Salvare il business senza regole. Missione di Zuckerberg in Ue

Il campo da gioco è questo: Facebook ha 2,5 miliardi di utenti attivi al mese, 1,6 miliardi al giorno, nel 2018 venivano caricate quotidianamente in media 300 milioni di foto. Nascono almeno 5 nuovi account ogni secondo e se si dovesse calcolare un post al giorno per ogni utente, sulla piattaforma circolerebbero almeno 365 miliardi di contenuti ogni anno. Tutto questo senza tener conto che a Facebook fanno capo anche Instagram (1,5 miliardi di utenti) e Whatsapp (2 miliardi). La quantità di materiale che circola nel sistema è spropositata e produce dati utilizzati per vendere pubblicità. Un business miliardario, dominante e non regolarizzato per anni. Ora, un cambio di rotta sembra nell’aria. Tale da portare Mark Zuckerberg, il fondatore del social network, a discutere direttamente con Bruxelles. Le grane sono tante, arrivano da regolatori e politici, ma anche dai numeri raggiunti dal colosso.

Nel 2019 il social network ha avuto ricavi per 70,7 miliardi di dollari (erano 55,8 l’anno scorso), utili di 7,34 miliardi nel quarto trimestre rispetto ai 7,8 miliardi del 2018. A pesare sul rallentamento (che a fine gennaio ha fatto bruciare in borsa almeno 30 miliardi di capitalizzazione) è stato l’aumento dei costi per il personale e la sicurezza. L’impero, infatti, è ostaggio di una parola, in Europa come negli Usa: “Responsabilità”.

Mark Zuckerberg a Bruxelles ieri ha incontrato li commissari Ue Margrethe Vestager (Concorrenza e Digitale), Thierry Breton (Mercato interno) e Vera Jourova (Trasparenza) e “responsabilità” è la palla che stanno provato a far rimbalzare. Facebook, contestualizzando quanto previsto dalla bozza del nascente documento programmatico sulla strategia digitale dell’Unione europea per i prossimi cinque anni deve: 1) prendersi la responsabilità della sua posizione dominante che soffocherebbe il mercato digitale europeo e i piccoli player; 2) Prendersi la responsabilità del non pagare le tasse là dove produce utili e non solo dove ha la sede legale (e, per la verità, ne paga pochissime anche lì); 3) essere chiaro e trasparente sul funzionamento dei propri algoritmi e su come vengono utilizzati i dati degli utenti. Richieste chiare e lineari ma di portata enorme per gli affari di Facebook. Il punto su cui l’Ue deve infatti ancora fare chiarezza – si legge nella bozza del documento – è “chiarire quale sia la responsabilità delle piattaforme nel rendere Internet più sicura”. Prospettiva terrificante per l’azienda che potrebbe dover essere responsabile di ogni singolo contenuto pubblicato pur rispettando la libertà di espressione, con un impiego di personale e investimenti enorme. Come se non bastasse, al netto delle sanzioni già inflitte per l’acquisizione di Whatsapp, a dicembre la Commissione Ue ha avviato le indagini preliminari su Google e Facebook chiedendo informazioni e documenti sul funzionamento degli algoritmi e su raccolta e uso dei dati degli utenti dopo lo scandalo di Cambridge Analytica.

Formalmente, Facebook abbassa il capo perché sa che la remissività mascherata da predisposizione al dialogo può ridurre il danno, tanto più che la crociata ai colossi della tecnologia oramai è tema di campagne politiche nonché il cavallo di battaglia dei regolatori. “Non credo che compagnie private dovrebbero prendere così tante decisioni da sole quando toccano i valori democratici fondamentali”, ha scritto Zuckerberg due giorni fa sul Financial Times. E mentre va a Bruxelles, il suo social network pubblica un White Paper per definire “Un cammino da percorrere sulla regolamentazione dei contenuti online” a firma della vice presidente Monika Bickert. Nel testo ci sono le linee guida per strutturare il dibattito.

In sostanza, dice ai regolatori cosa devono fare loro per non soffocare l’innovazione, non colpire la libertà di espressione e non dimenticarsi della globalità di Internet e quindi della necessità di una legislazione praticamente universale. Insomma, dice che la responsabilità di Facebook è solo applicare le regole che arrivano dalla legge purché la legge sia globale e non nazionale. Poca roba, quindi, nessun cambiamento. Il terrore della responsabilità è tale che sabato, alla Security Conference di Monaco, Zuckerberg ha parlato di Facebook come una via di mezzo tra un giornale e una società di telecomunicazioni.

Sui soldi, ha anche sostenuto alla vigilia dell’incontro con i commissari, di essere favorevole a una web tax purché sia uguale in tutto il Mondo, dunque secondo il modello Ocse. Di quella tassa, però, non si vedrà traccia prima di due anni: l’ultima riunione, a fine gennaio, si era conclusa con vaghe proposte da parte degli Usa di un safe harbour non chiaro, con l’opposizione di Olanda, Irlanda e Lussemburgo, con la bocciatura della proposta di votare a maggioranza qualificata. L’Ue dice che farà da sè se lo stallo si prolungherà, ma sono in pochi a crederci

La protesta non ferma la nave delle armi

Come da tradizione anche per il ministero degli Esteri nulla osta al passaggio di armi destinate all’esercito saudita impegnato nella guerra in Yemen. La legge 185 del 1990 che regola import/export e transito di armi in Italia non è stata ancora mai modificata (pende una proposta di legge del senatore M5S Gianluca Ferrara) e, quindi, le maglie larghe garantiscono che la Bahri Yanbu, la nave saudita carica di armamenti destinati alle forze armate impegnate in Yemen, possa proseguire il suo cammino.

Lo ha denunciato anche ieri la 5Stelle Alice Salvatore, capogruppo in Consiglio regionale ligure. E del resto la Prefettura genovese, come raccontato dal Fatto, aveva sostenuto l’inapplicabilità della legge 185: “Non sono coinvolte imprese italiane nella spedizione, il transito è regolare”.

Come avvenuto nei porti europei finora scalati (col caso estremo di Anversa, dove le autorità fiamminghe hanno impedito l’attracco), la nave ieri mattina è stata accolta anche a Genova da un presidio di associazioni pacifiste. La differenza è stata che per qualche ora, malgrado il mancato appoggio alla protesta da parte della Cgil (che a maggio in un caso analogo aveva indetto uno sciopero), i portuali hanno valutato la possibilità di astenersi dal lavoro, adducendo l’obiezione di coscienza sulla base proprio della 185. Nel primo pomeriggio, però, è arrivata la rinuncia e l’inizio delle operazioni di carico (di materiale civile).

“Senza iniziative sindacali, pensavamo di poterci appellare almeno a quella norma. Ma i rappresentanti del M5S, che avevamo investito della questione data la titolarità degli Esteri, ci hanno riferito del diverso avviso del Ministero”, racconta Jose Nivoi, delegato Filt Cgil ed esponente del Collettivo Autonomo Lavoratori Portuali. “Il Ministro Luigi Di Maio si è attivato con l’Uama (Unità autorizzazioni materiali armamento) per verificare l’applicabilità della norma. Ma la 185 negli anni passati è stata svuotata ed è per questo che il senatore Ferrara ha depositato un ddl per potenziarla in modo da impedire episodi simili”, sostiene Salvatore.

A confermarlo è la Farnesina: “Il caso della Yanbu è un caso di transito. La 185 non si applica, perché non c’è passaggio doganale”. Una mozione sottoscritta da diverse forze parlamentari lo scorso 26 giugno impegnava il governo italiano a spingere in sede europea per l’adozione di un embargo comunitario alle forniture militari all’Arabia e ad “adottare gli atti necessari a sospendere le esportazioni di bombe d’aereo e missili che possono essere utilizzati per colpire la popolazione civile”. Intanto l’associazione Weapon Watch ha depositato un esposto in Procura. La norma è contraddittoria: vieta il transito di armamenti (quale che sia la nazionalità dello spedizioniere) verso “Paesi i cui governi sono responsabili di gravi violazioni delle convenzioni internazionali in materia di diritti umani” (e sulle violazioni saudite in Yemen non mancano le prese di posizione internazionali, citate anche dalla stessa mozione parlamentare), ma all’articolo 16 dice che il divieto non si applica alle armi “oggetto di transazioni commerciali all’estero da parte di soggetti residenti in Stati terzi”. Come quelle sulla Yanbu.

La Procura per il momento non si è pronunciata. Ma nei giorni scorsi una nave libanese, la Bana, è stata bloccata dagli inquirenti a Genova, sebbene il sospetto traffico d’armi fra Turchia e Libia fosse stato svelato dalla Marina francese, per giunta in acque internazionali.

Ubi &C.: sempre meno addetti, sempre più utili agli azionisti

Mentre Unicredit trattava con i sindacati un maxi-piano da 6 mila esuberi volontari, Ubi annunciava una sforbiciata del 10% alla forza lavoro (2.000 dipendenti), la riqualificazione di altri circa 2.400 e la chiusura di almeno 175 filiali. Come da copione, la notizia della riduzione di organico è stata accompagnata dalle rosee prospettive del nuovo piano industriale con il quale la banca guidata da Victor Massiah prevede di realizzare 655 milioni di utile netto nel 2022, mantenendo al 40% la quota di utile da destinare al dividendo.

Niente di nuovo sotto il sole, insomma: sempre meno dipendenti negli uffici con un minor costo del lavoro in bilancio, sempre più cedole per gli azionisti con un ritocco all’insù delle spese a carico dei clienti. Perché se è vero che tutte le uscite dei lavoratori bancari sono a carico del Fondo di solidarietà che è finanziato dagli istituti di credito, è altrettanto vero che le banche continuano a macinare utili. A cui contribuisce il frutto dell’aumento di costi e commissioni a carico dei clienti. Del resto lo dice anche Bankitalia: nell’ultima indagine sul costo dei conti correnti, datata settembre 2019, la Banca centrale spiega come “nel 2018 la spesa per la gestione di un conto corrente è cresciuta di 7,5 euro rispetto all’anno precedente, attestandosi a 86,9 euro: si tratta di una netta accelerazione rispetto al precedente biennio, durante il quale era complessivamente cresciuta di 2,9 euro”. E non finisce qui: per il sito di comparazione Sostariffe.it, anche nel 2020 ci saranno aumenti a due cifre sia per i conti online (27%) che per quelli tradizionali (+29%).

Ma non è questo l’unico punto dolente della ristrutturazione di settore in corso d’opera. Finora, attraverso il Fondo di solidarietà, i sindacati sono riusciti a ottenere dalle banche un’assunzione ogni tre dipendenti in uscita grazie al Fondo per l’occupazione, sempre autofinanziato. La Federazione autonoma bancari italiani (Fabi) punta a rilanciare per arrivare all’assunzione di un giovane ogni due lavoratori in uscita.

Riusciranno le organizzazioni di categoria a spuntarla? Probabilmente solo se faranno fronte comune. Il che non è detto sia poi così facile: al tavolo di Unicredit, ad esempio, il blocco sindacale sta già vacillando dopo la scelta della First Cisl di mostrarsi conciliante verso Unicredit, che, a suo dire, “ha mostrato un atteggiamento più dialogante rispetto ai toni intimidatori della lettera” con cui prospettava i tagli.

Dialogante o meno che sia il rapporto fra banche e rappresentati dei lavoratori, i numeri della ristrutturazione del comparto sono impressionanti: in 10 anni (2008-2018), in Italia sono sfumati quasi 64 mila posti di lavoro in un settore che impiegava oltre 338 mila persone (dato Bce). Dal 2011 gli istituti di credito hanno spinto fuori dai loro uffici oltre 77mila lavoratori. Costo dell’operazione: circa 17 miliardi, un miliardo l’anno come spiega Il Sole 24 Ore che ricorda come nello stesso periodo siano stati assunti circa 22mila giovani. È accaduto così che un grande gruppo come Unicredit sia arrivato ad avere oggi meno della metà dei dipendenti del 2007, anno delle nozze con Capitalia (ex Banca di Roma).

A questo punto, non resta che chiedersi cosa ci sia da attendersi per il futuro. Secondo la Fabi, fra il 2019 e il 2020, i primi 9 gruppi bancari italiani hanno già approvato 29.639 esuberi. Senza contare i tagli annunciati da Unicredit e Ubi. La cifra è quindi ancora destinata a crescere. Anche perché, a dispetto delle cedole staccate ai soci, le banche italiane non hanno ancora risolto tutti i problemi: secondo il report di Banca Ifis, in Italia ci sono 325 miliardi di euro di crediti deteriorati ancora da recuperare. Di questi, 141 miliardi lordi sono oggi iscritti nei bilanci delle banche. E questo nonostante il fatto che fra il 2016 e il 2019, gli istituti di credito abbiano ceduto sul mercato 70 miliardi di euro di crediti deteriorati grazie a garanzie pubbliche. Prestiti che, però, restano difficili da recuperare.

Effetto Xylella: “In Rai gli alberi diventano grigi”

La verità sulla xylella, il batterio che secondo una parte del mondo scientifico causerebbe il disseccamento degli ulivi, continua a dividere la Puglia. Questa volta le polemiche travolgono il Tgr regionale Rai, sotto accusa per aver pubblicato nella sezione Rainews la notizia dell’eradicazione di 13 ulivi infetti da xylella a Cisternino (Brindisi), corredandola con un’immagine che a molti è parsa “strana”. Le informazioni sono state ricavate da una nota dell’Arif (agenzia regionale attività irrigue e forestali). I crediti fotografici riportati sul sito sono della Rai. L’articolo, ripreso durante l’edizione del Tg del 14 febbraio, è oggetto di un esposto inviato dal Movimento No Tap di Brindisi e dall’associazione Il Popolo degli ulivi all’Agcom, Corecom e Consiglio di disciplina territoriale dell’Ordine dei giornalisti. “L’immagine è chiaramente ritoccata” – sostiene Angelo Gagliani in rappresentanza dei due movimenti. La fotografia riporta l’ingresso della proprietà di Loparco Quirico, a Cisternino, dove sono stati sradicati gli ulivi. Il colore di una parte della vegetazione, diversamente dalla realtà, sarebbe stato modificato con una scala di grigi che rievoca il fenomeno del disseccamento, conseguenza imputata da più parti esclusivamente al batterio xylella fastidiosa nonostante manchino ancora evidenze scientifiche. Tra le accuse mosse alla Rai non vi è soltanto l’immagine, ma anche il contenuto dell’articolo.

Non sarebbe vero, infatti, che gli ulivi eradicati venerdì siano stati 13. Né che l’abbattimento sia stato possibile grazie “a un’opera di dialogo e di mediazione” con le associazioni ambientaliste. “Contrariamente a quanto scritto nell’articolo, che riporta una foto grossolanamente ritoccata al Photoshop, oggi sono stati abbattuti due alberi. Ciò è avvenuto a seguito di numerose pressioni, telefonate e visite a casa al proprietario, anche da parte di esponenti politici locali”, ha reso noto il comitato ambientalista locale Cosate della Valle d’Itria che definisce l’accaduto una “manipolazione mediatica della Rai” e “l’ennesimo abuso di potere delle istituzioni”. Angelo Cardone, in qualità di coordinatore regionale C.U.B., aveva diffidato la Regione dall’eseguire gli abbattimenti per la presunta violazione del decreto nazionale n. 214 del 2015 in cui è resa obbligatoria l’assenza di conflitti di interesse per l’esecuzione delle analisi di laboratorio sugli ulivi. Secondo il sindacalista ci sarebbe un conflitto d’interessi nel Cnr di Bari che, oltre a occuparsi delle analisi, è titolare di brevetto della cultivar FS-17, specie di ulivo nota come Favolosa considerata più resistente alla xylella rispetto alla specie autoctona con cui si vorrebbero effettuare i reimpianti. In merito all’immagine pubblicata dalla Rai, Angelo Cardone fa sapere che lo scatto risale alla scorsa settimana, perché sono presenti le bandiere che il comitato Cosate e il sindacato avevano lasciato all’ingresso in segno di solidarietà al proprietario che era in disaccordo con l’eradicazione. “Vediamo un chiaro intento di manipolare la realtà – dice – al fine di sostenere la tesi per cui sarebbe la xylella a far seccare gli ulivi. Purtroppo per sostenerla si arriva a falsificare l’informazione”. Il Fatto ha contattato la redazione regionale della Rai, ma non ha voluto rilasciare alcuna dichiarazione.

Roma, Raggi gioca la carta Metro D per ricandidarsi

L’eredità di Virginia Raggi da sindaco di Roma si gioca sul progetto preliminare della Metro D, la quarta linea della metropolitana capitolina. Il dipartimento alla Mobilità sta predisponendo la delibera che arriverà in consiglio comunale nelle prossime settimane, entro il mese di aprile, e darà il via libera ai tecnici per effettuare sondaggi archeologici e geologici, primo atto per la realizzazione dell’opera. Seguirà poi la redazione del progetto preliminare, da presentare a cavallo delle elezioni amministrative 2021, alle quali è probabile che l’attuale sindaca si ripresenterà.

Si tratterebbe della prima grande opera messa in cantiere nella Capitale dai tempi di Walter Veltroni, in una città ancora ferita dai ritardi e dagli extracosti della linea C e dalla lunga stagione delle opere incompiute, la cui rappresentazione più eloquente restano le cosiddette “vele” progettate dall’archistar Santiago Calatrava, alla Romanina. Il costo ancora non è stato determinato, ma potrebbe avvicinarsi ai 3 miliardi di euro, eventualmente da finanziare per un 70% a carico del Governo italiano, attraverso il Cipe, e per il restante 30% a carico del Comune di Roma, proprio come avvenuto per la C.

La bozza del provvedimento, a quanto apprende Il Fatto Quotidiano, è in fase di revisione, dopo che la Ragioneria generale di Palazzo Senatorio lo ha rinviato agli uffici, pretendendo alcuni correttivi. Il tracciato di 20,4 km sarà grossomodo quello immaginato proprio da Veltroni, che avvio l’iter nel 2007. L’opera fu poi messa da parte da Gianni Alemanno dopo i rilievi dell’Autorità per la vigilanza dei contratti pubblici (poi divenuta Anac). La linea, che a oggi conterebbe 22 stazioni, collegherà i quartieri di Roma nord Talenti e Africano con quelli a sud, Magliana ed Eur, attraversando il Centro storico e raggiungendo, con tre fermate, anche il rione Trastevere, finora poco collegato; fra i dubbi dei progettisti, la possibilità di un lieve prolungamento fino al quartiere Portuense, prima di virare su Roma Tre e, poi, sull’Eur. La futura linea D incrocerebbe le altre tre metropolitane in più punti: la A a Spagna, la B/B1 a Jonio, Colosseo e Magliana e la C a Venezia, per la quale in questi giorni sono partiti i lavori per la realizzazione della nuova stazione, il cui progetto contemplerà anche l’intersezione con la D.

L’assessore alla Mobilità Pietro Calabrese, già prima della “promozione” in Giunta, da presidente di Commissione aveva preteso che il progetto fosse inserito nel Piano urbano per la mobilità sostenibile. La sfida, tuttavia, sarà superare le imperfezioni che hanno portato alle lungaggini e agli scandali nella realizzazione della metro C. Vinto il contenzioso da 460 milioni con Condotte Spa – che accampava diritti sulla mancata realizzazione dell’opera – verrà accantonato lo schema del project financing (costruzione a carico dei privati in cambio di cubature e/o della gestione della linea) per tornare al “contraente generale”, proprio come per la linea C, ossia un consorzio che si occupi dell’opera e una serie di subappalti a cascata.

Questo tipo di affidamento deriva dalla famosa Legge Obiettivo del 2001, firmata dall’allora ministro Pietro Lunardi – governo Berlusconi – che secondo quanto scriveva solo ieri Il Sole 24 Ore, ha visto la conclusione di solo il 21% delle opere allora definite “prioritarie” fra cui proprio la terza linea romana. Oggi la metro C viaggia con 45 varianti sul progetto iniziale, ben 700 milioni di euro di extra-costi, circa 800 milioni di euro di contenziosi iscritti in due maxi-ricorsi al tribunale civile e almeno 8 anni di ritardo. “Le norme attuali sono più stringenti rispetto al passato”, tranquillizzano fonti di Roma Metropolitane, la municipalizzata in liquidazione che si occuperà di avviare la progettazione.

“La prescrizione è come operare il paziente senza ricucire la ferita”

“Oggi non sono più serena, per anni non ho dormito la notte e non guido più la macchina per paura di quegli agenti investigatori che il mio ex mi aveva messo alle calcagna. Eppure è tutto prescritto”. Patrizia Pagliarone, 49 anni, di Taranto, è sconsolata, ormai rassegnata. Di fronte a una giustizia che, dice lei, non le restituirà mai quella “gioia di vivere di un tempo” prima che il suo ex fidanzato, l’attore ed ex assessore della Lega a Pisa, Andrea Buscemi, non accettasse che la loro relazione era finita. I due si conoscono nel 2007 tramite un amico comune. Lei va in giro per il mondo a insegnare Economia con il professor Edward De Bono. Lui è conosciuto al grande pubblico per i suoi film con Paolo Virzì, Giorgio Panariello, Leonardo Pieraccioni e soprattutto per il suo ruolo in Amici Miei di Neri Parenti e in Un Medico in Famiglia in cui interpreta Vincenzo, il vicino di casa della famiglia Martini. Ma la relazione non andava per niente bene: “Erano più le volte che lo lasciavo che altro, ma lui non voleva allontanarsi” racconta. Poi Pagliarone, grazie alla Casa della Donna di Pisa, prende il coraggio e denuncia tutto in Procura. Nella querela lei parla di “pedinamenti e appostamenti”, “telefonate e messaggi” a ogni ora e “minacce e ingiurie”: “Mi minacciava di farmi il culo e di farlo anche alla mia famiglia, dicendo che ci avrebbe distrutto la vita” o che “io ero una puttana, una troia, un’imbecille” e altre offese simili. Dopo il processo, in primo grado il Tribunale di Pisa assolve l’attore perché, scrive il giudice di Pisa, si rilevava “l’assenza (nella persona offesa, ndr) di un turbamento psichico e morale stante la continua ripresa positiva della storia da parte della persona offesa”. Ma, dopo il ricorso della Procura, la Corte di Appello di Firenze a fine 2016 riforma la sentenza: per una parte del reato Buscemi viene assolto perché, all’epoca dei fatti, il reato di “atti persecutori” non era stato ancora inserito nel nostro ordinamento mentre per i comportamenti successivi al 25 febbraio 2009, il reato è prescritto. Eppure, nelle motivazioni della sentenza di Appello i giudici scrivono che la condotta di Buscemi “ha costituito un modo programmatico con cui l’imputato ha cercato di continuare a mantenere il controllo sulla compagna impedendole di affermare subito in modo netto la sua volontà di cessazione del rapporto” rendendola “ancora più lunga e penosa per lei”. E infatti condanneranno l’attore teatrale a pagare un risarcimento del danno, che però gli ermellini della Cassazione hanno annullato a gennaio scorso chiedendo alla Corte di Appello di decidere sul riconoscimento di un danno dovuto a un comportamento che penalmente non può più essere giudicato.

Signora Pagliarone, com’era la sua vita all’epoca dei fatti?

Organizzavo conferenze e insegnavo Economia con Edward De Bono in Italia e all’estero. Poi ci ha presentati un suo amico. La relazione non è andata bene e dopo che lo avevo lasciato ho iniziato a subire inseguimenti, pedinamenti, appostamenti nel vano scale e anche molestie nei confronti dei vicini. Mi ricordo che una volta ero a Trieste per un incontro con dei premi Nobel e lui è venuto direttamente da Pisa per dirmi di non lasciarlo. Ma la cosa più atroce è stata un’altra…

Ovvero?

Mi aveva messo dietro tre agenti investigativi che mi seguivano, pensavo fossero dei criminali. Mi camminavano accanto al paraurti della macchina. Ho sentito la mia vita minacciata: una sera mi sono accorta che questi tre uomini mi stavano seguendo e ho iniziato a camminare per tutta Pisa passando per tutti i varchi elettronici della città. Pensavo: “Se mi ammazzano, almeno lascio qualche traccia e possono risalire a chi è stato”. Ovviamente quella sera ho anche chiamato in Questura e nel frattempo lui mi mandava messaggi dicendomi: “Non costringermi a fare lo stronzo” o “Ti voglio troppo bene per farlo”. Mi aveva messo dietro tre investigatori e poi mi diceva che mi voleva bene.

Dopo cos’è successo?

La mia vita è completamente cambiata: non sono più serena, per anni non ho dormito la notte, pensavo continuamente a questi agenti investigativi che avevo alle spalle. Per me guidare la macchina dopo questo trauma è stato molto difficile perché gli investigatori mi seguivano in macchina: io ero terrorizzata e guardando continuamente lo specchietto ho rischiato più volte di fare incidenti. Infatti oggi cerco sempre di evitare di usare l’auto.

Eppure il reato è in parte prescritto.

Sì, tutto quanto. Mi aspettavo che un processo di questo tipo fosse più veloce, soprattutto in un momento in cui si parla di violenza contro le donne.

Come sta adesso?

Nessuno mi ridarà mai la mia tranquillità, la giustizia almeno sarebbe stata una cura. Già denunciare una persona è difficilissimo, poi farlo con lui lo è stato ancora di più perché è molto conosciuto: una condanna sarebbe stato un balsamo sulla ferita. Per me la prescrizione è come se fossi entrata in sala operatoria e non mi avessero ricucito la ferita. Ho sempre addosso questo senso di ingiustizia perenne.

Se fosse stata in vigore la legge Bonafede, la prescrizione non ci sarebbe stata.

Infatti sono favorevole alla legge perché nel mio caso avrei avuto giustizia. È chiaro che in ogni caso non superi mai quello che hai passato, ma un riconoscimento ti aiuta a stare meglio.

L’attacco Br (fallito) al cuore del talk show

“Meglio avere le mani sporche di sangue che sporche di acqua come Ponzio Pilato”; il primo errore dell’ex brigatista Raimondo Etro nel citare Una pistola in vendita di Graham Greene, durante la sua partecipazione a Non è l’Arena di Giletti, è stato pensare che quella fosse una battuta. La è, e qui sta l’errore; ormai le battute non si possono più fare, nessuno le capisce né vuol capirle, ogni ironia è presa alla lettera. Viene preso sul serio Checco Zalone, figuriamoci Graham Greene. Che poi, secondo errore di Etro, è una battuta fino a un certo punto. Conosciamo i temi di Graham Greene, i suoi eroi ambigui e tormentati – sempre commedianti, mai eroi – si tratti di terroristi, mercenari o preti; il suo disincanto verso ogni idealismo, il suo cattolicesimo paradossale. E poi – terzo errore – va bene Greene, ma visto che si va a trovare Alessandra Mussolini e Daniela Santanchè, un po’ di McLuhan e Baudrillard no?

“Credevamo di cambiare il mondo, invece il mondo ha cambiato noi”, dice il professor Nicola Palumbo in C’eravamo tanto amati (a proposito di battute). Le Br volevano colpire il cuore dello Stato, si sono sporcate le mani di sangue per questo. E ora che fanno i reduci? Puntano a colpire il cuore del talk show? Se ti fai cacciare da Giletti, ti meriti di essere cacciato, ma soprattutto ti meriti Giletti. È il contesto a fare il testo; nell’ottusa ignoranza di certe ovvietà gli ex Br sembrano rimasti gli stessi, salvo aver cambiato genere. Dalla tragedia alla farsa.

I romanisti e un dilemma da 24 maggio: Juve o lazio?

Per chi ama i colori giallorossi tifare Juventus è l’ultima abiezione, l’infimo gradino che non si dovrebbe mai scendere. Eppure nell’attuale, sanguinosa contingenza davanti al combinato disposto “catastrofe Roma-apoteosi Lazio” confesso di crogiolarmi in pensieri disgustosi. Poiché c’è qualcosa di ancora più raccapricciante dell’autogol di Pau Lopez che ci ammazza un derby praticamente vinto ed è l’ipotesi dello scudetto a quelli là che si materializza nel momento in cui Romelu Lukaku, sospinto dall’energia cinetica di milioni di noi pari a mille magawatt scaglia sulle terga di Acerbi il pareggio dell’Inter e tutto il livore del nostro scontento. C’è tra i miei disgraziati correligionari chi almanacca di una possibile arma segreta riposta nell’ultima giornata di campionato del 24 maggio quando la Roma ospite dello Stadium, dove non ha mai raccolto una cippa, farebbe bene a scansarsi nel caso alla Juventus occorresse la nostra pelle, debitamente scuoiata, per foderarsi sul petto il decimo o undicesimo scudetto. Chiedo: anche se quei tre punti ci fossero indispensabili per agganciare il quarto posto Champions? Risposta: dormi pure tranquillo che tanto con una squadra che schiera Brunetto Peres saremo già tutti a mangiare il cocomero a Fregene. Infatti, con un soprassalto di dignità penso che: 1- tifare per i nostri aguzzini (da Turone all’arbitro Rocchi) è l’ultimo rifugio degli sfigati. 2- se quelli là si dannano l’anima su ogni pallone (mentre i nostri si fanno asfaltare da Sassuolo e Bologna), è giusto che vengano premiati. Poi però trovo che sarebbe meraviglioso restituirgli, con gli interessi, quello striscione canaglia che nel 2010 ci dedicarono, a parti invertite, dopo essersi loro scansati proprio con l’Inter: “oh nooo”.

Mail Box

 

Nessuno tocchi l’aborto, un diritto regolato dalla legge

E così, secondo quanto ha detto Salvini, in Italia per interrompere una gravidanza indesiderata, alle donne basta recarsi in un qualsiasi Pronto Soccorso degli ospedali e la faccenda si risolve. Idiozia sesquipedale! La legge 194 che regola l’aborto ha un iter molto più complesso e complicato. Ma non è solo questo il punto: l’ex ministro degli Interni sta attaccando un diritto conquistato dalle donne con anni di lotte e sacrifici.

Mauro Chiostri

 

Il dramma della piccola Iman che ha commosso il mondo

Il freddo nel campo profughi siriano di Ma’rata ha ucciso la piccola Iman, tra le braccia del padre, che tentava di portarla nel più vicino ospedale, a due ore di cammino. Le previsioni meteo dicono che le temperature si abbasseranno ancora e i sottili teli di plastica non riusciranno a riparare le famiglie sfollate dalla guerra. Se non s’interviene con tende termiche e presidi sanitari da campo, moriranno altre persone, soprattutto bambini. Vorrei per questo motivo chiedere che la Croce Rossa e la Mezzaluna Rossa uniscano gli sforzi per portare aiuti concreti a quelle popolazioni già stremate.

Massimo Marnetto

 

DIRITTO DI REPLICA

In un articolo dal titolo “Aeroporto, Renzi & C aggirano il no dei Giudici: Giani nei guai” uscito sul Fatto del 16 febbraio us, al di là della cronaca politica che non mi riguarda e da cui la Società Toscana Aeroporti spa da me presieduta prende le distanze essendo impegnata a fare le analisi tecniche giuridiche con i soggetti istituzionali competenti a valle della sentenza del Consiglio di Stato, al fine di verificare le possibilità di proseguire nella progettualità di ammodernamento dello scalo Fiorentino così come indicato dal Piano Nazionale degli aeroporti, vi è un evidente errore di cronaca e di informazione. Infatti nel detto articolo vi è scritto che Renzi “nel 2009 nominò Presidente di Toscana Aeroporti il suo braccio destro Marco Carrai (tuttora in carica)”. Orbene tengo a precisare che il sottoscritto è stato nominato Presidente di Aeroporto di Firenze Spa nel maggio del 2013 e NON nel 2009 (e non di Toscana Aeroporti spa che è nata infatti solo nel giugno del 2015 a valle della fusione tra Aeroporto di Firenze Spa e Sat spa che gestiva lo scalo di Pisa) dal Consiglio di Amministrazione della Società dopo essere diventato membro del cda nell’aprile del 2013. Nel consiglio di amministrazione non mi ha nominato Renzi, allora Sindaco di Firenze bensì il patto dei soci pubblici. Il patto parasociale dei Soci pubblici istituiva obblighi di preventiva consultazione per l’esercizio del diritto di voto negli organi societari di Aeroporto di Firenze e poneva limiti al trasferimento delle azioni dei sottoscrittori. Tale patto parasociale aggregava complessivamente n. 2.055.693 azioni ordinarie di Aeroporto di Firenze, pari al 22,753% del relativo capitale sociale. Sulla base di quanto indicato nell’estratto di tale patto, nessun soggetto in virtù del patto parasociale in questione esercitava il controllo di Aeroporto di Firenze o era in grado, autonomamente, di determinare la nomina di un componente dell’organo di amministrazione o controllo riservata a strumenti finanziari. Agli azionisti aderenti al Patto Parasociale spettava inoltre, ai sensi dell’articolo 9 dello statuto sociale dell’Emittente (così non è più con Toscana Aeroporti avendo essa un socio privato di riferimento in maggioranza assoluta ed essendo il sottoscritto espressione della lista del socio privato) la designazione del Presidente del Consiglio di Amministrazione dell’Emittente.

Del 22,753 in capo allora al Patto dei Soci pubblici il comune di Firenze aveva solo il 2,184 % mentre il 15,456 % faceva capo alla Camera di Commercio di Firenze e il 5,113 alla Camera di Commercio di Prato. Come può evidentemente capire quindi io sono stato indicato – e NON nominato, in quanto lo sono stato dal cda – Presidente di Aeroporto di Firenze spa (e NON di TOSCANA Aeroporti spa) dal Patto dei soci pubblici e NON dal Sindaco di Firenze che era largamente minoritario in termini di diritti derivanti da azioni possedute e comunque non determinante per la nomina per quanto sottoscritto nei patti parasociali sopracitati. Rimarco ancora che NON sono stato nominato Presidente di Aeroporti di Firenze nel 2009 bensì nel 2013.

Piccoli grandi errori come questi hanno contribuito a creare un’aurea negativa nei miei confronti e quindi non sono più disposto a tollerarli.

Marco Carrai, Presidente Toscana Aeroporti Spa

 

I NOSTRI ERRORI

Nell’infografica e nell’articolo Siae, Franceschini aumenta l’obolo su smartphone e tv pubblicato il 14 febbraio sono stati riportati i dati delle tariffe pubblicati da Dday.it omettendo di citare la fonte. Ce ne scusiamo con la testata e con i lettori.

Pdr

 

L’articolo pubblicato sabato Genova, via libera al cargo con le armi per le guerre saudite è stato attribuito a un altro collega, mentre ne è autore Andrea Moizo. Ce ne scusiamo con l’interessato e con i lettori.

FQ

Erasmus “Al Sud servono amministratori”. “No, prima lo scambio di studenti col Nord”

 

Buongiorno, in questi giorni sul Fatto leggo molto della Questione meridionale. Vorrei ricordare al professor De Masi che esperimenti del genere – l’Erasmus tra Nord e Sud – possono degenerare come accadde con il confino al Nord dei mafiosi. Vorrei ricordare anche che non tutti gli amministratori succedutisi nelle aziende poi fallite o chiuse del Sud fossero meridionali bensì del Nord. L’Erasmus non mi sembra una grande idea: perché non costringere i meridionali ad amministrare con le loro disponibilità, senza altri interventi, le loro Regioni per evidenziare così le loro capacità? Aiuti sì, ma con giudizio.

Alessandro Marcigotto

 

Caro Alessandro, a me pare azzardato paragonare l’Erasmus proposto dalle Sardine al confino cui venivano condannati i mafiosi. I giovani nati e cresciuti al Nord, che magari hanno viaggiato in mezzo mondo senza mai scendere nel Sud, hanno un’idea approssimativa del nostro Mezzogirno, spesso basata su stereotipi. Per loro, alcuni mesi trascorsi presso università meridionali come quella di Rende o di Salerno sarebbero preziosi per farsi un’idea diretta del sottosviluppo, delle sue cause, delle responsabilità addebitabili al Sud e di quelle – che pure ci sono – addebitabili al Nord. In modo analogo, alcuni mesi di permanenza degli universitari meridionali presso gli atenei del Nord sarebbero utilissimi per metterli in contatto con una realtà più dinamica, meritocratica, organizzata. In entrambi i casi l’incontro prolungato tra studenti del Nord e del Sud creerebbe una sinergia di esperienze, linguaggi, modelli di vita e una rete amicale destinata a durare per tutta la loro vita. In alcune aziende che falliscono nel Sud i manager sono settentrionali: questo è vero. Ma nella stragrande maggioranza i manager che operano nelle regioni meridionali erano e sono meridionali. Come pure va ricordato che le quattro maggiori “multinazionali” vive e vegete nel Sud (camorra, mafia, ’ndrangheta e sacra corona unita) hanno manager e manovalanza rigidamente meridionali. Tutte le regioni del Sud, gestite da meridionali, funzionano malissimo. Due di esse – Sicilia e Sardegna – godono dello statuto speciale per cui, oltre a ricevere gli aiuti centrali, trattengono per intero le tasse locali. Ciò nonostante, sono agli ultimi posti in Italia sulla base del Prodotto interno lordo e di tutte le graduatorie che connotano la civiltà. Il Sud ha un deficit incolmabile di capacità organizzativa e di umiltà. L’Erasmus suggerito dalle Sardine potrebbe ridurre questi nostri difetti.

Domenico De Masi