I sindacati presi di sorpresa: arrabbiati per i 5 mila esuberi

Trecentoquaranta milioni di risparmi arriveranno dal taglio di oltre 5mila dipendenti. Si tratta del 5% dei costi per il personale del nuovo gruppo che dovrebbe nascere dalle nozze fra Intesa-Ubi. La prospettiva è una doccia fredda per i sindacati che nei giorni scorsi si erano già scontrati con Unicredit nelle trattative sui 6mila esuberi annunciati in Italia dalla banca guidata da Jean Pierre Mustier. “L’offerta di Intesa Sanpaolo su Ubi ci ha colto di sorpresa, anche perché segue la presentazione del nuovo piano industriale del gruppo Ubi che andava nella direzione di una crescita stand alone della banca” hanno precisato Fabi, First Cisl, Fisac Cgil, Uilca e Unisin. Forse anche per questo i sindacati hanno reagito alla notizia delle nozze con inusuale veemenza: “Le nostre organizzazioni vigileranno attentamente su tutte le dinamiche occupazionali, organizzative e gestionali che riguarderanno le lavoratrici e i lavoratori. Valuteremo esclusivamente i fatti”, ha spiegato un comunicato congiunto.

Dal canto suo, Intesa ha evidenziato che la sforbiciata al personale della futura banca riguarderà “uscite esclusivamente volontarie di circa 5.000 persone (incluse 1.000 richieste dell’accordo di Intesa Sanpaolo del 29 maggio 2019 e 300 persone dell’intesa di Ubi Banca del 14 gennaio 2020, ndr) e l’assunzione di 2.500 giovani, nel rapporto di un’assunzione ogni due uscite volontarie”. Il numero di nuovi ingressi in azienda è in linea con quanto chiesto nei giorni scorsi dalla Fabi, ma per i sindacati resta una magra consolazione in un settore che ha perso oltre 64mila posti di lavoro negli ultimi dieci anni. Anche perché lo scenario complessivo è quanto mai preoccupante. Secondo fonti sindacali, i piani annunciati dai principali gruppi bancari prevedono già nei prossimi anni una riduzione netta di poco superiore alle 12mila unità. Oltre alle uscite programmate da Unicredit e Intesa, si prospettano altri 2.000 esuberi in Monte dei Paschi, 1.066 in Bper e 1.230 in Bnl.

Unipol in aiuto di Piazzetta Cuccia. A Bper le briciole (e pure costose)

“Bper Banca non sta comprando filiali, ma clienti, e questo è il punto cruciale dell’accordo”. L’amministratore delegato della Popolare dell’emilia romagna, Alessandro Vandelli ha messo subito le mani avanti. Sa bene che il suo accordo con Intesa SanPaolo per rilevare fino a 500 sportelli di Ubi per un miliardo (circa il 40% dell’intera capitalizzazione dell’istituto) va controcorrente rispetto alla rotta dei gruppi bancari di tutto il mondo, che stanno da tempo chiudendo uno sportello dopo l’altro. “Anche Bper sta chiudendo filiali: nel nostro progetto abbiamo pianificato di chiuderne 230”, si è giustificato il manager mentre in scia all’assalto di Intesa a Ubi, il titolo della Popolare precipitava in Borsa. “Parliamo di 1,2 milioni di nuovi clienti che era impossibile raggiungere in un altro modo e agli stessi costi. Così non dobbiamo comprare una banca o una compagnia, ed è il miglior modo di ottenere crescita”.

Sarà anche vero, ammesso che i clienti non decidano di migrare altrove, ma Vandelli dovrà spiegare le ragioni della costosa operazione agli investitori perplessi (ieri il titolo ha chiuso a -10%), tanto più che quel miliardo di euro verrà speso per comprare una rete di filiali che Intesa invece paga ai soci Ubi in azioni e che molto probabilmente nel tempo verrà poi ridimensionata.

Il tutto mentre Bper deve ancora digerire l’acquisizione di Unipol Banca, fatta nel 2019, sgravando la compagnia assicurativa bolognese di una vera e propria spina nel fianco. E chissà se comprare gli sportelli di Ubi era esattamente l’operazione che Vandelli aveva in mente solo una manciata di giorni fa: presentando i risultati del gruppo, il numero uno della banca aveva lasciato intendere che ormai erano maturi i tempi per un nuovo risiko bancario per il quale “Bper si farà trovare pronta”. Parole che hanno generato indiscrezioni e ipotesi di lavoro come quella prospettata dagli analisti della banca francese Kepler Cheuvreux, pronti a scommettere sulle nozze con Ubi, la quale a sua volta è stata a lungo promessa sposa del Banco Bpm, mentre tutti e tre gli istituti, quattro contando anche Unipol Banca, sono stati associati ora a Mps ora a Carige. Tutti istituti che certo non brillano.

I salvataggi in extremis e le nozze alla pari non sono mai facili. E così, con la complicità del rodato legame tra il numero uno di Unipol, Carlo Cimbri e l’amico Alberto Nagel di Mediobanca – Bper ha dovuto ridimensionare le sue ambizioni, finendo per fare da spalla a un’operazione più grande di lei che trova il suo architetto in Piazzetta Cuccia alla sua prima assoluta al fianco di Intesa Sanpaolo. La finanziaria delle coop dovrà fare la sua parte nella ricapitalizzazione da quasi un miliardo della Popolare emiliana di cui è il primo socio con quasi il 20 per cento. D’altro canto se le nozze tra Intesa e Ubi andranno in porto, il secondo boccone più prelibato sarà tutto per Unipol che rileverà, a pagamento, le attività assicurative del gruppo popolare lombardo.

Questa volta, insomma, Mediobanca, che al tavolo è anche garante della ricapitalizzazione di Bper, ha fatto i conti alla perfezione. Poco conta il prevedibile sacrificio della popolare emiliana, che in scia alla notizia è crollata in Borsa perdendo quasi l’11 per cento. Chi ha invece moderatamente festeggiato a Piazza Affari (+1,4%) è stato il socio Unipol. Bene anche Mediobanca che porterà a casa laute commissioni dopo che, in una sorta di grande compromesso storico, a vent’anni dalla morte di Enrico Cuccia è riuscita a trovarsi nella posizione di tirare le fila della finanza cattolica e a chiudere il cerchio grazie alla pronta risposta di Bologna, delle coop e delle popolari. Un po’ come se avesse messo a tavola Peppone e don Camillo.

Messina vara l’operazione di sistema per salvare Ubi

Come molti prevedevano, con il 2020 il risiko bancario italiano riparte ad altissimo livello. Ma lo fa in un modo che nessuno si aspettava: Intesa Sanpaolo, primo istituto di credito del Paese, nella notte di lunedì ha lanciato un’offerta pubblica di scambio totalitaria su Ubi Banca, terzo operatore nazionale. L’istituto guidato dall’ad Victor Massiah, caro al presidente emerito di Intesa Sanpaolo Giovanni Bazoli, sino a poche ore prima si proponeva come banca aggregante aprendo a possibili integrazioni: invece è finito preda. Lo schiaffo è tanto inatteso da risultare bruciante perché proprio lunedì scorso Massiah aveva presentato anche a Londra un piano industriale “stand alone”, basato cioè sull’ipotesi che la sua banca restasse indipendente. Nessuno, almeno ufficialmente, aveva avvisato né lui né Bazoli della mossa. Entrambi sono sotto processo per le vicende della governance di Ubi che hanno portato alla rottura tra le grandi famiglie dei soci bergamaschi e di quelli bresciani, con la sconfitta di questi ultimi radunati intorno a Bazoli e la realizzazione di un nuovo patto di sindacato a maggioranza bergamasca e cuneese. L’87enne banchiere bresciano si è limitato a dichiarare “non intendo commentare se non per precisare che io ho conosciuto la decisione di Intesa Sanpaolo ieri sera, al momento della comunicazione ai mercati, perché i responsabili della banca hanno ritenuto, credo correttamente, data la mia posizione e la mia storia, di non coinvolgermi in alcun modo nella decisione”. La mossa di Carlo Messina, ceo di Intesa, pare quindi la pietra tombale sull’era bazoliana. Ma non mancano anche altre chiavi di lettura, a partire da quelle sullo stato di salute reale di Ubi e sulla natura difensiva dell’integrazione.

La proposta di Intesa – studiata con l’advisor Mediobanca, uniti in un’inedita alleanza che ridisegna il capitalismo finanziario italiano – è carta contro carta: la banca milanese offrirà 17 azioni del nuovo gruppo ogni 10 azioni di Ubi. Ai valori di Borsa di lunedì, l’istituto di Massiah viene così valutato 4,9 miliardi, con un premio del 28% sui corsi del 14 febbraio. Ma Intesa non si è mossa da sola, per evitare alcune delle criticità più rilevanti relative alle soglie antitrust sul fronte del credito retail e della bancassicurazione. Ha così coinvolto il gruppo Unipol-Bper: l’ex Popolare dell’Emilia Romagna acquisirà, in caso di esito positivo dell’operazione, 400/500 filiali di Ubi nel Nord Italia pagandole circa un miliardo di euro, esborso che finanzierà con un aumento di capitale di pari importo. Sempre in caso di successo dell’operazione il gruppo assicurativo Unipol acquisirà la quota Ubi nelle compagnie Bancassurance Popolari, Lombarda Vita e Aviva Vita. Intesa punta almeno al 50% più una azione Ubi per delistarla dalla Borsa e fonderla. Il marchio sparirà perché, secondo la banca guidata da Messina, la revoca dalla quotazione favorirà “gli obiettivi di integrazione, di creazione di sinergie e di crescita del gruppo”. Le sinergie a regime sono stimate in circa 730 milioni lordi l’anno, i costi di integrazione una tantum in 1,27 miliardi. In caso di successo dell’operazione nascerebbe il settimo gruppo bancario europeo per attivi, con l’obiettivo di realizzare utili consolidati per oltre 6 miliardi nel 2022. L’ad di Intesa, Carlo Messina, ha definito “equo” il valore proposto agli azionisti di Ubi e ha ribadito che non ha alcuna intenzione di cambiarlo.

Messina ha definito la proposta “non amichevole in un senso tecnico, del resto non avremmo potuto fare diversamente” e ha dispensato elogi a Massiah e al presidente di Ubi Letizia Brichetto Moratti, dicendo che se il piano andrà a termine ci saranno “per tutti opportunità significative di essere leader nel nostro gruppo” e invitando gli azionisti Ubi a contribuire “a creare un campione italiano che rimarrà per sempre con una forte base italiana”. Quanto agli azionisti di Intesa, per Messina “la loro diluizione sarà minima, pari al 10%”.

Di certo l’operazione dovrà tenere conto anche di altri costi. Secondo i dati di bilancio al 31 dicembre scorso Ubi, a fronte di crediti deteriorati verso clientela pari a 6,8 miliardi lordi su 87,7 miliardi totali, ha un tasso di copertura esclusi i write off del 39%: il dato è sensibilmente inferiore alla media nazionale. Per portarsi al livello degli altri istituti, servirebbero ulteriori accantonamenti per 600-800 milioni. A conti fatti, è Intesa a mettere al sicuro Ubi con un’operazione di sistema, il cui senso industriale non a caso sfugge agli addetti ai lavori. Intesa si concentra ulteriormente in un Paese che non cresce e che potrebbe presto affrontare la terza recessione in 12 anni, con eccesso di offerta bancaria (overbanking) specie sul fronte retail. Le sinergie attese potrebbero scattare solo attraverso un deciso intervento sugli organici, prevedendo forti uscite grazie a scivoli previdenziali e a “quota 100”, ma si tratta di strumenti costosi con un ambito di applicazione limitato visto che sia Intesa che Ubi vi hanno già fatto forte ricorso.

Ma l’offerta, dalla Bce (con Bankitalia quasi spettatrice) e che nelle prossime ore sarà valutata dal cda di Ubi, ha anche una lettura in chiave difensiva nell’ambito della complicata partita del Tesoro per uscire dal Montepaschi: nei mesi scorsi alcuni analisti vedevano una sua integrazione con Ubi, che però ora non è più sul tavolo. Anche Intesa così si chiama fuori, mentre Unicredit guarda all’estero e Bper dovrà digerire l’aumento di capitale. Resta Banco Bpm, che qualcuno voleva “promesso sposo” della stessa Ubi. Le malconce banche italiane ora sono ancora più sole.

L’operazione dovrà passare al vaglio dell’Antitrust. Per evitare criticità Ubi dovrà cedere sia parte delle filiali che le attività di bancassurance. Proprio la cessione a Bper di 400-500 sportelli a prezzi vicini ai 2 milioni l’uno sembra fuori mercato, in una fase in cui le banche le filiali le chiudono. E infatti ieri i titoli Ubi sono decollati del 23,55%, mentre quelli di Bper sono invece tracollati del 10,83%. Intesa ha chiuso in rialzo del 2,36% e Unipol dell’1,4%.

Non potete confermare Descalzi all’Eni

Non ci provate nemmeno, cari Giuseppe Conte, Roberto Gualtieri e Sergio Mattarella, certe cose non si fanno in silenzio, come fosse tutto ovvio e lineare: se volete riconfermare Claudio Descalzi dovete spiegare agli italiani perché volete alla guida della più strategica azienda italiana un manager imputato per corruzione internazionale, beneficiario (per il momento a sua insaputa…) di depistaggi giudiziari che non si vedevano dai tempi della strategia della tensione, la cui moglie ha ricevuto appalti per centinaia di milioni di dollari dall’Eni (all’insaputa del marito, ovviamente, che all’epoca era “solo” il numero due dell’azienda).

Descalzi non è condannato, ma chi legge il Fatto e pochi altri giornali non influenzati dai budget pubblicitari di Eni, sa che ci sono mille ragioni per non confermarlo. E dichiarazioni anonime come quelle nei retroscena pubblicati dalla Reuters sono un atto di codardia e un’offesa all’intelligenza degli italiani: esponenti senza nome del Pd e dei 5Stelle parlano di una possibile riconferma di Descalzi per guidare la “svolta green” (en passant: l’Eni di Descalzi ha preso una multa record dall’Antitrust per pubblicità ingannevole su carburanti green) o per gestire l’instabilità in Libia: un manager che, nel migliore dei casi, non ha saputo evitare che 1,3 miliardi di dollari finissero nelle tasche di politici nigeriani invece che ai cittadini della Nigeria forse non è la persona giusta su cui impostare la politica energetica della Libia post-caos.

Cari Conte, Gualtieri e Mattarella, se volete Descalzi all’Eni, fate pure, decidete voi. Ma poi, per coerenza, evitate per tutto il triennio del suo prossimo mandato ogni pensierino sulla corruzione, sugli aiuti allo sviluppo alle sfortunate popolazioni africane, sulla meritocrazia, sugli eroi civili che si oppongono a piccoli abusi, su onestà e legalità. Avete la responsabilità di una scelta importante. E avete il dovere di spiegarla: le vicende giudiziarie di questi anni – le più gravi nella storia dell’Eni – non possono rimanere sullo sfondo.

L’affare Blackstone azzoppa Cairo: cercasi compratore per Rcs

C’è un nome che può sembrare sorprendente tra quelli che non festeggiano l’ultima operazione dell’altrettanto ultima banca di sistema italiana, cioè la presa di Ubi da parte di Intesa Sanpaolo: è Urbano Cairo, editore di La7 e Rcs. La cosa, però, non è così sorprendente: intanto Intesa, aggiungendo l’istituto guidato da Victor Massiah, diventa una sorta di creditore unico dell’azienda che edita, tra gli altri, Il Corriere della Sera; e poi i rapporti tra il banchiere Carlo Messina e l’imprenditore venuto dal mondo berlusconiano sono ai minimi storici e anche più in basso.

Un bel problema che sfiora il paradosso se si pensa che fu proprio Intesa nel 2016 a consentire al buon Urbano di scalare la Rizzoli. Il passato, però, è passato e qui il problema è il futuro: resterà a lungo l’outsider Cairo alla guida della casa editrice del più antico giornale italiano? In molti a Milano scommettono di no, anche se la ricerca di un “sostituto” non è così facile. Per capire questa nuova guerricciola nello stagno del capitalismo italiano, però, bisogna tornare un po’ indietro.

Era la fine del 2013 quando, soffocato dai debiti, il consiglio d’amministrazione di Rcs approvò la vendita della storica sede milanese di via Solferino al fondo americano Blackstone per 120 milioni di euro, meno della metà della prima valutazione di 250 milioni risalente al 2010: contrari, nel cda dell’epoca, furono solo l’ex presidente Piergaetano Marchetti e Attilio Guarnieri a nome degli eredi Rotelli (contrario, però, era anche l’allora piccolo azionista Urbano Cairo). Contestualmente, Rcs stipulò coi nuovi proprietari un contratto d’affitto per la sede da 10,3 milioni l’anno: un tasso (fuori mercato) dell’8,5% sul prezzo di vendita. L’advisor dell’operazione – in evidente conflitto di interessi – fu la Banca Imi (gruppo Intesa) guidata da Gaetano Miccichè, lo stesso banchiere che tre anni dopo condurrà Cairo in carrozza in via Solferino.

La bomba che sta per esplodere a Milano viene innescata nel 2018. Si sparse infatti voce che Blackstone stesse per vendere il palazzo di via Solferino alla tedesca Allianz per 250 milioni: oltre il doppio di quanto pagato cinque anni prima (al netto degli affitti) e la stessa cifra della perizia del 2010. Cairo non la prende bene e fa una mossa che potrebbe costargli cara: a novembre 2018 presenta domanda di arbitrato a Milano e chiede l’annullamento della vendita, la restituzione dell’immobile e degli affitti più i danni. L’ipotesi dei legali di Rcs (Sergio Erede e Francesco Mucciarelli), che arrivano a ipotizzare il reato di usura, è che il palazzo sia stato venduto sottocosto per le pressioni ricevute dai creditori.

La reazione del fondo Blackstone è l’accusa di estorsione alla società italiana e la richiesta di danni per l’affare sfumato con Allianz: 300 milioni di dollari a Rcs e 300 milioni a Cairo in persona, che recentemente – cosa che ha fatto imbestialire i soci di minoranza (Tronchetti Provera, Della Valle, eccetera) e preoccupare tutti gli altri – ha chiesto e ottenuto da Rcs la totale manleva sull’eventuale sconfitta. Non bastasse, c’è il fastidio quasi fisico che ormai Carlo Messina prova per Cairo: l’ad di Intesa non era tra i suoi sostenitori nella scalata del 2016 (fu Giovanni Bazoli – a cui l’aveva sottoposto Miccichè – a spostare l’istituto sul patron di La7), ma ora quello ha sostanzialmente accusato Intesa, nella duplice veste di creditore e advisor, di aver contribuito a incravattare Rcs. Roba difficile da mandare giù.

Il redde rationem potrebbe arrivare proprio con la sentenza sulla sede del giornale. Le ultime memorie difensive sono state consegnate a metà gennaio e, da quel momento, il collegio arbitrale ha tra 15 e 90 giorni per decidere. I rumors dicono due cose: che la sentenza arriverà a marzo e che la posizione di Cairo non è solidissima, neanche se – com’è possibile – gli arbitri dovessero dichiararsi incompetenti (nel caso ripartirebbe la causa, per ora sospesa, presentata da Blackstone a New York). I seicento milioni di dollari chiesti dal colosso Usa sono più dell’intera capitalizzazione di Borsa di Rcs, ma qualunque condanna al risarcimento danni – a meno che non sia quasi simbolica – rischia di mettere in difficoltà Cairo e la società: come spiega l’ultima trimestrale, presentata a novembre, Rcs ha infatti “ritenuto che non sussistano i presupposti per l’iscrizione di fondi rischi”.

E qui veniamo a Rcs. Come se la passa? Da qualche anno, grazie a un ossessivo taglio dei costi, produce utili – nel 2019, ancorché in calo sull’anno, dovrebbero attestarsi sui 50 milioni abbondanti – ma il fatturato continua a ridursi e l’esposizione finanziaria totale è ancora di 367 milioni: anche per incrementare la redditività dell’azienda Cairo ha anticipato che intende, grazie ai soldi pubblici, prepensionare una cinquantina di giornalisti del Corsera, il 15% del corpo redazionale. Anche se ce la facesse non può, però, gestire la società senza o contro Intesa: per questo il chilometro scarso che separa la banca di Ca’ de Sass da via Solferino è denso di gente delle due opposte fazioni che cerca un Piano B: un acquirente per Rcs. Mica facile trovare qualcuno che voglia farlo e, soprattutto, pagando: compito degno dell’ultima banca di sistema…

“La spazzacorrotti avrebbe salvato Mani Pulite”

Se nel 1992 ci fosse stata la legge Spazzacorrotti, per Mani Pulite sarebbe filato tutto più liscio. È Antonio Di Pietro, il simbolo di quella stagione anticorruzione che si portò via la Prima Repubblica, a dare un riconoscimento alla legge del ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede. Di Pietro parla a un convegno organizzato in Senato dal M5S per rivendicare di quella legge approvata poco più di un anno fa. “Se avessimo avuto gli strumenti della Spazzacorrotti non sarebbe stato necessario mettere tanta gente in galera, noi pm non saremmo finiti processati e io probabilmente sarei ancora un magistrato”.

Di Pietro ha spiegato che oggi è previsto il Daspo per i corrotti, ma allora non c’era e quindi “per evitare la reiterazione del reato, dicevo al corrotto ‘stai un po’ a pane e acqua’”. Sempre nell’ottica del confronto ieri-oggi, sottolinea l’importanza dell’introduzione dell’agente infiltrato anti corruzione: “Non avendo gli strumenti di legge, dovevamo arrangiarci con interpretazioni, pertanto sono finito sotto processo perché consegnai una banconata firmata all’imprenditore che era venuto da noi, per darla a Mario Chiesa, che arrestammo”.

E ancora: oggi è prevista la non punibilità per il corrotto che collabora spontaneamente entro 6 mesi dal fatto, “allora dovevamo convincere o il corrotto o il corruttore a confessare”. L’ex pm di Mani Pulite, sembra quasi avere nostalgia della toga: “Se non mi fossi dimesso dalla magistratura entro uno o due mesi al massimo, sarei stato perfino arrestato per accuse gravissime poi finite in nulla. Allora non avevamo gli strumenti di legge necessari, oggi ci sono”. Rende anche omaggio a due procuratori. Al “suo”, Francesco Saverio Borrelli, scomparso da poco: “Ci difendeva dagli attacchi, dalle pressioni, si metteva davanti a noi fisicamente” e all’ex procuratore di Palermo Gian Carlo Caselli, ieri tra i relatori: “A rompere il cerchio del sistema corruttivo (e della mafia, ndr) non è Milano, è Palermo”.

Proprio Caselli, per far capire l’importanza della Spazzacorrotti ricorda quanto detto da Papa Francesco: “La corruzione è il reato più grave dopo la tratta degli esseri umani”. Caselli si rende conto che evocare il Papa presta il fianco a polemiche e chiarisce: “Le citazioni del Papa non contraddicono le linee guida della politica che fa capo al ministro Bonafede, che si è espressa con la legge spazzacorrotti e con la riforma della prescrizione. La mia frase può sembrare blasfema ma è una provocazione”.

Prima delle conclusioni affidate al ministro Bonafede, hanno parlato la sindaca di Roma Virginia Raggi, che rivendica il cambio di passo della gestione della cosa pubblica nella Capitale e la vicepresidente del Senato Paola Taverna che, non sfugge agli osservatori delle fibrillazioni interne a M5S, abbraccia Bonafede e lo chiama “amico”. Il Guardasigilli promette fermezza: “Non abbassiamo la guardia contro la corruzione. Porteremo avanti questa battaglia senza tentennamenti. Non è semplice. Nei momenti di tensione politica, il fatto di aver parlato con Marco Piagentini (presidente dell’associazione

vittime di Viareggio presente ieri, ndr) e avergli promesso qualcosa, ti dà forza e ti aiuta a tenere il punto, perché il cambiamento non era più derogabile”, anche sulla prescrizione. Ai giornalisti che gli chiedono di rispondere a Matteo Renzi che lo vorrebbe sfiduciare, risponde: “Non è una gara tra me e un’altra persona. Nonostante gli attacchi, non ho mai risposto sul piano personale”. E va via, per una riunione d’emergenza. Italia Viva si è messa di nuovo di traverso. Stavolta nel mirino c’è il decreto Intercettazioni.

Avvocati vs Davigo. Ma il vero obiettivo è sempre “Il Fatto”

Il Fatto, evocato senza farne il nome durante il convegno organizzato dal Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Napoli per un confronto tra la classe forense e il consigliere del Csm Piercamillo Davigo sui tempi del processo e la riforma Bonafede, sarebbe il punto di riferimento della “pessima stampa che ruota intorno a un quotidiano che, ahimé, conosciamo bene”, che avrebbe alimentato “il messaggio populistico da trasmettere, nascosto dietro questa innovazione (il blocco della prescrizione dopo la sentenza di primo grado, ndr) che ha deflagrato il sistema”. Lo ha detto il professore Vincenzo Maiello, docente di diritto penale alla Federico II, rinomato giurista e avvocato di indagati e imputati di importanti procedimenti di camorra e politica.

E come si è certi che il professore Maiello parlasse di noi? Dal passaggio successivo dell’intervento: “È il quotidiano che qualche giorno fa ha apostrofato la Consulta e la sua sentenza di incostituzionalità di una parte della Spazzacorrotti (la retroattività dell’impossibilità di accedere a misure alternative al carcere per certi reati, ndr) in una maniera che non è consona al confronto civile”.

Si riferiva ad aperture di prima pagina ed editoriali del direttore Marco Travaglio che hanno definito questa pronuncia “la nuova salvaladri, in sintonia con questo clima di restaurazione da Congresso di Vienna all’amatriciana”. E più in generale, come ci ha confermato Maiello a margine, alle nostre campagna stampa.

Critiche aspre. Contenute nel perimetro dei toni pacati e di buon livello giuridico mostrati nel corso di un dibattito svolto al palazzo di Castelcapuano e moderato dal direttore del Tg2, Genny Sangiuliano. Nel quale, Davigo ha interpretato il ruolo dell’eroe solitario calato nella fossa dei leoni degli avvocati di Napoli, quelli, per intenderci, delle manette ai polsi durante l’inaugurazione dell’anno giudiziario. Protesta provocatoria contro il blocco della prescrizione e contro la sua intervista al Fatto in cui proponeva di rendere responsabili in solido con i loro imputati gli avvocati autori di ricorsi temerari. Davigo poteva uscirne sbranato, è rimasto indenne e ha azzannato a sua volta, tra pochi fischi fisiologici e apprezzamenti per il coraggio.

Prima di intervenire, il consigliere del Csm ha ascoltato l’avvocato Alfredo Sorge sgranare alcuni dati: “La causa principale della prescrizione è l’eccessiva durata delle indagini, non del processo. Nel 42,7% dei casi – riferiti al 2018 – è dichiarata dal Gip, quando avvocati non toccano palla. Bisogna sfatare il mito che l’avvocatura è responsabile dei rallentamenti del processo: solo il 3,8% dei rinvii dipende dall’imputato”.

Da qui la replica di Davigo, anche ad alcuni interventi di avvocati sulla prescrizione come baluardo di civiltà giuridica e di tutela del principio costituzionale della ragionevole durata del processo. “Questo sistema di prescrizione ce l’hanno solo l’Italia e la Grecia, possibile che tutti gli altri siano incivili? In Italia la prescrizione non decorre dal momento in cui il fatto viene scoperto, ma da quello in cui viene commesso. Ci sono interi settori di reati, i finanziari ad esempio, che vengono accertati dopo cinque o sei anni e quindi sono già destinati alla prescrizione. Un pm ragionevole intasa i tribunali per farli dichiarare prescritti o li lascia prescrivere prima?”.

E sulla presunta incostituzionalità della riforma dice: “Il blocco prescrizione non è in sè incostituzionale, è la irragionevole durata del processo che la viola. Perché agli avvocati del processo civile, dove la prescrizione non esiste, non è mai venuta in mente questa incostituzionalità?”. Sul punto esprime una posizione in controtendenza: “È il magistrato lavativo che ama la prescrizione: aspetta che il tempo gli pulisca il tavolo”.

Beati i poveri di spirito ovvero il merito e i test Invalsi

Il merito, si sa, è un concetto tanto vago quanto caro alle menti deboli. È facile capirne il motivo: sembra dare al mondo una veste razionale e, per chi raccoglie briciole sotto la tavola sognando la torta, una giustificazione allo status quo. Parlarne, insomma, è spesso segno di povertà di spirito. In questi giorni, come forse avrete capito, se ne riparla assai. Il motivo è il modo un po’ frettoloso, diciamo, con cui è stato presentato un emendamento al dl Milleproroghe sui test Invalsi: in sostanza i risultati delle prove non faranno parte del mitico “curriculum dello studente” introdotto dalla Buona Scuola (e ancora mai entrato in vigore) e per la buona ragione, va ricordato, che quei test nascono come supporto statistico per mondo della scuola e decisori pubblici (e infatti la prova è, o dovrebbe essere, anonima). Ora, sul tema si possono avere molte opinioni fino a questa che abbiamo letto sul CorSera: “Mentre il governo occulta i test Invalsi, un numero crescente di giovani se ne va all’estero. C’è un nesso tra i due fatti. I ragazzi che partono non hanno paura della competizione e preferiscono vivere in sistemi sociali in cui il confronto serve a capire quali sono le scelte migliori per il futuro”. Cioè quelli competitivi, bramosi di valutazioni oggettive, in astinenza da meritocrazia, se ne vanno all’estero fremendo e chiedono a gran voce fin dalla frontiera che qualcuno glielo misuri, il merito. Dev’essere rassicurante un modo con nessi causali così scarni, ma non diceva forse uno “beati i poveri di spirito perché loro è il regno dei cieli”? Beati loro, davvero.

I lavoratori sono sempre più poveri e perdono migliaia di euro l’anno

Per comporre la galassia dei lavoratori poveri – e in Italia, Paese senza salario minimo, non è un ossimoro – bisogna iniziare da loro: i 2,8 milioni di part time che vorrebbero un impiego a tempo pieno. Tanti, dopo la crisi del 2008, hanno trovato un posto che tiene impegnati solo qualche ora alla settimana, complice la crescita della gig economy con i suoi lavoretti “a chiamata”. Soprattutto nei settori che già prevedono salari orari bassi, questo sta contribuendo a spingere il 12,2% degli occupati nel rischio indigenza, come ha confermato pochi giorni fa l’Eurostat. Solo la Romania, il Lussemburgo e la Spagna hanno una percentuale più alta della nostra che è in costante crescita. Tra il 2007 e il 2018, dice una ricerca di Tecnè, in Italia gli addetti a tempo parziale sono cresciuti del 38%, mentre i full time sono calati del 4%. Rispetto a prima, nell’industria e nelle costruzioni si lavora 2,6 miliardi di ore in meno, e l’aumento che si è visto nei servizi ha permesso di recuperarne solo 500 milioni. Un proliferare di contrattini brevi che fanno salire il rischio povertà per i part time al 15,7% e per i precari al 16,2%, dicono le statistiche europee. Anche quelli che sembrano più tutelati, tuttavia, non sono del tutto immuni: il rischio tocca il 7,8% dei full time e il 6,1% di chi ha un contratto stabile. In Italia, infatti, le tasche dei lavoratori ad oggi restano più leggere rispetto al periodo che ha preceduto la recessione. Lo conferma l’indagine Tecnè; le famiglie in cui chi guadagna di più è un dipendente hanno perso 4.180 euro l’anno; quelle guidate da un lavoratore autonomo hanno lasciato per strada ben 9.330 euro.

Come al solito, si tratta di una media nazionale che nasconde disparità tra territori: i subordinati del Nord, per esempio, hanno quasi recuperato i guadagni pre-crisi, mentre al Sud sono ancora lontani. L’altro fenomeno che allarga le sacche del lavoro povero è quello dei contratti “pirata”: accordi collettivi che vengono firmati da sindacati fittizi con il solo scopo di permettere alle imprese di risparmiare fino al 30% sul costo del lavoro. In Italia abbiamo quasi 900 contratti nazionali, ma solo 300 sono firmati da sigle e associazioni datoriali rappresentative. E ancora non c’è una legge per misurare questa rappresentatività. Completa l’opera il finto lavoro autonomo: quello di chi è costretto ad aprire partita Iva pur essendo di fatto un dipendente dell’azienda. In Italia l’indipendenza “involontaria” riguarda un milione di persone e spesso nasconde un’altra pratica che permette alle imprese di pagare meno gli addetti costringendoli a barcamenarsi in cattive acque economiche.

Scusi, lei spaccia? E lei signora quante volte ha abortito?

Stavolta non ha avuto bisogno di un citofono per fare l’ormai abituale figuraccia. Gli è bastato un banale microfono, durante gli stati generali della Lega. “Abbiamo avuto segnalazione che alcune donne, né di Roma né di Milano, si sono presentate per la sesta volta al pronto soccorso di Milano per l’interruzione di gravidanza”. Scusi, è vero che lei spaccia? E lei, signora, interrompe gravidanze? Se sì, quante ? Essì è il Matteo Salvini show. “Ci sono donne che si sono presentate sei volte per una interruzione di gravidanza. Non è compito mio né dello Stato dare lezioni di morale, è giusto che sia la donna a scegliere per sé e per la sua vita, ma non puoi arrivare a prendere il pronto soccorso come la soluzione a uno stile di vita incivile. Se ritengo che le donne che abortiscono siano incivili? Se si arriva alla settima interruzione di gravidanza significa che si sbaglia stile di vita. Qualcuno ha preso il pronto soccorso come il bancomat sanitario per farsi gli affari suoi senza pagare una lira. La terza volta che ti presenti, paghi”. Su Facebook ha chiarito: “Figurati se Salvini (sì, parla di sé in terza persona, ndr) si mette contro l’aborto o contro il divorzio, sono l’ultimo che può dare lezioni. Semplicemente raccolgo il grido di allarme che arriva da tanti pronto soccorso, consultori e centri aiuto alla vita che chiedono di fare il possibile per tutelare la vita. A fronte di certi eccessi e abusi di chi, mi segnalano, di interruzioni di gravidanza per la quinta, sesta volta, ritengo che una comunità non possa far finta di niente, sembra così strano?”. È finita anche la pacchia dell’aborto, capito?

Se state pensando che Salvini è bravissimo a dissipare il suo capitale elettorale con fregnacce tipo queste e dunque non bisognerebbe dargli peso, avete ragione. Ma un paio di puntini sulle “i” questa volta vanno messi, perché tira una bruttissima aria: se c’è un grido d’allarme che va ascoltato è quello delle donne che in alcune Regioni non riescono ad abortire perché 7 ginecologi su 10 sono obiettori di coscienza (la maggior parte al Sud). Regioni come il Molise non hanno medici o ne hanno uno soltanto a disposizione per garantire l’attuazione della legge 194. Oltretutto Salvini dimostra di non sapere di cosa parla (ma va?). È tutto, sempre, un discorso da bar, un mio cugino mi ha detto, ho sentito che… Ora nessuna donna va ad abortire in pronto soccorso, perché la procedura non inizia da lì. Al massimo capita che al pronto soccorso le donne incinte che si sentono male scoprano di avere perso il loro bambino. Per quanto riguarda i numeri, l’ultimo rapporto del ministero (gennaio 2019, si riferisce a dati del 2017) mette chiaramente in evidenza che le interruzioni volontarie di gravidanza sono in netto calo dagli anni Ottanta. Nel 2017 ci sono stati 80.733 aborti volontari (4,9% in meno rispetto al 2016), numeri lontanissimi dal picco raggiunto nel 1982 (quando furono 234.801). Diminuiscono gli aborti volontari, ma l’obiezione di coscienza tra i ginecologi sfiora il 70% (68,5 per la precisione). La verità è che – a causa di un pensiero dominante, incredibilmente in linea con le parolacce di Salvini – l’interruzione volontaria di gravidanza è ancora un tabù sociale. Le donne hanno paura dello stigma e spesso sono impossibilitate ad abortire in sicurezza (cosa che dovrebbe essere garantita da una legge dello Stato inapplicata in buona parte del Paese). E quindi? Ancora oggi si ricorre all’aborto clandestino, con tutti i pericoli che questo comporta. Ma di questa inciviltà scandalosa non si occupa quasi nessuno. A furia di salti logici e di sentito dire, è un attimo che arriva Giuseppe De Rita (Censis’ dinasty) a dirci che la denatalità è un problema culturale perché i giovani non accettano i sacrifici che comporta metter su famiglia e passare all’età adulta.