Giorgia e Matteo, i nuovi Sandra e Raimondo della sit-com politica

C’è sempre un momento, nel dispiegarsi implacabile della catena alimentare, in cui un organismo si guarda indietro per controllare che nessuno tenti di mangiarlo. Capita anche agli organismi più semplici. Prendi Matteo Salvini: per più di un anno, durante la sua cavalcata di arruffapopolo, non ha avuto bisogno di guardarsi alle spalle, abituato ad avere il resto della destra come truppa di complemento. Ora, invece, vede crescere un concorrente, Giorgia Meloni, e sente quel classico brivido western: non è più l’unico sceriffo in città. I segnali di nervosismo si moltiplicano: non solo per i sondaggi sulla popolarità del leader in cui la Meloni lo supera, ma anche per un certo feeling con i media, che per lui sembra in fase calante (uff, ancora Salvini!), mentre per la sora Giorgia c’è grande interesse e giubilo.

Si aggiunga che l’organismo principale della destra, che è sempre saldamente Salvini, comincia ad avere qualche problema con la preziosa pratica della mimetizzazione. Cioè, era un maestro ai tempi di metti la ruspa togli la ruspa, metti la felpa togli la felpa, metti la divisa togli la divisa, va bene. Ma la cosa funziona meno quando si ritrova a parlare di politica. Insomma, anche un camaleonte fa fatica, se lo metti su una stoffa scozzese. Dunque ecco Salvini antieuropeista, poi corregge un po’, poi parla Giorgetti e aggiusta ancora un po’, poi rimpappa qualcosa di nuovo Salvini, ma dice che questa cosa di uscire dall’Europa gliel’ha detta un pescatore calabrese. Ora capirete il disagio di una forza politica molto forte al Nord, che pretende di parlare alla finanza e all’impresa, che chiede a gran voce di andare al governo, che si fa dare la linea da un pescatore calabrese sull’uscita dalla Ue. Imbarazzo. Si aggiunga la provocazione sull’aborto e gli stili di vita “incivili”. E si aggiunga pure il comportamento sul famoso processo per sequestro di persona, dove già si vede la china, lo scollinamento dal “me ne frego!” ardito e burbanzoso, alla ricerca di cavilli da legulei.

Giorgia s’avanza, insomma. Litigano un po’ sulle candidature alle Regionali (Calabria e Campania). Poi sul Coronavirus (lui accusa il governo, lei frena). Lui – uno che va a suonare ai citofoni accusando la gente di spaccio – imputa a lei di essere “destra radicale”. Lei gli ricorda che in Europa lui sta con la Le Pen. Nemmeno Ionesco avrebbe pensato a una commedia “Fascisti che si urlano: fascista!”. Insomma, in questo nuovo Sandra e Raimondo della grande sit-com italiana, pare che lui perda colpi e lei acquisisca smalto. Fa un viaggio negli States, che è tappa obbligatoria per tutti i leader italiani che vogliano contare qualcosa, fa le cene con i fans finanziatori. Soprattutto, sempre parlando di catena alimentare, ha davanti a sé una grande riserva di caccia. Sembra moderata, e questo piace a chi si è spaventato del Salvini delirante d’agosto. Al tempo stesso quando fa il mascellone volitivo (“Io sono la destra in questo Paese!”) è più credibile di quell’altro che bacia i prosciutti, ovvio.

Gran parte della trama della commedia sarà decisa dai media. Non tanto dai titoli dei giornali o dai commenti politici, quanto dall’arietta pop che si crea intorno al nuovo fenomeno da consegnare al gentile pubblico: la costruzione di una popolarità positiva, da guardare con simpatia. Per Salvini era stata l’elementare estetica del Gian Burrasca (vediamo cos’ha combinato oggi Matteo), per Giorgia sarà l’aplomb da maestrina, severa ma, in fondo, alla mano. I due pescano nello stesso mare, e questa è una cosa che non va mai a finire bene. In più, ognuno dei due punta a essere onnivoro, a nutrirsi cioè sia di elettorato moderato che di curva ultrà. Quindi mettetevi comodi per le prossime puntate. Sandra e Raimondo. Uffa che barba.

La prescrizione sa tanto di impunità

Prima premessa: non sono un giurista. Seconda premessa: però conosco abbastanza la società italiana e la sua storia.

Svolgimento. Il dibattito in corso sulla prescrizione arriva da molto lontano. Viene da un Paese che diventò un giorno Stato di fragile democrazia, quasi ovunque impasto di privilegio sociale e di nobiltà latifondista. Lo presidiavano agrari e avvocati, tra i quali abbondavano, accanto a generosi idealisti, i tipi immortalati da Manzoni e da Gramsci, azzeccagarbugli nordici e paglietta meridionali.

Quel Paese, benché percorso dai venti della storia, ha mantenuto, si direbbe, una venerazione per il principio di impunità. Lo ha coltivato, ne ha fatto una sua inconfessabile ma irrinunciabile natura. Ha dato così forma nel tempo a un sistema democratico-impunitario segnato da una costituzione materiale anfibia: da un lato l’aumento dei diritti, dall’altro l’eternità dei privilegi. In esso si sono succeduti e intrecciati stragi e corruzione come in nessun altro luogo d’Europa. Gli autori dei crimini hanno scommesso ogni volta sulla propria impunità in virtù di una sapienza strategica straordinaria, trasmessa nei decenni per commissioni parlamentari, ministeri, uffici preposti all’ordine pubblico o alla sicurezza della nazione, piccoli e altissimi uffici giudiziari.

Ne è uscito un Paese speciale. Che si dà leggi sulla trasparenza, ma poi non le rispetta, né nei consigli comunali né in Parlamento e tanto meno nei partiti e nelle imprese. Che sa spiegare in punto di diritto perché le leggi scritte a tutela dei cittadini non valgano in questo e in quell’altro caso. Che sa sbattere in prima pagina i derelitti ma invocare la privacy per proteggere le malefatte dei potenti. Che, essendo anche cattolico, sa mescolare il culto dell’impunità con il valore religioso del perdono, sempre moralmente più nobile (vuoi mettere?) della domanda di verità e giustizia. E in cui, dovendo semplificare, la punizione opera solo contro i disgraziati; nel che sta, alla implacabile resa dei conti, il suo garantismo.

Poi, siccome ogni tanto questa regola si smaglia di fronte alle conquiste della cultura civile, o ai tanti eroismi e sussulti di dignità etica, il sistema ha escogitato progressivamente sempre nuove strategie impunitarie. Un fiume di leggi ad personam e di leggi speciali per mandare in pensione o precludere incarichi a singoli magistrati. Da almeno vent’anni, in particolare, sta alzando una muraglia minacciosa contro la libertà di parola, di denuncia e perfino di studio, attraverso migliaia di cause penali e civili temerarie contro cui, e non per caso, nessun governo ma proprio nessuno ha mai mosso un dito. Mentre da poco è stato lanciato in orbita e sempre più viene rivendicato il “diritto all’oblio” anche per fatti pubblici commessi da protagonisti pubblici, affinché la punizione oltre a non esserci nei tribunali non ci sia nemmeno nella pubblica memoria. Affinché, oltre alla responsabilità penale, si possa eludere anche la responsabilità morale.

Ecco, il dibattito sulla prescrizione nasce esattamente qui. In questo vorticare di strategie e di umori. Esso non è giuridico, come si sarebbe indotti a pensare, ma è squisitamente antropologico. E chiama in causa anche un sistema di reciproche convenienze. Perché la prescrizione è merce prelibata che l’avvocato può vendere al cliente facoltoso. Ma è anche riparo ideale per il magistrato incapace di condannare il potente, è culla della “giustizia chirurgica” diffusasi negli ultimi anni. Quella che prevede, al posto delle assoluzioni vergognose, belle sentenze severe “purtroppo” neutralizzate dalla prescrizione. Esito delle “giuste” imputazioni e di una gestione “scientifica” dei tempi del processo, così da beneficare insieme – come per prodigio – il giudice, l’avvocato e l’imputato. Il primo coraggioso (ma disarmato dal sistema), il secondo vincitore, il terzo “innocente”. Quanto alla vittima, essa non conta.

In un ordinamento penale cresciuto su queste premesse culturali è elemento naturalmente estraneo, come ripetono a ogni nuova legge i “garantisti”. Certo, ci sono le obiezioni tecniche alla legge Bonafede. Tanti denunciano l’intollerabile lunghezza dei processi che essa accentuerebbe. Eppure non si sono sentite quelle voci quando, prima ancora che Bonafede prendesse la laurea, i processi duravano decenni per effetto del manuale delle impunità. E nemmeno dopo, con la legge Cirielli, visto che, come ha spiegato di recente il giudice Giuliano Turone, i processi durano tanto proprio perché c’è la prescrizione. Quanto ai poveri diavoli così spesso evocati in queste settimane, diciamo che essi vivono nel nostro Paese una condizione beffarda: di essere vittime predestinate dei rigori della legge e al tempo stesso alibi, con le loro odissee, perché quei rigori non tocchino ai potenti.

Mail Box

 

George Soros, lo strano caso di uno speculatore filantropo

Caro Direttore, Michele Serra ha elogiato l’ex calciatore della Roma De Rossi per aver dichiarato di avere abbastanza soldi. Sono pochi coloro che fanno dichiarazioni simili. Assume allora un notevole valore la scelta fatta dal finanziere George Soros di donare molti soldi in beneficenza ai movimenti e alle persone che avessero una sicura fede democratica. E non si capisce perché i sovranisti ce l’abbiano tanto con lui.

Franco Pelella

 

Forse perché, come tutti gli speculatori, ha spesso scommesso sul disastro finanziario di vari paesi, tra cui l’Italia. E i grandi speculatori, quando scommettono molti soldi su un risultato, finiscono o rischiano di provocarlo. Molto poco filantropicamente.

M. Trav.

 

DIRITTO DI REPLICA

Con riferimento a quanto riportato nell’articolo a pag. 6 del 16 febbraio 2020 (“Lazio, Zinga promuove il forzista indagato”) e precedentemente a pag. 22 del 25 novembre 2019 (“La parentopoli della comunità montana: non doveva chiudere?”), entrambi a firma di Paolo Dimalio, facciamo presente che il dottor Luca Di Maio, dirigente di ruolo della pubblica amministrazione assunto nel 1998 a seguito di regolare concorso, non è stato mai né assistente né collaboratore dell’On. Franco Fiorito, né ha ricevuto dallo stesso alcuna nomina, non ha mai riportato alcuna condanna, né ha procedimenti penali pendenti.

In secondo luogo l’incarico di Segretario Generale della XV comunità Montana Valle del Liri, incarico secondario rispetto al principale già rivestito, è regolarmente autorizzato ai sensi dell’art 53 D.Lgs. 165/2001, ed è stato dallo stesso ottenuto previa partecipazione a regolare bando pubblicato nelle forme di legge. Ugualmente dicasi per quanto riguarda la fondazione Marco Tullio Cicerone, costituita nel 2016 e da cui per statuto i membri del Cda non ricevono alcun emolumento a nessun titolo, nemmeno sotto forma di rimborso spese.

Luca Di Maio, Gianluca Quadrini e Antonio Farina

Mai messa in dubbio la regolarità degli incarichi di Luca Di Maio nella XV Comunità montana e nella Fondazione Marco Tullio Cicerone; nessun riferimento a emolumenti o rimborsi spese. L’articolo non fa cenno a vicende giudiziarie di Di Maio, né della Fondazione Marco Tullio Cicerone. Quanto a Fiorito, prendo atto.

P. D.

 

Gentile Direttore, in merito all’articolo pubblicato ieri su Il Fatto Quotidiano dal titolo “Effetto Xylella: ‘In Rai gli alberi diventano grigi’”, teniamo a precisare che da parte della Tgr non è avvenuta alcuna mistificazione o manipolazione. Venerdì 14 Febbraio, sul sito web della Tgr Puglia, abbiamo pubblicato la notizia inviataci per mail dall’Arif, l’agenzia regionale irrigua e forestale, che per legge ha il compito istituzionale di contrastare la diffusione del batterio della Xylella. Correttamente abbiamo sottolineato che si trattava di un comunicato Arif, che annunciava il suo programma di abbattimento in agro di Cisternino, il tutto corredato da una foto, della quale abbiamo accertato provenienza, autenticità e contestualità dei luoghi documentati dalla fotografia. Successivamente abbiamo modificato la notizia (in allegato), chiedendo conferma degli ulivi abbattuti e ne abbiamo avuto riscontro: erano effettivamente 13. I crediti fotografici, in un primo tempo attribuiti alla Rai, sono stati poi attribuiti all’Arif, e comunque, nelle more della verifica, dal testo si evinceva chiaramente la fonte dell’intero articolo. Riteniamo quindi pretestuosa ed infondata l’accusa di manipolazione, non avendo come Tgr Puglia alcun interesse a mistificare la realtà né in un senso né nell’altro. In fine una considerazione: in Puglia ci sono oltre due milioni di alberi disseccati dalla Xylella e aggiungerne o toglierne altri tredici non si comprende a chi potrebbe portare vantaggi.

Direzione TGR

 

Respingiamo le accuse gravi e diffamatorie circolate negli ultimi giorni ai danni della redazione della Rai Tgr Puglia e del servizio pubblico. Diversi gruppi Facebook e un consigliere comunale hanno accusato pubblicamente la nostra redazione di avere manipolato una fotografia con l’obiettivo di diffondere notizie false sulla questione Xylella. Tale accusa infondata è grave e lesiva della nostra reputazione e della nostra dignità professionale.

Il CdR della Tgr Puglia

 

L’immagine degli ulivi grigi, diversa da un’altra, recente, che mostra gli stessi ulivi verdi, è stata diffusa dalla Rai. Prendo atto che i crediti fotografici, inizialmente Rai, sono stati poi attribuiti ad Arif. Quanto ai due milioni di alberi disseccati dalla Xylella, a luglio il Dipartimento Agricoltura della Regione Puglia ha reso noto che su 186 mila piante ispezionate tra il 2018 e il 2019 in una vasta area che include la Piana degli ulivi monumentali, su 68.639 sottoposte al test della Xylella, 1.044 sono risultate positive. Di queste ultime, solo 610 presentano i sintomi del complesso del disseccamento rapido.

M. C. F.

 

I NOSTRI ERRORI

Nell’articolo di ieri “Altro che buongoverno: le 12 Regioni di destra tra guai e impresentabili” abbiamo riferito alla Basilicata e non al Molise i problemi della Sanità a Termoli, in provincia di Campobasso. Ci scusiamo con i lettori.

FQ

Al via la corsa al contributo. Vale fino a 3 mila euro (per chi ci riesce)

Buongiorno, ho letto distrattamente che la nuova legge di Bilancio ha previsto una proroga del bonus Nido 2020: peccato, però, che ogni volta cambino le regole, le modalità di presentazione della domanda, gli importi degli assegni e via così… Ho un figlio di un anno e mezzo, e proprio non so come fare a richiedere il bonus: l’anno scorso mi sono arresa prima e non ho presentato alcuna domanda… Mi date qualche dritta, per favore?

Camilla Preti

 

Gentile signora Preti, è dal 17 gennaio che è partita la corsa al nuovo bonus per gli asili nido, per il quale la manovra ha stanziato 520 milioni di euro per il 2020, tra i soliti grattacapo e difficoltà a collegarsi al sito dell’Inps per il sovraccarico di accesso, come spiegato dallo stesso Istituto. Nella circolare pubblicata dall’Inps sono riportate tutte le risposte alle sue domande ma, come prassi vuole, è sempre complicato stare dietro alle normative soprattutto quando si è alle prese con il welfare sociale che si porta dietro procedure obiettivamente complicate tra documenti e dichiarazioni da allegare. Cerchiamo di fare chiarezza. La misura è un sostegno del reddito delle famiglie per il pagamento di rette per la frequenza di asili nido pubblici e privati ed anche di forme di assistenza domiciliare in favore di bambini con meno di tre anni affetti da gravi patologie croniche. In soldoni, si tratta di un massimo di 3.000 euro su base annua per i nuclei familiari in possesso di Isee minorenni fino a 25.000 euro. Il bonus scende, invece, a 2.500 per le famiglie con un Isee compreso tra 25.001 e 40.000 euro, per arrivare a 1.500 euro oltre 40 mila euro di Isee minorenni. Da quest’anno, infatti, il sostegno è diventato universale spettando a tutte le famiglie indipendentemente dal reddito. La domanda si presenta sul sito dell’Inps cui si accede con il Pin, l’identità Spid, la carta nazionale servizi (Cns), tramite call center (803 164) o i Caf. L’Istituto ha spiegato che chi ha già presentato domanda di bonus nido nel 2019, provvedendo al pagamento di almeno una mensilità da settembre a dicembre, sta ricevendo un sms che permetterà di confermare o modificare i dati nella domanda precompilata senza doverne riproporre una nuova per l’anno 2020. Tant’è che tutte le domande correttamente presentate per il 2019 sono coperte da budget e pertanto in corso di liquidazione. Ultimo elemento da ricordare: il termine ultimo per l’allegazione della documentazione di spesa relativa alle domande di bonus nido 2019 è fissato al 1° aprile 2020 anche per le strutture private autorizzate.

Patrizia De Rubertis

“Pressioni da Palazzo Chigi”. Per Bianchi ruolo di “garante”

C’è un capitolo, nelle 191 pagine dell’ordinanza del giudice Gaspare Sturzo, dal titolo: “Il ruolo di Alberto Bianchi in Consip, quale consulente esterno e l’organizzazione di un incontro con Luigi Marroni e Marco Canale, di Manutencoop, (…) per giungere a un accordo di favore rispetto all’esclusione di Manutencoop dalle gare Consip”. Bianchi è l’ex presidente della Fondazione Open, l’allora cassaforte del renzismo, e mai è stato sfiorato dalle indagini Consip. Posizione che tale è rimasta: per lui il gip infatti non ha chiesto alcun approfondimento specifico, tanto meno eventuali iscrizioni nel registro degli indagati. Il giudice ha solo sottolineato come, a sua detta, non siano state fatte indagini complete sul suo ruolo. Bianchi è stato intercettato indirettamente nel 2016 mentre conversava con Luigi Marroni, allora Ad di Consip. Sono intercettazioni che per i pm non hanno rilevanza. Come quella del 7 settembre 2016 tra Marroni e Bianchi in cui i due parlano della società Arcale che – come scrive il gip Sturzo – “avrebbe avuto in corso l’aggiudicazione di un appalto Consip per la fornitura di alloggi in legno per l’Italia centrale”, le famose casette del terremoto del 2016. Durante questa conversazione Bianchi ad un certo punto dice: “Ovviamente l’ho segnalato al nostro amico il quale mi ha detto di parlarne con te…”. E Marroni, continua la trascrizione, “gli risponde che lui ha dato incarico ai suoi di fare uno studio per valutare i tempi. Bianchi gli dice che lui ha visto personalmente il tale di Arcale”.

A quel punto come ricostruisce il gip, Marroni si attiva e scopre che il consorzio Arcale “non aveva affatto vinto la gara Consip, ma si era classificato secondo dietro la solita cooperativa Cns”. “Mi dicono che il primo non è in grado ma teniamoci in contatto”, scrive Bianchi in un sms inviato all’allora numero uno della stazione appaltante.

Sono fatti che, nota il gip Sturzo, “non sono mai stati riferiti da Marroni ai pm né di Napoli e tantomeno di Roma”. Nonostante, aggiungiamo noi, il Fatto avesse dedicato una pagina intera alle intercettazioni trascurate dai pm addirittura nel luglio 2017.

Come riporta il gip, il 7 settembre 2016, dopo aver parlato con Bianchi, Marroni contatta Filippo Vannoni, ex presidente della fiorentina Publiacqua (oggi a processo per favoreggiamento nell’ambito del filone dell’inchiesta sulla fuga di notizie ai vertici della Consip) al quale riferisce “della raccomandazione ricevuta da Bianchi”.

Di “non completezza delle indagini” il gip Sturzo parla anche in riferimento ad una conversazione tra Marroni e l’ex presidente di Consip Luigi Ferrara in cui si parla di “pressioni” provenienti da Palazzo Chigi.

La telefonata risale al 10 novembre 2016. Il giudice la sintetizza così: i due “a loro dire” “su questa vicenda Manutencoop erano stati chiamati da qualcuno a Palazzo Chigi e che per tale motivo occorreva cambiare decisione e nominare Bianchi quale consulente che avrebbe consigliato soluzioni e fatto da trait d’union con Palazzo Chigi”.

Questo aspetto per il giudice è rimasto inesplorato: “Quanto alla vicenda Bianchi Alberto, il richiamo alla chiamata da Palazzo Chigi, – è scritto nell’ordinanza – è un dato tutto aperto ed ancora interamente da spiegare anche quanto alle decisioni successive su gare di appalto Consip ancora aperte. Il fatto che Alberto Bianchi sia legato a Matteo Renzi e a Luca Lotti e a Maria Elena Boschi, appare ricostruito dai carabinieri in atti, che fanno cenno anche alla Fondazione Open”.

Il Gip Sturzo poi riporta la descrizione del mercato degli appalti Consip fatta dall’ex parlamentare Italo Bocchino. Il consulente di Romeo ha raccontato ai pm le preoccupazioni dell’imprenditore campano rispetto a uno schema di cartello che si stava riproponendo nella gara Fm4. Per il Gip si deve comprendere come mai Marroni sembra cancellare qualsiasi riferimento che possa spostare le indagini in corso “quando si arrivi nelle vicinanze di questa forza di governo, che pure lo aveva nominato, o verso gli alleati della stessa, con cui (per motivi di relazione di fatto) avrebbe anche un tema societario in corso nella società Pastation (o meglio, il figlio della compagna di Marroni in società con il figlio di Verdini)”.

Sconfessati dal Gip, la brutta figura dei pm di Roma

Tiziano Renzi non è stato imputato coattivamente dal gip di Roma Gaspare Sturzo. Inoltre il gip lo ha prosciolto per le chiacchiere del suo amico Russo con Alfredo Romeo sulle gare del Comune di Sesto San Giovanni e dell’Inps. Inoltre il presunto traffico di influenze sull’Ad di Consip Luigi Marroni sarebbe durato solo fino al novembre 2015. Qui finiscono le buone notizie per il padre dell’ex premier. E anche per la Procura di Roma. Tiziano era indagato in concorso con Russo, l’imprenditore Alfredo Romeo e il suo consulente Italo Bocchino per altri fatti più rilevanti. Nell’ottobre del 2018 i pm Giuseppe Pignatone, Paolo Ielo e Mario Palazzi avevano firmato una richiesta di archiviazione omnibus, accolta per le due ipotesi suddette ma rigettata per altre due questioni più importanti: la presunta mediazione verso l’Ad di Consip Luigi Marroni per la gara da 2,7 miliardi di euro e la presunta mediazione nei confronti dell’amministratore di Grandi Stazioni Silvio Gizzi per le gare poi andate definitivamente ad altre imprese nel 2017, del valore di diverse decine di milioni.

Per queste due vicende il gip Sturzo ha disposto un “ordine di integrazione delle indagini nel termine di 90 giorni” nei confronti di Tiziano Renzi, Carlo Russo, Alfredo Romeo e Italo Bocchino per l’ipotesi di traffico di influenze illecite. Il gip Sturzo boccia l’inchiesta romana in molti punti per le sue conclusioni e per le sue lacune. I pm romani secondo Sturzo non hanno valorizzato alcune intercettazioni e alcuni atti in loro possesso.

In particolare non hanno dato importanza all’incontro “assodato” avvenuto a Firenze il 16 luglio del 2015 tra Alfredo Romeo, Carlo Russo e Tiziano Renzi. Non hanno letto con l’attenzione dovuta le chat di Telegram (un sistema di messaggistica non intercettabile) trovate solo nel 2019 nel telefonino di Carlo Russo. L’incontro di Firenze, come è noto, è stato negato da Tiziano Renzi nell’interrogatorio di marzo del 2017 con i pm romani. Per il gip “possiamo dare per assodato il grave preciso e concordante indizio sull’incontro”. I carabinieri nel marzo 2019 avevano scoperto la sovrapposizione delle celle telefoniche agganciate dai cellulari ma i pm hanno confermato la richiesta di archiviazione perché l’incontro sarebbe avvenuto troppo presto per essere rilevante in relazione alla vicenda Consip.

Il gip Sturzo invece ritiene che debba essere inserito in una serie di “conversazioni e comunicazioni intercettate, integrate con eventi temporali ed acquisizioni documentali, nonché con dichiarazioni di parti e di terzi, da cui il pm avrebbe potuto forse trarre, ad avviso di questo giudice, un primo diverso avviso (…) rivalutando la potenzialità criminale dell’effettività dell’incontro”. Cosa succede prima e dopo di così importante?

Il 27 febbraio 2015 c’è una telefonata tra Romeo e il suo amico Alfredo Mazzei in cui l’imprenditore, per il gip, parla per la prima volta di Carlo Russo dicendo che si era presentato “uno dei loro”, uno che parlava del “papà”. Poi il 4 marzo del 2015 Carlo Russo invia un messaggio su Telegram al tesoriere del Pd di allora Francesco Bonifazi: “Buongiorno Francesco, solo per evidenziarti i passaggi fondamentali dell’incontro di stamani: lui deve capire che io sono il suo unico interlocutore e che ho rapporti privilegiati, senza che venga fuori il nome di T. Grazie, è davvero importante per noi, a dopo”. Per il gip “non si fatica a collocare tale messaggio nella dinamica Tiziano Renzi-Carlo Russo-Alfredo Romeo. Ne consegue come allo stato in tale ottica debba ritenersi rafforzato il tema accusatorio del coinvolgimento del Renzi Tiziano”. Non solo. Il gip dopo essersi lamentato “che nessun accertamento sembra sia stato fatto” dai pm sul punto postula la “necessità di verificare il ruolo stesso di Francesco Bonifazi, altro deputato del Pd notoriamente vicino all’epoca dei fatti a Matteo Renzi”. Il Fatto aveva scritto già su quel messaggio Telegram il 28 marzo del 2019: “Oggi Bonifazi dice al Fatto di non ricordare nulla e i pm non lo hanno convocato”.

Il gip aggiunge che “non sappiamo se e cosa abbia risposto Bonifazi” perché non c’è traccia di risposta nel cellulare ma il gip chiede ai pm sul punto “un espresso chiarimento”. Anche perché una settimana dopo, il 12 marzo 2015, c’era l’apertura dei plichi contenenti i progetti tecnici della gara Consip FM4. La cronologia di Sturzo prosegue: quattro mesi dopo c’è l’incontro di Firenze. Dopo l’incontro Tiziano scrive a Russo che gli chiedeva le sue impressioni su Romeo (“a lui positivissime e a te?”): “Buone, speriamo non pongano ostacoli”. Il 20 luglio 2015 Tiziano chiede un incontro all’amministratore di Consip Luigi Marroni, chiamato in gergo criptico “il colorato”. E il 24 luglio Russo scrive su Telegram a Tiziano: “l’uomo colorato l’hai visto?”. Tiziano replica: “Mi deve dire se viene questo fine settimana”.

Conclusione di Sturzo: “Il traffico di influenze in concorso tra Tiziano Renzi, Russo, Romeo e Bocchino, presso il pubblico ufficiale Luigi Marroni si deve intendere effettivamente realizzato (…) ne consegue come debba essere rigettata la richiesta di archiviazione per Romeo, Bocchino e Renzi Tiziano per il delitto di cui all’articolo 346 bis in relazione alla vicenda di Luigi Marroni almeno fino alla data del 10 novembre 2015”.

Consip, Verdini è indagato. Altri accertamenti su Lotti

Nuovi approfondimenti sull’ex ministro Luca Lotti e sull’ex comandante dei carabinieri della Legione Toscana, Emanuele Saltalamacchia, per capire se hanno commesso il reato di rivelazione di segreto d’ufficio e l’iscrizione nel registro degli indagati degli ex parlamentari Denis Verdini e Ignazio Abrignani per concussione e turbativa di gara. Sono alcune delle novità che emergono dall’ordinanza del gip Gaspare Sturzo emessa nell’ambito dell’inchiesta Consip. Il giudice infatti era chiamato a esprimersi sulla richiesta di archiviazione dei pm romani su alcune posizioni. Come quella di Tiziano Renzi, il padre dell’ex premier, accusato di traffico di influenze. Reato per il quale la Procura aveva chiesto l’archiviazione, in parte accolta e in parte no dal gip che ha disposto nuove indagini da svolgere in 90 giorni.

I pm avevano anche chiesto di archiviare Lotti e Saltalamacchia per il reato di rivelazione di segreto (i due sono già a processo per gli stessi fatti ma con la sola accusa di favoreggiamento). Secondo i magistrati, i due avrebbero spifferato alle orecchie dell’ex ad di Consip, Luigi Marroni, l’esistenza di indagini in corso sulla stazione appaltante. Adesso il gip Sturzo però chiede alla Procura di valutare se nei confronti di Lotti e Saltalamacchia possa essere ravvisato anche il reato di rivelazione di segreto. Il gip va oltre e, per vicende diverse, chiede ai pm di iscrivere nel registro degli indagati il fondatore di Ala Verdini, l’ex parlamentare Abrignani e l’imprenditore Ezio Bigotti per turbativa d’asta e concussione. Tutto parte dunque dalle parole messe a verbale da Marroni, che ai pm racconta anche di pressioni per favorire la società Cofely nella gara Fm4 indetta dalla Consip (valore 2,7 miliardi, mai assegnata). “Intorno alla fine del 2015 – dice Marroni – venne da me in Consip Abrignani (…), il quale mi disse espressamente e senza mezzi termini che lo aveva mandato Verdini e, per questo suo tramite, mi chiedeva di intervenire per favorire la società Cofely nell’appalto Fm4 e segnatamente in relazione al lotto Roma centro che al Verdini stava molto a cuore”. Su questo aspetto il gip puntualizza: “Non è facile comprendere – è riportato nell’ordinanza di 191 pagine – le ragioni per cui la Procura non abbia ampliato il raggio investigativo sul tema Verdini-Bigotti-Abrignani…”.

Su Marroni, teste chiave dell’inchiesta, scrive: “Il tema della costrizione psichica assume una sua pregnante rilevanza in quanto connessa alla possibile concussione del Marroni nell’aver dovuto accettare di ricevere ed ascoltare Bigotti e di intervenire per procacciare, quantomeno, notizie a favore della Cofely, nonostante le delicatissime fasi aperte della procedura di gara Fm4…”. Così il gip chiede ai pm di risentire i dipendenti Consip “che hanno preso parte alle fasi di gara”, come pure Marroni. Proprio sulla nomina di quest’ultimo in Consip, nell’ordinanza è scritto: “Possiamo dare, grosso modo, per accertata la nomina di Marroni come diretto riferimento dell’azione politica di Matteo Renzi e del suo governo”. E aggiunge: “Occorre osservare come il pm, nella sua richiesta di archiviazione, non abbia debitamente tenuto nel giusto conto questa segnalazione, del nome di Marroni, da Matteo Renzi (presidente del Consiglio) al ministro Padoan (…). Una circostanza che ha un suo significato pregnante anche quanto alle pressioni che Marroni, a suo dire, avrebbe subito da Carlo Russo (amico di Tiziano Renzi, ndr) e da Verdini”.

Il gip, infine, ha respinto le archiviazioni per turbativa d’asta in relazione alla gara Fm4 di Francesco Licci, ex presidente della Commissione di quella gara, dell’ex amministratore delegato di Consip Domenico Casalino, dell’ex parlamentare Italo Bocchino e dell’imprenditore Romeo. Respinta anche l’archiviazione per la turbativa d’asta per la gara Grandi Stazioni di Silvio Gizzi. I pm hanno 90 giorni per integrare le indagini. Il caso Consip non è chiuso.

Con i poveri i soldi non ci sono mai

Secondo le stime di Lavoce.info e Osservatorio Cpi nel solo biennio 2016-2018 per salvare le banche e tutelare chi vi aveva depositato i propri risparmi, gli stanziamenti pubblici complessivi sono stati compresi in una forchetta che va dai 23 ai 30 miliardi circa.

Quando si tratta di risparmiatori, cioè di persone che, oltre ad avere di che vivere oggi, hanno anche messo da parte un bel gruzzolo con cui vivere domani, non si va tanto per il sottile e i soldi si trovano. Quando, invece, si tratta di poveri o di sfruttati all’ennesima potenza, allora si spacca il capello in quattro.

Se non ci fosse un esercito industriale di riserva fatto di immigrati costretti a qualunque lavoro sfiancante e sottopagato pur di sfamare se stessi e le proprie famiglie, se non ci fossero badanti disposte ai servizi più umili, asservite con contratti truccati e retribuite con salari di fame, nei vigneti non si farebbero vendemmie, nelle serre non si raccoglierebbero pomodori, nei cantieri non si costruirebbero case, nelle case non si assisterebbero i vecchi. Insomma, un Paese in cui 7 persone su dieci si dicono credenti, 3 su dieci praticanti, 10 su 10 con la coscienza a posto, si discute da due anni se adottare un salario minimo come già avviene in tutti i Paesi europei e se questo salario minimo debba essere di 9 euro lordi o di 9 euro netti, o di 5 euro o di 7 euro o, come pare che piaccia ai più, di 7,5 euro.

I sindacati, che finora non sono riusciti a ottenere uno straccio di contratto collettivo capace di assicurare la sopravvivenza ai dannati della terra, ora pretendono che siano proprio essi incapaci a occuparsene e che la legge non si intrometta in questa faccenda. Per acquietarli, il governo sta scendendo a un compromesso: al posto di una cifra fissa ex lege, che avrebbe il vantaggio di essere semplice, chiara e di facile applicazione, si ripiega su una soglia minima, pari al 70% del valore mediano delle retribuzioni previste dai Contratti collettivi nazionali.

Per calcolare il valore mediano delle retribuzioni previste dai Contratti collettivi nazionali occorre tenere presente che ce ne sono 888 depositati presso il Cnel, di cui almeno 300 sono da considerare “regolari” secondo Tiziano Treu, presidente dello stesso Cnel. Ciò significa che, per calcolare il 70% delle retribuzioni previste da queste centinaia di contratti, occorrerà un bilancino che – non è difficile indovinarlo – sarà puntualmente contrastato da una delle tante parti in causa. Per evitare ricorsi e polemiche, ovviamente occorre una commissione. E infatti se ne prevede una istituita presso il ministero del Lavoro, presieduta dal ministro del Lavoro e composta da funzionari del ministero, dell’Inps, dell’Istat e di tutte le parti sociali. Resta inoltre da decidere quali contratti siano degni di essere considerati “stipulati dalle associazioni datoriali e sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale”.

Il lavoro che ha portato a questo labirinto bizantino è stato dichiarato dai protagonisti “proficuo e positivo”. Poteva venirne fuori una legge semplice e chiara, così come in un primo momento avevano proposto il Pd da una parte e il M5S dall’altra, quando erano partiti contrapposti. Ora che sono alleati, il compromesso prevale sulla logica e il risultato, quando diventerà legge vigente, darà luogo a mille contenziosi.

Ma, presi alla gola, non ci resta che invocare una soluzione del caso, qualunque essa sia. Mentre i governanti discutono e ingarbugliano, centinaia di migliaia di lavoratori inermi subiscono livelli inauditi di sfruttamento. E la pazienza con cui essi li subiscono, ha un limite comprensibile.

Salario minimo, Pd e imprese all’assalto della soglia dei 9 euro

Il M5S si dichiara né di destra né di sinistra, ma quando porta avanti battaglie di sinistra, come quella sul salario minimo, viene frenato proprio dalla sinistra. È quanto potrebbe accadere con la possibile mediazione sul salario minimo, proposta fortemente voluta dalla ministra del Lavoro, Nunzia Catalfo, e dai 5Stelle in generale. La proposta iniziale. La proposta Catalfo rinviava ai contratti collettivi di lavoro il riferimento alla paga oraria minima, stabilendo però una soglia base per tutte quelle prestazioni prive di copertura del contratto nazionale. Secondo l’Inps il 22% dei lavoratori si trovano in questa situazione. La soglia minima era indicata in 9 euro lordi l’ora, circa 1.000-1.100 euro netti al mese. In una grande città non basterebbero nemmeno per l’affitto di casa.

Eppure quella cifra sembra enorme per un ampio fronte che vede compatte le imprese, quasi tutto lo schieramento parlamentare compreso il Pd, ma anche i principali sindacati che non vogliono una legge che vada a intaccare la loro esclusiva prerogativa sui salari dei lavoratori. La pressione è quella di far scendere la soglia a un livello non superiore ai 7,5 euro con argomentazioni ben ricostruite ieri dal Sole 24 Ore, quotidiano della Confindustria.

La mediazione? L’appiglio è quello di uniformarsi alla regola, non scritta, che vige in Europa e che vuole il salario minimo parametrato al salario mediano (che non è quello medio, ma la cifra al centro di una scala tra i salari più bassi e quelli più alti). Nei Paesi Ue il salario minimo sarebbe collocato tra il 40 e il 60% del salario mediano, mentre la mediazione che si fa largo, perlomeno quella spinta dal Pd, lo fisserebbe al 70%. Secondo i calcoli del Sole , la cifra sarebbe di 7,85 euro lordi l’ora, intorno agli 800-850 euro netti al mese. “Stiamo studiando l’impatto di questa proposta – dicono al ministero del Lavoro – anche se l’orientamento è che il criterio della cifra sia tecnicamente migliore”. L’ipotesi è quella di andare a vedere visto che si tratterebbe di confermare l’impianto della proposta originaria. Accanto alla definizione della soglia minima, modellata sul salario mediano, si introdurrebbe il valore erga omnes dei contratti di lavoro, l’estensione per legge dei minimi contrattuali. L’erga omnes, cioè l’efficacia obbligatoria per tutti dei contratti collettivi, è previsto dall’articolo 39 della Costituzione, ma non è mai stato tradotto in una norma di legge tale da renderla direttamente applicabile. Solo la consolidata giurisprudenza italiana, utilizzando il concetto di “retribuzione dignitosa” previsto dall’articolo 36 della Costituzione ha stabilito che questa debba intendersi come una retribuzione non inferiore a quella minima stabilita dai contratti collettivi di lavoro. In questo senso si tratterebbe di un rafforzamento della contrattazione collettiva nazionale “sana” come veniva indicato nel progetto di legge Catalfo e la ministra è molto interessata a questa parte della soluzione.

I salari reali. Il problema sorge, però, quando invece del salario mediano si prendono a riferimento i salari assoluti. Se è vero che 9 euro lordi l’ora porterebbero il salario minimo italiano al quarto posto in Europa – accanto a Belgio e Germania, mentre ai primi due posti ci sono il Lussemburgo e l’Irlanda – se guardiamo ai salari assoluti l’Italia si trova al tredicesimo posto dietro Danimarca, Irlanda, Svezia, Lussemburgo, Belgio, Finlandia, Olanda, Germania, Francia, Austria e, fuori dalla Ue, Svizzera e Norvegia.

Effetto positivo. Il punto, allora, è che un salario minimo un po’ più alto della media europea, ma comunque in linea con Francia e Germania, avrebbe come principale effetto positivo una spinta al rialzo di tutti i salari e non solo il beneficio per coloro che sono sprovvisti di salario minimo. Come abbiamo già ricordato, il 22% dei lavoratori ha retribuzioni inferiori ai 9 euro l’ora: si tratta soprattutto di donne (26%), under 35 (38%), lavoratori del Sud (31%) del settore artigianale (52%) o del terziario (34%). Quanto ai timori sindacali di un’ingerenza della normativa nelle prerogative sindacali si può ricordare il caso tedesco dove l’introduzione del salario minimo nel 2015 non ha minimamente intaccato la forza d’urto dei sindacati. Se questi sono forti rimangono forti e il rischio che il salario legale possa minare i diritti del lavoro ci sarebbe solo se questo fosse molto più basso delle soglie minime garantite dai contratti nazionali. Oppure se questi fossero spinti così al rialzo da rendere desueto il salario minimo. “Possibile che il Pd non riesca a fare una piccola cosa di sinistra?”, si chiede il segretario di Rifondazione comunista, Maurizio Acerbo. Il quale ricorda che il Pd “raccogliendo le posizioni di Confindustria sta devitalizzando una proposta positiva”.

“Loro non cambiano”. E lei divenne un simbolo

“Loro non cambiano!” è il grido che da Palermo fu lanciato contro Cosa nostra con una potenza mai vista e sentita prima. “Io Rosaria Costa, vedova dell’agente Vito Schifani… Battezzata nel nome del padre, del figlio e dello spirito santo, a nome di tutti coloro che hanno… che hanno dato la vita per lo Stato… lo Stato… chiedo innanzitutto che venga fatta giustizia… adesso… rivolgendomi agli uomini della mafia, perché ci sono qua dentro… e non… ma certamente non cristiani: sappiate che anche per voi c’è possibilità di perdono”.

È il 25 maggio 1992. Due giorni prima l’autostrada, vicino all’uscita di Capaci, è saltata in aria massacrando i magistrati Giovanni Falcone e Francesca Morvillo e gli agenti di scorta Rocco Dicillo, Antonio Montinaro e Vito Schifani. La ragazza, 22 anni, che parla tra la folla sull’altare della chiesa di San Domenico cerca di leggere da un foglio al microfono sorretto da don Cesare Rattoballi, cugino di Vito, e sacerdote che un anno prima ha celebrato il matrimonio di Vito e Rosaria.

“Io vi perdono, però vi dovete mettere in ginocchio… se avete il coraggio di cambiare…”. L’emozione prevale. La preghiera diventa uno sfogo che irrompe nelle case degli italiani. Un pugno nello stomaco per milioni di persone. “Ma loro non cambiano…”. Don Cesare suggerisce alla giovane Rosaria di continuare a leggere bisbigliandole all’orecchio le parole giuste, quelle scritte, ma lei improvvisa: “…di cambiare, loro non vogliono cambiare, loro non cambiano!”. Don Cesare insiste. Rosaria ritorna al copione, ma il volto è una maschera di dolore, disperazione e rabbia: “…di cambiare radicalmente i vostri progetti, i vostri progetti mortali”.

Gli altri parenti delle vittime sono piegati sulle bare. L’atmosfera in chiesa, poco prima il coro di fischi e insulti ha sommerso politici e istituzioni, è indescrivibile per chi c’era e anche guardando e riguardando le immagini. Continua Rosaria: “…vi chiediamo per la città di Palermo, che avete reso città di sangue, troppo sangue, di operare anche voi per la pace, la giustizia, la speranza, e l’amore per tutti…”. Un’altra interruzione. E l’accusa finale: “…non c’è amore qui, non ce n’è amore, non c’è amore per niente, non voglio vedere nessuno… aiutami tu”. L’abbraccio finale a don Cesare.

E dopo 28 anni che cosa resta? La Piovra ancora oggi a Palermo e in Sicilia arriva dappertutto, si attacca ai vestiti, dà un’altra accezione alla parola “famiglia”. Ma Rosaria è stata una vera madre-coraggio. Ha cresciuto Antonino Emanuele Schifani: 28 anni proprio in questi giorni, che quel tragico 23 maggio era solo un bebè di appena tre mesi. Ha studiato Antonino, ha frequentato l’accademia della Guardia di finanza, ha indossato un’altra divisa rispetto a quella del padre poliziotto, perché “ho letto da qualche parte che Al Capone non è stato arrestato per la strage di San Valentino ma perché non pagava le tasse”, come spiegò a Rai3 sette anni fa nel documentario Ho vinto io di Felice Cavallaro. E Giuseppe Costa, arrestato con l’accusa di essere punciutu, non può sporcare la storia della sorella Rosaria e del nipote Antonino. Mai.