L’ex Rottamatore ci disturba più di Razzi e Scilipoti

Quando si parla di “responsabili” uno è portato a pensare male. Per esempio, al faccione di Sergio De Gregorio, eletto senatore nel 2006 con Antonio Di Pietro poi passato al Popolo della Libertà, accusato di essere stato corrotto da Silvio Berlusconi per votare contro il governo Prodi.

Per esempio, alla celebre coppia Antonio Razzi e Domenico Scilipoti, trasmigrati cinque anni più tardi sempre da Idv nell’apposito gruppo parlamentare di “Iniziativa Responsabile”: in totale furono 21 a essere folgorati sulla via di Arcore.

Insomma, è uno di quei casi in cui il nome della cosa, da positivo (chi si assume una responsabilità mettiamo per il bene del Paese) tende piuttosto a virare verso il fortemente negativo (chi è ritenuto responsabile di un reato, mettiamo quello di essersi venduto). Così, quando leggiamo che “in queste ore una pattuglia composta da tre, quattro, forse addirittura cinque senatori di Forza Italia, sarebbe pronta ad astenersi, un primo passo verso l’ingresso in maggioranza” (Repubblica) abbiamo come dei brutti presentimenti.

Innanzitutto, tenderemmo a non fidarci. Secondo poi non siamo sicurissimi che l’immagine del governo e del suo premier da questi apporti ne uscirebbe irrobustita. Anche perché ci interroghiamo sul come. Se per diventare “responsabile” siano banditi concorsi per titoli ed esami? O basta fare domanda? Ai tempi del presidente-padrone, si sa, tutto era demandato alle regole del cosiddetto mercato, basate sulla legge della domanda e dell’offerta. Un accordo si trovava sempre.

Dubitiamo che oggi si possa ricorrere a pratiche di quel genere, tanto più da parte di una coalizione guidata da un serio avvocato e con il ruolo preminente dei 5Stelle, partito dell’onestà per definizione.

Forse però, nel nostro caso, l’offerta di cui sopra potrebbe superare di gran lunga la domanda e alludiamo ai non pochi (soprattutto forzisti ed ex grillini approdati nel Gruppo Misto) interessati a restare in questo Parlamento visto che il prossimo (dopo il cospicuo taglio di deputati e senatori) rischiano di vederlo solo in tv.

Elencati i motivi di buon gusto che ci fanno diffidare della categoria dei “responsabili” (intesi come disponibili, accessibili, utilizzabili, eccetera) dobbiamo ammettere che sull’altro piatto della bilancia c’è qualcosa che ci disturba ancora di più: Matteo Renzi. Nulla di lui può sorprenderci, ma quando lo abbiamo visto su Instagram pavoneggiarsi tra principesse e ricchi finanzieri per mancanza di prove abbiamo sentito, confessiamolo, una certa qual nostalgia canaglia per Razzi e Scilipoti. Prontamente repressa finché non si è appreso delle reiterate minacce contro il governo Conte lanciate mentre con il suo stile inconfondibile opprimeva le nevi pachistane. In quel momento non diciamo di aver rimpianto le gesta di De Gregorio, ma qualcosa di decisivo è scattato in noi. “Se devo scegliere tra due mali preferisco sempre prendere quello che non ho mai provato” (Mae West).

Giustizia, guerra continua. Il nuovo azzardo di Renzi

Scarpe a punta senza lacci, capelli cortissimi che evidenziano l’abbronzatura pachistana e mano rigorosamente sullo smartphone a mostrare le sue discese sciistiche sull’Himalaya, a Palazzo Madama, Matteo Renzi è pronto per l’ennesima battaglia. “Sarà quella definitiva che lo porta fuori dalla maggioranza? O ancora per oggi si limiterà a un ultimatum a Giuseppe Conte, come fa capire, parlando con cronisti e colleghi? “Vi consiglio di guardare Bruno Vespa domani (oggi, ndr). È importante per la legislatura”, si spinge a dire. Farà un discorso durissimo, ribadirà che il governo è fermo. Insomma, una sorta di sfiducia politica. A questo punto, comunque sia, la rottura è questioni di giorni, al massimo di settimane, forse di ore.

Italia viva è stata protagonista dell’ennesima giornata complicata per la maggioranza e per tutto il giorno si sono rincorse le voci più estreme. Compresa quello che voleva l’ex premier sia pronto a ritirare i ministri.

A Palazzo Madama la crisi quotidiana scoppia di mattina, in commissione Giustizia, sul decreto intercettazioni, che deve essere convertito entro la fine del mese, passando anche alla Camera. Pietro Grasso (LeU) propone un emendamento che allarga le maglie dell’uso delle intercettazioni.

Davide Faraone annuncia il voto contrario di Italia viva: il rischio che la maggioranza vada sotto è concreto. Si sospendono i lavori. Il sottosegretario alla Giustizia, Andrea Giorgis si precipita in Senato, per trovare un accordo. Grasso ritira l’emendamento, il pentastellato Mario Giarrusso, relatore, ne scrive uno ad hoc.

A sera, la crisi rientra, ma intanto l’Aula viene rimandata a oggi.

L’impressione generale a Palazzo Madama è che gli equilibri siano pronti a saltare. “La maionese è impazzita”, dichiara Luigi Zanda, tesoriere Pd. L’ennesimo incidente non lascia indifferenti i piani alti del Nazareno. I dem del Senato chiamano sia Nicola Zingaretti sia Dario Franceschini per avvertirli. “Adesso basta”, è la reazione unanime. Il Pd comincia a non poterne più. “Dev’essere Conte a risolvere il problema, trovando i Responsabili o trattando per far rientrare qualche senatore di Iv”, è la linea del partito. Il segretario è pronto ad appoggiare un Conte ter, persino un nuovo premier, ma punta alle elezioni il prima possibile. Magari in autunno, dopo il disegno dei collegi per la nuova legge elettorale. Riappare pure Enrico Letta: “Ho un po’ di capelli in meno ma i problemi mi sembrano sempre quelli…”.

Renzi arriva in Aula di pomeriggio. E spiega così la sua strategia: “Se c’è un governo senza di noi, noi rispettiamo il Parlamento. Però se non hanno i numeri e se siamo decisivi per la maggioranza, allora dico: ‘Ascoltate anche noi’. Il punto è che c’è una norma sulla prescrizione che io non condivido, la porto in discussione in Aula e su questo vado avanti fino in fondo”. Non è chiara la tempistica di questo “andare fino in fondo”. Ma l’ex premier ci tiene a sottolineare il fatto che è stato Conte ad avere una “reazione muscolare” sulla giustizia. Dunque, aspetta, ma è pronto al fallo di reazione: un attimo dopo (o un attimo prima) dall’eventuale arrivo dei Responsabili, lui uscirà dal governo. D’altra parte, il fattore tempo a questo punto per lui è essenziale: deve evitare l’irrilevanza. E dunque, meglio l’opposizione con il centrodestra, meglio andare alle elezioni con il proporzionale, meglio cercare di posizionarsi dall’altra parte della barricata. Così, smentisce con forza le tensioni dentro Iv e annuncia due nuovi arrivi. In serata si capisce che sono Michela Rostan (ex scissionista di LeU) e Tommaso Cerno. Poi riunisce i gruppi a cena a Trastevere in una trattoria, Da Teo. Grande pathos e grande riservatezza. Mentre Renzi porta a cena i suoi, anche i Responsabili si incontrano. Alla Camera si registra l’ultra-attivismo di Renata Polverini, al Senato di Paolo Romani.

Conte, chiamato in causa da tutti, fa sapere che non si lascia “distrarre” o “impressionare” da Renzi. Ma lancia un avvertimento: “Italia Viva si interroghi al proprio interno e valuti se vuole proseguire questa esperienza di governo con rinnovato entusiasmo e piena disponibilità”. Altrimenti, la logica conseguenza è che bisognerà prenderne atto di fronte al Paese, affidandosi a un percorso parlamentare.

Chi paga?

Per fortuna non siamo iscritti al Club dei Garantisti all’Italiana. Altrimenti ora staremmo qui a strepitare per chiedere punizioni esemplari contro i pm di Roma, da Pignatone in giù, che nello scandalo Consip non si occuparono delle persone giuste (Tiziano Renzi, Alfredo Romeo, Alberto Bianchi, Francesco Bonifazi, Luca Lotti, Denis Verdini) perché troppo impegnati a indagare su quelle sbagliate (Henry John Woodcock, Federica Sciarelli, Gianpaolo Scafarto). Già, perché è questo che afferma, nelle 200 impietose pagine della sua ordinanza di rigetto alle richieste di archiviazione della Procura capitolina, il gip Gaspare Sturzo, pronipote di don Luigi, dopo 16 mesi di riflessione.

Tre amici al bar. Si parte dall’incontro, sempre negato dagli interessati, ma accertato dai carabinieri analizzando le “celle” telefoniche, fra babbo Renzi, il suo galoppino Carlo Russo e l’imprenditore Romeo in un bar di Firenze il 16 luglio 2015. I pm lo trascurarono con la scusa che Romeo incontrò Russo “solo” un anno dopo, fra agosto e ottobre del 2016. Invece, per il gip, l’incontro Tiziano-Romeo è decisivo perché due mesi dopo Carlo chiede a Tiziano di fare un “rinforzino” sull’ad renziano di Consip, Luigi Marroni, cioè premere su di lui perché assecondi i desiderata del genitore dell’allora premier Matteo; dopodiché Tiziano incontra proprio Marroni. Quanto basta per “rivalutare la potenzialità criminale dell’effettività dell’incontro del 16.7.2015 tra Romeo, Russo e Renzi Tiziano (detto ‘il Babbo’)”.

Mister X è Romeo. Il 4 marzo 2015 Russo istruisce su Telegram (non intercettabile) il tesoriere renziano Pd Bonifazi, che sta per incontrare un misterioso personaggio: “Buongiorno Francesco solo per evidenziarti passaggi fondamentali dell’incontro di stamani. Lui deve capire che io sono il suo unico interlocutore e che ho rapporti privilegiati senza che venga fuori il nome di T.” (Tiziano). Secondo il gip Sturzo, il Mister X che Bonifazi doveva incontrare e avvertire del ruolo di Russo plenipotenziario del mondo renziano era molto probabilmente Romeo. A questo messaggio decisivo, segnalato dai carabinieri e poi dal Fatto, i pm non dedicano una sola riga nella nota all’informativa dell’Arma. Come se non esistesse. Infatti non interrogano neppure Bonifazi su chi fosse il Mister X che incontrò e quali questioni dovesse trattare con l’“unico interlocutore” Russo. Così la Procura può concludere che l’incontro fra Tiziano e Romeo di quattro mesi dopo “non muta punto” la decisione di chiedere l’archiviazione per entrambi.

E tratta Russo come un millantatore che spende il nome del padre del premier a sua insaputa. Eppure – nota il gup – il messaggio a Bonifazi fa scopa con una telefonata di una settimana prima tra Romeo e Alfredo Mazzei (un pidino napoletano amico del renziano Bianchi) a proposito di Russo, “il cui senso è stato totalmente pretermesso dalle conclusioni del pm”. Invece la chiamata “qualifica apertamente il contenuto illecito della proposta che il Russo starebbe costruendo assieme a Renzi Tiziano, identità criptata con l’acronimo ‘T.’, soggetto che doveva restare coperto nella mediazione con la persona di cui Russo sarebbe rimasto il referente. O meglio Romeo Alfredo come sappiamo, che definisce questa persona rilevante come ‘Papà’”. Il tutto alla vigilia dell’apertura delle buste della gara Consip Fm4, che il gip ritiene “turbata” a favore di Romeo. Altro che archiviazione.

Verdini e verdoni. Il giudice bacchetta i pm pure per le mancate indagini sul pressing su Marroni di due parlamentari di Ala, Verdini e Abrignani per favorire il loro amico imprenditore Ezio Bigotti: qui la Procura doveva “analizzare meglio il contenuto delle dichiarazioni di Marroni quanto alle pressioni subite dai parlamentari Verdini (detto ‘Verdos’) e Abrignani, dati riscontrati dalle intercettazioni”. E ordina ai pm di indagare i due ex “onorevoli” per concussione e turbativa d’asta.

Bianchi e rossi. Anche il ruolo di Alberto Bianchi, avvocato renziano e presidente della fondazione Open (ora indagato a Firenze) andava approfondito meglio dai pm “quale legale esterno di Consip, che partecipava ad atti del Cda e poi si faceva promotore di almeno un incontro accertato tra Marroni e Canale della Manutencoop, quanto al rischio di esclusione di questa società da tutte le gare pubbliche e da quelle Consip, a seguito dei pronunciamenti giurisdizionali per illecita turbativa di gare pubbliche”: cioè per piegare la “linea di fermezza e legalità” dei vertici Consip sulla coop rossa inquisita.

L’uomo di Palazzo Chigi. Ultima perla. Le omissioni dei pm hanno impedito “di far comprendere le interferenze illecite di tal soggetto non meglio individuato, operante da Palazzo Chigi, in grado di chiamare Ferrara Luigi e Marroni Luigi (presidente e ad di Consip, ndr

) e ottenere un possibile trattamento di favore a Manutencoop negli appalti aggiudicati da Consip, tramite l’opera dell’avv. Bianchi”. Già, chi era il “soggetto operante da Palazzo Chigi” in pieno governo Renzi (Matteo)? Ah saperlo.

Ora la Procura di Roma ha 90 giorni per fare ciò che non ha fatto in oltre due anni. E, se anche lo farà, avrà comunque regalato agli indagati 27 preziosi mesi di prescrizione, per la gioia dei “garantisti” cultori della “ragionevole durata del processo”. Noi, non essendo nel Club, diamo per scontato che i pm abbiano infilato questa impressionante serie di errori e omissioni per pura sbadataggine. Dunque non invochiamo dal Csm punizioni esemplari. Ci accontenteremmo che il prossimo capo della Procura di Roma non avesse nulla a che fare con chi l’ha gestita così bene negli ultimi anni. Cioè che arrivasse, come minimo, da Bolzano.

“The New Pope”: un’Apocalisse alla portata di tutti

Ho visto le prime cinque puntate di The New Pope di Sorrentino, della serie precedente non avevo guardato un fotogramma, non gli davo uno sputo, non guardo le serie, i fantasy, il calcio, i cuochi, i reality (se mi capita, preferisco farli, la gente mi chiede se “è tutto vero”, io rispondo “non saprei” per tenerezza a tanta ingenuità di ricezione del mezzo per adesione intera, a francobollo, l’unica cosa che abbia mai visto dei programmi a cui ho preso parte, pagato, è se era arrivato il bonifico); mi stuccano a morte i Segreti, i Misteri, i Familismi pomeridiani in cui gli ospiti promotori di un loro gadget… libretto, dischetto, filmetto, spettacolino… per vendere devono vendere la loro vita privata spesso inventandosene una sui due piedi; mi ripugnano i programmi che distribuiscono soldi e oroscopi; mai vista una sola puntata sul commissario Montalbano, sulle Amiche geniali (a dar credito ai trailer, di certo superiore alla sbobba cartacea cui si ispira la serie), le Gomorre (che d’istinto, spostandomelo in verità per grattarmelo, chiamo Gonorree, anche se non ne prendo una da trentacinque anni, bella forza, e non ne vado fiero); inoltre io esigo dai presentatori una pronunzia secondo lo standard ancora non pervenuto ma già codificato dal senso comune, una pronunzia senza birignao dialettale, come sento la calata napoletana, lombarda, toscana e in particolare romana cambio canale ovvero spengo (Propaganda Live su La7, mio tempo di sopportazione: tra i due e i quattro minuti, fatali comunque); ho cercato strenuamente di guardare il Festival di Sanremo ma o cantavano o arrivavano Fiorello e quell’altro presentatore, quello ufficiale, e le belle a stampino che facevano un passo avanti e pertanto gli veniva concesso di dire i nomi delle canzoni, degli autori, dei direttori d’orchestra, delle nonne e l’abbiocco è stato quasi immediato sera dopo sera (però ho saputo dalle prime pagine dei giornali, debitamente online, che alla fine due uomini hanno mimato un bacio e che c’è stato un premiato, ma non so chi dei due); sono insensibile ai troni di spade e ai maghetti – mai letta una pagina sul Potter, mai vistone un adattamento cinematografico –, credo che gli preferirei i tronisti e le ursine frittate col cuore, almeno uno spiraglio sul Paese reale te lo forniscono e talvolta più stringente (…) dei battibecchi dei talk show coi soliti quattro fritti e rifritti saltati in padella, e sono contrario a qualsiasi tipo di abbonamento televisivo extra, con tutta quella pubblicità già mi sembra un abuso intollerabile il canone Rai; in sintesi: non provando alcuna curiosità visuale a parte per i video su YouTube inerenti la fonetica dei vari tipi di Inglese e di Tedesco e un po’ di pornografia sia gay che etero per farmi passare, da secoli, ogni velleità di rimettere il naso fuori dalla porta per timore che mi possa capitare qualcosa di simile per strada (e anche per il terrore che possa riprendermi la produzione di sperma, mi mancherebbe pure quest’altra pugnalata alle spalle); insomma, non avrei il tempo per rientrare in minima parte della spesa di un abbonamento extra muros o extra moenia che sia.

Già, la chiavetta con le prime cinque puntate piratate di The New Pope – portatami a tradimento da un conoscente al quale non ho avuto la crudeltà di dire di portarsela pure via subito – è rimasta lì sul tavolo non so quanti giorni, io nemmeno so come si fa a scaricare chiavette di questo tipo, la mia conoscenza del computer è scientemente ridotta e siccome è via via sempre più ridotta rispetto alle costanti evoluzioni della tecnologia informatica, sempre maggiore diventa la mia autostima; social, poi, nemmeno a parlarne, se volessi fare un incubo davvero contemporaneo sarebbe destarmi di soprassalto per scacciare il sospetto di avere visto fare capolino nei labirinti orfici un like, un tweet o peggio ancora un follower, roba da disgraziati assoluti alienati a sé e al mondo il cui unico pregio sociale è che la propria camicia di forza se la pagano di tasca propria e se la insozzano e se la lavano a vicenda, anche se poi un pericolo lo corriamo tutti noi che di quella desolata landa dell’Azoospermia per lui e del No squirt per lei non facciamo parte, perché talvolta, per fortuna raramente, questi invasati qua dal cervello fumante di libidini represse e ipocrisie scatenate e odio (per se stessi, ovvio: e ben gli sta) escono di casa – e non si sa mai come va a finire se per caso li incroci sul tuo cammino.

Poi, a forza di trafficare, il 16 febbraio, sono riuscito a installare la chiavetta nel computer e, alleluia, ho visto le prime cinque puntate di The New Pope. Di fila, saranno un cinque ore con le minzioni d’obbligo: mai visto niente di più istrionico, incantatore, affascinante e scritto… da veri maestri del cinema, autoriale e sperimentale senza fartelo pesare un solo istante… dai tempi di A qualcuno piace caldo e Pulp Fiction; ho ammirato la tessitura puntigliosa, sfuggente solo in apparenza, ogni dettaglio della quale, prima buttato lì, ritorna con un suo inaspettato rilievo, e anche le storie collaterali sono intriganti, con talune comparse che si rivelano nello svolgersi degli eventi sempre più protagoniste; una Venezia fotografata come non ricordavo da anni, di sfuggita, monumentale eppure evanescente, niente di documentar-turistico, splendidi i costumi, mai un anacronismo in un siffatto e gigantesco arazzo pieno di perle forse comiche forse no (vi è citata tale Meghan, al momento, 2025, amante del candidato nuovo papa di origini anglosassoni, ennesimo colpo di genio con vigliaccata incorporata degli scaltrissimi sceneggiatori), deliziose le musiche da birichina messa rock e da urlo i testi delle canzoni (ah, che ritmico incanto ormonale quella voce, solo per caso femminile, che di sé sussurra “I am a good time girl”!), e gli attori e le attrici principali – che sono parecchi e a pari merito di bravura e parimenti cruciali per la trama – magistrali, coerenti al ruolo senza un inciampo o una distrazione fuori registro.

Dapprima ho rimpianto che la versione datami non fosse in originale ma poi ho concluso che solo la lingua italiana poteva conferire a quei dialoghi dalla cifra sadiana la leggera, ironica, drammatica con mondanità e inverosimile, retorica ampollosità che gli ingenui presuppongono nella bocca degli aristocratici (tali se anche della Finanza) e dei potenti, cardinali e papi in primis, che poi tra di loro nella vita di tutti i giorni (lo so per esperienza, papi esclusi) parlano invece con la medesima aulica finezza dell’ultima zoccola di Borsa e di sagrestia (tanto l’una è l’anticamera dell’altra).

Purtroppo, l’opera è talmente artistica che invera il dogma inconfutabile secondo cui non esiste pubblicità negativa: invece di attivare un sano e radicale anticlericalismo busiano, anche la bellezza mozzafiato, ancillare ma necessaria, degli scenari paesaggistici e degli interni contribuirà quanto la romantica, ormai fantascientifica morbosità erotica dei credenti a ingrossare le file non solo dei fedeli al botteghino di Sorrentino, nuovo Papa della cinematografia mondiale, ma all’Elemosiniere universale della Chiesa tout court (non si registra qui negli amplessi tra cottage, camerate di suore di clausura, alcove rinascimentali e glory hole fatti si suppone nella sistina, giustappunto, Cappella, alcun calo del desiderio sessuale tipico della modernità rassegnatamente distopica, tanto pristina e surreale resta la potenza simbolica d’attrazione delle umane carnine in copione, le donne sono ancora attratte dai maschi e i maschi da chiunque come ai tempi di quando Berta filava, ridicoli finché si vuole ma beati loro, del resto i film migliori sono fatti per dar da sognare a chi non può permettersi altro, sono esche per una penultima piccola morte prima di tirare gli ultimissimi).

Aspetto con allegria – e parecchia gioia della mente estetica – le altre quattro puntate e ho scritto questo articolo, immoralmente gratis, quale “grazie” dovuto a tutti quanti hanno contribuito a questa opera d’arte che riordina il caos psicotico delle umane e gementi genti che stanno sopra e che stanno sotto in una cornice di struttura ferrea eppure evanescente per i prodigi della forma e le sinapsi di sostanza che regala di attimo in attimo.

Poi, se uno particolarmente colto… cioè graziato dalla coazione a proiettare sullo schermo ciò che nell’opera non c’è… volesse vedere il sequel come un neutro documentario degno di un definitivo Museo di storia naturale, perché no?

È un’apocalisse alla portata di tutti, non è l’Apocalisse, e purtroppo nemmeno la accelera: Sorrentino, fin troppo ontologico e terzo a se stesso, dice semplicemente e poeticamente come stanno le cose e soprattutto fa il punto dell’ancestrale, sciagurata e sempiterna Propaganda Fide, solo che è punto dalla vaghezza di dirlo con una maestria, e angelica innocenza di fondo, come nessun altro sarebbe capace.

Un’ultima annotazione non secondaria alla mia gratitudine.

Di solito vedo una cosa di un’ora e mezzo e dopo dieci minuti non ricordo niente: The New Pope, anche se non è dato vedere un Compasso e una Squadra che facciano le veci delle briciole di mollica nella fiaba di Pollicino, è una festa della memoria, l’imbuto inarrestabile dell’oblio si è capovolto e a distanza di ventiquattro ore da quando ho chiuso il computer e tolto la chiavetta mi rivedo e passo in rassegna le inquadrature che voglio, come voglio e quando voglio, le scelgo addirittura.

Ricordo tutto, e lo ricorderò a lungo.

P.S. E, caro Sorrentino, a quando una serie di pari vampiresca impunibilità dei protagonisti intitolata, pur dando ogni rilievo ai rari martiri in vita e in morte, The New Judge (Trionfo della Legge uguale a Giustizia calpestata?) ? Un altro sottotitolo potrebbe suonare (La Neo Giudice e il Bellomo), ma le varianti si sprecano. Io stesso avrei spunti preziosi, vecchi e freschi, per la sceneggiatura, e se i capitali lo permettessero, si potrebbe dare al Pio Ermellino Assoluto l’importanza che merita partendo dal ’45 tuttora più attuale in Italia, quello del 1545 del Concilio di Trento, che poi è, più del recente dopoguerra, quello che fino a oggi garantisce la laicità dello Stato e il conseguente Stato di Diritto in Italia.

Va da sé che sarei molto, molto onorato se, mettendo i puntini sulle i che a me sfuggissero, ne accettasse la revisione il pm Nino Di Matteo (lo slogan di lancio delle dieci puntate del Foro potrebbe ricorrere a una delle tante sensate citazioni estrapolabili dalle sue dichiarazioni, ora come ora me ne viene in mente una particolarmente carina per armonia stilistica e adamantina per chiarezza, “I magistrati fanno carriera con metodi mafiosi”, ma non c’è che l’imbarazzo della scelta).

Casto è diventato Cuni (grazie al Q.I.)

Una costante battaglia contro gli stereotipi: di questo è inzuppata ogni attività di Immanuel Casto, artista assurto alle cronache per i suoi lavori che hanno fatto straripare lo stagno del pubblico pudore. Perché in quelle acque si è tuffato a bomba – già dai primi del Duemila – bagnando gli astanti sulle sponde e lasciandone parecchi infastiditi. Game designer che riesce ad alzare polveroni ad anni di distanza (vedere la polemica su Squillo), avanguardista del trollaggio, sfrontato interprete di testi che uniscono populismo e orifizi, adesso parla con il nome all’anagrafe, Manuel Cuni. Perché come tale è entrato a far parte del Mensa Italia (nel 2008) e ne è diventato recentemente presidente. Il Mensa è un’associazione internazionale senza scopo di lucro, nata nel 1946 a Oxford, di cui possono essere soci coloro che hanno raggiunto o superato il 98º percentile del QI, in un test standardizzato. “Lo stereotipo consolatorio, come tutti gli stereotipi, che più spesso accompagna le persone plusdotate è che questa condizione porti con sé una certa componente di disagio” spiega Cuni, prendendo le distanze dalle etichette che, nella versione più pop del preconcetto, li rendono tutti “nerd”. Cuni ha già in mente di aggiungere, alla consueta attività divulgativa e gratuita del Mensa e alla neonata rivista digitale QUID, un vero e proprio festival di appuntamenti che si configurino come un’apertura al pubblico. Perché se è vero che generalizzare non è possibile, è altrettanto vero che si deve “fare attenzione al Gap percepito nell’interazione con gli altri, specialmente in giovane età: qualsiasi cosa faccia sentire diverso un bambino, lo fa sentire sbagliato. Parlo per esperienza personale, incarnando più di una diversità”. Cuni ha scoperto di avere un quoziente d’intelligenza che gli valeva il Mensa nell’ambito di un’indagine che seguì una diagnosi per Disturbi Specifici dell’Apprendimento. “La mia insegnante di italiano sollevò il problema, ma non c’era ancora una cultura in merito e arrivai al test molti anni dopo”. Cuni non è Casto, ma s’incontrano nell’umorismo, “che è tutt’altro che poco serio” e nella “spinta alla formulazione di un pensiero critico e non unico”.

Tormentato, innovativo, malinconico Pat

A sei anni di distanza dall’album Kin ritorna sulle scene il virtuoso chitarrista jazz Patrick Bruce Metheny con dieci nuove composizioni inedite. Accompagnato dal fedelissimo batterista Antonio Sanchez, la bassista malese-australiana Linda May Han Oh e il pianista inglese Gwilym Simcock, Pat si è lasciato circondare dalla Hollywood Studio Symphony condotta da Joel Mc Neely. Al progetto hanno collaborato tre ospiti d’eccezioni quali la cantante Meshell Ndegeocello, il percussionista Luis Conte e l’armonicista Gregoire Maret. Abbiamo ascoltato in anteprima From This Place, nei negozi e negli store online dal 21 febbraio. A sorpresa l’artista ha recentemente dichiarato anche la sua disapprovazione per l’attuale politica americana: “Ho composto la title-track l’alba del 9 novembre 2016, il giorno dopo le ultime elezioni e il triste risultato”. Sin dalla prima traccia, la monumentale American Undefined (tredici minuti) si comprende lo spirito profondo e tormentato che ha accompagnato il lavoro del chitarrista: un preludio di grandi armonie, un break inquietante e un finale plumbeo mozzafiato colorano di note spiazzanti un brano per nulla facile e perciò intrigante. È lo stesso musicista ad alzare l’asticella delle aspettative: “Questo è un disco che ho aspettato di realizzare da una vita”, commenta l’autore, “è una sorta di culmine musicale che racchiude una vasta gamma di espressioni che da sempre mi interessano. E, a differenza dal passato, penso di essere diventato più comunicativo. Tutto questo grazie alla collaborazione e all’affinità con i musicisti che hanno condiviso con me centinaia di notti sullo stesso palco”. Pat è universalmente considerato uno dei più grandi musicisti jazz e un convinto innovatore, capace di surfare tra le onde della “nuova” elettronica applicata agli strumenti classici e alla contaminazione della world music. “Ho sempre ascoltato John Coltrane, Ornette Coleman, Bill Evans, Herbie Hancock ma non disdegno di addentrarmi in nuovi generi: ultimamente sono rimasto ben impressionato dall’Esbjorn Svensson Trio”. Wide And Far è una promenade di virtuosismi, privilegia un mood soft e avvolgente; Same River è un dolce viaggio accompagnato dagli archi dell’orchestra e una melodia di una bellezza folgorante. Metheny esordì nel lontano 1975 con Bright Life Size nel quale spiccava la collaborazione di Jaco Pastorius. Ha alla spalle una ventina di Grammy a testimoniare una carriera autorevole e un pubblico affezionato in tutto il mondo.

Il suo Pat Metheny Group è una delle realtà più affermate nel jazz, purtroppo tornato alla ribalta per la notizia della scomparsa – dopo una lunga malattia – del tastierista e fondatore Lyle Mays. È in programma un nuovo atteso tour mondiale in partenza da Singapore il 2 marzo con una serie di date già confermate in Italia: il 9 maggio a Ravenna, il 10 a Foggia, l’11 a Roma, il 13 a Milano, il 14 a Torino e il 15 a Padova.

Arte, che sbornia! “Sorsi” di cultura alcolica

Astenersi astemi e/o timorati: papa Paolo III amava il vino ai pasti, ma ancor di più per tamponarsi “gli occhi ogni mattina et anco per bagnarsi le parti virili”. Nell’antica Roma, patria della giurisprudenza, esisteva invece “lo jus osculi, cioè il diritto del marito di baciare la moglie per controllare che l’alito non sapesse d’alcol: pena il divorzio, se non la morte”. Qualche secolo dopo, Brunelleschi si fece costruire un chioschetto sull’impalcatura della costruenda cupola del Duomo di Firenze: non poteva permettersi che gli operai interrompessero il lavoro per scendere a bere un goccetto.

Che sbronza, l’arte: la storia, il costume e finanche la religione sono imbevuti di etanolo; ce lo ricordano Massimo Scardigli e Roberto Sbaratto in Sorsi. Come farsi una cultura alcolica (Interlinea), un frizzantino pamphlet nato da uno spettacolo teatrale: i due autori – uno storico e un attore e musicista – ci guidano in un breve excursus tra le epoche e le muse, ciondolando tra tragedie greche e fumetti, musica e letteratura, in compagnia di ubriaconi e astemi, così stigmatizzati da Bulgakov: “Qualcosa di poco di buono si nasconde negli uomini che evitano il vino… O sono gravemente ammalati, oppure odiano in segreto il prossimo”. Mefistofele ne sa una più del diavolo se è vero che i grandi cattivoni – vedi Hitler e Mussolini – erano astemi, come pure il principe del Terrore, Robespierre, che mandò al patibolo Luigi XVI. Ma il re era il re: si presentò alla ghigliottina brillo.

Mentre Hemingway ci rammenta che il whisky va degustato con ghiaccio, Melville ci mette in guardia sulle cattive compagnie alcoliche: i colleghi. Sostiene Montaigne, invece, che “per essere buoni bevitori non bisogna avere un palato troppo delicato”.

“Bere, assieme alla paura dell’avvenire, è un segno distintivo dell’uomo” (Brillat-Savarin): la civiltà è nata con la coltivazione dell’uva e infatti, “ovunque arrivarono, le legioni romane piantarono viti”. Le prime furono innestate 8.000 anni fa, tra Caucaso e Turchia, proprio ai piedi dell’Ararat su cui si arenò Noè con l’arca: messo piede a terra, il patriarca si concesse subito un brindisi. Per i babilonesi, viceversa, non fu un uomo a scoprire la malia dell’alcol, ma una donna che stava tentando il suicidio: diventò un’alcolizzata, ma si salvò. Pare. Gli Egizi erano maniaci delle etichette (provenienza, anno, proprietario, cantiniere…); i greci avevano il culto di Eneo – donde l’enologia – e le loro Iliadi e Odissee traboccavano di sbevazzoni. Ad Atene e dintorni il vino era quasi un “farmaco”, spacciato senza ricetta nei simposi e nei riti orgiastici, alias vinalie e baccanali per i romani. Durante i festini – spiffera il pettegolo Giovenale – “le donne fra sesso e bocca non facevano nessuna differenza”. Indispensabile perciò, in quei party da basso impero, era l’advorsitor, “lo schiavo rimorchiatore, incaricato di riportare il padrone a casa dopo la sbornia”. Nella sola Pompei si contavano 200 osterie e il raffinato Catullo, quando non cantava l’amore, discettava di sbronze: “E tu vai dove ti pare,/ acqua, peste del vino”! Gli faceva eco il collega Quinto Orazio Flacco, per brevità chiamato Orazio: “Nessuna poesia scritta da bevitori d’acqua può piacere o vivere a lungo”.

Il poeta, per definizione del maestro Baudelaire, ha un “cuore sitibondo”, arrivando a contagiare, con la sua smania etilica, gli stessi personaggi di finzione, come il Gulliver di Swift, il Capitan Fracassa di Gautier, il Gatsby di Fitzgerald, Wolfe e Marlowe, Maigret e Montalbano. Le opere, i versi, i peana per l’alcol e altre ciucche – seguono lussuria e sonno – imperlano tutta la storia della letteratura: da Lorenzo il Magnifico a Neruda, da Fo a Engels, da De Amicis a Manzoni, da Goldoni a Wilde, che riuscì a sfornare uno dei suoi muriatici aforismi persino in fin di vita, con un bicchiere di champagne in mano: “Ahimè, sto morendo al di sopra delle mie possibilità”.

Altro che Coronavirus, Buzyn ora lotta per Parigi

“Non potrò essere candidata alle Municipali. Sono troppo occupata”: tra l’epidemia del Coronavirus e la crisi per la riforma delle pensioni, la ministra della Sanità, Agnès Buzyn, non sembrava interessata alla battaglia per Parigi. Le cose si sono ribaltate appena un paio di giorni dopo quella dichiarazione a radio France Inter: l’ormai ex ministra è da domenica la candidata di LaRem per Parigi. E ha pure assicurato: “Ne ho voglia. Mi candido per vincere”. Un voltafaccia che le rimproverano in tanti, dal personale medico ospedaliero in crisi da mesi, ai sindacati che stanno negoziando contro l’aumento dell’età pensionabile, ai rivali politici, naturalmente, che la accusano di aver lasciato il ministero in piena crisi. A precipitare le cose è stato lo scandalo a sfondo sessuale che, a meno di un mese dallo scrutinio, ha costretto il “primo” candidato di Macron, Benjamin Griveaux, a ritirarsi dalla corsa.

Nell’inchiesta per violazione della privacy, i due principali personaggi implicati – l’attivista russo Piotr Pavlenski che ha diffuso i video porno di Griveaux, e Alexandra de Taddeo, la donna alla quale i video erano destinati – dovranno essere ricevuti da un giudice per un’eventuale iscrizione al registro degli indagati.

Con la campagna di Griveaux scivolata sulla vendetta porno di un’ex amante, il partito del presidente doveva correre d’urgenza ai ripari. Serviva una figura nota, seria, competente da proporre ai parigini, ma anche consensuale per non creare attriti all’interno del partito, ora che non c’è più tempo. Il primo turno è il 15 marzo. Agnès Buzyn è la soluzione “anti-Griveaux” per eccellenza: 57 anni, medico specialista delle leucemie dalla bella carriera, l’ex ministra è una donna discreta, molto fine nei modi, sempre ben pettinata, mai niente fuori posto, la voce pacata, talvolta ridotta a un filo, in contrasto con la figura dell’uomo (o della donna) politico che sbraita e gesticola. Di fatto Agnès Buzyn non è una donna politica. Non ha neanche la tessera di LaRem. Quando è entrata al governo nel 2017 faceva parte dei ministri “tecnici” voluti da Macron. Ma non è che la politica non le interessi. Aveva già tentato di essere capolista alle Europee del 2019, con l’appoggio del centrista François Bayrou, ma la cosa non era andata in porto. Agnès Buzyn viene da una famiglia dell’alta borghesia parigina. Suo padre Elie Buzyn è un chirurgo di origine polacca sopravvissuto a Auschwitz. A soli 30 anni Agnès Buzyn era già a capo del reparto ematologia dell’ospedale pediatrico Necker di Parigi. Dal 2011 è presidente dell’Istituto nazionale del cancro e nel 2016-2017 è stata a capo dell’Authority della Sanità. Al ministero è stata lei a far votare l’aumento del numero di vaccini obbligatori e ad aver portato a 10 euro il prezzo del pacchetto di sigarette. Al suo successore, Olivier Véran, lascia la patata bollente della crisi degli ospedali e la futura legge sulla bioetica, oltre che la gestione dell’epidemia di Coronavirus. Con Buzyn la corsa al municipio di Parigi è quasi tutta al femminile. Ma c’è chi pensa che la battaglia contro Anne Hidalgo, la sindaca socialista che corre per il terzo mandato, e Rachida Dati, la candidata della Destra, sia persa in partenza. Ma Buzyn potrebbe rivedere il progetto di Griveaux poco popolare tra i parigini sin dall’inizio. Si discute anche di un eventuale avvicinamento con il macronista dissidente Cédric Villani.

Libia, embargo sulle armi: Sophia non basta più

La politica dei piccoli passi sulla Libia inizia a dare i suoi frutti: ieri nella riunione del Consiglio degli Affari esteri, a Bruxelles, è stata raggiunta l’intesa per una nuova missione navale europea per il controllo dell’embargo delle armi dirette a Tripoli. Ma non sarà una nuova edizione della missione precedente. Eunavfor Med Sophia, in scadenza il 20 marzo ma di fatto ridimensionata da circa un anno, non sarà rinnovata, né la nuova missione dovrà avere le stesse regole di ingaggio, precisa il ministro degli Esteri italiano Luigi Di Maio.

Si prevede che “le navi disposte in mare siano nella zona est della Libia” dove maggiore è il traffico di armi, ha chiarito da Bruxelles il ministro. La missione navale inoltre dovrà evitare di essere un richiamo per i migranti che fuggono dall’Africa, il cosiddetto pull factor che rendeva Sophia invisa ad Austria, Ungheria e Slovacchia. “Se (le navi) dovessero scatenare un pull-factor la missione si blocca” ha specificato Di Maio. Ecco la condizione per convincere i reticenti, intimoriti che una missione navale possa ripristinare i salvataggi in mare e riporti all’ordine del giorno la questione dei migranti e della loro redistribuzione. Del resto l’Alto rappresentante dell’Ue, Josep Borrell, lo aveva anticipato arrivando alla riunione del Consiglio Ue: “C’è più di un Paese contro il rilancio dell’operazione Sophia. Quando ci si avvicina alla decisione finale, in molti hanno riluttanze”. Insomma era l’unica via percorribile. “In Libia non è in gioco solo la questione migratoria, ne va della sicurezza dell’Europa” ha detto ai giornalisti tedeschi il ministro degli Esteri Heiko Maas da Bruxelles, lasciando intravedere uno degli argomenti usati per convincere i riottosi sulla necessità di una sorveglianza non solo aerea dell’embargo delle armi in Libia. Ma la missione navale, appunto, è solo un tassello dell’operazione: “Siamo d’accordo sul fatto che si debba lavorare – ha spiegato Di Maio – oltre alla sorveglianza aerea e navale, anche a quella terrestre, ai confini della Libia”. La sorveglianza dovrà essere in futuro aerea e terrestre. “Tutti gli Stati hanno dato disponibilità a dare assetti aerei e navali (chi li ha) per riuscire a compiere la missione di bloccare l’ingresso delle armi alla Libia”, ha aggiunto il capo della Farnesina.

Intanto da Berlino arriva un importante riconoscimento all’Italia da parte del portavoce della cancelliera Angela Merkel, Steffen Seibert, che oggi in conferenza stampa ha riconosciuto “il ruolo importante e costruttivo che ha giocato l’Italia in questo processo”, ragione per la quale il prossimo incontro del Comitato dei Seguiti (Follow up Comitee) si terrà a marzo in Italia.

Ora c’è spazio per una “stretta collaborazione” con Roma, ha detto il portavoce del ministero degli Esteri tedesco a Berlino. E questa collaborazione avverrà in diversi formati. Il formato E3 è un formato informale che tradizionalmente definisce gli incontri tra Gran Bretagna, Francia e Germania e sul tema Iran.

A dicembre scorso, a margine di un incontro E3 su Teheran si è parlato anche di Libia, ma a parte questo caso, su Tripoli l’Italia c’è sempre stata e non potrebbe non esserci, riferiscono fonti tedesche. “Nel formato E3 non ci saranno cambiamenti”, ha aggiunto il portavoce tedesco. “In questo formato non cambierà nulla, rispetto all’accordo sull’Iran. Germania Francia e Gran Bretagna sono gli attori che hanno preso parte all’accordo, e questo è stato formalizzato e messo nero su bianco”, ha aggiunto. “Questo non significa però che non ci possa essere una più stretta collaborazione con l’Italia in altri dossier” ha sottolineato ancora il portavoce.

L’intesa europea di ieri sull’embargo navale è il primo risultato concreto della troppo in fretta sepolta e bistrattata Conferenza di Berlino sulla Libia. Una conferenza che non ha mai promesso miracoli dall’oggi al domani, ma che ha un vantaggio: procedere, per piccoli passi, ma in avanti. Non poco di questi tempi muscolari, tutte chiacchiere e distintivi.

Bianchi e pericolosi. Ritorna il Ku Klux Klan: si chiama Patriot Front

L’estrema destra, la cosiddetta Alt-Right, intorbida il clima politico della campagna elettorale. Lo fa quasi sfacciatamente, senza timori, ché Donald Trump non è certo il presidente che la bastona, dopo averla addirittura ‘corteggiata’, all’inizio del suo mandato, dopo gli incidenti di Charlottesville. E parte della stampa Usa si chiede perché le forze dell’ordine non usino tutti gli strumenti disponibili per contrastarne le iniziative.

Ha creato sconcerto e allarme la marcia lungo il Mall di Washington di un centinaio di suprematisti bianchi del gruppo Patriot Front. Sabato 8 febbraio, al termine d’una settimana che aveva visto finire con l’assoluzione di Trump il processo d’impeachment del presidente e scoppiare il caos fra i Democratici per il disastro organizzativo delle prime battute delle loro primarie, il corteo dei militanti suprematisti del Patriot Front s’era sviluppato dal Lincoln Memorial a Capitol Hill, scortato da decine di poliziotti, numerosi in bicicletta. I manifestanti avevano loro bandiere (con un fascio iscritto nelle 13 stelle delle prime colonie), vestivano pantaloni cachi e giacche blu e sulla faccia avevano maschere bianche: scandivano “Reclaim America”, “Life, Liberty e Victory”. Proprio il fatto che fossero mascherati induce la National Public Radio a porre una domanda: “Le leggi del Distretto di Columbia vietano di andare in giro con una maschera sul volto. Allora perché agli estremisti di destra è stato consentito farlo?”, mentre la polizia della capitale federale è molto solerte nell’arrestare i ‘belli e famosi’ che, con Jane Fonda in prima fila, e senza maschere sul volto, chiedono sul Campidoglio misure efficaci contro il cambiamento climatico.

Il Patriot Front è un gruppo suprematista bianco, neo-nazista e neo-fascista: rientra nel più ampio movimento della Alt-right ed è nato da una scissione da una sigla analoga, Vanguard America, innescata dal raduno suprematista Unite the right dell’agosto 2017 a Charlottesville, in Virginia. Durante quell’evento, un neonazista lanciò l’auto sui contro-manifestanti, uccidendo una giovane donna nera e ferendo vari militanti anti-razzisti. Il corteo di Washington conferma la presenza di fermenti suprematisti bianchi di estrema destra nella società americana, anche se il loro peso nei processi politici appare, al momento, limitato. Numerosi commentatori mettono tuttavia in guardia dal sottovalutarli, segnalando i sussulti d’attivismo e di vitalità anche di gruppi razzisti ‘tradizionali’ come il Ku Klux Klan. In realtà, suprematisti e razzisti erano più inclini a mobilitarsi quando alla Casa Bianca c’era Barack Obama, un nero; adesso, i meno estremisti avvertono una certa sintonia con l’attuale presidente. La posizione ambigua di Trump dopo i fatti di Charlottesville, equidistante tra razzisti e anti-razzisti, aveva allora spaccato l’America: c’era il timore che acuisse i contrasti razziali incoraggiando i rigurgiti razzisti e contrapposizioni violente.

Manager di colore avevano disertato organismi consultivi presidenziali; manifestazioni si erano svolte da New York a San Francisco; e a Seattle si erano scontrati manifestanti pro e contro Trump; la polizia li aveva tenuti separati usando spray al peperoncino, c’erano stati fermi e contusi. La fiammata di rabbia contro il sussulto di razzismo e suprematismo non aveva però innescato un’estate violenta, com’era invece avvenuto nel 2015 e, soprattutto, nel 2016, quando poliziotti bianchi uccisero neri inermi e ci furono rappresaglie. Quegli episodi, insolitamente frequenti, erano il segnale della frustrazione e dell’insofferenza dell’America razzista verso un presidente nero. Dopo Charlottesville, il Dipartimento della Giustizia aveva aperto un’inchiesta per “terrorismo interno”. Ma pochi mesi fa, s’è scoperto che l’Fbi ha anche indagato per “terrorismo domestico” un gruppo che si batte in California per i diritti civili: nella circostanza, i ‘g-men’ si muovevano per tutelare il rispetto dei diritti d’espressione di membri del Ku Klux Klan e di neo-nazisti e suprematisti bianchi. Se non siamo più ai tempi di Mississippi Burning e neppure de La Calda Notte dell’Ispettore Tibbs, il Ku Klux Klan, che predica la supremazia dei bianchi e che ha da poco celebrato i suoi 150 anni, è sempre vivo, anche se la rinascita sperata sfruttando l’abbrivio dell’esito delle presidenziali 2016 non c’è in fondo stata. Nel Sud dell’Unione, il rito che vede gli incappucciati bruciare la croce nella notte si ripete ancora. E le adesioni al KKK sono aumentate durante il doppio mandato del presidente Obama. Siamo, comunque, nell’ordine delle migliaia di adepti, rispetto al milione e passa dell’epoca nera del Klan, fra le due guerre. Aderire al clan oggi è facile: basta compilare un modulo sul web, essere di razza bianca e religione cristiana. I proseliti possono poi acquistare online per 145 dollari la tunica bianca con il marchio del clan.