e siamo arrivati a 223 clienti che saranno sottoposti a procedimento penale da 67 procure su tutto il territorio nazionale”. Clienti che rischiano il sequestro del televisore o del tablet e di essere condannati per ricettazione, violazione diritto d’autore, reati che prevedono fino a 8 anni di reclusione e 25 mila euro di multa. “È una procedura facile. Basta scambiarsi i codici su Telegram o su whatsapp e con 10 euro intere famiglie si vedono tutte le partite”.

Un’altra indagine, partita dalla Polizia Postale, condotta dalla Procura di Cagliari riguarda invece la pirateria dei giornali e anche in questo caso il mezzo utilizzato è Telegram, ben sapendo che si tratta di una piattaforma russa che raramente risponde alle richieste degli investigatori. Così come accade per l’americana whatsapp e per facebook.

A ora sono tre i pirati dell’informazione indagati e oltre 10 mila persone rischiano una multa fino a 24 mila euro per aver scaricato sul cellulare a meno della metà un giornale che in edicola viene venduto a 2 euro.

“Dietro al disegno sugli affidi ci siamo noi”: la rete tra Scientology e Lega in Piemonte

Non si calma la bufera sulle affermazioni dell’assessora del Piemonte Chiara Caucino, leghista, che si occupa della nuova legge sugli affidi, “Allontanamento zero”. “Accetto qualunque critica, ma non da donne che non hanno figli. C’è chi parla e non è nemmeno madre”, aveva detto due giorni fa, rispondendo alle polemiche, durante un convegno. Un progetto di disegno regionale, il suo – contestato dal M5S, dal centrosinistra e dalle associazioni di categoria – che prevede un taglio del 40% ai fondi del sistema infanzia in favore di aiuti economici alle famiglie e che prospetta un progetto educativo familiare di almeno sei mesi, per molti un tempo giudicato eccessivo, prima di ricorrere ad altre iniziative. “Sono arrabbiata con chi non capisce che non strumentalizzo i bambini e che il mio interesse è tutelarli: lo faccio per mio figlio e per tutti i bambini” ha sottolineato Caucino dal palco del convegno “Bambini in affido”, organizzato a Torino dal Comitato Cittadini per i Diritti Umani. Il Ccdu è una onlus, che si definisce indipendente, ma che è ispirata ideologicamente e gravita nella cerchia delle associazioni di Scientology, come si legge dal loro stesso sito. Negli ultimi anni si è concentrata nella lotta alla psichiatria e alla psicologia.

Il Comitato, pur avendo sede a Milano, non è nuovo alle vicende politiche piemontesi. Nel 2007, il consigliere di Alleanza Nazionale Gianluca Vignale presenta una legge regionale “Norme in materia di uso di sostanze psicotrope sui bambini” contestualmente all’inaugurazione della mostra “Un Viaggio senza ritorno, storia degli errori e orrori psichiatrici”. Nello stesso anno, approda in Parlamento una proposta di legge che vieta i test psicologici nelle scuole: è scritta, come recita il sito del Ccdu, “a quattro mani dal consigliere Vignale e il presidente del Ccdu Roberto Cestari, dopo l’approvazione della legge nella Regione Piemonte e nella provincia autonoma di Trento”. Vignale, dopo una lunga carriera nel parlamentino regionale, è diventato recentemente membro dello staff del presidente del Piemonte, Alberto Cirio di Forza Italia. Una Giunta particolarmente sensibile alle campane del Ccdu.

Recentemente in Commissione Sanità sul tema affidi è stato sentito Paolo Roat, responsabile tutela minori del Ccdu. È stata sentita anche Sara De Ceglia, la mamma di Greta: la bambina portata al raduno leghista di Pontida, sul palco con Salvini, ed erroneamente legata a Bibbiano, il paese al centro dell’inchiesta della procura di Reggio Emilia sulla presunta mala gestio nel sistema affidi. Roat non nega di essere un fedele della Chiesta di Scientology: “Lo sono, io personalmente sì, ma non c’entra niente con il Ccdu che è a-confessionale e a-politico, come le Acli ad esempio: uguali. Loro difendono i lavoratori, noi invece abbiamo altri scopi…”.

Se la destra ha spesso manifestato insieme agli adepti di Ron Hubbard, anche altri partiti hanno condiviso le loro battaglie. Nel 2018 i Radicali Italiani presentarono insieme al Ccdu una proposta di legge per modificare la procedura di applicazione del Tso. La legge presentata nel 2007 in Parlamento è a firma di Marcello De Angelis di Alleanza Nazionale e della verde Loredana De Petris. “Il progetto di legge Pillon non mi piaceva, troppo sbilanciato sui padri. A Trento abbiamo sventato una Bibbiano ante-litteram: nel 2009 grazie alla nostra campagna il numero dei bambini allontanati è calato del 50%, non siamo contro gli affidi, ma contro gli affidi illeciti”.

“Vittima due volte: dopo le chat col video licenziata per danni”

Il messaggio sul suo profilo WhatsApp è un avviso ai naviganti. “Art. 612 ter Codice penale”: l’articolo sulla diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti. Ovvero revenge porn. “L’ho scritto per far pensare chiunque voglia ancora fare lo spiritoso”, racconta una 40enne di Brescia – sposata, con figli – la cui immagine (con tanto di nome, numero di telefono e recapito) è finita, e non esageriamo, sui cellulari di mezzo mondo. Anche in Inghilterra e Spagna, e fino in Sudamerica e Usa. Pure nelle chat di carabinieri e polizia, da Nord a Sud, senza che nessuno abbia pensato di fermare il gioco al massacro e denunciare il caso. Come invece ha fatto la vittima, professionista nel settore medico, dopo che un paio di video intimi – che avrebbero dovuto essere privati – sono invece diventati di dominio pubblico e virali, grazie a una serie di chat no stop di WhatsApp.

Quando un amico le ha detto quello che sta girando sui cellulari in città, lei ha sporto denuncia. Ha fatto tre nomi, ora indagati dalla Procura di Brescia, di persone sulle quali non ha dubbi: “Avevano quel video”. Poi ha depositato altri numeri di telefono di persone che hanno contribuito ad alimentare la catena, impossibile da spezzare. La denuncia ha generato l’inchiesta, ma ha portato anche ad una decisione choc. La donna è stata infatti licenziata, da uno studio di Cremona dove lavorava, per “danno di immagine”.

Licenziamento per giusta causa, secondo il datore di lavoro…

Sì, dicono per un danno di immagine per colpa dei miei atteggiamenti. È un video girato a casa mia, è vero, e doveva restare privato. Mi sono fidata, non avrei dovuto. Ma ricordiamoci che il reato lo ha commesso chi ha diffuso quel video, chi ha fatto diventare virale quel materiale. Gli atteggiamenti da punire sarebbero quelli degli altri, non i miei.

L’ha sorpresa questa decisione?

Un altro studio presso cui lavoro mi aveva sospesa. Quando poi il caso è uscito su un giornale locale e il responsabile del centro ha capito che ero la vittima, mi ha chiamato per dirmi che aveva bloccato la lettera di licenziamento.

Cosa che non ha invece fatto il datore di lavoro di Cremona che, nero su bianco, scrive: “Le basti sapere che le telefonate e soprattutto le mail ambigue di sedicenti pazienti continuano ad arrivare”…

Torno a dire che la colpa è di chi ha messo sotto quei video il mio nome, numero di telefono e anche il luogo di lavoro. Io sono vittima due volte: di chi ha diffuso le immagini, e di chi mi ha licenziato con un atteggiamento maschilista e assurdo. Avevo capito cosa il mio datore di lavoro volesse fare quando, senza preavviso, mi sono stati cancellati una serie di appuntamenti con miei pazienti.

Sempre nella lettera di licenziamento si dice: “Persone di sesso maschile telefonano per prendere appuntamento con lei senza spiegare la patologia e senza fornire recapiti telefonici”.

Le dico solo che, prima di questa lettera, il datore di lavoro, quando mi aveva comunicato che stava pensando a che provvedimenti prendere, mi aveva mostrato delle fotografie hard di una donna chiedendomi se anche quelle fossero mie. Ma quella donna era un’attrice porno, non io! Non credo alla tesi delle telefonate, perché lo stesso sarebbe potuto succedere anche nelle altre strutture dove lavoro, e invece non è accaduto. Come dice il mio avvocato, la legge sul revenge porn prevede che non venga fatto il deserto sociale attorno alla vittima. Io ho denunciato perché non ho fatto nulla di male, ma il male lo sto subendo. E come me anche la mia famiglia, mio marito, i miei figli…

Come è cambiata la sua vita nelle ultime settimane?

La mia vita si è trasformata in un inferno. Sembra che sia io la colpevole. Lo percepisco anche se sto uscendo di casa molto poco. Mi sono isolata… Ho dovuto cambiare numero di cellulare, e lo stesso ha dovuto fare mia madre. Per non parlare di chi si è presentato vicino a casa mia chiedendo dove abitasse la “famosa dottoressa del video”.

Aveva mai pensato che potesse esserci il rischio che i suoi video venissero poi diffusi? La storia di Tiziana Cantone purtroppo insegna…

No. Non avevo mai fatto video prima, e sicuramente non li farò mai più. Tra l’altro è una cosa risalente a tre anni fa… Non riesco a spiegarmi perché siano comparsi ora. Ma ho visto davvero di tutto in queste settimane….

Per esempio?

Gente che apriva chat condividendo il video e includendo anche me nella discussione. Ho fatto degli screen shot e ho allegato il tutto all’ultima denuncia.

Ha visto pure chat delle forze dell’ordine…

Sì, un amico poliziotto mi ha fatto vedere che in varie chat di polizia e carabinieri girava il mio video. Alcuni addirittura commentavano scrivendo: “Andiamo dalla nostra convenzionata!”, visto che uno degli studi dove lavoro è convenzionato con le forze dell’ordine. Eppure, almeno loro, la legge sul revenge porn dovrebbero conoscerla. È assurdo.

Il branco dei 13enni: violenza di gruppo sulla bimba di 10

I ragazzini accusati di violenza sessuale di gruppo contro una bambina di 10 anni sono forse tra quelli in sella alle biciclette appoggiate ai muri dei palazzoni del Piano Napoli di Boscoreale. Un orrore urbanistico partorito negli Anni 80 del dopo terremoto per dare una casa a chi era rimasto senza. Un grumo di cemento verdastro e scolorito, da qui nel 2010 si costruivano le barricate e partivano i raid per fermare i camion dei rifiuti e impedire sul nascere l’apertura della discarica di Cava Vitiello a Terzigno, il luogo dove Berlusconi e Bertolaso avrebbero voluto versare la monnezza di quasi tutta la Campania: fu guerriglia urbana che costrinse lo Stato alla ritirata. “Qui siamo abituati a tutto – dice un residente – anche a vedere i bambini di dieci anni fare le sentinelle dello spaccio di droga”.

Non inventa, l’uomo. La circostanza fu raccontata dai carabinieri in un’ordinanza di custodia cautelare eseguita nel 2011, era uno dei “dettagli” di un’associazione a delinquere finalizzata al traffico di hashish, il Piano Napoli è una delle capitali delle piazze di spaccio in provincia di Napoli forse seconda solo a Scampia e al Parco Verde di Caivano, in un contesto identico di degrado urbanistico e sociale, famiglie assenti, padri che entrano ed escono di galera, bambini costretti a crescere troppo in fretta.

In attesa che diventino abbastanza grandi per inforcare le Vespe, i ragazzini scorrazzano in bicicletta. È agosto, fa caldo, le scuole sono chiuse. Tre di loro, non imputabili, poco più che bambini, portano le loro biciclette in uno scantinato di questi palazzoni, con loro c’è una bambina di 10 anni. Quel che succede dopo – scrive la Procura dei minori di Napoli nell’atto che spiega le indagini in corso –, è stata una violenza. La bambina è stata trascinata, afferrata, l’orrore fotografato e filmato dai cellulari.

La violenza non è rimasta isolata. La ricostruzione del pm della Procura minorile Ugo Miraglia del Giudice colloca altri episodi di violenza pressoché identica a settembre, a novembre e a dicembre.

Silenzi, indifferenza e ignoranza avvolgono a lungo l’accaduto. I contesti familiari appaiono compatibili alla spiegazione del buio. Nessuno si accorge del disagio della bambina. Nessuno si accorge di quello strano andirivieni di ragazzini, sempre nello stesso scantinato. Alla fine ne conteranno sei, alcuni provenienti dai paesi vicini.

L’esistenza di una violenza seriale ai danni di una bambina sempre nello stesso scantinato di un degradato quartiere di Boscoreale viene scoperta a scuola. E solo perché la bambina si sarebbe confidata con un’amichetta per rispondere a strane voci che circolavano tra i corridoi. Quelle voci che arrivano all’orecchio degli insegnanti. Che si attivano secondo le procedure del caso, con le prudenze e le cautele d’obbligo. Che segnalano l’accaduto ai servizi sociali.

L’altroieri i sei ragazzini, di età tra gli 11 e i 13 anni, sono stati ascoltati dal pm con il rito dell’audizione protetta negli uffici del commissariato di Polizia di Castellammare di Stabia. Sono scoppiati a piangere. Poco prima era stata sentita la bambina. Che ha confermato tutto davanti a un’ispettrice e a una psicologa. L’assenza di agenti di polizia postale negli uffici del commissariato, secondo quanto riferito dall’avvocato Francesco De Gregorio, che segue l’unico ragazzino dei sei che non apparirebbe nei filmati e nelle foto, lascia presupporre che i file che ritraggono le violenze potrebbero essere rimasti nei cellulari e non sarebbero stati scambiati in chat. Questa per ora è una speranza, non una certezza. Le indagini accerteranno anche questo.

Ieri il quotidiano locale Metropolis ha diffuso la notizia senza omettere dettagli, e Boscoreale si è svegliata nello sconcerto. Uno sconcerto che anche il sindaco Antonio Diplomatico fa poco per nascondere, superiore a quello che provò a fine dicembre quando si ritrovò le mura del municipio imbrattate dalle scritte “Oggi più di ieri odio polizia e carabinieri”. “Facemmo qualche indagine – dice Diplomatico – e ci arrivò voce, certa, che erano stati dei ragazzini, questo è il clima che si respira qui e che noi volevamo contrastare organizzando in primavera incontri nelle scuole sulla legalità con il comandante dei carabinieri. Credo che dovremo dare un’accelerazione a queste iniziative e allargarle ai temi che questa vicenda purtroppo ha sollevato”. Ragazzini. Come quelli che avevano già violentato, più volte, una bambina.

Depistaggi, errori e processi: 10 “perché no” al Descalzi-ter

Ipartiti di maggioranza (Pd e 5Stelle) e il governo stanno valutando se confermare Claudio Descalzi come amministratore delegato di Eni per il terzo mandato. La decisione ultima spetta al presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, e al ministro del Tesoro, Roberto Gualtieri (l’azionista di riferimento), ma è una scelta strategica che coinvolge anche il capo dello Stato, Sergio Mattarella.

Conte, Gualtieri e Mattarella hanno almeno dieci motivi, che qui elenchiamo, per congedare Descalzi. Se invece vogliono confermarlo, dovranno trovare validi argomenti per spiegare la loro scelta ai cittadini e agli azionisti di Eni, cioè i contribuenti e gli elettori italiani.

1. La mazzetta nigeriana. Descalzi è imputato di corruzione internazionale nel processo per la più grande tangente della storia italiana. Nel 2011 Eni, per ottenere il giacimento Opl 245 ha pagato 1 miliardo e 92 milioni finiti tutti non nelle casse dello Stato nigeriano, ma nei conti di politici, mediatori, faccendieri, manager. Secondo l’accusa è corruzione.

2. Querela immaginaria. Il 28 luglio 2016, Descalzi firma una procura speciale con cui avvia alla Procura di Siracusa una querela nei confronti di Luigi Zingales e Karina Litvack, consiglieri indipendenti Eni che chiedevano più controlli e chiarezza sulle inchieste in corso per corruzione internazionale. Erano già stati iscritti per diffamazione l’8 luglio 2016 dal pm di Siracusa Giancarlo Longo (poi arrestato), benché la diffamazione sia perseguibile solo su querela. Venti giorni dopo, Descalzi tenta una “sanatoria” retroattiva.

3. Il “complotto”. L’avvocato esterno Eni Piero Amara, dopo essere stato arrestato nel 2018, racconta di aver avuto dai vertici Eni il mandato (e il denaro) per avviare nel 2015 un “complotto” per depistare le indagini milanesi sulle corruzioni internazionali in Nigeria e Algeria e per “salvare” Descalzi dalle accuse.

4. Patto della Rinascente. Siglato nel marzo del 2016 dopo un incontro nel grande magazzino romano di piazza Fiume tra Amara, il manager Claudio Granata – braccio destro di Descalzi – e l’ex manager Vincenzo Armanna. Prevede di pagare Armanna per fargli ritrattare le accuse contro Descalzi, da scaricare su due manager licenziati dalla compagnia, Massimo Mantovani e Antonio Vella.

5. Spiate quei pm. La security Eni – racconta Amara – avrebbe dossierato, pedinato e intercettato oltre a Zingales, Litvack e il giornalista Claudio Gatti, anche alcuni magistrati tra cui Fabio De Pasquale, Sergio Spadaro e Paolo Storari.

6. Congo. Eni è sotto indagine per corruzione internazionale per aver passato quote dei suoi giacimenti in Congo a società come Aogc (legata al presidente congolese Denis Sassou Nguesso) e Wnr (legata a Maria Paduano, Alexander Haly ed Ernest Olufemi Akinmade, tutte “persone vicine a Eni e al suo management”). Secondo i pm milanesi, una raffinata tangente da far arrivare a politici congolesi e a manager italiani.

7. Lady Descalzi. Marie Madeleine Ingoba, moglie di Descalzi, ha controllato società che hanno prestato servizi a Eni per circa 300 milioni di dollari. Secondo i pm di Milano, la signora controllava (attraverso società in Olanda, Lussemburgo, Cipro e Nuova Zelanda) cinque società chiamate Petro Services che hanno fornito a Eni servizi, affitto di navi e logistica tra il 2007 e il 2018. Il controllo era diretto dal 2009 al 2014.

Poi, l’8 aprile 2014, sei giorni prima che il governo Renzi indicasse Descalzi come ad Eni, Ingoba vende l’intera società lussemburghese Cardon Investments, che controlla le Petro Services, ad Alexander Haly, uomo d’affari britannico con base a Montecarlo, ritenuto dai pm una sorta di socio-prestanome della coppia Descalzi-Ingoba. Con opportuno tempismo, ora che si avvicina il momento della riconferma, è filtrata la notizia di una separazione dei coniugi Descalzi.

8. I risultati. Anche nel secondo mandato di Descalzi il prezzo del titolo Eni in Borsa ha continuato a scendere, dai 15 euro del 2019 ai meno di 13 attuali. Mai raggiunto l’obiettivo, più volte annunciato, di produrre 2 milioni di barili al giorno. Molti grandi progetti di estrazione (Zohr in Egitto, Kashagan in Kazakistan o il Mozambico) subiscono ritardi e aumenti di costi. La strategia per monetizzarli è la cessione di quote ad altre compagnie: incassi immediati, ma rinuncia a ricavi maggiori in futuro.

9. Il disastro Saipem. Tra le tante operazioni discutibili della gestione Descalzi, va ricordata la cessione di quote della controllata Saipem alla Cassa Depositi e Prestiti (società controllata dal Tesoro che gestisce i risparmi postali). Nell’ottobre 2015, Eni cede a Cdp, cioè al suo primo azionista, il 12,5 per cento di Saipem, società di infrastrutture e servizi di estrazione. Il beneficio per Eni è di scorporare i debiti di Saipem dal suo bilancio. Per Cdp il risultato è disastroso: Saipem deve lanciare un problematico aumento di capitale per rilanciare l’azienda, il valore della quota comprata da Cdp si svaluta di 450 milioni in sei mesi. Benefici a Descalzi e agli azionisti privati di Eni, conto salatissimo scaricato sugli azionisti di Cdp: il Tesoro, dunque tutti gli italiani.

10. Green? Nel gennaio del 2020 la compagnia ha ricevuto una sanzione record dall’Antitrust per pubblicità ingannevole: 5 milioni di multa. I benefici ambientali vantati dalla pubblicità (“-4% di consumi e -40% di emissioni gassose”) del Diesel+ di Eni non erano coerenti con i reali effetti del carburante.

Non sono le credenziali migliori per Descalzi che chiede un terzo mandato per gestire una fantomatica evoluzione green dell’azienda petrolifera.

“Ha pagato solo chi lo ha ucciso, chi ha depistato l’ha fatta franca”

Un giorno a Brescia, l’indomani a Bari e poi il ritorno nella sua Palermo. Anzi no, ci tiene a precisare Giovanni Impastato, a Carini, per portare avanti la pizzeria di famiglia. Tutto in 48 ore. Le scuole lo chiamano, lui risponde sempre presente: “Da quando hanno ucciso mio fratello Peppino, ho deciso di portare avanti il suo messaggio ai più giovani che oggi ne hanno tanto bisogno: senza la legalità e la lotta alle ingiustizie, l’Italia non andrà mai avanti” spiega Impastato, appena uscito da un incontro all’istituto tecnico Primo Levi di Brescia. Tra queste ingiustizie c’è sicuramente la prescrizione, quella “maledetta” tagliola che ha impedito di individuare i carabinieri che hanno depistato le indagini dopo il ritrovamento del corpo di Peppino dando per certa la pista del “suicidio” o dell’attentato terroristico finito male.

Se gli esecutori dell’omicidio, il boss di Cinisi Gaetano Badalamenti e il mafioso Vito Palazzolo, sono stati assicurati alla giustizia nei primi anni Duemila, era stata la Commissione parlamentare antimafia presieduta da Giuseppe Lumia a mettere in luce per la prima volta le responsabilità dei carabinieri e il presunto depistaggio nell’inchiesta sulla morte dell’attivista di Democrazia Proletaria tra il 7 e l’8 maggio 1978. Solo nel 2010 però i pm di Palermo Francesco Del Bene, Nino Di Matteo e Roberto Tartaglia aprono l’inchiesta: l’allora generale dei carabinieri Antonio Subranni (condannato a 12 anni nel processo Trattativa) è accusato di favoreggiamento mentre i tre sottufficiali che quella notte fecero le perquisizioni in casa Impastato – Carmelo Canale, Francesco Abramo e Francesco Di Bono – sono accusati di falso in concorso. Dopo otto anni, il giudice per le indagini preliminari di Palermo Walter Turturici archivia il caso per intervenuta prescrizione. Eppure, nel decreto di archiviazione, il gip descrivendo le indagini parla di “un contesto di gravi omissioni ed evidenti anomalie investigative” tra cui la mancata indagine sulla pietra sporca di sangue a pochi passi dalla ferrovia, l’esplosivo e quel foglietto (“Voglio abbandonare la politica e la vita”) trovato durante la perquisizione che secondo i carabinieri era la prova del suicidio. Secondo il giudice, inoltre, Subranni “aprioristicamente, incomprensibilmente, ingiustificatamente e frettolosamente escluse la pista mafiosa”. Ma è tutto prescritto.

Signor Impastato, secondo la giustizia italiana nessuno depistò le indagini sulla morte di suo fratello.

Esatto, la cosa è gravissima perché le prove del depistaggio ci sono sempre state e la Commissione antimafia le aveva già segnalate: qualcuno ha voluto depistare le indagini in maniera scientifica. È un reato gravissimo, mica come rubare caramelle al supermercato. E cosa succede? Non c’è alcun colpevole a causa della prescrizione. Io e mia moglie Felicia ci abbiamo rimesso tanto anche della nostra salute, ma per niente: la verità ci è stata negata per sempre.

I mandanti però ci sono.

Sì, Gaetano Badalamenti all’ergastolo e i suoi amici mafiosi si sono presi 30 anni, ma non sono mai finiti in galera perché tutti morti nelle guerre di mafia. Eppure, il depistaggio ha contribuito a ritardare le indagini: Peppino Impastato è stato colpito perché era un attivista di sinistra e si batteva tutti i giorni per combattere la mafia. Dall’altra parte c’era qualcuno, nello Stato, che faceva il doppio gioco e subito dopo l’omicidio iniziò a parlare di ‘attentato terroristico’. Senza quel depistaggio probabilmente si sarebbero scoperti anche altri mandanti.

Ovvero chi?

Nell’assassinio di mio fratello non c’era solo la mafia di Don Tano (Badalamenti, ndr): gli altri mandanti non sono stati scoperti perché c’erano collusioni e connivenze all’interno del sistema di potere politico e delle forze dell’ordine siciliane. Alcuni sono intoccabili e poi quando si toccano gli equilibri all’interno dell’arma e dei magistrati, non succede mai nulla. Perché dopo che non erano emerse prove sull’attentato terroristico finito male, nessuno iniziò a pensare all’omicidio mafioso nei confronti di un attivista che attaccava ogni giorno il boss Badalamenti?

Che effetto le ha fatto Subranni condannato in primo grado a 12 anni nel processo sulla Trattativa?

Non inveisco mai contro le persone che vengono condannate ma purtroppo i fatti ci hanno dato ragione: la condanna significa che c’era un riscontro su Subranni. Preciso: gli imputati per il depistaggio non sono stati assolti, ma prescritti, che è molto diverso.

E quindi?

Mi sento molto ferito, molti si dicono “garantisti” perché ormai va di moda. Anch’io mi reputo un garantista, ma noi che abbiamo vissuto sulla nostra pelle questa ingiustizia sappiamo cosa vuol dire: la prescrizione porta solo altre ingiustizie. Per questo, se fosse per me, la farei partire da quando un reato viene scoperto e non da quando viene commesso.

Com’è cambiata la sua vita dopo l’uccisione di Peppino?

Non mi sarei mai immaginato di incontrare così tante persone in tutta Italia che conoscono la storia di mio fratello e ci sostengono. Oggi, rispetto a quarant’anni fa, molto è cambiato: c’è la consapevolezza che la mafia vada combattuta, che non riguardi solo le quattro regioni del sud e negli ultimi decenni sono state approvate leggi molto buone come quella anti-racket o quella sulla confisca dei beni ai mafiosi. Tutte grosse conquiste sociali. Ma da tutta questa storia ho ricevuto molto di più di quello che ho dato.

Cosa dice ai ragazzi di oggi?

Semplicemente, porto Peppino nelle scuole. Il suo messaggio è di un’attualità impressionante e riporto sempre una sua frase molto famosa: ‘La mafia è una montagna di merda’. È molto forte come slogan, ma rimangono sempre colpiti e spero più consapevoli.