Panzanavirus

Chi, fra qualche anno, farà l’inventario dei danni inferti a questo povero Paese dai due Matteo si domanderà come sia stato possibile che negli anni 10 del Secondo millennio due mitomani di quel calibro godessero di tanto spazio e credito non fra gli psichiatri, ma nell’establishment, dunque nei media, quindi fra gli elettori. Oggi pare impossibile, ma fino a due anni fa un caso umano come il Matteo minor che sta rottamando il suo governo a maggior gloria del Matteo maior dettava la linea a tutte le élite imprenditoriali, finanziarie, giudiziarie, politiche ed editoriali. Pronte a tutto pur di compiacerlo, anche a trasformare i suoi peti in Chanel n. 5. Il caso Consip, che il Fatto racconta fin dal primo giorno, è il perfetto paradigma di questo monumentale tradimento della verità e della decenza. Come sa chi ci legge e non sa chi legge certi giornaloni, il gip romano Gaspare Sturzo ha appena demolito le non-indagini della Procura di Roma per aver salvato dai guai Tiziano Renzi, Verdini e altri a colpi di errori e omissioni mentre indagava su chi aveva osato scoprire lo scandalo: dal pm Woodcock (con l’amica Sciarelli) al capitano Scafarto. Noi quelle nebbie e quelle sabbie le abbiamo raccontate giorno per giorno, mentre giornali e tv fabbricavano il dogma dell’Immacolato Pignatone e la leggenda del Santo Rottamatore.

L’11 aprile 2017 si scoprì che Scafarto, nell’informativa su migliaia di intercettazioni, aveva invertito i nomi di Bocchino e Romeo (riportandoli correttamente nelle trascrizioni allegate) e fu indagato per falso e cacciato dall’Arma, Renzi gridò al complotto contro il su babbo. A Tg3 Lineanotte un Maurizio M’annoi insolitamente vispo trillò: “Colpo di scena! Tiziano Renzi non c’entra!”. Poi riportò come oracolo il commento di San Matteo Martire: “Mio padre ha pianto, Grillo vergognati” (così, a cazzo). Francesco Verderami del Corriere si unì al festino: “C’è un giudice a Roma: il procuratore Pignatone!” (che poi era il pm). Umberto De Giovannangeli della fu Unità denunciò i “corpi dello Stato manipolatori”, roba da “Repubblica delle banane”, ergo aboliamo la cronaca giudiziaria (“basta pubblicare i brogliacci delle Procure”). Repubblica titolò in prima pagina: “Due carte truccate”, “Finti 007 e intercettazioni: così hanno manipolato le carte per coinvolgere Palazzo Chigi”. E sentenziò a firma Carlo Bonini: “Sembra una faccenda uscita dalla sentina dei giorni peggiori della storia repubblicana”. Un carabiniere che inverte due nomi paragonato al Piano Solo, al golpe Borghese, alla strategia della tensione, alle stragi di Stato, alla P2, forse al caso Moro.

Con i verbi all’indicativo: Scafarto “ha costruito consapevolmente due falsi” per incastrare i Renzis e “alimentare una campagna di stampa” con una “velenosa polpetta propinata a due Procure e al Fatto ‘in esclusiva’”. Il 15 settembre 2017 il Giornalone Unico sparò in prima che la pm di Modena, Lucia Musti, aveva lanciato al Csm accuse gravissime a Scafarto e al suo ex comandante Sergio De Caprio (il capitano “Ultimo”). Corriere: “La pm accusa i carabinieri del caso Consip: erano degli esagitati, puntavano a Renzi”. Repubblica: “Scafarto e Ultimo mi dissero: vogliamo arrivare a Renzi”. Messaggero: “Scafarto al pm: ‘arriveremo al segretario Pd’”. Secondo Repubblica, la Musti attribuiva a De Caprio e Scafarto la seguente frase (a più bocche, come Qui, Quo e Qua): “Dottoressa, lei se vuole ha una bomba in mano. Lei può farla esplodere. Scoppierà un casino. Arriviamo a Renzi”. Renzi tuonò: “Lo scandalo Consip è nato per colpire me, ma colpirà chi ha falsificato le prove contro il premier. Io so bene chi è il mandante. Ma voglio che siano le istituzioni a fare chiarezza”. Orfini rincarò: “Watergate italiano, eversione, attacco alla democrazia”. Zanda, Fassino e Nencini: “Complotto”. Repubblica titolò in prima: “Caso Consip, manovre e veleni. Renzi: creato solo per colpirmi”. Il direttore, nell’incredibile editoriale “La democrazia anormale”, riuscì a infilare tutto l’armamentario berlusconiano anti-giudici: “Sconvolgente manipolazione delle carte giudiziarie” per “affondare” e “disarcionare un primo ministro” cioè Renzi (che si era già affondato e disarcionato da sé, col referendum del 4 dicembre 2016 e le dimissioni da premier, due settimane prima dello scoop del Fatto e del successivo errore del capitano); “pezzi di apparati che, come troppe volte nella storia d’Italia, agiscono in modo deviato ed eversivo”; “metodo a strascico… con intercettazioni telefoniche e ambientali”; e naturalmente giustizia a orologeria nel “dicembre 2016, un mese politicamente decisivo per il Paese… Perché la ‘bomba’ scoppi, il Fatto avvisa della tempesta”. Poi la Musti smentì di aver mai detto quelle cose al Csm: la “bomba” di cui le parlò Ultimo, presente Scafarto, non era il caso Consip, ma l’inchiesta sulla coop rossa Cpl Concordia. Il nuovo Piano Solo era un Piano Sòla. Il nuovo Watergate, un Waterclosed. E la bomba un’autobomba del Bomba e dei suoi manutengoli a mezzo stampa. Risultato: Scafarto prosciolto da ogni accusa e reintegrato nell’Arma; Woodcock e Sciarelli archiviati; archiviazione di babbo Renzi e Romeo respinta dal gip, che ordina alla Procura di fare quel che non ha fatto in due anni, cioè indagare su entrambi e pure su Verdini.

E i giornaloni? Sopire e troncare. Nemmeno una riga in prima pagina, per carità. Il Corriere si salva con mezza pag. 21. Il Messaggero fa un bassetto a pag. 12. La Stampa un trafiletto a pag. 8. E ora pronti col microscopio elettronico per Repubblica: una breve di 17 righe a pag. 25, senza il nome di Renzi sr., accanto a notizioni tipo “Carpi, pietre contro il treno e selfie sui binari: denunciato 14enne”. A proposito: com’era quella storia sulle fake news di Putin?

Addio a Flavio Bucci, il Mick Jagger del nostro cinema, da Petri al “Divo”

Un attore che non è mai stato divo, “giammai borioso, perché la vanagloria è il nutrimento dei privi di talento”. Un uomo che per il figlio Alessandro è stato “una discesa negli inferi, forse solo Mick Jagger vive così, un pazzo maniaco”. Uno che veniva “da un cinema impegnato a livello civile e democratico. Adesso quello che vedo è soltanto il raccontare una storia più o meno fattibile, opinabile, senza grandi tematiche”.

Flavio Bucci, che “il mio viaggio l’ho compiuto al massimo di quello che volevo ottenere dalla mia esistenza umana”. È morto a settantadue anni a Passoscuro, a darne l’annuncio il sindaco di Fiumicino, Esterino Montino: più anagrafe che epitaffio, gli sarebbe piaciuto. Irrefutabile che sia stato un asso, analogamente che si sia dissipato, complici alcool e, ipse dixit, “cinque grammi di coca al giorno”, giacché da “contrarissimo alla droga – rammenta il regista Armando Pugliese – è l’unico che ci è cascato e rimasto dentro”.

Ha iniziato come attore, poi anche doppiatore, per esempio il John Travolta esordiente nella Febbre del sabato sera: “Mi presentarono Travolta dicendo a lui: ‘Questa è la tua voce italiana’. ‘Digli che è lui che è la mia faccia americana, e vaffanculo te e Travolta’”. S’è raccontato senza filtro due anni fa nel documentario Flavioh – bel lavoro davvero – diretto dallo scomparso Riccardo Zinna, e l’ha fatto da uomo, artista, reduce, sopravvissuto e financo fantasma: “Un interprete geniale come lui – ancora Pugliese – ha lasciato il campo a tanti mediocri piccolo borghesi che fanno finta di fare gli interpreti teatrali e invece non valgono una cippa marcia”. Più grande della vita, a tal punto da richiamarsi le orazioni funebri prima di andarsene, più grande di come l’ha buttata: senza perdere, beninteso.

Natali da nàpoli(genitori molisano-pugliesi) a Torino il 25 maggio del 1947, il teatro, fatto di comici e ballerine, è prima desiderio e poi viaggio direzione Roma, con L’arcitreno di Silvano Ambrogi. Ha la faccia giusta? No, ma saprà espropriare la terra di nessuno tra i belli imperanti alla Amedeo Nazzari e i brutti da ridere alla Totò, stampigliando il ghigno alla Carmelo Bene e Al Pacino nel nostro immaginario. Fa prosa e proseliti, e dopo il teatro tocca al cinema e gli sceneggiati televisivi: a dargli la fama è il Ligabue di Salvatore Nocita (1977), ad ammannirgli la settima arte Elio Petri, che lo fa esordire con La classe operaia va in paradiso nel 1971 e lo vuole protagonista due anni dopo ne La proprietà non è più un furto a confliggere con il macellaio Ugo Tognazzi.

Ovvio, Gian Maria Volonté c’entra: prima di qualsiasi altra cosa, gli fa prendere la tessera del Pci, entrambi le prenderanno sul set da Petri il capoccione. Flavio non è grosso, ma compensa col carattere: spesso piccoli ruoli, sempre grandi prove. Non solo il tormentato e icastico Ligabue, che sia il commissario Ingravallo del Pasticciaccio di Gadda (miniserie tv, 1983) o il prete ribelle Bastiano del Marchese del Grillo (1981) con Alberto Sordi, il pianista cieco di Suspiria di Dario Argento (1977) o lo stallone superdotato Gegè Bellavita, la commedia sexy di Pasquale Festa Campanile (1978), Bucci abbina estro e dedizione, competenza e azzardo: dà tutto, non si risparmia. E non risparmia: miliardi nel bicchiere e nel naso, ma senza rimpianto né rimorsi, giacché – ancora nel tributo Flavioh – “quello che hai di fronte è un uomo realizzato, con tutte le mie colpe”.

Tre figli, due da Micaela Pignatelli, il terzo dalla “olandese volante” Loes Kamsteeg, Flavio Bucci è stato Divo solo per titolo, regia di Paolo Sorrentino (2008): “Il divismo nasce poi da questa cazzata di essere quelli che poi trasmettono chissà quale cazzo di messaggio ai posteri”. Facile mai, talentuoso tanto, irrequieto troppo. Il suo ultimo film arriverà in sala il 2 aprile: si chiama Il grande passo.

 

Ambiente, equità e (forse) Altaforte: ecco il Salone 2020

Ecco un Salone del Libro di Torino 2020 equo e solidale, certamente non sovranista o integralista, con ospiti come Annie Ernaux, Salman Rushdie, Thomas Piketty, Pat Metheny, e la vetrina di Paesi come l’Irlanda e il Canada, fino a una regione quale la Campania, che con l’orchestra Alessandro Scarlatti inaugurerà il tutto con un concerto. Molto ambientalista, poi, a cominciare dal tema portante del Salone, che è dedicato alle “Altre forme di vita”. E proseguendo con la presenza dei Fridays for future, che avranno un loro stand al Lingotto Fiere.

Questo è dunque il catalogo decisamente green della trentatreesima avventura della Librolandia subalpina, di scena dal 14 al 18 maggio prossimi. Non a caso ieri mattina, nell’illustrare le anticipazioni del programma, nell’auditorium della Biblioteca Nazionale Universitaria lo scrittore Nicola Lagioia, direttore editoriale della manifestazione, ha voluto citare una frase dei nativi americani, cara agli ecologisti di tutto il pianeta: “Non ereditiamo la terra dai nostri antenati, ma la prendiamo in prestito dai nostri figli”. Per rimarcare, in sostanza, che il Salone 2020 rifletterà e fantasticherà sulla “fisionomia umana negli anni a venire, a un decennio dal raggiungimento degli obiettivi dell’Agenda 2030 dell’Onu per lo sviluppo sostenibile”. La “crisi climatica”, perciò, e “la sostenibilità, la tutela della biodiversità, l’innovazione tecnologica, i nuovi modelli sociali, economici e politici necessari a vivere degnamente il XXI secolo, si intrecceranno con letteratura, cinema, teatro, con la grande arte di raccontare storie. Se non provano i libri a immaginare il futuro e a narrare le mutazioni, chi può farlo?”.

Tutto bello, tutto giusto, tutto effervescente. Si riparte dal successo dell’edizione 2019 (148 mila visitatori) e dal superamento senza traumi della crisi generata dalla vecchia fondazione che gestiva un tempo la fiera del Lingotto; si conta di fare ancora meglio nel maggio venturo. Nel desiderio della replica, tuttavia, c’è anche il rischio di raddoppiare la querelle dell’anno passato sulla partecipazione alla kermesse del Lingotto di Altaforte, casa editrice assai di destra estrema e sicuramente sovranista: è quella, per intenderci, del libro-intervista a Matteo Salvini. Era stata esclusa nel 2019, a fiera in corso, dopo un mare di polemiche e di proteste antifasciste, sfociate in una denuncia di Altaforte per apologia di fascismo e nella contro-denuncia di quest’ultima per la violazione del contratto sottoscritto. Qualche settimana fa, però, Altaforte ha ricevuto un invito per Librolandia 2020. Incredibile ma vero.

La notizia ha suscitato ovviamente scalpore, tanto che i vertici del Salone del Libro si sono affrettati a chiarire che l’invito era stato spedito per errore, a causa di una comunicazione partita dall’Associazione Italiani Editori e “destinata a un database contenente i contatti di tutti coloro che hanno richiesto un codice Isbn degli ultimi due anni”. In una nota, la direzione del Salone ha affermato che, “visto il pregresso avvenuto nel 2019”, non intende sottoscrivere alcun contratto con Altaforte. Francesco Polacchi, che guida la casa editrice, a quel punto, ha dato mandato a un avvocato di presentare una diffida, ribadendo di avere confermato la propria adesione, ma di avere saputo, in seguito, che il Salone, “in totale spregio dell’accordo appena concluso”, vuole “revocare la propria disponibilità con modalità assolutamente lesive dell’immagine e della reputazione dell’editore”.

Che cosa accadrà, adesso? Difficile dirlo. Non è escluso che, qualora Altaforte dovesse ritirare la sua denuncia contro la fiera del Lingotto, al Salone potrebbe prevalere un atteggiamento più morbido. Ieri, alla conferenza stampa, del resto, Giulio Biino, presidente della Fondazione Circolo dei Lettori, che si occupa della programmazione culturale di Librolandia, ha promesso “ampiezza di vedute”, garantendo “un Salone sempre più pluralista e aperto”. Varrà anche per Altaforte? Staremo a vedere.

Ozzy, Elton, Madonna: quando gli dèi invecchiano

Stacca la spina, spegni le luci, riponi gli strumenti. Hanno voglia a dire le star che vogliono morire prima di diventare vecchie, come giuravano gli Who: il sogno di tutti i miti del rock e del pop è crepare in scena, consumati dalla vita e dal mestiere, mentre il pubblico li osanna. Il peggior incubo è dover arrendersi, rinunciando al nutrimento delle loro esistenze: la venerazione. Ma ogni tanto qualcuno cede alle insidie dell’età, o della salute. Stavolta è toccato a Ozzy Osbourne: neanche l’acclarata discendenza dal ceppo neanderthaliano, che lo ha reso più resistente agli abusi di alcol e droga, lo ha messo al riparo dall’incedere del Parkinson. Così l’ex frontman dei Black Sabbath è stato costretto ad annunciare la cancellazione del tour americano, che avrebbe dovuto prendere il via il 27 maggio ad Atlanta per chiudersi il 31 luglio a Las Vegas.

Salve, ad ora, le date europee, compresa quella di Bologna del 19 novembre (ospiti i Judas Priest) già più volte posticipata. “Sono così grato che tutti siano stati pazienti perché ho avuto un anno di merda. Sfortunatamente, non potrò andare in Svizzera per un trattamento prima di aprile e il trattamento dura sei-otto settimane”, ha dichiarato il Principe delle Tenebre. “Non voglio iniziare un tour e poi annullare gli spettacoli all’ultimo minuto, non è giusto per i fan. Preferisco dare un rimborso ora”. La moglie Sharon, paziente come sempre in questo tempestoso matrimonio, ha confermato che è il momento di portare Ozzy ai box: il Morbo, diagnosticato nel 2003, è in fase aggressiva, soprattutto dopo una polmonite e un’operazione al collo che, sostiene il marito, gli avrebbe “fregato tutti i nervi”.

Per giunta i farmaci gli procurano blackout di memoria a breve termine. Come fai a portare avanti un giro di concerti intercontinentali in quelle condizioni? In ogni caso, il forfait di Ozzy si è trasformato in un formidabile lancio per il nuovo album Ordinary Man, in uscita venerdì, mentre domani un mega evento in 50 città del mondo (comprese Roma e Milano) sarà incentrato sulla possibilità di tatuarsi simboli dell’ultimo grande metallaro in negozi specializzati. Il disco è una bomba: la voce del 71enne Ozzy imperversa in brani potenti come ai tempi d’oro, grazie anche gregari chic come Duff McKagan dei Guns’N’Roses (in Straight to Hell spunta pure la chitarra incendiaria di Slash), Chad Smith dei Red Hot Chili Peppers, Post Malone, Tom Morello, e in Ordinary Man spunta l’ombra solenne di Sir Elton John.

Lo stesso Elton, di due anni più anziano, non se la passa bene: allo stadio di Auckland, giorni fa, ha interrotto lo show dopo l’attacco di Daniel. La voce era andata a farsi benedire. Polmonite, anche qui. Il Farewell Yellow Brick Road Tour non è impegno da prendere sottogamba: per dire addio agli ammiratori, Elton ha sottoscritto un’infinita serie di serate. L’ultima sarà il 17 dicembre alla 02 Arena di Londra. Ma il fresco premio Oscar per la miglior canzone non ha intenzione di rassegnarsi a uno stop forzato: dopo l’incidente neozelandese è ripartito, lungo la strada si vedrà. I dottori lo controllano dal backstage, con gli anziani non si può mai sapere. Ma se Elton (che nell’autobiografia Me aveva rivelato le complicanze di un cancro alla prostata) assicura serietà fino all’ultima stilla di energia, che pensare di Madonna, che di anni ne ha solo 61? Il Madame X Tour, concepito per i teatri ma lungi dall’essere una produzione sobria, l’ha messa a dura prova: gira, balla, togli un po’ di playback e poi quella maledetta scala su cui arrampicarsi. Crac: esibizioni saltate qui e là per i guai “a un legamento del ginocchio” che le hanno procurato “dolori indescrivibili”, come a un qualunque calciatore.

A Lisbona ha postato il forfait appena 45 minuti prima di andare in scena, bevendo un bicchiere di Porto seduta sul pianoforte. Stessa grana a Londra, con i fans che vedono i loro biglietti come numeri di un’incerta lotteria. Mentre l’ex marito Guy Ritchie la porta in tribunale per la causa del divorzio e lei si trastulla con il toy boy Ahlamalik Williams. Il corpo della Diva. Acciaccato, forse. Altri, nell’Olimpo della musica, si fermano, maledicendo la propria fragilità. Tournée andate in fumo a causa di malattie misteriose per Gwen Stefani, o il giovane James Arthur. E nei mesi scorsi per Ian Hunter con i suoi Moot the Hoople, o lo stesso Sting. Giù il sipario, chiamate i dottori. Gli dei stanno male.

Anche Alibaba ha la febbre, la misura con l’app

Nella lista degli imperativi dell’emergenza: scrivere il diario della quarantena, mattina e sera. Non quello delle riflessioni torve di chi osserva il mondo dalla finestra serrato in casa, ma quello del proprio stato di salute, della temperatura corporea, da registrare giorno dopo giorno per il monitoraggio a distanza.

Avviene durante la quarantena che i cittadini cinesi stanno affrontando, costretti o per scelta, da quando il Covid-19, nome ufficiale del virus Corona, ha cominciato a correre letale per le loro strade.

In guerra, il Dragone lo è ufficialmente su tutti i fronti. L’assedio prosegue nei laboratori per trovare una cura, ma ora continua sugli schermi di computer, iPad e cellulari dei cinesi. Uomini e monitor. I diari della quarantena i cinesi li compileranno su un’app sviluppata dal colosso digitale Alibaba per controllare da migliaia di account simultaneamente lo stato di salute di ogni singolo residente. È un progetto ambizioso di Alipay, che insieme all’altro gigante informatico Tencent, ha risposto all’appello convinto, e più volte ribadito, delle autorità di Pechino, che hanno chiesto alle aziende digitali di contribuire alla battaglia contro il virus.

Alla strategia medica ufficiale si affianca il desiderio di una integrazione tecnologica basata su una convinzione: i click di milioni di persone delle periferie delle regioni focolaio saranno un modo per rallentarlo. Una piattaforma collettiva, una banca dati medica durante la crisi. La registrazione personale avviene tramite numero del cellulare, carta d’identità, codice Qr, lo stesso che si usa sul social più diffuso Wechat, dove l’azienda ha dato l’annuncio ufficiale della nuova creazione. Tra i dati inseriti con DingTalk, c’è la temperatura corporea dei codici rossi, i cittadini in isolamento per i 14 giorni richiesti; dei codici gialli, con una settimana d’isolamento richiesta; infine i verdi: di chi può andare in giro – ma è un termine inappropriato viste le quarantene forzate – perché fuori pericolo.

La multinazionale ha previsto l’inizio dei test di rodaggio nella città in cui ha sede, Hangzhou, provincia di Zhejiang, dove i cittadini inseriscono anche coordinate, dati, orari dei loro spostamenti in luoghi pubblici, entrata e uscita dai supermercati, passaggi ai check point di controllo medico in giro per le città, per monitorare il percorso in caso di diffusione del Coronavirus. Si procederà poi a Shenzen e presto nella provincia di Guangdong.

Una buona notizia, e una cattiva: un animale particolare, quello usato come metafora dagli economisti per indicare l’evento imprevedibile, dalle conseguenze imponderabili, ovvero “il cigno nero”. È come ha definito la crisi Daniel Zhang, capo esecutivo dell’azienda. Alibaba registra il suo primo calo della storia, la decrescita più grave degli ultimi 4 anni, senza alcuna garanzia di miglioramento all’orizzonte, solo un ulteriore indebolimento. Al momento solo “in ginocchio”, ma a rischio paralisi. Per la domanda d’acquisto in via di rapida riduzione, difficoltà logistiche legate alla consegna dei prodotti, l’azienda digitale cinese ha confessato perdite record. I suoi impiegati non sono tornati al lavoro dopo le feste di Capodanno, torri di pacchi stazionano nei depositi senza essere inviati, gli ordini vengono cancellati.

Tra fatturato in declino e incassi in caduta, solo un dato positivo è stato registrato per un prodotto preciso: cibo fresco, quello che i cinesi non possono più andare a comprare.

Coronavirus, un italiano positivo su nave Diamond

Un italiano fra i 35 a bordo della Diamond Princess è risultato positivo al test sul Coronavirus. Una circostanza che ieri ha complicato le operazioni delle autorità italiane, impegnate nel pianificare il “recupero” dei connazionali, bloccati a bordo della nave da crociera da giorni attraccata al porto giapponese di Yokohama. L’obiettivo è inviare già oggi un aereo dell’Aeronautica militare per rimpatriare gli italiani, ovvero 10 passeggeri, 24 membri dell’equipaggio e il comandante della nave, Gennaro Arma. “Li porteremo a casa nei prossimi giorni”, ha assicurato il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio.

Il passeggero positivo al test, una volta rimpatriato, verrà probabilmente spedito all’ospedale “Lazzaro Spallanzani” di Roma, dove restano ricoverati il 29enne ricercatore di Luzzara (Reggio Emilia) e la coppia di 65enni cinesi – ancora in terapia intensiva, sebbene le loro condizioni siano in lento miglioramento – che alloggiavano al Grand Hotel Palatino. Coloro che sono risultati negativi al test, invece, potranno sbarcare già oggi, ma “ci sarà bisogno dei 14 giorni di quarantena, perché la nave (con 3.200 persone a bordo, ndr) è ormai uno dei luoghi del mondo con la più alta diffusione di questo virus”, ha detto il ministro della Salute Roberto Speranza; potrebbero raggiungere anche loro la base militare della Cecchignola, in un’ideale staffetta con le 54 persone rimpatriate a inizio mese da Wuhan, per le quali domani sarà l’ultimo giorno di quarantena. A bordo della Diamond Princess c’era anche un secondo italiano positivo al Coronavirus, già prelevato dalle autorità statunitensi poiché sposato con una cittadina americana.

A preoccupare, sono anche le notizie che arrivano dalla Cambogia, dove nei giorni scorsi sono sbarcati dalla nave Westerdam un migliaio di persone. Solo ieri, però, è arrivata la notizia della presenza di due malati a bordo. Circostanza che ha messo in allarme anche cinque connazionali.

Un uomo residente a Sanremo (Imperia) è già rientrato in Italia ed è monitorato costantemente dalla Asl locale: non presenta alcuna sintomatologia e si è sottoposto a isolamento domiciliare volontario. Un secondo italiano è rientrato in Germania, anch’egli senza alcuna sintomatologia. Nella stessa condizione è il terzo italiano rientrato dalla Cambogia in Slovacchia. Gli ultimi due, italo-brasiliani, sono ancora a bordo, in attesa del risultato dei test e in contatto costante con l’ambasciata italiana, in procinto di tornare in Brasile.

Ieri il bilancio delle vittime è salito a 1.875 morti, con 73.337 persone contagiate. Secondo l’Oms i casi fuori dalla Cina sono in totale 92, in 12 Paesi. Per il momento, la presenza del virus in Italia resta documentata alle tre persone ricoverate allo Spallanzani, tutte provenienti dalla Cina. “A oggi il virus in Italia non circola – ha rassicurato il viceministro della Salute, Pierpaolo Sileri, parlando a Fanpage.it – In futuro circolerà? Le misure approntare per i ridurre i flussi riducono le probabilità al minimo. Può accadere, ma noi abbiamo preso misure molto più forti degli altri”. Gli fa eco il ministro della Salute, Roberto Speranza: “Aver sospeso i voli in Italia dalla Cina è stata una misura precauzionale giusta. Siamo anche gli unici in Europa in cui in tutti gli aeroporti sono attivi i termoscanner”.

L’avvocato dei Gilet gialli dietro ai video hot

“Non è stata una mia iniziativa”. Juan Branco ripete che non è sua l’idea di rendere pubblici i video hot che hanno precipitato la candidatura di Benjamin Griveaux a sindaco di Parigi, ma in tanti pensano che il ruolo del giovane avvocato vada oltre il semplice “parere legale”. Quando una giornalista di Bfm Tv insinua che potrebbe essere lui il “manipolatore” di tutta la vicenda, Branco annuncia di fare ricorso al Csa, il “gendarme” dell’audiovisivo, per violazione della presunzione di innocenza. A 30 anni, ex consigliere di Julian Assange e avvocato dei Gilet gialli, Branco è il terzo personaggio dello scandalo a sfondo sessuale che ha costretto LaRem, il partito di Macron, a scegliere d’urgenza un nuovo candidato per Parigi, Agnès Buzyn, ex ministra della Sanità. Gli altri due, l’attivista russo Piotr Pavlenski, che ha rivendicato la pubblicazione del video hot di Griveaux, e Alexandra de Taddeo, la studentessa di 29 anni, compagna di Pavlenski ed ex amante di Griveaux, sono stati incriminati ieri per violazione della privacy. La giovane donna, destinataria dei video, nega di aver partecipato alla loro diffusione. Il solo responsabile sarebbe dunque Pavlenski, indagato anche per una rissa scoppiata durante il veglione di Capodanno a cui lui e la compagna erano stati invitati proprio da Branco. Il giovane avvocato, apertamente anti-Macron, nel dicembre 2018 pubblica online un pamphlet, Crépuscule, in cui sostiene che il presidente è “illegittimo” perché eletto grazie ai ricchi. Nel marzo 2019 il testo è edito da Au diable Vauvert e vende più di 75 mila copie, ma è stroncato dalla critica per i contenuti sbagliati o non verificabili. Il 5 gennaio 2019 Branco è tra i Gilet gialli che con un veicolo da cantiere sfondano il portone del ministero dei rapporti con il Parlamento: dentro ci sono Griveaux, all’epoca portavoce del governo, e i suoi collaboratori che vengono evacuati d’urgenza.

Sul suo blog ha più volte preso di mira l’ex candidato che “si crede futuro sindaco di Parigi – scrive – senza aver mai fatto nulla nella vita”. L’avvocato, figlio di un produttore di cinema portoghese e una psicanalista spagnola, cresce nella Parigi bene di Saint-Germain des Près. Frequenta le migliori scuole. Nel 2015 entra nel team di avvocati di Assange, nel 2017 difende Jean-Luc Mélenchon della France Insoumise, nel 2019 diventa il legale del controverso Gilet giallo Fly Rider. Da ieri non è più l’avvocato di Pavlenski. La procura aveva già rifiutato di affidargli la difesa dell’attivista per “rischio di conflitto di interessi”. Un nuovo avvocato lo seguirà, Yassine Bouzou. Così, secondo lui, si vuole solo “attaccare una persona che ha destabilizzato uno dei pilastri della Macronia”.

“Mio figlio Julian è la sfida della stampa al potere Usa”

“Un paio di anni fa ci siamo promessi che quando Julian fosse stato rilasciato saremmo andati a fare insieme il cammino di Santiago. Lui ha deciso di iniziare senza di me e ora in cella cammina su e giù, una tappa per volta”. John Shipton è il padre di Julian Assange. Lo incontriamo alla conferenza stampa organizzata a Londra dalla Foreign Press Association per la stampa internazionale: lunedì, alla Woolwich Crown Court, inizia l’udienza sulla richiesta di estradizione di Assange negli Stati Uniti. Rischia 175 anni di carcere per 18 capi d’imputazione, fra i quali la complicità con Chelsea Manning nella sottrazione illegale e pubblicazione di materiale classificato. Il primo caso di applicazione a un giornalista dell’Espionage Act, legge Usa del 1917, durante la Prima guerra mondiale, per punire chi rivelava segreti militari al nemico. “Julian sarà in aula e con lui tutta la nostra famiglia, gli altri fratelli, i suoi figli. Ha bisogno di tutto il nostro supporto”, dice Shipton. È un uomo di straordinaria mitezza, ma instancabile nel girare il mondo per supportare il figlio, detenuto nel carcere di Belmarsh dallo scorso aprile dopo quasi otto anni di asilo politico nell’ambasciata londinese dell’Ecuador.

Quando ha visto suo figlio l’ultima volta e come sta?

L’ho visitato in carcere la scorsa settimana. Sta come ha scritto nel suo rapporto ufficiale il relatore speciale dell’Onu sulla tortura, Niels Melzer: ha subito per nove anni una costante e crescente tortura psicologica, sotto sorveglianza costante, senza mai poter lasciare l’ambasciata e sottoposto ad attacchi da ogni parte. È molto magro, ha perso 15 chili. Ma da qualche giorno va meglio. I suoi compagni di cella hanno fatto tre raccolte di firme perché uscisse dall’isolamento. La gente comune in Australia ha mandato centinaia di email di sostegno alla direzione del carcere. Voi giornalisti state facendo un fondamentale lavoro di informazione. Tutto questo porta dei risultati: ora finalmente non è più da solo.

Parlate del processo?

No, cerchiamo di non pensarci. Prendiamo ogni giorno come viene, altrimenti rischiamo di deprimerci: l’estradizione equivarrebbe a una condanna a morte… Invecchiando abbiamo sviluppato un certo gusto per le chiacchiere: parliamo delle donne della nostra vita, dei nostri figli, degli amici e poi di cose pratiche.

Cosa si aspetta che succeda lunedì?

Sarà il giorno dell’accusa, quindi ci aspettiamo una giornata dura, piena di menzogne, false accuse e calunnie. Ma ci siamo già passati.

Ha un messaggio per il governo britannico?

Sì, la richiesta di estradizione deve essere immediatamente respinta. Se questo non accadrà andrò a prendere Julian in prigione, perché possa difendersi a casa, sorretto dalla famiglia. Ora voglio che il mondo lo veda per ciò che è davvero: un uomo che, a prezzo di un enorme sacrificio, ha dato un grande contributo alla comprensione del mondo contemporaneo. Ci ha aiutato a prendere decisioni sulla base di informazioni reali su cosa fanno davvero i nostri governi, ha portato allo scoperto crimini tremendi, omicidi di massa, fiumi di sangue. E questo è un dono immenso, poter sapere e chiedere ai nostri governi di cambiare politica e diventare umani.

Per questo lei gira l’Europa a perorare la causa di Julian?

Sì, questo mese sarò in Svizzera, poi in Austria. C’è un crescente supporto in Europa. Questa è una battaglia che non riguarda solo Julian. Gli Stati Uniti hanno centinaia di persone che lavorano a questo caso, milioni di dollari investiti per ottenere la sua estradizione. È la misura dell’intimidazione che gli Stati Uniti possono imporre sui giornalisti di tutto il mondo. Riguarda tutti voi, perché nessuno di voi o dei vostri giornali potrà mai mettere in campo altrettante risorse.

Se dovesse vincere la causa come vede il suo futuro?

Sarebbe bello se ottenesse una docenza. In fondo sa un sacco di cose… Ma io vorrei solo che tornasse a Melbourne, a casa. Abbiamo dei bellissimi alberi di ciliegio. Vorrei solo passeggiare, sedermi sotto gli alberi, parlare.

Iran, riformisti addio Agli ultraconservatori piace vincere facile

Milioni di iraniani sono chiamati oggi alle urne per eleggere i nuovi 290 parlamentari che siederanno nel Majlis. Le aspettative dei conservatori, sostenuti apertamente dall’ayatollah Ali Khamenei, sono quelle di rovesciare il risultato del 2016 – quando un blocco di riformisti, centristi e conservatori moderati spuntò il 41% e i conservatori solo il 23% – riprendere il controllo del Parlamento e del governo, per portare al crollo finale l’accordo sul nucleare con l’Occidente. I candidati riformisti sono stati sistematicamente eliminati dopo un attento esame del Consiglio dei Guardiani, un gruppo di 12 avvocati e leader religiosi nominati indirettamente dal leader supremo Khamenei. Più di 9.000 dei 16.000 candidati in lizza sono stati squalificati – oltre 2.000 appartengono a movimenti riformisti – con le motivazioni più varie, dalle irregolarità finanziarie al non essere abbastanza fedeli all’Islam. Il voto del 21 febbraio in Iran ha un’importanza monumentale per il futuro del regime degli ayatollah.

Le elezioni sono state a lungo utilizzate dalla leadership di Teheran come uno strumento per costringere le élite a una corsa per dimostrare la loro lealtà al regime e creare l’illusione del sostegno pubblico e della legittimità democratica. E questa volta è più disperato che mai nel mostrare ai suoi detrattori in patria e all’estero che rappresenta la volontà del popolo iraniano. Ma la sceneggiatura messa in piedi dai teocrati vicini alla Guida Suprema potrebbe rivelarsi un fallimento. La paura corre sul filo, quella della percentuale dei votanti. La domanda che si rincorre a Teheran è: che faranno i riformisti? Andranno in massa a votare per mantenere la loro presenza di minoranza in Parlamento o sceglieranno il boicottaggio – sostenuto da molti ex candidati moderati – sperando di strappare così al regime la sua legittimità?

L’establishment teme soprattutto la risposta dei giovani, che costituiscono la metà della popolazione iraniana. L’elevata disoccupazione, l’incapacità di creare nuovi posti di lavoro e l’aumento dei prezzi dopo le sanzioni americane, potrebbero convincere molti di loro a rimanere a casa domani. Nel 2016 si votò subito l’accordo con l’Occidente sul nucleare in un clima di speranza e di cambiamento. L’affluenza fu altissima al punto che i seggi restarono aperti per ore oltre l’orario stabilito. Domani si vota tra le severe sanzioni americane – dopo il ritiro di Washington dall’accordo – la rabbia diffusa per le bugie sull’abbattimento dell’aereo ucraino e le grandi proteste del novembre scorso contro l’aumento dei prezzi finite con migliaia di arrestati e centinaia di morti (304 quelli accertati da Amnesty International). La scarsa affluenza dopo domani potrebbe essere percepita come un voto di sfiducia per il regime e sarebbe per i conservatori un segnale inquietante per le elezioni presidenziali dell’anno prossimo. Persino il presidente Hassan Rouhani – che è un conservatore moderato – dopo aver protestato per le esclusioni dei candidati riformisti ha comunque invitato tutti ad andare ai seggi. “Vi prego di non essere passivi”, il suo appello. Per garantire un’affluenza “accettabile” dei circa 60 milioni di elettori, il regime ha lanciato una campagna elettorale intimidatoria: chi non vota è un traditore. Ha spiegato l’ayatollah Khamenei qualche giorno fa: “Tutti coloro per i quali l’Iran e la sua sicurezza sono importanti devono votare, i nostri nemici hanno più paura del sostegno pubblico al governo che delle nostre capacità militari”. Khamenei si rivolgeva “ai giovani, alle nuove generazioni per la costruzione del grande Iran islamico”.

Per un regime oppressivo portare degli elettori riluttanti alle urne per partecipare un’elezione truccata è davvero una grande sfida. Ci sono tecniche ben collaudate di manipolazione delle statistiche per convincere il mondo che la maggioranza degli iraniani ha partecipato al voto. Accanto a queste il regime ha messo in campo un nuovo “trucco” per convincere i disillusi a votare. In lizza sono stati messi i giovani sostenitori meno noti del regime invece dei vecchi politici affermati che hanno perso credibilità. Il Consiglio dei sostenitori della rivoluzione, il gruppo ombrello per i fautori della linea dura, ha invitato i suoi giovani sostenitori a candidarsi (e nessuno di loro è stato epurato dai Guardiani). Il potente generale Mohammed Qalibaf – ex comandante dei Guardiani della Rivoluzione – che è un candidato di peso a Teheran ha portato con sé 60 giovani “duri e puri”, pronti per l’elezione. Un Parlamento giovane e fedele al regime, questa la visione di Khamenei che desidera perché la “rivoluzione” sopravviva alle sue ottanta primavere. Il prossimo passo sarà l’anno prossimo il voto presidenziale. Per quella data sarà necessario trovare un candidato della linea dura, simile a Mahmoud Ahmadinejad, ma ancora più leale e obbediente.

La grande gelata dei prestiti, così le banche non aiutano la crescita

Di nuovo una gelata nei prestiti alle imprese. Gli ultimi dati dicono che a fine dicembre 2019 il credito da parte del sistema bancario italiano all’universo delle imprese si è di nuovo ristretto scendendo dell’1,9%, la maggior contrazione dal 2015, contro il -2% del mese precedente. E così dopo la doppia recessione negli anni post 2008, pare arrivare un altro momento di forte stagnazione per economia e imprese. Secondo l’Abi, la Confindustria delle banche, la minor domanda di credito rifletterebbe un nuovo calo degli investimenti. Imprese che tirano la cinghia sul futuro, spaventati dalle incertezze. Forse. La solita questione che si pone quando il credito si restringe è se sia colpa della domanda da parte delle imprese o dell’offerta, cioè dell’atteggiamento delle banche che tendono a razionare il più possibile i fidi proprio laddove c’è più rischio, quindi verso le imprese più che verso le famiglie. Il dato di contrazione sulle imprese è compensato da un nuovo aumento del credito alle famiglie salito di un +2,6% sui 12 mesi (dal 2,3 in novembre), tirato in particolare dai mutui e dalle surroghe. Insomma è il cavallo che non beve (leggi minore domanda di credito per minore tasso d’investimento) oppure è l’acqua che scorre meno?

È probabilmente un effetto congiunto e mai come ora il denaro è davvero così poco caro. I tassi fissi sui mutui sono intorno all’1% e il credito alle imprese sconta durate e rating, ma in media tassi del 2-3% a lungo sono a portata di mano delle aziende. Eppure domanda in calo a leggere le ultime statistiche. Secondo i dati dell’Abi a fine del 2019 lo stock dei prestiti al settore privato si sarebbe attestato a 1.416 miliardi, mentre quello a famiglie e imprese a 1.274 miliardi. Solo negli ultimi due anni la massa di impieghi a imprese e famiglie si sarebbe ridotta di 70 miliardi. Le statistiche di Banca d’Italia dicono che a novembre del 2019 il cumulo dei crediti alle imprese si colloca a 642 miliardi. E solo nell’ultimo anno il taglio è stato di 36 miliardi. Ma i prestiti solo alle imprese sono scesi dai 775 miliardi del 2016 ai 642 attuali con un decremento di oltre 130 miliardi, mentre nel decennio della crisi i prestiti all’economia produttiva sono scesi da uno stock di 848 miliardi del 2009 ai 642 attuali. Certo le banche hanno dato vita a operazioni di cessione dei crediti malati che sono usciti dai bilanci. Ma anche al netto delle sofferenze cedute la caduta dei prestiti è impressionante. Del resto al contrario sono saliti i prestiti alle famiglie. Nel 2009 erano 486 miliardi oggi sono saliti a 620.

Quindi il credito è stato tagliato proprio laddove il rischio di non rientro era maggiore. Ed è proprio il tema delle sofferenze esplose nei primi anni della crisi finanziaria ad aver indotto le banche a selezionare con maggior accuratezza la solvibilità dei debitori. Anche perché nel frattempo le banche hanno dovuto più o meno tutte rimpolpare il capitale a causa delle perdite da svalutazione delle sofferenze. E se chiedi, con difficoltà, ai tuoi azionisti di darti nuovo capitale poi finisce che tendi a preservarlo. Il circolo vizioso è proprio questo: spaventate dalla mole di crediti inesigibili, arrivati a toccare quota 300 miliardi, le banche hanno tirato il freno sui nuovi prestiti per imbarcare meno rischio possibile. Ma usare il finanziamento a buon mercato della Bce o i 1.500 miliardi di depositi della clientela, remunerati ormai a zero, per comprare titoli di Stato anziché fare nuovo credito, ha pesato e non poco sui bilanci delle banche.

Si è difeso il capitale a scapito della redditività: minori volumi di credito, quei 200 miliardi in meno solo alle imprese, hanno depresso la principale voce di ricavo che è il margine d’interesse nel prestare denaro. Tutte o quasi le banche hanno visto ridursi il margine d’interesse fortemente. Secondo uno studio di Kpmg su un campione di 18 banche (il 67% dell’intero attivo bancario italiano), i ricavi da interessi sono scesi da 45 miliardi di euro del 2009 ai 30 del 2018. Le banche hanno in parte compensato con la grande corsa ai ricavi da commissioni e servizi: fondi, gestioni, polizze assicurative. Le banche hanno aggredito il mercato del risparmio. Piatto ricco e con in più il fatto che vendere prodotti finanziari non mette a rischio il capitale. Una virata collettiva che ha cambiato il mestiere della banca commerciale: meno credito e più finanza. E soprattutto meno rischio.

A loro difesa i banchieri recitano il mantra che con i tassi bassi quasi a zero non si guadagna più a fare credito. Ma questa è una mezza verità. Il margine unitario sui prestiti si è compresso, ma non al punto di non far più rendere il prestare denaro. Oggi, dati Abi, lo spread medio sui prestiti (la differenza tra quando costa il denaro e a quanto lo si presta) è intorno all’1,9%. Non è zero. Vuol dire che su ogni 100 euro di prestiti, la banca ne incassa quasi 2. Certo è che se i volumi di credito solo sulle imprese crollano di 200 miliardi nel decennio, allora i minori guadagni non derivano dal fatto che il credito non è più remunerativo, ma che lo si fa sempre meno. Un circolo vizioso che frena l’economia e togli ricavi all’industria bancaria.