Gip: “Pressioni di Russo e Tiziano per Romeo”

Luigi Marroni, ex ad di Consip, resta l’ago della bilancia del caso Consip. Luca Lotti e i generali dei Carabinieri Tullio Del Sette e Emanuele Saltalamacchia come l’ex manager Publiacqua Filippo Vannoni sono a processo per le presunte soffiate sull’indagine avvenute nel 2016 a causa di Marroni, ritenuto un testimone attendibile dai pm.

Ora il provvedimento del Gip Sturzo, pur non arrivando a contestare alcunché all’ex Ad di Consip, disegna un quadro poco lusinghiero della sua capacità di ricordare particolari fondamentali per l’altro filone di indagine che riguarda Tiziano Renzi. Il Gip Sturzo ora chiede ai pm di ascoltare Marroni nuovamente nei prossimi 3 mesi.

Marroni aveva tirato in ballo Carlo Russo e Tiziano Renzi per le pressioni ricevute durante i suoi incontri con loro nel 2015-2016 per aiutare una società nella gara più importante d’Europa, la FM4 per la pulizia e manutenzione degli gli uffici pubblici italiani: valore 2,7 miliardi.

Per il Gip Gaspare Sturzo la sua versione però ha un punto debole: “nonostante la riferita grave pressione minacciosa che avrebbe subito da Carlo Russo, che gli chiedeva dì intervenire sulla Commissione di FM4 in favore di una certa ditta, in particolare pressando affìnché fosse attribuito illegittimamente un vantaggio nel punteggio tecnico, il Marroni, sebbene più volte sollecitato non ricordava, stranamente, il nome di questa società”.

Il Gip Sturzo riporta le titubanze di Marroni sul punto quando è interrogato dalla Procura di Roma e formula un’ipotesi: “non possiamo non correlare ed evidenziare le illegittime pressioni che aveva fatto Francesco Licci (manager Consip, allora presidente della commissione di gara di Fm4, indagato per turbativa di gara, Ndr) affinché Marroni adottasse una nuova linea maggiormente difensiva della ‘Corrente’ (concetto simile al cosiddetto ‘Giglio Magico’ renziano, Ndr). Non possiamo dimenticare la retromarcia del Vannoni quanto alle dichiarazioni rese, assai simile a quella tentata da Marroni. Non possiamo dimenticare la ritrattazione del Ferrara (ex presidente Consip, Ndr) e, poi, il nuovo verbale con ammissione del vero. Non possiamo dimenticare la veemenza del Lotti nel confronto con il Marroni, come in atti”.

La tesi del Gip è che Marroni si sia trovato in mezzo a una partita delicata. Due gruppi di imprese e due gruppi di protettori politici si contrapponevano nella gara Fm4. Il gioiello conteso era il lotto 10 del valore di 143 milioni di euro che comprendeva i palazzi del potere a Roma. Da un lato c’era il campione Romeo (che aveva vinto il lotto nella precedente gara e già puliva i palazzi) e dall’altro lato c’era un gruppo sfidante con in testa la multinazionale Cofely dietro la quale, secondo il Gip, si intravede il potente imprenditore Ezio Bigotti, sostenuto, sostenuto dai parlamentari di ALA Denis Verdini e Ignazio Abrignani.

Per il Gip, la società ignota raccomandata a Marroni da Russo, ascoltato da lui grazie alla raccomandazione di Tiziano Renzi, potrebbe essere proprio Romeo. Marroni racconta infatti ai pm che Tiziano Renzi gli chiese di ricevere Russo e questi gli fece “pressioni affinché io intervenissi sulla Commissione per far alzare il punteggio tecnico ad una società la cui denominazione precisa mi riservo di comunicare”. Nome poi mai arrivato. In un verbale poi Marroni ha addirittura escluso fosse Romeo. Eppure il Gip offre una lettura diversa: nel lotto 10 la Cofely era avanti a Romeo proprio nei punteggi tecnici. Il Gip conclude “ne consegue che allo stato l’unico che poteva avere interesse ad avere aumentato il punteggio tecnico era Alfredo Romeo”. Il Gip quindi disegna un braccio di ferro sul lotto 10 che potrebbe sconfinare in reati da entrambe le parti. Da un lato Cofely e Ezio Bigotti, sostenuti dagli ex parlamentari Denis Verdini e Ignazio Abrigani. Dall’altro Romeo, per il Gip sostenuto dal duo Russo-Tiziano. In questo quadro di pressioni da entrambe le parti il Gip chiede di indagare Bigotti, Abrignani e Verdini per concussione e turbativa di gara, anche a loro garanzia. Inoltre inserisce “le pressioni finalizzate tramite Russo Carlo e Renzi Tiziano a ottenere la concessione di una rivalutazione del punteggio tecnico di Romeo” in danno di Cofely. I presunti reati commessi mutano a seconda del tipo di pressione e dei soggetti. Per il Gip, Carlo Russo e Tiziano Renzi non vanno archiviati per traffico di influenze illecite con Alfredo Romeo e Italo Bocchino “almeno fino alla data del 10 novembre 2015”. Poi però la posizione si differenzia. Anche per via dell’atteggiamento di Marroni che non lo asseconda, il comportamento di Russo si trasformerebbe secondo il Gip in una tentata estorsione, contestata solo all’amico di Tiziano, ai danni di Marroni mentre Tiziano Renzi esce di scena e allontana Russo probabilmente anche per paura delle indagini.

Air force Renzi, Alitalia guadagnò dalla vendita

L’Air Force Renzi è stato un affare. Non tanto per lo Stato italiano, che – come ha raccontato agli investigatori il manager aeronautico Gaetano Intrieri – avrebbe potuto comprare un velivolo identico per appena 7 milioni. E non solo per Etihad, che ha dato in leasing l’Airbus 340 per quasi 74 milioni di dollari in otto anni e dopo lo scioglimento del contratto “non ha ritenuto necessario provvedere al ritiro e allo spostamento del mezzo presso i propri hangar”, non ponendo dunque “in essere iniziative volte a tutelare il proprio bene nonostante il notevole lasso di tempo intercorso”.

Il vero affare in questa storia lo avrebbe fatto Alitalia: “In sostanza la necessaria partecipazione di Alitalia Sai all’operazione, in qualità di intermediario in possesso dei requisiti di legge, avrebbe sicuramente garantito alla compagnia ricavi senza alcun rischio ma, d’altro canto, ha sicuramente aumentato il costo a carico dello Stato per la fornitura dei servizi di mobilità aerea”, scrivono gli investigatori della Guardia di Finanza, in una nota lunga 656 pagine – compresi gli allegati – inviata alla Procura di Civitavecchia l’8 agosto del 2019.

Come ha raccontato il Fatto Quotidiano sulla storia dell’Airbus acquistato su input della Presidenza del Consiglio nel 2016 è stata aperta un’indagine, con uno stralcio depositato tra gli atti dell’inchiesta sulla bancarotta di Alitalia Sai. Dal 22 novembre scorso i pm hanno aperto un fascicolo ipotizzando a carico d’ignoti la truffa aggravata dall’aver ingenerato “nella persona offesa il timore di un pericolo immaginario o l’erroneo convincimento di dovere eseguire un ordine dell’Autorità”.

Il reato sarebbe stato commesso a Fiumicino il 17 maggio del 2016, cioè il giorno in cui la società sigla un complesso contratto con il ministero della Difesa per “un servizio di mobilità aerea per le esigenze istituzionali delle massime Autorità dello Stato”. Quel contratto vale 167 milioni di euro per otto anni. Solo venti giorni dopo essersi accordata con lo Stato, e cioè il 9 giugno 2016, Alitalia sigla un altro contratto, questa volta con Etihad, per avere in leasing l’aereo desiderato da Palazzo Chigi.

La compagnia di bandiera, dunque, è un semplice intermediario: quanto ha incassato? “Riguardo al compenso percepito per tale intermediazione, allo stato non è possibile effettuare una quantificazione puntuale dello stesso, in mancanza del contratto originario di leasing stipulato tra Alitalia e Etihad”, scrivevano i finanzieri nell’agosto scorso.

A spiegare quanto valeva quell’intermediazione sono i legali della società di Abu Dhabi nel ricorso presentato al Tar contro la rescissione dell’accordo, decisa dal governo Conte nell’estate del 2018. Nel documento gli avvocati scrivono che Alitalia “in assenza di sostanziale rischio”, avrebbe percepito un importo “pari al 10% del contratto in relazione all’intermediazione svolta fornendo inoltre al ministero della Difesa servizi di manutenzione a condizioni favorevoli”.

Ma i finanzieri fanno notare come non possa “essere trascurata la circostanza che tale compenso, essendo parte delle somme pagate dal ministero della Difesa, rappresenti comunque una uscita di risorse pubbliche”. Insomma Alitalia non correva alcun rischio, Etihad neppure: a perderci erano le casse dello Stato.

Consip, l’indagine riparte con Bonifazi e Marroni

L’inchiesta Consip riparte. Dopo la decisione del gip Gaspare Sturzo, inizieranno presto interrogatori e nuovi accertamenti come indicato nell’ordinanza in cui viene rigettata (accogliendola per due soli episodi) la richiesta di archiviazione dei pm capitolini. Il giudice ha disposto dunque nuove indagini da svolgere in 90 giorni. Potrebbe così tornare davanti ai magistrati anche Luigi Marroni, l’ex amministratore delegato della Consip, l’uomo divenuto teste chiave dell’inchiesta romana. È dalle sue parole che è nato, per esempio, il processo ora in corso contro l’ex ministro Luca Lotti e l’ex comandante generale dell’Arma Tullio Del Sette accusati di avergli spifferato l’esistenza di un’indagine sulla stazione appaltante.

Adesso il gip Sturzo chiede ai pm di risentire a sommarie informazioni il manager nell’ambito di presunte “pressioni” subìte per la gara Fm4 indetta da Consip. Un appalto da 2,7 miliardi, mai assegnato proprio a causa dell’inchiesta. Secondo Sturzo, presunte pressioni sarebbero arrivate anche dagli ex parlamentari Denis Verdini e Ignazio Abrignani per favorire l’imprenditore Ezio Bigotti e la società Cofely. I due ex parlamentari non erano stati coinvolti nell’inchiesta ma ora il gip ha ordinato la loro iscrizione nel registro degli indagati per concussione e turbativa d’asta, insieme a Bigotti. Nelle 191 pagine di provvedimento quindi Sturzo puntualizza: “Non è facile comprendere le ragioni per cui la Procura non abbia ampliato il raggio investigativo sul tema Verdini-Bigotti-Abrignani…”. E poi aggiunge: “Vorrà il pm, secondo le sue libere determinazioni investigative, provvedere a rivedere l’intero materiale indiziario che collega l’opera di Marroni alle società riferibili agli eventuali accordi con società proprie o connesse a Bigotti, tra cui secondo quanto appare anche la Cofely”. Sturzo poi chiede ai pm di sentire anche “tutti i dipendenti Consip che hanno preso parte a queste fasi di gara con riguardo ad eventuali richieste di informazioni e/o pressioni subite da Marroni e da Licci”, ossia l’ex presidente della commissione di gara Fm4. Non è finita. Potrebbe essere convocato sempre come persona informata sui fatti pure Francesco Bonifazi. L’ex tesoriere del Pd (ora Italia Viva), non è mai stato coinvolto nelle indagini Consip e la sua posizione tale è rimasta: non è stata disposta alcuna iscrizione. Piuttosto il giudice vuole chiarimenti su un messaggio inviato a Bonifazi quattro anni fa da Carlo Russo, l’imprenditore amico di Tiziano Renzi. Era il 4 marzo 2015 quando Russo scrive a Bonifazi: “…Solo per evidenziarti i passaggi fondamentali dell’incontro di stamani: lui deve capire che io sono il suo unico interlocutore e che ho rapporti privilegiati, senza che venga fuori il nome di T. Grazie, è davvero importante per noi, a dopo. Carlo Russo”.

Il “T.” di cui non doveva uscire il nome secondo il gip potrebbe essere Tiziano Renzi, accusato inizialmente di traffico di influenze: per lui era stata chiesta l’archiviazione, rigettata (tranne per due episodi) da Sturzo. Sull’sms di Russo a Bonifazi – inviato quando ai vertici della Consip non era stato ancora nominato Marroni – il giudice quindi scrive: “Non sappiamo se e cosa abbia risposto Bonifazi, in quanto gli argomenti qui trattati sono stati individuati in quel che resta del cellulare sequestrato al Russo, a prescindere da quelli non rinvenuti o da quelli che non sono stati posti a controllo tecnico”, e così “richiede un espresso chiarimento dalla Procura”. In passato sull’sms Bonifazi spiegò al Fatto di non ricordare la circostanza e che comunque Russo non era un suo interlocutore, non avendo con lui alcun rapporto.

Sardine in crisi: flop a Napoli e gaffe ovunque

Il taglio dei vitalizi no, quello dei parlamentari boh, forse. L’Erasmus al Sud sì, la revoca delle autostrade ai Benetton no, Virginia Raggi no, Vincenzo De Luca “faccia un passo di lato”. Chiedete e le Sardine vi daranno. Passata l’ondata delle Regionali, svuotate le piazze e riempite le tv, non c’è domanda a cui Mattia Santori non darà risposta. Col sudato distintivo da tuttologo nel taschino, il fondatore oscilla con precisa cadenza da metronomo da uno studio televisivo all’altro, proprio lui che dopo la vittoria di Stefano Bonaccini in Emilia Romagna aveva giurato che le Sardine sarebbero “sparite da tv e giornali” almeno fino a marzo. Ma d’altra parte, da buon (ex) renziano – votò sì al referendum costituzionale del 2016 –, Santori pare allergico alle promesse di addio. E allora rieccolo, ben poco conscio che la sovraesposizione mediatica di questi giorni, in mancanza dell’entusiasmo delle piazze autunnali, rischia solo di danneggiare parecchio il movimento. Regalando alle cronache gaffe preoccupanti.

Due giorni fa a Napoli le Sardine hanno fatto flop (e il fondatore è stato pure contestato), nonostante dall’altra parte della città ci fosse Matteo Salvini e Santori avesse annunciato una manifestazione in solidarietà dei lavoratori della Whirlpool: “Portare in piazza tematiche come la crisi del lavoro – si è giustificato il leader – è scomodo e poco sexy”.

Un’analisi della sconfitta che fa rimpiangere le ben più frequenti giravolte linguistiche con cui Santori ama aggirare temi scomodi. Qualche esempio. Che ne pensate della prescrizione? “Se un bambino autistico quando gli passa un pallone da basket questo ritrae le mani, come riesce a passargli la palla e fare in modo che questo la raccolga con le mani che non sa usare?”. Riconosce a Salvini di saper arrivare alle persone? “Sì, ma Salvini è un erotico tamarro, noi siamo erotici romantici”. Come voterà al referendum sul taglio dei parlamentari? “Non escludo che su questo tema prenderemo una posizione. C’è una sensibilità diffusa contro il taglio, ma dobbiamo capire se rappresenta la moltitudine”. In attesa che le Sardine decidano di decidere cosa voteranno di votare, Santori vuole captare gli umori della folla. Che peraltro pare capace di cogliere solo lui: “La piazza del Movimento 5 Stelle sul taglio dei vitalizi è strumentale, mentre mezza Italia chiede di abolire i decreti Sicurezza”.

E chissà invece se la suddetta mezza Italia è d’accordo con Santori sulla revoca delle concessioni autostradali: “Conte viene dal mondo del diritto e sa meglio di noi che per recedere un contratto in essere ci deve essere una giusta causa che deve essere comprovata dalla magistratura”. Il crollo di un ponte e 43 morti, insomma, non bastano.

Meglio manifestare vicinanza alla famiglia Benetton, facendo visita a Luciano e a Oliviero Toscani all’interno dell’area di Fabrica, il centro culturale degli imprenditori veneti. “Non sapevamo che le nostre foto lì sarebbero state diffuse”, si è giustificato Santori. Senza capire che il problema non era l’aver fatto una foto, ma l’essere lì nei giorni in cui il governo discuteva la revoca.

Con la stessa sagacia, nei giorni scorsi Lorenzo Donnoli – uno degli altri fondatori – ha invece messo una croce sulla potenziale ricandidatura di Virginia Raggi a Roma: “È un disastro”. Lui, bolognese, “vive a Roma da un anno”. Abbastanza per pretendere di aver capito tutto.

“Milf con Salvini”: solo una risata seppellirà la Bestia

A ricordarci che Internet è insieme la causa e la soluzione di tanta parte delle miserie del mondo, ecco la pagina Facebook definitiva sulla politica italiana. Si chiama “Milf con Salvini – cucina marchigiana”. Diffonde contenuti fasulli, satirici, come se fossero opera del “capitano” vero. Roba talmente sciocca, sgrammaticata e volgare che nessuna persona senziente potrebbe credere provenga davvero da un ex ministro della Repubblica. Forse.
“Milf con Salvini” è un terrificante teatro dell’assurdo: non vorresti guardare ma non puoi togliere lo sguardo. Un’impresa pensata e realizzata da un magnifico troll, probabilmente in un pomeriggio di noia e sostanze psicotrope. Cazzeggio puro che si trasforma in un saggio collettivo sul livello della nostra comunicazione politica. Milf – lo spieghiamo ai più anziani – è un acronimo inglese diventato di uso molto comune per identificare una mamma particolarmente attraente (“Mother I’d Like to Fuck”). Anche il sottotitolo “Cucina marchigiana” è surreale e inverosimile. L’immagine di copertina è un Salvini sorridente accanto alla cartina d’Italia senza l’Emilia Romagna.

Eppure la pagina nata per prendere per i fondelli il leghista e i suoi messaggi xenofobi è frequentata da decine di migliaia di salviniani autentici. Sono loro la grandissima maggioranza dei 63mila utenti iscritti. Commentano i contenuti finti, li condividono, li fanno propri, li rivendicano. Sprezzanti del ridicolo, totalmente inconsapevoli.

L’ultimo post di “Milf con Salvini” è un meme di Lukaku, centravanti di colore dell’Inter. Gli si attribuisce un pensiero incredibile: “Addio Italia, l’Inghilterra mi accoglierà perché parlo inglese meglio di voi”. Il finto Salvini arringa i followers: “Cosa gli rispondiamo?”. I commenti sono 468. Per lo più furibondi. Liliana di Tella: “Parti subito, non ti vogliamo. Sputi nel piatto dove hai mangiato più che bene!!!!”. Donatella Pasini è laconica: “Buon viaggio e felice non ritorno”. Remo Tranquilli è pragmatico: “Una volta sbarcati invece di lasciarli bighellonare in giro x l’Italia e nei centri di accoglienza, impariamo loro l’inglese almeno se ne vanno tutti in Inghilterra”. Attenzione, non è contro-satira: sono leghisti veri, i loro account Facebook non lasciano dubbi.

Altro capolavoro di “Milf con Salvini”, un meme per chiedere le dimissioni (da cosa?) di Laura Boldrini. “Se vuoi che si dimette, condividi e scrivi Boldrini BDSM (Boldrini Dimettiti Subito Mistress)”. L’acronimo Bdsm è usato per indicare pratiche sessuali sadomaso (nelle quali la “mistress” è la donna dominatrice). Gli entusiasti salviniani, ignari, condividono a tutto spiano. Vittorio Soffiati commenta salomonico: “Ma perché poveretta… La politica è quella che la tiene in vita… Senza la troveremmo a girovagare per le strade senza meta e cervello…….”.

Nei giorni di Sanremo la pagina “Milf” si scatena. Il bersaglio preferito è Roberto Benigni. Nel meme c’è un Salvini accigliato che mostra questo messaggio: “Denuncio Benigni per quello che ha detto a Sanremo? Condividi se vuoi che lo denunzio”. Risultato? 1285 condivisioni.

Spopola anche una foto con Amadeus e Rula Jebreal. E la frase, attribuita alla giornalista: “Italiani ignoranti, la cucina italiana rende obesi, senza immigrati siete finiti, non siete bravi a fare l’amore”. Stavolta è impossibile cascarci. E invece… Lorella Profetti: “Io non ho parole ma come si permette di insultare cosi pesantemente il popolo italiano ignorante sara lei e chi la fa parlare e io mi domando ….il pubblico ha pure applaudito .. questa e veramente una persona cattiva e ingrata con un paese che pure la paga solo per essere insultato”. Luisa Artioli la rimprovera: “Lorella, se nessuno lo guardasse sarebbe meglio. Pagare il canone di una tv pubblica per essere anche insultati mi sembra troppo”.

“Milf con Salvini” è una miniera. Una contro-Bestia. Il negativo fotografico del salvinismo: la propaganda di Luca Morisi ribaltata, ridicolizzata. Ma rivela pure che evidentemente non è così facile distinguere Salvini dalla sua macchietta più razzista, sguaiata e violenta. Almeno per tanti dei suoi elettori.

Rostan, l’anti-renziana che si scisse due volte

Se ci fosse un almanacco delle consultazioni elettorali, Michela Rostan probabilmente vanterebbe un record. Proprio lei, poco più che trentenne e mai eletta, nel 2013 si candidò alle primarie per entrare in Parlamento con il Pd. A Melito, 37 mila anime in provincia di Napoli, votarono in 2018 e, di questi, ben 1.872 scelsero la Rostan. Calcolatrice in mano, fa il 93 per cento. “Nulla di strano né scandaloso – dirà lei – anzi, doveva andare pure meglio”.

Lecito allora chiedersi da dove venga e di che cosa si occupi la deputata appena passata a Italia Viva dopo tre anni di militanza in Mdp.

Nata a Polla, Salerno, 38 anni fa, per la Rostan la politica è di famiglia. Lo zio Giuseppe negli anni 90 fa il consigliere comunale a Napoli, il padre Emilio diventa sindaco a Melito. I due per un periodo sono anche in affari con Alfredo Cicala, altro ex sindaco di Melito poi condannato per i legami con il clan Di Lauro. La Rostan – mai sfiorata dalle indagini – rivendica più volte l’onore della sua famiglia.

Arrivata a Roma col Pd nel 2013, la Rostan diventa presto renziana. Tre anni di luna di miele, poi ecco il disastro del referendum e i mal di pancia della sinistra del Pd, stufa della gestione personalistica del partito e della linea politica.

Pier Luigi Bersani, Massimo D’Alema e Roberto Speranza organizzano la scissione e la nascita di Mdp, a cui la Rostan aderisce con entusiasmo e l’aria di chi si toglie un peso: “Dopo il disastro delle elezioni amministrative e la valanga di No che ci ha travolto al referendum ho provato tanta rabbia per la miopia e l’arroganza con le quali sono stati minimizzati questi gravi insuccessi. Non so, francamente, cosa ancora debba succedere per aprire gli occhi”. E giù altro veleno: “Le nostre principali riforme si sono rivelate un clamoroso fallimento”, scrive al Corriere del Mezzogiorno .

Nel 2018arriva la seconda elezione alla Camera, questa volta con LeU. Prima l’opposizione al Conte 1, poi la ritrovata felicità espressa anche solo tre mesi fa: “Questa finanziaria ha finalmente messo i diritti fondamentali dei cittadini al primo posto nell’agenda politica del governo”. Tempo qualche settimana e la Rostan si accorge che invece il ministro Speranza è “ispirato dall’Aifa” – l’Agenzia del farmaco – e perciò sceglie di combattere le lobby con Matteo Renzi. Quello dei “clamorosi fallimenti”.

Uno, nessuno, cento. Cerno: il peone per ogni stagione

Tommaso Cerno è un uomo vivace. “Sono contraddittorio”, dice. Ma è una definizione pallida. Non è contraddittorio: ha più periodi di Picasso, e molto più colorati. C’è un Cerno per ogni stagione, per ogni movimento dell’anima, per ogni sensibilità. C’è il Cerno giornalista, direttore dell’Espresso e condirettore di Repubblica. C’è il Cerno politico, che baratta il potere nei giornali con l’assenza di potere in Parlamento. Pare fosse convinto di diventare ministro, si ritrova peone.

C’è il Cerno dei primi giorni al Senato, guardia del corpo di Renzi, sempre a fianco del segretario. Ma si stufa presto: “Matteo non riesce più a fare ragionamenti di ampio respiro”. C’è quindi il Cerno desaparecido. Non va in Senato perché si annoia: “I provvedimenti che arrivano sono pochi e di basso profilo”. Lui nel dubbio non c’è: partecipa solo al 4,72% delle sedute. C’è il Cerno sul punto di mollare tutto. Addio Pd: “Un partito che ha perso contatto con la realtà”. Addio Senato: è pronta la lettera di dimissioni, atto di dignità. Ma non vedrà mai la luce.

Anche perché intanto inizia la primavera di Cerno: il governo gialloverde cede sotto l’ego di Salvini. Si apre uno spiraglio e Cerno torna in pista. Si autobattezza “Cerno-cerniera”: il collante della nuova intesa tra Pd e grillini. Lui che è sempre stato No-Tav, lui che si considera “la sesta stella” del Movimento; lui che è eretico e diverso dai brontosauri della vecchia politica. Cerno chiede “un governo rock”, di nuovo gli appaiono mistiche visioni ministeriali. Sogna in grande: vorrebbe andare all’Ambiente, promette di sparigliare tutto. Niente, non gli lasciano niente. E allora Cerno prende atto che è “un governo polka”, lento e inadeguato, e si deprime di nuovo.

Colpa di Zingaretti, ma pure di Renzi, che si scorda di lui. A settembre 2019 un grave Cerno racconta l’egoismo renziano: “Non è possibile che il nostro eterno, infinito problema non sia il futuro degli italiani ma di uno solo, all’anagrafe Renzi Matteo”. Quindi non lo segue in Italia Viva.

Resta nel Pd. Anzi è il Pd che resta dentro di lui: “Adesso che i dem sono venuti verso chi, come me, pensava da tempo che il futuro della sinistra fosse un big bang fra progressisti e M5S, sarebbe alquanto strano togliermi di mezzo”. Sarebbe alquanto strano. E invece – pensa tu! – si toglie di mezzo: esce dal Pd e torna da Renzi.

Il flop di Renzi rimanda in “sonno” i Responsabili

Tranquillo che mo’ (ora) vieni con noi”. Quando di buon mattino Giuseppe Bellachioma della Lega gli si avvicina in un Transatlantico ancora deserto, Antonio Martino non sa che lo attendono 48 ore sulle montagne russe. Lui, quarantenne con simpatie renziane ma eletto alla Camera con Forza Italia, è sulle spine: il suo sfogo in chat con la capogruppo azzurra Mariastella Gelmini è stato letto come un addio imminente nelle stesse ore in cui è caccia grossa ai nomi dei Responsabili accreditati di essere disponibili a tutto, anche ad appoggiare il governo Conte, pur di salvare il seggio. E così al compaesano abruzzese di rito salviniano che lo stuzzica, lui replica scherzando o forse no: “Ma perché, ci sta posto da voi?”. Poi però, dopo pochi minuti, Martino riprende ad agitarsi perché chi gli ha dato appuntamento tarda un po’: alla fine arriva e può tirare un sospiro di sollievo accomodandosi su uno dei salottini vicino alla buvette della Camera insieme a Renata Polverini. Pure lei oramai a disagio in FI e al lavoro per organizzare le truppe dei deputati che non si rassegnano al destino a cui li condanna il declino della creatura dell’ex Cavaliere. Ieri è rimbalzata anche la notizia di un incontro Polverini-Conte nei giorni scorsi. Smentito però dalla deputata: “È falso”.

Mentre a Palazzo è tutto un tramestio. Conversazioni, abboccamenti: due sere fa doveva esserci l’ennesima cena, poi saltata all’ultimo, col ristorante già prenotato. “In attesa di vedere Renzi da Vespa stiamo tutti fermi”, è la voce che arriva dai berluscones. Alcuni dei quali avevano confidato in Mara Carfagna per dare vita a gruppi autonomi, poi tutto si è fermato.

Ma è il Senato il palcoscenico in cui il melodramma dei Responsabili va in scena in maniera plastica. Ieri in mattinata c’è stata una nuova convocazione da parte di Paolo Romani, anche lui come Polverini ventre a terra a organizzare i responsabili. Ma era già partita la contro-offensiva dei vertici azzurri: la capogruppo di FI al Senato Anna Maria Bernini ha cercato innanzitutto di capire a che gioco stia giocando Lorenzo Cesa e se davvero arriverebbe a mettere a disposizione il simbolo dell’Udc per la costituzione di un gruppo autonomo, come impone il regolamento. Poi è stata inondata di chiamate di quelli finiti nella lista dei transfughi, tutti a chiarirle che non c’entrano, che non hanno mai pensato di cambiare casacca. Tra i complottisti è finito Gaetano Quagliariello, che usa l’ironia per zittire le voci: “La mia è una famiglia di marchesi, figuriamoci se posso appoggiare un conte…”. Ma torniamo a Montecitorio. Dove Gianfranco Rotondi (FI) fa un ragionamento che non fa una grinza: “Un gruppo di responsabili nemmeno serve. Sui temi già dialoghiamo con la maggioranza. Poi è chiaro che tutti quelli che di noi non vogliono morire salvinian-meloniani guardano già da tempo a Conte come aggregatore di un centro moderato, cattolico, popolare. Un centro in cui il competitor del premier è Renzi”.

Il premier stretto tra dem e 5S (che dicono no ai Responsabili)

Per quasi quattro ore di fila, non si schioda dallo scranno più alto dei banchi di governo dell’aula di Montecitorio. Immobile, Giuseppe Conte: che di questi tempi, è un attimo farsi fregare il posto. Lo sa, il presidente del Consiglio, che nel mirino di Matteo Renzi c’è lui. E pure che i partiti che lo sostengono, di fronte all’inevitabile, potrebbero perfino pensare di sacrificarlo. Ma per adesso lo considerano ancora “il più politico di tutti noi”: da “burattino”, come lo chiamavano agli esordi a palazzo Chigi con Salvini, a “pokerista” come dicono adesso in Transatlantico, mentre elogiano la sua scelta di aver detto a Renzi che “vuole vedere le carte”.

Quali abbia in mano lui, di carte, non è ancora chiaro. Perché sull’ipotesi della pattuglia di responsabili si comincia a dubitare. Non tanto perché sia difficile trovarne – tutti credono che dieci o quindici senatori si convincano facilmente – quanto perché il rischio di un “effetto boomerang”, in particolare tra i Cinque Stelle, è considerato ormai concreto. “Io credo che non ci sia da cercare nessuno – dice il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Riccardo Fraccaro – dobbiamo andare avanti così e continuare a fare provvedimenti, tanto alla fine quelli li portiamo a casa”.

Un’idea che anche in una parte di Pd inizia a circolare: tutti vorrebbero liberarsi una volta per tutte di Matteo Renzi, sì, ma nemmeno offrirgli la possibilità di dire che i dem sono disposti a “morire” grillini, né mettere la firma sotto un “nuovo patto del Nazareno” con l’opposizione, come lo chiama, non a caso, lo stesso Renzi. Tanto che ieri, il capo delegazione Dario Franceschini, metteva le mani avanti, raccontando la storia della rana e lo scorpione, come a ricordare che per Renzi è “naturale” pungere e far annegare chiunque lo porti dall’altra parte della riva. Se va a finire male, insomma, la colpa è solo sua.

È, Franceschini, un teorico della linea per cui bisogna tenere duro e provare ad allargare la maggioranza. Mentre Conte è preoccupato di più daii segnali che arrivano dall’area di Nicola Zingaretti, più che secco nello scandire che “non tollererà ancora per molto” la “guerriglia” quotidiana del leader di Italia Viva.

La verità, ammette una fonte di palazzo Chigi, “è che con i responsabili già ci governiamo”. E prova ne è la surreale votazione di ieri in commissione Giustizia alla Camera: la maggioranza non è andata sotto – di nuovo sulla sospensione della riforma della prescrizione – solo perché ha votato la presidente (la 5 Stelle Francesca Businarolo) che non ha ammesso la delega di un deputato forzista ed ha potuto appoggiarsi al voto di un componente del Misto, l’ex grillino Andrea Cecconi, che ieri mattina si è fatto “trasferire” dalla Affari Costituzionali alla commissione che era nei guai. Non certo un segnale di buona salute, che i giallorosa hanno interpretato come un accanimento renziano – per la quarta volta in dieci giorni Italia Viva ha votato con l’opposizione – da non sottovalutare.

Così, ieri pomeriggio c’era una certa preoccupazione per il discorso di Renzi a Porta a Porta. Poi, certo, la minaccia di un voto di sfiducia contro il ministro Alfonso Bonafede “entro Pasqua” ha in parte spostato la battaglia un po’ più in là. Non che sia in discussione una mediazione: “Alfonso non si tocca”, chiude ancora Fraccaro. Ma la scelta di Giuseppe Conte di non replicare e di annunciare “le sue determinazioni” nei prossimi giorni non è certo il segnale che la questione sia rientrata. Anche perché, ragionano a palazzo Chigi, “abbiamo chiesto a Renzi di chiarire e questa è la risposta…”. Più o meno quello che dice in chiaro il reggente del Movimento, Vito Crimi: la “pagliacciata” di Renzi dimostra la sua “inaffidabilità” ed è arrivato il momento che “chiarisca” se “vuole uscire da questo governo”. Sillabe come sassi, scagliate dopo aver appurato che palazzo Chigi non avrebbe commentato ufficialmente. Compreso che non c’era il rischio di sovrapporsi al premier, Crimi ha adoperato la clava: da un lato per non sembrare afono o debole rispetto al Pd intransigente, dall’altro per “reagire a un ultimatum inaccettabile sul ministro Bonafede” spiegano dal Movimento. Ma c’è anche altro, dicono i 5Stelle: “Nell’ultima riunione sulla legge elettorale Maria Elena Boschi aveva convenuto sulla necessità di accelerare su una nuova legge proporzionale, e ora Renzi parla di sindaco d’Italia”.

E forse non a caso il Nazareno punta forte sulla legge elettorale e accusa Renzi di aver “paura” dello sbarramento al 5 per cento su cui i giallorosa avevano stretto un accordo e che, secondo i sondaggi attuali, lo lascerà fuori dal prossimo Parlamento.

L’ex Pd non rompe (ancora) e propone il sindaco d’Italia

“Grrrr…”. Prima di entrare nello studio di Bruno Vespa, Matteo Renzi prova a riprodurre il ruggito della tigre. Non resiste alla battuta, né alla provocazione (“una tigre di carta” l’ha definito Goffredo Bettini), ma il ruggito gli esce un po’ incerto. O forse semplicemente logorato. Ha già pronta la petizione per “il Sindaco d’Italia”: l’elezione diretta del premier, che si porta dietro una riforma costituzionale. Una sorta di deja-vu, che lo fa ripiombare immediatamente nell’“Italia che dice sì”,. Anno 2016. Peccato che poi l’Italia disse no.

Mentre lo aspetta, un Bruno Vespa più curvo di quello dei tempi d’oro fa su e giù per il bar. Set allestito per il siparietto che precede la registrazione. Renzi arriva alle 18 e 15. Spremuta d’arancia, sorriso un po’ tirato, Matteo si avvia a giocarsi l’ennesimo azzardo. Gli amici raccontano che è nervoso perché dalla mattina su tutti i siti ci sono le anticipazioni di quello che ha deciso di dire: la proposta di riforme, la chiamata a tutti per il governo istituzionale. La “sfiducia” a Giuseppe Conte, di cui si parlava negli scorsi giorni non arriverà esplicita. Il gioco è quello di far impazzire ancora di più la maionese, convergere su un’operazione lanciata da Giancarlo Giorgetti a dicembre (fare tutti insieme le riforme), lanciare un piano inclinato che porti il premier al fallo di reazione.

In mattinata, in Senato, si alza per una replica a Conte (che fa l’informativa in vista del Consiglio europeo). “Lei signor presidente ci rappresenta appieno nelle sedi europee”. La tattica della confusione va avanti per tutto il giorno. Iv dice sì alla fiducia al Milleproroghe alla Camera. Ma vota con l’opposizione sulla proposta Costa, che abolisce la norma Bonafede sulla prescrizione (bocciata per un soffio in Commissione Giustizia a Montecitorio). Poi annuncia il sì alla fiducia sulle intercettazioni.

Si presenta in abito scuro e camicia bianca (la divisa da premier che fu). “Se il premier o qualche suo collaboratore vogliono sostituirci non c’è niente di male, ma la prossima volta farebbero meglio a riuscirci”, è la linea. Annuncia la sfiducia a Bonafede, prima di Pasqua. “Ma il governo non cade” (falso: un momento dopo, l’esecutivo non esiste più). Tempi spostati a dopo le nomine. L’ex premier si schernisce: “Le ultime nomine le ho fatte io da premier”. Pare che il governo voglia confermare i vertici delle maggiori partecipate e che non gli spetti molto. Una battuta dopo l’altra non smorza la tensione. “Ci sono due modi di far politica. Il primo modo è Lines Notte assorbe tutto. Quello di chi assorbe qualsiasi proposta fatta pur di mantenere la seggiola”. Renzi ne parla come di una cosa che non lo riguarda, peccato che le ali del simbolo di Iv, furono associate proprio a quelle degli assorbenti. Mentre lancia la proposta (“100 commissari per 100 opere”), Vespa scherza: “Se Pd e M5s sono d’accordo, mi faccio frate”. Entrano Paolo Mieli e Virman Cusenza. “Questo sistema così non funziona. Lancio a tutti, da Leu alla Meloni, la proposta per il Sindaco d’Italia”, dice lui. I due provano a stringerlo, lo accusano di buttare la palla in tribuna. “Non si vota fino all’autunno. Poi siccome non si vota in autunno è prevedibile che non si voti fino al 2021. Potrei tenermi il proporzionaluccio e fare l’arbitro della partita”. Mentre invita Conte ad abolire il reddito di cittadinanza, disegna il “suo” campo da gioco: “Per questo progetto non ci vuole un governo Nazareno, ma un governo Maccanico”. Il governo Conte viene equiparato al patto del Nazareno, Maccanico fu quello che nel 1996 provò a fare il governo istituzionale.

La cosa più evidente è che così Renzi sconfessa il patto sulla legge elettorale (“vuole solo abbassare la soglia di sbarramento dal 5% al 4%”, commentano dal Nazareno). Poi vagheggia una legislatura costituente. Non è chiaro cosa possa ottenere. Ma mentre Pd, Leu e M5s lo attaccano, un sì di massima dalla Lega e da FI sul Sindaco d’Italia arriva. Sul governo no: la Meloni non ci sta, e dunque non può starci neanche Salvini. “Fra Bruno” in chiusura rimanda spezzoni del confronto tra i due Matteo a ottobre. Poi parte la musica di Via col Vento. Domani è un altro giorno.