Mafia a Palermo, arrestato il fratello di Rosaria Schifani

Fratello di una vedova di mafia e presunto riscossore del pizzo per conto del boss Gaetano Scotto. Un legame familiare interrotto e riemerso all’indomani del blitz della Dda di Palermo che ha portato all’arresto di otto persone nella borgata marinara dell’Arenella. E oltre al boss accusato anche per l’omicidio dell’agente di polizia Nino Agostino e la moglie Ida Castelluccio, c’è anche Giuseppe Costa, 58enne disoccupato che secondo la Dia era un “esattore delle richieste estorsive destinate poi ai carcerati”. Ma anche fratello di Rosaria Costa, vedova dell’agente Vito Schifani, uno dei tre poliziotti morti nella strage di Capaci col magistrato Giovanni Falcone e la moglie Francesca Morvillo, il 23 maggio ’92.

Gli investigatori, coordinati dall’aggiunto Salvatore De Luca e dai sostituti Amelia Luise e Laura Siani, lo hanno scoperto poco prima della conferenza stampa ed escludono contatti tra i due. Dal 1995 la donna si è trasferita in Liguria con il figlio che all’epoca della strage aveva appena 4 mesi e adesso è ufficiale della Guardia di Finanza. Ai funerali, dopo Capaci, si era rivolta “agli uomini di mafia perché ci sono qua dentro (e non), ma certamente non cristiani, sappiate che anche per voi c’è possibilità di perdono: io vi perdono, però vi dovete mettere in ginocchio…”. Adesso il fratello è accusato di aver fatto da trait d’union “per una forma di rispetto” – scrivono gli inquirenti – prima e dopo la scarcerazione di Scotto.

Tra le viuzze che uniscono le borgate dell’Arenella, Acquasanta e Vergine Maria, lo chiamano “Pino ‘u checcu” (balbuziente). Non c’è conferma alle indiscrezioni secondo le quali avrebbe preso le distanze dalla sorella e il gesto sarebbe stato “apprezzato” dai boss. Secondo le indagini era lui a “riscuotere le estorsioni e tenere la cassa della famiglia” e a “provvedere direttamente al sostentamento di alcuni uomini d’onore delle famiglie mafiose”. Tanto da essere ritenuto un uomo riservato della famiglia di Vergine Maria. “Io vorrei capire Pinù com’è partito tutto questo bordello”, gli diceva Scotto il 7 agosto 2016, poco dopo essere tornato all’Arenella. “Lo ha chiamato di nuovo, gli dice altre fesserie – aggiungeva – che vi siete fottuti i soldi voialtri e non ho parlato e voialtri parlate ancora?”.

Parlavano di un’estorsione a un negozio di ferramenta ed elettrodomestici che “evidentemente era già stata percepita” da Costa che “per una forma di rispetto aveva contattato gli imprenditori anticipandogli che il denaro doveva essere consegnato direttamente a Scotto”. Nelle intercettazioni le tracce per ricostruire la geopolitica del pizzo. “I soldi sono, fino al 2006, poi dal 2006 in poi che minchia chiamavano a me. Lo zio Totò e Nino hanno detto: non andare piu da nessuna parte perché se arrestano a te, soldi non ce n’è. Vacci e gli vai a dire che non li vogliamo piu”, diceva Costa al boss. Quando Scotto tornò all’Arenella, riprese il controllo delle estorsioni. E accennava anche al superlatitante Matteo Messina Denaro: “Quando sarà lo puoi fare venire perché mi manda sempre i saluti di Alessio, di Messina Denaro, questa che non c’è più… questo che è latitante”, diceva nel 2017 riferendosi a un soggetto non identificato.

Santelli nomina Ultimo, ma lei governa da Roma

Jole Santelli vuole governare la Calabria da Roma e non da Catanzaro. Una comodità non di poco conto, visto che da molti anni è residente nella Capitale, ma la neo presidente della Regione la spaccia per strategia politica convocando i giornalisti nella sala stampa della Camera dei deputati e non nel capoluogo calabrese dove ha sede la giunta regionale.

“Per almeno tre giorni alla settimana lavorerò dagli uffici romani perché è importante che la Calabria torni a dialogare con lo Stato e sia presente a tavoli strategici, così da assicurare un rapporto costante con tutti gli organismi istituzionali presenti nella Capitale, in particolare con il governo e il parlamento”. Dopo più di 20 giorni dalla vittoria elettorale, la neo presidente di Forza Italia si presenta ancora afona: “La delegazione di Roma della Regione Calabria – dice con un filo di voce – deve essere un motore pulsante della nostra attività, perché buona parte del lavoro si svolgerà proprio qui”.

“Non bastano gli effetti speciali a coprire la gravità di queste dichiarazioni. La Calabria non è un reality show”. Il consigliere regionale Pippo Callipo, già candidato del centrosinistra alla Regione, non ha dubbi: “Non è certo un buon inizio. La Regione non può essere gestita da lontano. E i calabresi non devono essere presi in giro”.

Jole Santelli si appresta, quindi, ad essere non solo la prima donna alla guida della Regione Calabria ma vuole farlo a una distanza che i malpensanti sospettano sia “di sicurezza” dai suoi stessi alleati. Il dato certo è che, come un pilota che vuole guidare un’auto da corsa senza salirci a bordo, la Santelli sarà la “tele-governatrice” della Calabria con il rischio però di rivelarsi una presidente part-time” della Regione. Che, intanto, gongola e sventola il decreto di nomina del primo assessore.

La sorpresa ha il volto nascosto: Sergio De Caprio, il Capitano Ultimo, sarà l’assessore all’Ambiente della giunta Santelli. “Ha accettato la mia offerta qualche giorno fa. – la governatrice è entusiasta – Sono molto contenta per la mia Regione. Capitano Ultimo non ha nessun problema di ordine pubblico, lavorerà tranquillamente, potrà uscire e muoversi con la scorta”.

“Il mio obiettivo è tutelare l’autodeterminazione delle comunità calabresi senza l’interferenza delle mafie di ogni tipo”. Sono le prime parole del carabiniere che nel 1993 ha girato le manette ai polsi a Totò Riina e che, negli anni scorsi, è finito al centro delle polemiche per la mancata perquisizione del covo del boss di Cosa nostra. Appena arriverà il nulla osta dell’Arma, Sergio De Caprio sarà l’assessore di un centrodestra calabrese che in Consiglio regionale è riuscito a catapultare impresentabili, imputati e soggetti che in passato, dalle carte della Dda di Catanzaro, “si sarebbero avvalsi dell’appoggio esponenti della criminalità locale per garantirsi il bacino di voti”. A palazzo Campanella siederanno tutti alla destra di De Caprio che, a quel punto, potrà smentire le cattiverie di chi, in queste ore, accosta il “Capitano ultimo” allo specchio che la Santelli ha preparato per le allodole.

Rousseau, la mina a 5 Stelle. La guerra di pressioni su Crimi

La questione che per il M5S vale come un bottone rosso sta sul tavolo del reggente che parla con tutti e che tutti provano a strattonare. Un dossier che i giocatori in campo negli Stati generali sperano di non dover affrontare, per lo meno non ora e non per primi. Meglio augurarsi che sia innanzitutto Vito Crimi, capo politico temporaneo ma effettivo, ad aprire il varo alle modifiche allo Statuto, quindi a confini e poteri della piattaforma web Rousseau e dell’omonima associazione, quella di Davide Casaleggio.

Emanazioni della casa madre di Milano che, norme alla mano, a oggi controllano il M5S, e non viceversa. Geometria parziale, visti i poteri da Statuto del capo politico e del Garante Beppe Grillo: ma che sta ugualmente stretta a quasi tutti i big in partita per il congresso, quegli Stati generali di cui proprio Crimi ha parlato ieri mattina alla Camera ai deputati, immaginando un “percorso condiviso” verso il congresso con assemblee locali e almeno due votazioni su Rousseau prima dell’evento. Ancora senza una data, anche se ieri il reggente ha parlato di assemblee regionali prima del referendum sul taglio dei parlamentari del 29 marzo. Cioè riunioni dove mettere assieme e sgrossare le proposte sui macro-temi (valori, temi o obiettivi, regole) e decidere in particolare emendamenti sulle regole previste dallo Statuto. Indicazioni che andranno poi ratificate da votazioni sulla piattaforma. Poi, in aprile, dovrebbe partire un lavoro di limatura delle proposte da parte dei facilitatori tematici, e alla fine si avrebbe un secondo passagio su Rousseau. “Ad occhio così gli Stati generali scivoleranno a maggio” spiegano, anche se non è certo. È invece sicura l’insofferenza per il peso di Rousseau, di cui l’erede di Gianroberto è perfettamente consapevole. Per questo pochi giorni fa ha reagito con rabbia a una puntata molto dettagliata di Presa diretta sulla piattaforma, scendendo poi a Roma per difendere la sua creatura a Porta a Porta. “I parlamentari sono contenti di versare 300 euro mensili alla piattaforma” ha sostenuto. Ma ovviamente non è vero. Tanti, tantissimi sono stanchi di pagare quella cifra.

Soprattutto, vogliono che Rousseau diventi “un prestatore di servizi al Movimento” come spiega al Fatto un big di governo. Ergo, non lo pensano solo i senatori Di Nicola, Dessì e Crucioli, promotori di un documento in cui si chiede che “la piattaforma passi sotto il controllo del M5S”. Per questo Casaleggio scende sempre più spesso a Roma. Vuole controllare l’evolversi della discussione sugli Stati generali, capire e se in che misura il ruolo di Rousseau finirà dentro il congresso. Prospettiva che lo preoccupa, come ufficialmente agita anche l’ex capo politico Luigi Di Maio, pronto a riprendere il controllo del M5S, se per interposta persona o tramite altri si vedrà (il Fatto aveva scritto il 24 gennaio della sua idea di Alessandro Di Battista e Chiara Appendino come capi, ma è difficilissima da realizzare). “Se tocchiamo Rousseau rischia di crollare tutto” ripete da settimane Di Maio.

Però l’ex capo sa che aria tira sulla piattaforma. E poi un Casaleggio così potente è ingombrante anche per lui, il suo sodale. Quindi non farà muro se più anime del Movimento invocassero cambiamenti profondi. D’altronde un’altra big come Paola Taverna lo ha detto al Fatto la settimana scorsa: “Parlare di Rousseau negli Stati generali? Perché no?”. E da qui si torna a Crimi, che ragiona sul futuro della piattaforma da gennaio, prima delle dimissioni di Di Maio. È lui, assieme ai sei facilitatori nazionali, a dover definire il perimetro del congresso. E il percorso “più aperto possibile” di cui ha parlato ieri alla Camera deve anche sminare il campo. Perché Crimi avverte le pressioni incrociate perché sia lui a esporsi su Rousseau. E sta attento, alla mina.

Salvini in ruspa a Napoli: “Sembra un campo rom”

Chissà che Napoli ha visto Matteo Salvini. Pare peggio di Kabul: “Ho fatto un giro al centro – ha detto il leghista – e sembrava un campo rom, gente che pisciava, materassi abbandonati”.

Ieri il “capitano” è tornato a fare campagna elettorale nella città con cui ha un rapporto storicamente complicato, almeno dai tempi del coro intonato a Pontida nel 2009 (“mamma che puzza, scappano anche i cani, stanno arrivando i napoletani…”). Ai vecchi apprezzamenti si è aggiunta la vivida descrizione di un borgo-favela dove la gente dorme e fa pipì per strada (malgrado il centro di Napoli sia frequentato da fiumane di turisti, evidentemente difficili da scandalizzare).

Il leghista, come sempre gli capita da queste parti, è stato accolto da varie forme di protesta. Centro blindato, striscioni solertemente rimossi dalla Digos (“No Salvini no Trump”), manifestazioni di centri sociali e sardine (anche se molte meno dello scorso novembre).

L’ex ministro dell’Interno è riuscito comunque a portare a termine il suo mini-tour di propaganda senza incidenti. Prima una visita alla sartoria Marinella, quella che produce le cravatte più amate da Silvio Berlusconi, dove Salvini ha incontrato alcuni imprenditori partenopei. Poi un passaggio a Scampia nella palestra di Pino Maddaloni, campione di judo e punto di riferimento nel quartiere più iconico della periferia napoletana. Infine il comizio propriamente detto, al Teatro Augusteo di via Toledo. Fuori, un cordone di polizia separa Salvini e il suo pubblico dai contestatori. All’interno invece il “capitano” viene bloccato per diversi minuti da un black out. Resta sul palco, microfono in mano, senza poter dire niente. Anche la sua “Bestia” è silenziata: il comizio di Salvini stranamente non va in diretta sui social network.

Poi torna la luce e il leghista va a ruota libera. Il teatro è pieno. Sul tema del giorno – chi sarà il candidato del centrodestra per la Campania – non si sbottona: “Non basta il nome, se ci fosse Maradona da solo non vincerebbe, ha bisogno di una squadra per far vincere Napoli e la Campania”. Risposta diplomatica: è noto che il candidato scelto da Forza Italia, Stefano Caldoro, a Salvini non piace. Ma non è ancora tempo dello scontro aperto. “Qui c’è tanto da fare dopo De Magistris e De Luca, quindi se c’è bisogno di qualche giorno in più per completare la squadra penso siano giorni ben spesi”.

Non è serata di grandi guizzi salviniani. “Prima si va a votare e meglio è – come ripete da giorni –. Sono disposto a dialogare anche con Italia Viva se serve per tornare alle urne. Ma dialogo anche con Conte. Io dialogo anche con Conte perché in questi mesi non si è fatto nulla, litigano su tutto, è difficile anche fare opposizione. A me va bene anche Topolino se mi porta al voto”. Preferisce Conte o Topolino? “Topolino”.

Fuori, nel presidio dei centri sociali viene sventolato lo striscione “Napoli non dimentica” e compare un fotomontaggio di Salvini con una svastica sul petto.

Dentro, l’originale racconta una città che gli sembra “un campo rom”. Un pretesto per colpire i soliti bersagli: “Tra la Raggi e De Magistris non so chi è meglio, in Cina hanno fatto un ospedale in una settimana, mentre a Roma ci sono voluti 300 giorni per riaprire la fermata Barberini, solo in uscita”. Il battutista prende gli applausi, saluta e riparte. Oggi è a Taranto.

Vitalizi, Caliendo non deve astenersi: è “imparziale”

Giacomo Caliendo gongola. Perché dopo aver annunciato un mezzo passo indietro dalla Commissione di cui è presidente al Senato e che deve decidere sul ripristino dei vitalizi, ora è di nuovo in corsa: il presidente del Collegio di appello di Palazzo Madama Luigi Vitali ha deciso che non ci sono i presupposti per accogliere la sua astensione. Messa sul piatto per uscire dall’angolo al picco delle polemiche che hanno investito in pieno la Commissione contenziosa pizzicata mentre era pronta a sfornare una sentenza preconfezionata (corredata persino da un comunicato ufficiale, entrambi anticipati dal Fatto), prima della camera di consiglio fissata per il 20 febbraio scorso. Insomma non proprio quisquilie. Eppure per Vitali, non ci sono ragioni di opportunità che tengano e meno che mai un conflitto di interessi che giustifichi l’astensione di Caliendo. Che anzi, non deve assolutamente farsi da parte perché c’è in gioco qualcosa che va al di là della sua stessa persona. La sua astensione equivarebbe a cedere a una prepotenza che mette a rischio il Palazzo e le sue prerogative: accettarla significherebbe determinare un “pericoloso precedente” per il quale un organo di autodichia (il sistema di giustizia interna del Senato) rischia di vedersi impedito nella funzione “solo per campagne di stampa, manifestazioni pubbliche o attività di altri gruppi di potere e politici”.

Leggasi la manifestazione di sabato scorso del M5S per protestare contro una sentenza attesa da un collegio, assai chiacchierato fin dalla sua nomina da parte della presidente del Senato, Elisabetta Casellati. O meglio di alcuni suoi membri: Caliendo, futuro percettore di vitalizio, ma anche i giudici laici (e i loro supplenti) di diretta indicazione della presidente. Che ne aveva pescato certamente uno tra le amicizie del suo capo di gabinetto, Francesco Nitto Palma: l’ex magistrato Cesare Martellino, relatore dei ricorsi sui vitalizi. Anche quello di Palma, che poi si era convinto a ritirarlo anche se della decisione beneficerà comunque. Poi era venuto fuori che tra i supplenti c’era pure la figlia di un ex senatore percettore di vitalizio oggi assegnato in regime di reversibilità alla vedova: Marianna De Cinque che poi si è convinta che era il caso di dimettersi dalla Contenziosa. Insomma una serie di ombre che solo dopo le rivelazioni di stampa con annesse polemiche, hanno indotto la Casellati a sollecitare un passo indietro di tutti i componenti che lei stessa aveva nominato. E che invece sono rimasti al loro posto: tranne Caliendo che ha annunciato di volersi astenere, ma che ora potrà rimanere pure lui al suo posto. Certo, la sentenza preconfezionata prima della camera di consiglio è stata una leggerezza, anche se – par di capire – più grave è ritenuta la sua divulgazione. Ma tutto ciò, a detta di Vitali, non mette comunque “in discussione l’imparzialità e la serenità del collegio e del suo presidente”. Che anzi va ringraziato per il bel gesto.

I giudici bussano al Viminale per i voli di Salvini ministro

C’è un altro Tribunale dei ministri che indaga su Matteo Salvini. Stavolta non è in Sicilia ma a Roma, non è questione di navi ma di aerei ed elicotteri. Voli di Stato. Il collegio presieduto dal giudice Maurizio Silvestri ha inviato una richiesta di documentazione ai vertici della Polizia e dei Vigili del Fuoco sull’utilizzo dei loro velivoli da parte di Salvini, quando era ministro dell’Interno dal giugno 2018 all’agosto 2019. L’atto è stato depositato il 9 gennaio, non risulta che la risposta sia arrivata al collegio formato anche dalle giudici Marcella Trovato e Chiara Gallo.

L’ipotesi di reato è abuso d’ufficio, i magistrati intendono verificare se l’allora ministro abbia utilizzato i voli di Stato anche per la sua attività di leader della Lega. La Procura di Roma, dopo aver ricevuto il fascicolo dalla Corte dei Conti, ha iscritto Salvini nel registro degli indagati come atto “dovuto” e ha mandato le carte al Tribunale dei Ministri, secondo le regole sui reati ministeriali già applicate al capo della Lega per le navi con a bordo migranti trattenute per giorni prima dello sbarco.

Qui però non siamo alla richiesta di autorizzazione a procedere, il Tribunale romano potrebbe archiviare. Il fascicolo riguarda dunque alcune trasferte dell’ex ministro su di aerei ed elicotteri di Polizia e Vigili del Fuoco. A volte un Piaggio P-180, bimotore soprannominato la “Ferrari dei cieli”. Era stato il quotidiano Repubblica che lo scorso maggio aveva ricostruito parte dei viaggi, spiegando un presunto escamotage dell’ex ministro: agganciare agli impegni istituzionali quelli di partito. Sarebbe successo – secondo il quotidiano – il 4 gennaio 2019, quando con il volo Milano-Pescara viene abbinato un vertice sulla sicurezza all’apertura della campagna elettorale abruzzese. E ancora il 10 maggio 2019, quando l’allora ministro alle 7 del mattino parte da Ciampino per Reggio Calabria su un P-180, poi un elicottero Agusta lo porta a Platì per una cerimonia antimafia, quindi a Lamezia Terme e infine a Catanzaro per un comizio. Salvini vola poi a Napoli per la conferenza stampa sugli arresti per il ferimento della piccola Noemi (l’allora vicepremier sarebbe passato in Prefettura) e conclude la lunga giornata atterrando a Milano Linate.

Altro esempio, riportato dal quotidiano, risale al 25 aprile 2019: un P-180 porta l’allora ministro da Ciampino a Palermo, dove prenderà un elicottero fino a Corleone per inaugurare il nuovo commissariato di polizia e festeggiare la Liberazione. E poi il 15 settembre quando a bordo del solito Piaggio Salvini vola a Linate: il giorno dopo è ospite da Barbara D’Urso a Domenica Live.

Come detto, dopo gli articoli di Repubblica, la Procura contabile apre un fascicolo che ha poi archiviato (non ravvisando alcun danno erariale) su “20 voli con aereo P.180 e 14 voli con elicotteri in dotazione al Dipartimento di Pubblica sicurezza, nonché un volo con aereo P.180 in dotazione” ai Vigili del fuoco, utilizzati “per trasferimenti in ambito nazionale” di Salvini e “di altro personale al seguito (scorta, capo segreteria, capo ufficio stampa, ecc.)”. Trentacinque trasferte. È “ritenuta illegittima – si legge nel decreto di archiviazione dei pm contabili – la scelta di consentire l’uso dei menzionati velivoli per la finalità di trasporto aereo del ministro e del personale al seguito”.

I magistrati ricordano che i voli di Stato (decreto legislativo n. 98 del 2011) sono limitati al capo di Stato, ai presidenti di Camera e Senato, al presidente del Consiglio e al presidente della Corte costituzionale. Le “eccezioni” devono essere “specificamente autorizzate”. E l’autorizzazione mancava nelle carte in mano ai pm contabili, i quali tuttavia escludevano il danno erariale perché se Salvini e i suoi avessero preso voli di linea – secondo i magistrati – le spese sarebbero state superiori o uguali al volo di Stato (meno di mille euro all’ora): “I costi sostenuti – scrivono – non appaiono essere palesemente superiori a quelli che l’Amministrazione dell’interno avrebbe sostenuto per il legittimo utilizzo di voli di linea”.

Dalla Polizia hanno escluso irregolarità perché a Salvini, come ministro dell’Interno, era “attribuito il primo livello di protezione che gli dà diritto all’utilizzo di aerei di Stato” e in tutti i casi sono stati documentati impegni istituzionali.

La società vuota della compagna di Conte e quel debito scontato

La Guardia di Finanza sta vagliando due operazioni, segnalate dall’Antiriciclaggio di Bankitalia, che riguardano anche Olivia Paladino, compagna del premier Giuseppe Conte, in qualità di socia d’una azienda di famiglia, la Agricola Andromeda srl. Nei prossimi giorni, terminata quella che in gergo viene definita fase pre investigativa, la Gdf valuterà se inviare in procura le segnalazioni ricevute e svelate ieri da La Verità.

Le due operazioni sospette riguardano il rimborso per un vecchio finanziamento, contratto dalla Agricola Andromeda, nel 1994, con la banca popolare della Marsica, per 1 miliardo di lire. Dal 2016 la Andromeda Agricola – i suoi soci sono Olivia, sua sorella Cristina, suo fratello John Rolf Shawn Shadow – cerca di rateizzare il suo debito che, nel frattempo, è prima passato al Monte dei Paschi di Siena e poi alla società di cartolarizzazione Sestino Securitisation srl. La proposta di estinguere il debito da circa 500mila euro con 330mila euro da versare a rate viene bocciata nell’aprile 2017: la società di riscossione ne chiede infatti 27mila in più. La Andromeda Agricola versa due rate e poi, nel 2019, quando Conte è premier da tempo, avanza una proposta migliorativa, offrendosi di pagare 145mila euro, ancor meno dei 330 mila per i quali aveva già ricevuto un rifiuto. E questa volta l’intermediario accetta. Ed è proprio questo il passaggio finito sotto osservazione. Le segnalazioni per operazioni sospette legate al 2016 e 2017 sono già state ritenute dalla Gdf non suscettibili di integrare reati. Sulla transazione al ribasso del 2019 la Gdf deve ancora esprimersi. Il punto è che la Andromeda Agricola srl, posta a garanzia del debito, risulta inattiva: come mai viene accettata in garanzia? E ancora: se il pagamento del debito non arriva dalla Andromeda Agricola srl, con quali soldi sono state pagate le rate previste dall’accordo?

Air Force, si indaga per truffa. Le lettere sulla “fretta” di Renzi

Su quello che è passato alla storia con il nome di Air force Renzi c’è un’indagine per truffa aggravata. Il fascicolo è stato aperto dalla Procura di Civitavecchia, che alcuni giorni fa ha chiuso l’inchiesta per la bancarotta di Alitalia Sai. Il procuratore Andrea Vardaro, i sostituti Allegra Migliorrini e Mirko Piloni, con l’aggiunto Gustavo De Marinis della procura di Roma, hanno inviato l’avviso di conclusione delle indagini a 21 persone che si sono alternate ai vertici di compagnia aerea tra il 2014 e il 2017. Parallelamente hanno depositato gli atti a disposizione delle parti. Tra questi c’è anche il provvedimento di stralcio del 22 novembre 2019, con cui i pm dispongono di inserire gli atti investigativi sull’Airbus 340 in un fascicolo separato, ex articolo 640 comma 2 del codice penale. Significa che sul costoso velivolo acquistato in leasing da Etihad i pm ipotizzano la truffa aggravata dall’aver ingenerato “nella persona offesa il timore di un pericolo immaginario o l’erroneo convincimento di dovere eseguire un ordine dell’Autorità”.

“È urgente in previsione dei viaggi del premier”

Il reato sarebbe stato compiuto il 17 maggio del 2016, cioè il giorno in cui Alitalia sigla il contratto con il ministero della Difesa per la fornitura di “un servizio di mobilità aerea per le esigenze istituzionali delle massime Autorità dello Stato”. Il Fatto Quotidiano ha raccontato nei mesi scorsi tutti i dettagli e i retroscena di quell’accordo da 168 milioni di euro, voluto dal governo di Matteo Renzi e rescisso da quello di Giuseppe Conte. Su questa storia è stata aperta un’indagine da parte della Corte dei Conti. Da novembre, invece, la Procura di Civitavecchia ha formalizzato la sua ipotesi di reato: al momento del provvedimento di formazione il procedimento era a carico d’ignoti, non si sa se in seguito siano stati individuati eventuali indagati, né quale sia il destino dello stralcio. Agli atti al momento ci sono i verbali di sommarie informazioni di Gaetano Intrieri, il manager aeronautico ed ex collaboratore del ministero ai tempi di Danilo Toninelli che nell’estate del 2018 bloccò l’affare. E poi ci sono le annotazioni del Nucleo di polizia economico finanziaria della Guardia di finanza di Roma, che da mesi indaga sulla vicenda. L’8 agosto le Fiamme Gialle inviano in procura una nota da 656 pagine in cui ripercorrono tutta la storia del costoso aeroplano. Tra gli allegati c’è anche quello che rappresenta il primo atto in cui si trova traccia dell’Air force: una lettera che l’allora sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Claudio De Vincenti invia all’ex ministra della Difesa Roberta Pinotti. È l’11 settembre 2015, anniversario dell’attentato alle Torri Gemelle: mettendo da parte qualsiasi scaramanzia De Vincenti scrive alla Pinotti per spiegare che “è intendimento del presidente del Consiglio garantire al Paese, al presidente della Repubblica, alle più alte cariche dello Stato e al governo tutto la disponibilità di un servizio di volo basato su una piattaforma della classe Airbus A340-500 con capienza adeguata, dotato di idoneo allestimento protocollare e opportunamente configurata con sistemi di comunicazione che garantiscano il necessario grado di tutela e riservatezza”. Renzi ha sempre detto di non aver mai avuto nulla a che vedere con l’Airbus: “Quell’aereo non era per me, ma per le missioni internazionali delle imprese. Io non ci ho mai messo piede”. E in effetti non risultano viaggi dell’ex premier a bordo del gigante dei cieli. Nella sua lettera, però, De Vincenti spiega a Pinotti che “l’attuazione” dell’acquisto è “urgente e prioritaria, soprattutto in previsione di una serie di missioni assai importanti già previste nei prossimi mesi, in particolare da parte del presidente del Consiglio dei ministri”.

Proprio quello: matricola 748

Che a Palazzo Chigi ci sia fretta emerge anche nel febbraio 2016, quando il segretario generale scrive alla Difesa per confermare “l’esigenza di questa presidenza del Consiglio dei ministri di disporre con estrema urgenza dell’aeromobile indicato in oggetto, tenuto conto del rilievo e della collocazione geografica degli imminenti impegni internazionali del signor presidente del Consiglio dei ministri che avranno luogo a partire dalla metà del corrente mese di febbraio”. Nella loro relazione le Fiamme gialle sottolineano soprattutto una parte della missiva di De Vincenti: quella in cui il sottosegretario scrive: “Anche al fine di razionalizzare l’impiego delle risorse disponibili e considerata la rapida obsolescenza dei moderni aeromobili, dovuta all’incalzante progresso tecnologico, si ritiene che il criterio di economicità possa essere perseguito mediante le modalità del leasing del velivolo, piuttosto che attraverso la sua acquisizione, che avrebbe un costo di circa 200/300 milioni di euro”. Gli investigatori, però, fanno notare come “in merito a tali affermazioni, si ribadisce che il riferimento all’economicità della formula del leasing rispetto ad una acquisizione (che ‘avrebbe avuto un costo di 200/300 milioni di euro’) appare in contrasto con il valore dell’operazione di leasing ipotizzato in sede di inizio delle trattative, pari a circa 260 milioni di euro, solo in seguito ridotto a circa 170 milioni euro nella versione finale del contratto”. Ma non solo. Le Fiamme Gialle segnalano anche come “sin dalle comunicazioni iniziali della Presidenza del Consiglio dei ministri, risulta non solo essere individuato un modello specifico di aeromobile (Airbus A340-500), ma viene indicato anche il numero di matricola dello stesso (748)”. Insomma: non volevano un aereo, volevano quell’aereo.

Rostan e Cerno, la campagna acquisti di Iv

In Italia Viva doveva essere la settimana degli addii. Invece, per il momento, Matteo Renzi e i suoi possono gongolare, perché invece di perdere pezzi la truppa in Parlamento si allarga grazie all’adesione di Michela Rostan, eletta alla Camera con LeU, e soprattutto di Tommaso Cerno, senatore dem prezioso nella risicata conta a Palazzo Madama.

E per quanto la Rostan assicuri che la sua scelta “non c’entra con il governo” e che “continuerà a votare la fiducia al Conte 2”, i tempi e i modi dei due cambi di gruppo non possono passare inosservati.

Anche perché i motivi degli addii riguardano l’operato dell’esecutivo, a partire dalla frecciata di Cerno: “La mia esperienza nel Pd si è prescritta”. Segno che la battaglia sulla giustizia è tutt’altro che chiusa: “Trovo che il progetto politico del Pd di progettare un’Italia proporzionale dove i governi e i processi durano in eterno non corrisponde alla mia visione del Paese”.

Così anche la Rostan, che invece prende di mira il ministro alla Salute in quota LeU, Roberto Speranza: “Una prima sconfitta riguarda il rinnovo dei farmaci che combattono l’epatite C nel Fondo per gli innovativi. Ho provato a farlo inserire nel Milleproroghe, con un nulla di fatto. Dal nostro ministro è arrivato un parere contrario, evidentemente ispirato dall’Aifa”.

E ancora: “La seconda sconfitta è arrivata sulla legge per il contrasto alle violenze su medici e personale sanitario, per cui mi sono impegnata a riconoscere lo status di pubblico ufficiale. Ma in commissione dal governo è arrivato parere contrario”.

Così la Rostan e Cerno cercheranno rifugio tra i renziani, lei che dal Pd era uscita proprio ai tempi della protesta contro l’ex segretario e lui che poco fa aveva giurato che non avrebbe seguito il senatore fiorentino.

A descrivere i giorni della scissione di Mdp è proprio la Rostan: “Scelsi di aderire al Pd perché innamorata dell’idea, di unire finalmente i diversi filoni del riformismo. Quel grande sogno è purtroppo svanito”. Così parlava l’onorevole in una lettera al Corriere del Mezzogiorno nel 2017, indicando proprio nella stagione renziana il motivo della sua fuga: “Ho provato tanta rabbia per la miopia e l’arroganza con la quale sono stati minimizzati i nostri gravi insuccessi. Non so, francamente, cosa ancora debba succedere per aprire finalmente gli occhi”.

Pessimo anche il giudizio politico: “Parliamoci chiaro. Le nostre principali riforme si sono rivelato un clamoroso fallimento. Prendo atto dell’assoluta mancanza di volontà di Matteo Renzi di apportare le correzioni necessarie”. Tutto perdonato. O forse è Michela Rostan che ha cambiato idea sul suo (ex) nuovo leader. D’altra parte anche il No Tav Cerno appena cinque mesi fa giurava: “Il mio contributo sarà sempre alla sinistra italiana. Auguro a Renzi ogni fortuna, ma non con me”.

Il blitz fallito per rendere inutilizzabili anche i tabulati dello scandalo Consip

Dopo la prescrizione, Italia Viva prova senza successo a mettersi di traverso alle modifiche del decreto Intercettazioni del 21 dicembre e il voto al Senato slitta a oggi. Le barricate di Matteo Renzi e dei suoi parlamentari si ergono in mattinata contro l’emendamento a firma dell’ex procuratore Piero Grasso, senatore di LeU. Emendamento poi ritirato e sostituito, ma senza che cambi la sostanza, da uno del relatore Mario Giarrusso, M5S, con tanto di subemendamento dei capigruppo della maggioranza in Commissione Giustizia, compresa Iv. Insomma Renzi ci ha provato, ma non è riuscito a indebolire l’uso delle intercettazioni. Per capire gli strepiti di Iv, va spiegato l’emendamento Grasso, ricalcato dal nuovo: sì all’utilizzo delle intercettazioni, per un reato diverso e grave per il quale erano state autorizzate, purché sia intercettabile. Al Fatto risulta che viene concepito mercoledì scorso in una riunione della maggioranza al ministero della Giustizia, presente pure Giuseppe Cucca di Iv, finita alle 2 di notte.

Obiettivo: superare una sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione di gennaio. Secondo la Suprema Corte, in sostanza, non si possono utilizzare le intercettazioni per un reato diverso da quello per cui sono state autorizzate se non in caso di connessione con l’originario e autonomamente intercettabile, oppure in caso il reato “emergente” preveda l’arresto in flagrante. L’emendamento sembra anche recepire le criticità sul punto inserite nel parere del Csm sul decreto intercettazioni, relatori i togati Nino Di Matteo e Giuseppe Marra. Ma i paletti posti dalla Cassazione hanno avuto il plauso dei renziani, che hanno provato a farli restare. Senza un intervento del legislatore, proprio per la sentenza della Cassazione, per esempio, sarebbero inutilizzabili le intercettazioni nell’ambito dell’inchiesta Consip di Roma, che sono alla base dell’accusa di traffico di influenze a carico dell’imprenditore Alfredo Romeo e di Carlo Russo e per cui è finito indagato anche Tiziano Renzi. E a Napoli, i difensori di Romeo, imputato per corruzione insieme al suo collaboratore Ivano Russo, hanno già ottenuto l’inutilizzabilità di intercettazioni a loro carico. Ma a fine giornata c’è l’accordo in Senato anche con Iv, arresasi per la paura di andare al voto. Secondo l’emendamento Giarrusso con subemendamento “i risultati delle intercettazioni non possono essere utilizzati in procedimenti diversi da quelli nei quali sono stati disposti, salvo che risultino rilevanti (come da subemendamento, ndr) e indispensabili per l’accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza e per reati gravi, fra i quali” spaccio, usura, e reati corruttivi con pena sopra i 5 anni.

Se passa il testo così com’è sembra salvo l’uso delle intercettazioni senza quei limiti posti dalla Cassazione e che preoccupano togati del Csm e tanti pm.