Lacrime di Porro: al suo confronto la D’Urso è la Streep

Egli ha pianto. Lunedì sera, su Rete4, 936 mila persone (4,6% di share) hanno vissuto la stordente meraviglia di vedere Nicola Porro piangere. Oddio, piangere: è stata più una sorta di semiparesi momentanea, roba che il buon Renè Ferretti di Boris l’avrebbe battezzata con il sempiterno “cagna maledetta!”, ma il momento è stato comunque leggendario. Porro, 50 anni e sartoria di medio pregio, conduce il talk-show preferito da Matteo Salvini. Si chiama Quarta Repubblica, e il titolo è ottimo, perché non vuol dire un cazzo: proprio come il programma. Gli ospiti pressoché fissi sono le spoglie mortali di Sgarbi e l’uomo dal cognome doppiamente fallico Capezzone, a conferma di come le disgrazie non vengano mai sole. Porro è molto attivo sui social. Ogni giorno o quasi ci regala una diretta social in cui, con la scusa di commentare i fatti del giorno, fa sempre le stesse cose: difende Salvini; dileggia Conte; zimbella le Sardine; e insulta il Fatto Quotidiano. Nell’ecosistema buffamente lunare di Rete4, che dopo il Rinascimento abortito di Gerardo Greco ha vissuto la più greve delle restaurazioni, Porro è il finto equidistante: dunque il peggiore. Laddove Giordano e Del Debbio si divertono un mondo con la loro ostentata faziosità antisinistrorsa, il poro Porro si traveste da economista bipartisan (sic) e invita una foglia di fico di sinistra (che spero riceva cachet enormi, altrimenti è bischera parecchio) per sembrare oggettivo. E per esporla alla mitraglia delle spoglie mortali di Sgarbi, del doppiamente fallico Capezzone e della risposta leghista alla Murgia (cioè la Maglie). Porro vive il dramma straziante di avere notorietà, senza però vantare un pubblico disposto a seguirlo (a meno che non sia gratis). I suoi libri hanno vendite stitiche, non genera appartenenza e se facesse spettacoli a pagamento non riempirebbe neanche il tinello di Fassino. Spiace. Otto giorni fa Porro raccontava le foibe. Buona idea, perché quello resta un dramma enorme, che alla sinistra imbarazza ancora e che alcuni artisti hanno ottimamente raccontato (per esempio Simone Cristicchi a teatro). Intento lodevole, ma Porro lo ha trattato in maniera appena strumentale. Ma giusto appena, eh. Prima parte Costamagna, Friedman, Mughini, Capezzone e Meloni collegata. Seconda parte Mughini, Ferrero (collegato), sempre Capezzone e poi quel bel democratico di Biloslavo, uno che a 17 anni era già militante del Fronte della Gioventù di Trieste (eia eia alalà). Fatti salvi due o tre nomi, un gran bel parterre, anche se l’assenza di Mengele, Pol Pot e il Poro Asciugamano mi ha ferito molto. Tra il pubblico c’erano alcuni parenti delle vittime. Ed ecco il colpo di genio: introducendo il tema, Porro si è fermato dopo alcuni secondi: ha abbassato lo sguardo, forse per commozione e forse per un’ipotesi di sincope, per poi abbandonare la scena. Una performance coinvolgente come Gasparri che fa Russell Crowe nel Gladiatore. La scena è stata di oltraggiosa mestizia, ma il poro Porro l’ha pure retwittata: segno che ne va particolarmente orgoglioso. Se era commozione sincera, fa piacere che il suo cuore sia così tenero da piangere per fatti (tremendi) lontani 75/77 anni. Un’ipersensibilità meritoria, anche se non lo si è mai visto analogamente coinvolto ricordando la famiglia Cervi. Se invece era un coup de théâtre, cosa che non ci azzardiamo a pensare conoscendo la specchiata moralità del soggetto, suggeriamo al poro Porro di prendere lezioni da ben più navigati professionisti del genere: in confronto a lui, Barbara D’Urso assurge per distacco a Meryl Streep. Daje Nico’!

Regeni, Zaky e I diritti fregati dalle armi

Nel 2016, Giulio Regeni viene rapito e torturato a morte. In quello stesso anno, guarda caso, l’Oxford English Dictionary elesse post-truth a parola dell’anno. Sarà una coincidenza, ma da allora il caso Regeni e oggi il caso Zaky, sono imprigionati come Hansel e Gretel nella casa di marzapane della strega Alsisia. Unica traccia utile le briciole di pane raccolte dal sostituto procuratore di Roma Sergio Colaicchio, che un anno fa mise sotto inchiesta cinque barbe finte della National Security egiziana. Col risultato che da quello stesso giorno, i giudici del Cairo hanno smesso di rispondergli al telefono.

Un grave segnale per Salvini che da post-veritiero della prima ora, ritiene i rapporti economici col rais più importanti della verità semplice e temendo che i magistrati del Cairo si siano offesi a morte, ha subito negato l’esistenza stessa di un “caso Regeni” e lo chiama “il problema Regeni”. Problema per fortuna non insormontabile, visto che negli ultimi anni le vendite di armamenti al Cairo sono in continua crescita. E con le nuove commesse di navi da guerra, e altri sistemi di combattimento contiamo di arrivare alla cifra di ben 9 (nove) miliardi di euro. A partire da due fregate: la Spartaco Schergat e l’Emilio Bianchi, letteralmente “fregate” (nomen omen) alla nostra Marina Militare a favore di quella del Faraone. Al prezzo scontato di un miliardo e 200 milioni. Se pecunia non olet figuriamoci i bonifici.

A seguire ci potrebbero essere 24 cacciabombardieri Tifone, aerei da addestramento Macchi M-346 e una ventina di elicotteri Leonardo AW149. Gioiellini made in Italy con i quali il generale al Sisi aiuterà il generale Haftar a finalmente buttare a mare l’unico governo libico riconosciuto da Onu, Unione europea and, last but not least, Italy. Col risultato che probabilmente, insieme a centinaia di migliaia di profughi in fuga, presto ci ritroveremo su un barcone sbarcato a Lampedusa pure il legittimo presidente libico al Sarraj.

Ma non cediamo al pessimismo: magari la trafficante guardia costiera di Tripoli, armata e oliata da Roma, riesce ad affondarli tutti prima.

Per tornare alla post-truth c’è chi insinua che Patrik Zaky è stato arrestato e bastonato per tappargli la bocca. Balle. Il ragazzo, in galera può parlare con tutti i giornalisti che vuole. Non è forse l’Egitto, a detta di Reporters sans Frontieres, il secondo Paese al mondo per giornalisti arrestati?

Spazzacorrotti, la consulta sbaglia

La Corte costituzionale, con sentenza del 12 febbraio, ha accolto l’eccezione di illegittimità costituzionale sollevata in ordine all’applicazione dell’art. 1 comma 6, L. n° 3/2019 (c.d. “spazza corrotti”) – che ha previsto il divieto di misure alternative al carcere e di altri benefici per i condannati per gravi reati contro la P.A. (corruzione, concussione, ecc.) – in relazione a reati commessi anteriormente all’entrata in vigore della legge suddetta avvenuta il 31.01.2019.

Afferma la Consulta nel suo comunicato stampa: “L’applicazione retroattiva di una disciplina che comporta una radicale trasformazione della pena e della sua incidenza sulla libertà personale, rispetto a quella prevista al momento del reato, è incompatibile con il principio di legalità delle pene, sancito dall’art. 25, II comma della Costituzione”. La sentenza non è in alcun modo condivisibile. Già è discutibile che l’art. 25 della Carta integri il “principio di legalità delle pene” poiché tale norma – con lo statuire che “nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso” – non opera alcun riferimento alle “pene” cui fa, invece, esplicito richiamo la legislazione penale ordinaria che, all’art. 1 del cod. pen., sancisce: “Nessuno può essere punito per un fatto che non sia espressamente preveduto come reato dalla legge, né con pene che non siano da essa stabilite”. È questa la norma che esprime il divieto di punire un qualsiasi fatto che, al momento della sua commissione, non sia espressamente preveduto come reato dalla legge e con pene che non siano dalla legge espressamente stabilite (ivi compreso un successivo inasprimento della entità della pena). In ogni caso, ove si volesse ritenere – come osservano la dottrina (Fiandaca-Musco), e alcune decisioni della Consulta – che il principio di legalità abbia in Costituzione (art. 25, II comma) e nella legislazione penale ordinaria (art. 1 Codice penale) la medesima estensione, non vi è dubbio che tale principio implica una stretta riserva di legge che postula la specificazione del fatto previsto come reato e l’indicazione della pena (ivi compresa la specie e l’entità della stessa) ma non riguarda, e non può riguardare, le mere modalità di espiazione di una pena rimasta inalterata nella sua quantificazione normativa.

Tale corretto principio giuridico – oggi erroneamente travolto dalla Consulta – è stato ininterrottamente affermato, anche a Sezioni Unite, dalla Corte di Cassazione secondo cui “le disposizioni concernenti l’esecuzione delle pene detentive e le misure alternative alla detenzione, non riguardando l’accertamento del reato e l’irrogazione della pena, ma soltanto le modalità esecutive della stessa, non hanno carattere di norme penali sostanziali e, pertanto, (in assenza di una specifica disciplina transitoria), soggiacciono al principio tempus regit actum e non alle regole dettate in materia di successione di norme penali nel tempo dall’art. 2 cod. pen. e dall’art. 25 Cost.” (Cass. S.U. n° 24561/2006 cui, tra le tante, adde sez. I, n° 33890/2009; id. sent. 1135/2009; id. n° 46924/2009; id. n° 11580/2013) . Ancora più significativa è la successiva decisione della Corte secondo cui “le disposizioni legislative che individuano i delitti ostativi ai benefici penitenziari ed alle misure alternative alla detenzione, in quanto attinenti alle sole modalità di esecuzione della pena, sono di immediata applicazione anche ai fatti pregressi e alle condanne pregresse e non sono quindi regolate dal principio di irretroattività” (Cass. sez. I n° 31215/2015). Pertanto, la nuova norma deve ritenersi applicabile alla espiazione della pena derivante da precedenti condanne irrevocabili e, a maggior ragione, alla esecuzione di pena conseguente a sentenze che, pur riguardando fatti anteriori, sono intervenute dopo l’entrata in vigore della “spazzacorrotti” – (quale è il caso, tra gli altri, di Formigoni) – perché, in tal caso, l’evento processuale da cui consegue l’effetto dell’esecuzione della pena – rimasta inalterata nella sua quantificazione normativa – è successivo alla legge e le concrete conseguenti, modalità di espiazione sono soggette alla norma in quel momento vigente.

Forse le ragioni della decisione traspaiono da una lunga intervista concessa dalla presidente della Corte Marta Cartabia a Repubblica (16.02) ove campeggia, in prima pagina, il titolo “Serve una Giustizia dal volto umano”. Ora, premesso che non esiste in alcuna parte del nostro ordinamento giuridico che il principio che la “Giustizia deve sempre avere un volto umano”, si osserva che la “Giustizia” deve essere “sempre” e soltanto “giusta” e tale non sembra se è vero che la sentenza in questione ha aperto inopinatamente le porte del carcere ai già pochi “colletti bianchi” condannati per reati corruttivi. Aggiunge ancora la Cartabia che è stata adottata una sentenza “interpretativa di accoglimento” che “introduce una importante innovazione”. Sarebbe opportuno che la Consulta lasci ai giudici il compito di “interpretare” le norme (che a essi appartiene in via esclusiva) e al legislatore il compito di “innovare” l’ordinamento giuridico (che a esso appartiene in via esclusiva).

Caos Inapp, Pagamenti in ritardo: manca il dg

All’Inapp il caos regna sovrano. Da inizio dicembre l’Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche (ex Isfol) è senza direttore generale: l’ex numero uno Paola Nicastro è passata alla guida dell’Agenzia Nazionale per le Politiche Attive del Lavoro (Anpal) e il consiglio dell’Inapp non ha ancora nominato il successore. Il risultato è che l’attività di gestione dell’ente ha subito una battuta d’arresto. A essere maggiormente penalizzati sono i fornitori che scontano un rallentamento nei pagamenti e i ritardi nell’assegnazione di commesse per bandi già vinti. Le cifre in gioco non sono stellari. Almeno quelle sulle fatture da liquidare: poco più di 520mila euro. Ma la circostanza non è delle più piacevoli per il presidente, Sebastiano Fadda, arrivato in Inapp lo scorso 3 febbraio. I ritardi nella nomina del direttore generale rischiano infatti di far peggiorare la performance dell’Inapp nella tempestività nei pagamenti: secondo l’ultimo bilancio consolidato (2018), l’ente è riuscito a versare il dovuto ai fornitori in meno di 14 giorni contro i 30 previsti per legge. Un vero record per la pubblica amministrazione.

Nonostante la confusione, all’Inapp, che nel 2018 aveva due milioni di euro di debiti verso i fornitori, sono ottimisti: la procedura per scegliere il nuovo direttore è stata avviata da tempo e la nomina arriverà nel prossimo consiglio. Inoltre l’ente ha spiegato che sui 500mila euro da pagare ci sono “296mila euro bloccati a tutela di creditori dei fornitori, mentre il resto verrà pagato a breve”.

Per l’Inapp, la cifra “rappresenta una parte residuale dei pagamenti effettuati nel 2018, pari allo 0,48% dell’intero ammontare liquidato (oltre 46 milioni, ndr)” ai fornitori. Per i quali però i pagamenti sono sostanziali per mandare avanti l’azienda.

Starace, così onnipotente da voler fare la guerra a Tim

Francesco Starace, a giudicare da certe recenti iniziative, sembra in preda a una sindrome di onnipotenza. E infatti gli altri boiardi di Stato – che vivono con apprensione i giorni che precedono le nomine di primavera e li contano con l’ansia di chi non detiene il proprio destino, cioè la propria carriera – invidiano l’amministratore delegato di Enel senza ombre e senza macchie che attende la seconda riconferma come una semplice formalità dovuta e neppure richiesta.

Se necessario, in caso di inestricabile emergenza, il governo può implorare l’ingegnere Starace di immolarsi per salvare l’Eni. Altrimenti resta lì dov’è dall’epoca renziana, due mandati fa, e anzi suggerisce al governo di ribadire la fiducia anche al presidente Patrizia Grieco. E poi Starace vuole consolidare la posizione di Enel nel settore delle telecomunicazioni e non soltanto nel mercato energetico.

All’inizio fu reticente rispetto al progetto renziano di costruire una rete in fibra per Internet a controllo pubblico con Open Fiber, di cui Enel è azionista al cinquanta per cento con Cassa depositi e prestiti. Adesso protegge Open Fiber dalla fusione con l’infrastruttura di Telecom e anzi la supporta con accordi collegati a Enel. Quest’anno Enel ha ampliato il catalogo delle offerte commerciali con la proposta di un contratto unico per i clienti energia più Internet con la società maltese Melita, in gennaio sbarcata in Italia con al vertice Riccardo Ruggiero, ex di Telecom ai tempi di Marco Tronchetti Provera.

Melita ha firmato una convenzione con Open Fiber nel febbraio scorso, in estate il fondo Eqt l’ha comprata e in dicembre ha sottoscritto l’accordo con Enel. Eqt gestisce un capitale di 61 miliardi di euro e ha investimenti operativi per circa 40 miliardi, si muove in tre continenti e ha 110.000 dipendenti in Asia, Europa e Stati Uniti. E tra i consulenti citati nei documenti ufficiali c’è proprio Francesco Starace. Per ricapitolare: Starace ad di Enel ha siglato un patto con Melita di proprietà di Eqt che ha Starace tra gli “advisor”. Se non è un conflitto di interessi, come si dice al solito, si tratta di questione di opportunità. Enel non smentisce il rapporto di Starace con il fondo Eqt, ma lo descrive, però, come compatibile con il ruolo in Enel: “Non è senior advisor di Eqt, ma fa parte di un comitato consultivo che può essere interpellato dal fondo su specifici progetti che non riguardino in alcun modo l’energia, o nella fattispecie le tlc, o alcun settore in cui opera il gruppo Enel”.

In sostanza, il fondo Eqt cerca i consigli di Starace per tematiche estranee all’esperienza dell’ingegnere Starace. Quantomeno originale. Conclude Enel: “Questa attività è nota agli organi interni competenti ed è svolta nel rispetto delle regole di governance del gruppo”. Starace ha portato il titolo di Enel ai massimi storici. In Borsa capitalizza 85 miliardi. Nel 2019 i ricavi sono aumentati del 6 per cento e superano gli 80 miliardi, ma pure il debito è cresciuto, di dieci punti, e si attesta a 45,2 miliardi.

Il governo lo adora, è il manager che unisce Renzi, che lo volle, e il premier Giuseppe Conte, ma anche Cinque Stelle e Partito democratico. Starace è il perfetto ad di colore giallorosa. Era dai francescani di Assisi col premier Conte per il manifesto sull’economia verde. Ha concesso ai ministri Cinque Stelle l’auditorium di Enel – riservato agli eventi aziendali –per presentare, con la sacra teca, la tessera del reddito di cittadinanza. Sicuro di sé e dei risultati che ha raggiunto, anche se la Corte dei Conti ha invitato alla prudenza sul debito, Starace è diventato determinante con Open Fiber per le politiche su internet dell’Italia. Il cinquanta per cento di capitale permette a Enel di bloccare la vendita a Telecom e di sottolineare il doppio (e pericoloso) ruolo di Cassa depositi e prestiti: da una parte è socia alla pari di Enel, dall’altra è unica azionista pubblica di Telecom col 9,89 per cento.

Open Fiber ha vinto le gare per impiantare la banda larga nelle zone a fallimento di mercato, le province più disagiate, i paesini di montagna o di periferia, ma è in clamoroso ritardo e ballano 2,5 miliardi di finanziamenti europei, oltre a un prestito di 3,5 miliardi di un consorzio europeo di tredici banche. La società è in trattativa con le banche per ridiscutere il debito e per aumentare gli investimenti e dunque si pone in aspra concorrenza con Telecom a danno anche di Cdp. Ogni tanto veline anonime fanno sapere che le negoziazioni proseguono, Open Fiber per Telecom vale 2,5 miliardi, per Enel il triplo. Hanno punti di vista diversi. Enel è perentoria sull’argomento, che Telecom si rassegni: “Come più volte dichiarato, siamo soddisfatti del modo in cui svolge il mestiere per il quale è stata creata, ossia cablare in fibra il paese. La società non è interessata a schemi confusi di cui si sente parlare da tanto tempo e che non sono mai sfociati in nulla”. Starace è un tipo pratico. La confusione fa male.

2-Continua

La Rai multata perché indaga sulla sharia nell’Europa del Nord

Si limano virgole e cesellano apostrofi, in via Isonzo 21. Le motivazioni della maxi-multa da 1,5 milioni inflitta il 14 febbraio dall’Agcom alla Rai sono sottoposte da giorni a un finissimo lavoro di revisione e calibratura. Nell’attesa, in un clima da guerriglia attorno all’ad Fabrizio Salini in pieno periodo di nomine di testate e tg, una certezza c’è: tra i “numerosi episodi” contestati a Viale Mazzini figura anche un servizio giornalistico che con le materie di competenza dell’Autorità nulla ha a che fare.

Venerdì scorso sul tavolo dei commissari è finito il pezzo mandato in onda il 19 maggio 2019 dal Tg2 sulla situazione dell’integrazione delle comunità islamiche in Svezia firmato dal vice caporedattore Manuela Moreno, inviata sul posto dopo l’accoltellamento della moglie del leader della comunità ebraica di Malmö. “Molte zone sono fuori controllo, la polizia non entra. Sono oltre 60 i quartieri come questo, soprannominato ‘Mogadiscio’ per l’alta presenza di somali, dove vige la sharia, la legge islamica. Una criminalità in forte crescita, con il più alto numero europeo di stupri”, scandisce la giornalista, che intervista imam, studiosi di terrorismo ed esperti di Islam.

Il bubbone scoppia il 25 maggio, quando Matteo Salvini dà il filmato in pasto alla sua “Bestia”: “Non vogliamo fare la fine della Svezia, questa non è integrazione! No all’Eurabia”, commenta postandolo su Twitter l’ex ministro dell’Interno, allora come oggi quotidianamente impegnato nell’aizzare gli istinti dei suoi elettori sul tema dell’immigrazione. Il giorno dopo dall’ambasciata di Stoccolma a Roma parte la lettera di protesta all’indirizzo della direzione del Tg2: nel Paese, precisa la nota ufficiale, “non esistono no-go zones” e “non esistono aree dove viene applicata la sharia”. Riguardo, poi, agli stupri “la statistica dà un’immagine errata della situazione” perché “la definizione giuridica svedese di stupro è più ampia che nella maggior parte degli altri paesi (…) e la frequenza delle denunce è molto alta”. Questione di ore e Michele Anzaldi, allora ancora nel Pd, soffiava sul fuoco sollecitando Salini a chiamare “il ministro degli Esteri Moavero e si metta a disposizione per rimediare all’incidente diplomatico”.

Il 20 luglio viene formalizzata una richiesta di sanzione. Che arriva il 14 febbraio con il voto contrario del commissario Mario Morcellini e l’astensione di Francesco Posteraro: 1,5 milioni per “il mancato rispetto dei principi di indipendenza, imparzialità e pluralismo richiesti al servizio pubblico”. Nel calderone eterogeneo di contestazioni sarebbero finiti anche il programma “Realiti” di Enrico Lucci in cui il cantante neomelodico Leonardo Zappalà, in arte “Scarface”, diceva di Falcone e Borsellino: “Queste persone che hanno fatto queste scelte di vita le sanno le conseguenze”. E L’Approdo di Gad Lerner che alla Lega dedica una puntata “senza contraddittorio”.

Il tutto a pochi giorni dal cda fissato per il 21, in odor di spostamento al 24, in cui si parlerà di direttori. E in ballo c’è la poltrona di Gennaro Sangiuliano: la multa giustificata anche con l’operato del numero uno del Tg2 in quota Lega potrebbe essere utilizzata, secondo voci di viale Mazzini, come spada di Damocle per convincere l’ad Salini a cambiare la guida del Tg1, Giuseppe Carboni, sponda M5s.

Le motivazioni a cui l’Autorità sta lavorando richiedono argomentazioni il più possibile a prova di polemica, così gli uffici “stanno elaborando il documento per scriverlo un po’ meglio del comunicato”, confida al Fatto una fonte interna. Ma è sul contenuto del provvedimento che i dubbi non mancano. A contestare i prodotti della Rai dovrebbe essere in primis la Commissione di Vigilanza. L’Agcom, da parte sua, può sindacare sul contenuto di un servizio giornalistico, ma solo se la materia rientra tra quelle di sua competenza come la violazione della disciplina sulla par condicio, del diritto d’autore o in tema di pubblicità ingannevole. Categorie in cui non rientrano i processi di integrazione svedesi raccontati dal Tg2.

Anche perché le difficoltà di Stoccolma sono state scandagliate anche da altre testate. L’11 marzo 2017 La Stampa pubblicava un reportage “nel ghetto ribelle di Malmö, dove vacilla il modello Svezia” in cui si raccontava di “scontri, violenze sessuali, molestie, antisemitismo, baby gang e voglia di sharia”. Il 23 aprile 2019 Il Messaggero sottolineava “il modello porte aperte” che “naufraga in tanti ghetti”. E che per Repubblica (23 maggio 2013) non è riuscito a integrare alcune fasce della popolazione”.

A via Isonzo 21, però, il servizio del Tg2 non è piaciuto. Un po’ come, mutatis mutandis, a Silvio Berlusconi non piaceva la trasmissione Annozero di Michele Santoro e nell’autunno 2009 chiedeva al commissario Agcom Giancarlo Innocenzi di sospenderla. “Ma non funziona così neppure nello Zimbabwe!”, allargava le braccia, esausto, intercettato al telefono con il membro dell’Authority il dg Rai Mauro Masi. Uno che ostile all’ex Cav. proprio non era.

Altro che buongoverno: le 12 Regioni di destra tra guai e impresentabili

La retorica del “buongoverno” viene spesso sventolata da destra in contrapposizione a chi invece saprebbe dire soltanto di “No” e bloccare cantieri, opere, nomine. Su questo dualismo Matteo Salvini ha rovesciato il governo gialloverde, gridando al complotto perché non riusciva a imporre temi come l’autonomia differenziata o il Tav. Adesso che la Lega non è più al governo il meccanismo è ancora possibile se il focus si sposta sulle Regione, dove il centrodestra conta 13 presidenze su 20 (in Calabria la giunta si è appena insediata) e dove Salvini e soci garantiscono che le cose vanno a meraviglia. Eppure non è proprio così. Il presunto rinnovamento ha portato la coalizione a sbancare in nove regioni al voto negli ultimi due anni, ma per il momento si è tradotto in un immobilismo diffuso e in parecchi scivoloni, con tanto di ripetuti tentativi di riesumare prebende per la politica locale (in Piemonte pochi giorni fa la maggioranza stava per alzare di 1.000 euro lo stipendio alla giunta). Ecco allora una guida – giocoforza incompleta – del suddetto “buongoverno” e delle sue imprese peggiori.

 

 

Sicilia
Quattro assessori sotto inchiesta Per i vitalizi solo un taglio soft

La bussola del governatore Nello Musumeci punta verso la Lega, fresca d’ingresso all’Ars e con cui il movimento del presidente potrebbe federarsi. Ma il matrimonio resterebbe vincolato all’ingresso in giunta di un assessore. Naufragato il taglio dei vitalizi (è stato approvato un taglio soft, contro le indicazioni del governo), la Regione ha tirato un sospiro di sollievo evitando il default grazie al salvagente da Roma che spalma in dieci anni un disavanzo da miliardi di euro. E poi ci sono i 14 indagati che affollano i banchi del Parlamento. Quattro gli esponenti dell’esecutivo mentre due i presidenti di commissione: Riccardo Savona (Forza Italia) e Luca Sammartino (IV). Il resto sono semplici deputati, come Luigi Genovese, eletto a 21 anni raccogliendo il testimone del padre Francantonio, condannato in primo grado per corruzione e adesso sotto processo col figlio per evasione fiscale.
Dario De Luca

 

Piemonte
La gaffe dell’aumento alla giunta e un referendum pro-Salvini

Il passo indietro è di ieri, ma la maggioranza giura che ci riproverà quando le acque si saranno calmate. La Lega aveva infatti presentato un provvedimento per aumentare di circa 1.000 euro al mese gli stipendi della giunta di Alberto Cirio. A essere rimpolpato sarebbe stato il fondo per i rimborsi: a oggi, chi accetta di utilizzare l’auto blu e l’autista rinuncia a quei 1.000 euro, che invece secondo i leghisti dovrebbero essere concessi. Se ne riparlerà più avanti. Intanto però la giunta ha perso pezzo. A dicembre è finito in manette l’assessore Roberto Rosso (FdI): secondo la Procura, aveva chiesto voti alla ’ndrangheta in occasione delle ultime elezioni regionali. Insieme ad altri sette consigli a maggioranza leghista, poi, il Piemonte aveva chiesto di indire un referendum per trasformare la legge elettorale in un maggioritario puro. Richiesta spedita indietro dalla Consulta, che ha dichiarato il referendum inammissibile.

 

Abruzzo
Un bando da 225 mila euro va al fedelissimo della Meloni

“Due delle quattro Asl abruzzesi sono ancora senza direttore generale, le altre sono sprovviste del direttore sanitario o amministrativo”. La fotografia arriva da Cgil, Cisl e Uil, unite nel denunciare l’immobilismo della giunta guidata da Marco Marsilio (Fdi). Per la verità, nella Sanità qualcosa è stato fatto: nei mesi scorsi la Regione ha alzato gli stipendi dei dirigenti degli ospedali, portando da 115 mila euro l’anno a 149 mila i compensi dei dg e alzando di circa 30 mila anche quelli dei direttori sanitari e amministrativi, quando saranno nominati. Ma Marsilio pensa anche ai “suoi”: per la giunta è stato infatti ripristinato il rimborso relativo alle trasferte istituzionali, abolito nel 2015. Curiosa poi la gestione del trasporto pubblico Tua: in autunno un bando da 225 mila euro per alcune attività di comunicazione è stato vinto alla Mirus. Il proprietario della Mirus è Michele Russo, a lungo collaboratore di Giorgia Meloni e in passato vicino alla candidatura.

 

Basilicata
Bilancio bloccato, ospedali in tilt: da mesi è stallo sulle nomine

Come la Sardegna e l’Umbria, anche la Basilicata non è riuscita a chiudere in tempo il bilancio per il 2020 ed è entrata in esercizio provvisorio. Ultimo sintomo di una giunta a lungo bloccata da dissidi interni. Paradossale è la situazione della Sanità, che tra gli altri problemi deve gestire il caso dell’Ospedale San Carlo di Potenza. La nomina del dg Massimo Barresi fu fatta dall’uscente ex governatore Pittella nel 2018. Da allora la situazione dell’Ospedale è rimasta gravissima, con la stessa Lega che a dicembre parlava di un rosso da 13 milioni. Per mesi il centrodestra si è scagliato contro Barresi, ma a un anno dall’elezione di Vito Bardi il dirigente è ancora al suo posto, in attesa che si trovi un nome alternativo. E a Termoli le cose non vanno meglio: in autunno sono scadute le Commissioni mediche sanitarie per le disabilità e la Giunta avrebbe dovuto provvedere a nuove nomine. Lo stallo di diversi mesi ha invece provocato centinaia di pratiche inevase.

 

Molise
In ginocchio le imprese edili che si occupano del post-sisma

L’ultima lamentela nei confronti del governatore Donato Toma arriva dall’Acem Ance, ovvero il Collegio costruttori edili. Le aziende denunciano la grave situazione delle imprese impegnate nella ricostruzione post-terremoto: i pagamenti sono in ritardo da tempo e la tranche di fine 2019 non è ancora arrivata. L’associazione afferma di aver chiesto più volte un incontro con Toma, senza successo. Ma il destino della giunta non è affatto scontato. A dicembre la maggioranza è andata sotto sulla riforma del trasporto pubblico, una delle urgenze della Regione insieme alla Sanità. Tre consiglieri di destra hanno votato insieme alla opposizioni bocciando la linea Toma. Sembrava l’inizio di una crisi, invece per il momento il presidente è riuscito a ricompattare la truppa. Ma ci sono malumori anche sulla promozione del turismo: la Regione ha infatti rinunciato a partecipare alla Borsa Internazionale del Turismo di Milano, provocando l’ira del settore.

 

Trentino Alto Adige
Alzata l’Irpef per i più poveri. Qui i sindaci più pagati d’Italia

Questione di soldi. Quelli dei cittadini e quelli della Ue: utilissimi a finanziare la politica i primi, rifiutati i secondi. È la storia dell’ultimo anno leghista in Trentino Alto Adige, guida Maurizio Fugatti. L’estate scorsa la giunta ha decretato un aumento del 7 per cento dello stipendio dei sindaci della Regione, portando l’indennità del primo cittadino di Trento a superare di circa 1.500 euro gli 8.000 percepiti dai sindaci di Milano, Napoli e Roma. Curioso invece quanto successo a settembre: la giunta ha rinunciato a un milione di euro di fondi europei. Il motivo? Erano destinati a progetti per l’integrazione, come corsi di lingua italiana per stranieri e progetti di socializzazione. Alla ricerca di finanziamenti, meglio pescare in casa: a Trento Fugatti ha alzato la soglia minima di esenzione Irpef a 20.000 euro rispetto ai 15.000 previsti in precedenza. Una tassa da circa 300 euro in più all’anno per chi dunque si trova in una delle fasce di reddito più basse.

 

Veneto
Gare su misura, sanità privata e hotel tra i vigneti del Prosecco

Luca Zaia è pronto per un’altra rielezione. Eppure a guardare più da vicino l’affresco leghista le crepe ci sono. Cominciamo dal limite dei due mandati: grazie alle deroghe, Zaia potrà correre per il terzo. La sanità è inciampata su un appalto da 300 milioni per le forniture di pasti negli ospedali, gara annullata dal Consiglio di Stato e bacchettata dall’Anac perché su misura per un gruppo vicentino. Altro inciampo, le liste d’attesa chilometriche che spingono dai privati. Infatti, il settore convenzionato (2,8 miliardi) e quello totalmente privato (3 miliardi) assorbono quasi 6 miliardi l’anno. Le colline del prosecco sono patrimonio Unesco? Ecco la legge che consente di costruire alberghi diffusi tra i vigneti. Zaia ottiene i Mondiali di sci Cortina 2021 e le Olimpiadi 2026? Ambientalisti sul piede di guerra perché la montagna è stata sbancata a colpi di dinamite. E, per finire, la Pedemontana, opera da 2,5 miliardi in ritardo di anni e che rischia di ingoiare un mare di soldi.
Giuseppe Pietrobelli

 

Friuli-Venezia Giulia
La geniale idea di Fedriga: un muro anti-migranti al confine

Un muro anti-migranti lungo il confine con la Slovenia. Era l’idea – poi, pare, tramontata – del governatore Massimiliano Fedriga, che pensava così di sistemare i flussi migratori provenienti dall’Est Europa. Di pochi giorni fa invece è la commemorazione durante il Consiglio Regionale di Bettino Craxi, di cui ricorre il ventennale dalla morte: la 127esima seduta d’Aula s’è aperta col ricordo dell’assessore alla Cultura Tiziana Gibelli, che poi avrebbe anche definito l’ex leader Psi “uno statista”. Nei prossimi mesi dovrebbe poi arrivare una decisione della Corte Costituzionale in merito a una legge di Fedriga e soci, impugnata a settembre dal governo. Il provvedimento prevedeva di togliere fondi all’inclusione sociale per destinarli ai rimpatri (che però sono di competenza statale) e al contempo di limitare gli incentivi occupazionali esclusivamente a chi assume persone già residenti da 5 anni nella Regione.

 

Lombardia
Fontana è indagato insieme a un assessore e un consigliere

A maggio la Dda di Milano ha condotto una maxi-operazione (43 misure cautelari) che ha coinvolto i piani alti della politica lombarda, Regione compresa. Anche il governatore Attilio Fontana ha di che preoccuparsi, con i pm che lo accusano di abuso d’ufficio per la nomina di un suo ex socio in Regione. Nell’indagine è coinvolto pure il consigliere di FI Fabio Altitonante, per cui è stato chiesto il rinvio a giudizio. Ma i guai sono anche per un assessore: Stefano Bruno Galli, responsabile dell’Autonomia e della Cultura, è indagato nell’inchiesta sul presunto riciclaggio dei 49 milioni di euro della Lega. In tutto ciò, la Lombardia ha anche grane politiche: il mese scorso il consiglio ha dovuto votare due volte “contro” la giunta, che aveva approvato un taglio del sostegno a circa 7.000 famiglie con disabili gravi. Negli stessi giorni, la Regione ha rinnovato per nove anni senza gara il contratto per il trasporto regionale a Trenord. La concorrenza può attendere.

 

Liguria
Meno parchi, meglio il cemento. Bankitalia chiede lumi su Toti

Gli ultimi guai di Giovanni Toti riguardano il suo movimento politico Cambiamo. Bankitalia ha infatti trasmesso un fascicolo alla Procura di Genova – senza indagati – per far luce su alcuni finanziamenti all’associazione Change, oltre 200.000 euro finiti in parte anche sui conti del presidente. Ora Toti si prepara alla campagna elettorale, ma dovrà fare attenzione agli sgambetti degli alleati. L’estate scorsa, ai tempi del governo gialloverde, fu tramite la ministra Irene Stefani che l’esecutivo spedì alla Consulta una legge della giunta ligure, la cosiddetta sfascia-parchi: 540 ettari sottratti ai più grandi parchi della Regione e 42 aree protette cancellate, oltre all’annullamento del progetto del nuovo parco del Finalese. D’altra parte la Corte Costituzionale si era già occupata di Toti e soci: nel 2018 bocciò la legge con cui la Regione aveva cambiato le regole per l’assegnazione delle case popolari, escludendo gli stranieri non residenti da almeno 10 anni in Italia.

 

Sardegna
Cemento libero sulle coste. E ora c’è anche la grana Air Italy

L’addio di Air Italy e l’incertezza sul futuro della continuità territoriale in Sardegna, a rischio di mancata proroga, sono solo le ultime immagini di un’isola alla deriva dopo dieci mesi sardo-leghisti. Christian Solinas va verso il secondo mese di esercizio provvisorio e non ha ancora presentato la Finanziaria 2020, ma ha trovato il tempo di esitare il nuovo piano casa, che se consentirebbe aumenti di volumetrie dal 20 al 30 % anche nelle cosiddette zone “F”, le aree costiere tutelate in modo stringente dal piano paesaggistico. Gli unici altri atti legislativi prodotti finora riguardano la moltiplicazione di incarichi e di enti, come le otto nuove Asl sorte dalle ceneri dell’Azienda sanitaria unica. Vengono poi resuscitati i Cda nelle agenzie e nelle società, aboliti nella scorsa legislatura. Infine, una legge ad hoc ha allargato a dismisura i requisiti per l’accesso agli incarichi dirigenziali fiduciari esterni all’amministrazione.
Paola Pintus

 

Umbria
Da mesi in esercizio provvisorio. Ma sale la spesa per Tesei&C.

Uno dei primi atti dell’éra Donatella Tesei porta la data del 4 dicembre: è approvato il bilancio provvisorio. Dopo un mese di screzi continui per la formazione della giunta, la presidente ha deciso di rinviare la patata bollente a fine febbraio. A dicembre era anche emerso il caso dell’ assessore alla Sanità, il veneto Luca Coletto, in passato condannato a due mesi di reclusione per il reato di “propaganda di idee fondate sulla superiorità e sull’odio razziale”. E a gennaio il presidente del Consiglio Regionale di FdI, Marco Squarta, ha polemizzato con Coletto invitandolo ad “attivarsi” per non aver ripristinato i fondi a favore dei disabili. La nuova giunta non ha cambiato nulla sui costi della politica, anzi. Secondo il riepilogo degli stanziamenti consultati dal Fatto , per i tre nuovi assessori esterni nel 2020 la giunta Tesei spenderà quasi il 50% in più: 381.600 euro contro i 254.400 dell’anno passato.
Giacomo Salvini

“Noi come l’Amore: inizia la fase matura”

Cara Nadia, cari Moni, Pif, Roberto, Sandro e Stefano,

grazie per la vostra lettera e tutta la passione che avete dimostrato in questi mesi nell’avvicinarvi a noi come persone, prima ancora che come ideatori di questo grande esperimento che sono le Sardine. La vostra umanità è tangibile quando parlate di “prove ed errori”. Fate riferimento a una dimensione che non appartiene solo ai laboratori scientifici, ma a una molto più estesa e che ci riguarda tutti: la condizione umana. Gli errori fanno parte di ogni recita, anche la più riuscita.

Le domande appaiono ai nostri occhi come aperte, sincere, schiette. Siamo spesso attraversati da un senso di vuoto e sappiamo che questo è dovuto al fatto di non avere risposte semplici in tasca. Ma quel vuoto è in parte colmato proprio dalla consapevolezza di non essere soli. La vostra riflessione è la nostra. E viceversa.

Ci chiedete se siamo sicuri che organizzarsi attraverso deleghe e gerarchie formali mantenga lo stesso fascino per la moltitudine di cittadini che abbiamo mobilitato. Ne siamo sicuri? No, non lo siamo. Sappiamo però una cosa e il germe di una risposta completa risiede proprio nella vostra domanda. Parlate di fascino ed entusiasmo. Giusto, giustissimo. E a voi queste due parole cosa ricordano? A noi un’esperienza precisa quanto universale, spoglia di sentimentalismi melensi: l’Amore. Ogni Amore trae le sue origini da una fase iniziale di stordimento, di entusiasmo irrefrenabile, di fascino vissuto come tensione costante. Allo stesso modo, ogni Amore “maturo” perde un po’ di quella spinta e si trasforma in piccoli gesti e complicità, in una tensione meno bruciante ma, magari, più solida e duratura. Ma rimarrà per sempre traccia di quell’Amore iniziale. È già storia. A questo punto, è giusto che ognuno si senta libero di scegliere il tipo di vincolo da instaurare, se vincolo sarà.

Ci chiedete se dobbiamo impegnarci nella crescita generale della maturità politica di tutti i cittadini o se è tempo di proporci come nuovo ceto politico che si aggrappa a una parola consunta come “cambiamento” per legittimare ambizioni di potere. Questa domanda ci sembra più facile della prima. Abbiamo sempre affermato di voler lavorare per stimolare la partecipazione alla vita democratica del Paese. Lo abbiamo sempre fatto non in qualità di leader; al massimo nelle vesti di “primus inter pares”. Cosa significa? Che abbiamo avuto un’idea. Ora questa idea, o forse è più appropriato definirlo un sentimento, cammina sulle gambe di molte persone.

Imporre gerarchie ai sentimenti sarebbe, a dir poco, velleitario. Giunti a questo punto, ci riteniamo estremamente soddisfatti di camminare sapendo di essere circondati di una moltitudine di individui che silenziosamente condividono i nostri stessi principi.

Ci chiedete se innovazione, differenze, autonomie, responsabilità, accoglienza e Bene comune possano coesistere come fibre di un tessuto sociale. Certamente sì. È quella la nostra visione e i fatti hanno dimostrato che è la stessa di moltissimi cittadini sparsi in tutta Italia e in tutto il mondo. Ne prendano atto la Politica e i suoi rappresentanti.

Ci chiedete infine se le gerarchie emerse nelle nostre pratiche risultino più efficaci, autorevoli e democratiche di procedure formali ed elettive. Saremo schietti. Efficaci sì, autorevoli nì, democratiche… Ci stiamo lavorando. Vi basti sapere che la vostra domanda vibra in noi fin dal primo giorno. Siamo saliti sul palco non perché volevamo, ma perché era giusto farlo. Riteniamo di averlo fatto nel solco dei principi democratici del Paese in cui viviamo, proprio perché potessero riaffermarsi con forza quei principi e non, invece, il tetro spettro de “l’uomo solo al comando”.

La rivolta dei peones: “Ormai Forza Italia sta scomparendo”

“Lentamente muore chi non rovescia il tavolo”, è il verso di una poesia tanto citata, e spesso erroneamente attribuita a Pablo Neruda. Lentamente muore anche Forza Italia: il partito di Silvio Berlusconi è nelle secche di un declino irreversibile e pare destinato a scomparire nella pancia del centrodestra, fagocitato da Salvini e Meloni. Eppure c’è chi a questo lento spegnersi, a modo suo, non si rassegna. E prova a rovesciare il tavolo.

Domenica la chat dei deputati azzurri su Whatsapp è stata ravvivata, diciamo, dallo sfogo di Antonio Martino. L’onorevole abruzzese, omonimo dell’ex ministro berlusconiano, si lancia in un’arringa deprimente: “Non si può più negare la profonda crisi che il nostro partito sta ormai attraversando da parecchio tempo – scrive –, i sondaggi sono impietosi, nella stragrande maggioranza dei territori non si riesce a rinnovare la classe dirigente solo per mantenere rendite di posizione, e mentre tutto questo accade i massimi livelli del partito si esercitano in una goffa comunicazione volta a dire che tutto è apposto e che a breve il paese si ricorderà di noi e di quanto siamo indispensabili”.

Martino non è tra i più illustri deputati azzurri. Imprenditore informatico di Popoli (Pescara), nel 2014 era infatuato da Matteo Renzi e salì pure sul palco della Leopolda. Poi la candidatura con Forza Italia. La sua prima legislatura in Parlamento rischia di essere l’ultima. E lui ne è spaventosamente consapevole: “Con il 6% nei sondaggi e il taglio dei parlamentari – scrive – il 70% di noi oggi non sarà più presente in Parlamento, e questa è matematica non sfortuna, (…) sono disposto a morire combattendo ma non sono disposto a morire di inerzia, per questo Stella (Gelmini, ndr) ti chiedo di convocare il più presto possibile un’assemblea del gruppo con un solo ordine del giorno ‘il futuro di Forza Italia’”. Tocca dunque alla capogruppo Gelmini provare a ricucire: “So che sei molto arrabbiato per la situazione dell’Abruzzo e del coordinamento regionale, hai posto il tema anche la settimana scorsa alla riunione di gruppo, ma perdonami quel tema che ti sta a cuore non può trovare soluzione in quella sede”. Martino però insiste: “Grazie Stella, ma nel mio messaggio non ho tenuto minimamente conto della questione abruzzese. (…) Per chiarire, non so quali altri risultati disastrosi debba ottenere il partito per far capire agli organi statutari che bisognerebbe cambiare passo. (…) Aspetto, se lo vorrai, la data di convocazione dell’assemblea”. Gelmini capitola: “Apprezzo, caro Antonio, lo spirito combattivo e la voglia di non mollare e dare un contributo. Appena ho chiaro l’andamento dei lavori fisserò un’altra riunione di gruppo”. Fine. Nessuno dei forzisti presenti nella chat prende parte al dibattito, in privato però sono diversi a contattare Martino e congratularsi per le sue parole.

Forza Italia è un partito che si sgretola e perde pezzi (tra le ultime ad andarsene persino “l’amazzone” berlusconiana Michaela Biancofiore). E le chat azzurre spesso regalano “perle”. Lo scorso agosto, in piena crisi politica, mentre il partito assecondava la strategia di Salvini per tornare al voto, era stato Gianfranco Rotondi a lanciare il suo avvertimento su Whatsapp: “Cari colleghi, da vecchio scarpone democristiano, ho il dovere di fornirvi una lettura democristiana della crisi di governo. Con l’8% di FI, nel prossimo Parlamento ci saranno da 30 (ipotesi pessimistica) a 60 (ipotesi entusiastica) parlamentari azzurri. Oggi siamo 170. Ne perdiamo da 110 a 140. Il sussidiario della politica dice che dovremmo avere una sola bussola: no alle elezioni, sì a qualsiasi compromesso per proseguire la legislatura. Invece FI chiede elezioni immediate. Qualcosa non quadra, evidentemente”. Siamo al si salvi chi può. Da mesi.

“Adesso una grande mobilitazione civile, però il Pd ci provoca ”

Non era affatto scontato e figurarsi se è stato facile. Ma in serata Valeria Ciarambino, capogruppo del Movimento in Regione Campania, giura che il suo passo di lato non è una conversione o una resa: “Già mesi fa avevo detto pubblicamente che per la mia regione auspicavo un Conte campano. E Sergio Costa è la persona giusta”.

Quando ha deciso e soprattutto perché?

La decisione l’ho presa domenica sera, ma ci pensavo da un po’ di tempo. Io amo la mia terra, e in questi cinque anni all’opposizione ho lavorato con tutto il Movimento per aiutarla. Ma adesso tutto questo impegno deve tradursi in un cambiamento vero.

Lei è sempre stata nettamente contraria all’accordo con il Pd.

Io ho proposto Costa come candidato governatore, nonostante molti mi abbiano chiesto di ricandidarmi alla guida della Regione. E l’ho fatto perché sono convinta che serva un uomo che aggreghi i cittadini e più forze, più mondi: una figura che da anni si batte per la tutela dell’ambiente e la legalità. Io propongo un’alleanza a tutti coloro che vogliono fare il bene della Campania.

L’hanno convinta da Roma, o no?

È stata una mia decisione. L’ho comunicata domenica al capo reggente politica Vito Crimi, e poi ho chiamato tanti dei nostri, come Luigi Di Maio e Roberto Fico.

Chissà come la prenderanno gli attivisti. Il 2 febbraio a Napoli avevano votato per il 90 per cento contro l’accordo.

So bene cosa voglia dire l’amministrazione di Vincenzo De Luca in Campania, e capisco perfettamente quanto espresso da quell’assemblea, come comprendo quei cartelli comparsi nella manifestazione sui vitalizi di sabato scorso, a Roma (“No alle alleanze”, ndr). Molte persone che erano a quella riunione mi hanno manifestato vicinanza e apprezzamento per la mia scelta, hanno capito che lo faccio per generosità. Ma capisco anche le perplessità di altri compagni di strada: temono che in questo convergere di forze su Costa possano infiltrarsi persone di dubbia moralità, magari per camuffarsi e sopravvivere.

Bel problema, non crede?

È per questo che mi candiderò comunque come consigliera, per vigilare. Dopodiché sono certa che Costa sarà una garanzia per la legalità.

Lei andrà avanti, puntando sul ministro.

Ora bisogna provare ad aggregare. Il mio è un tentativo.

La prima reazione del Pd non pare positiva. La direzione regionale ha votato all’unanimità un documento della segreteria di sostegno alla candidatura di De Luca e si è impegnata a costruire una delegazione che aiuti il governatore uscente a costruire una coalizione. Che ne pensa?

È sempre la solita proposta a cui abbiamo già risposto.

Per ora è un bel no.

A vederla così sembra una provocazione.

Ma da oggi che si fa? Sperate che il Pd nazionale intervenga per rimuovere De Luca?

Io mi auguro che da oggi parta una grande mobilitazione civile in favore di Costa, una mobilitazione della Campania migliore. È per questo che ho pubblicato il mio video.

Lei propone il ministro dell’Ambiente. Ma quali punti programmatici sono indispensabili per un’intesa, su cosa si deve trattare?

Parlare di alleanze è fantapolitica. Voglio parlare delle esigenze della Campania, che sono infinite. La nostra regione è ultima in tutti gli indici di qualità della vita, c’è una prateria di temi da cui attingere. Abbiamo il peggior trasporto pubblico del Paese: se parti con il treno non sai quando arriverai. E la sanità non garantisce il diritto alla salute. È di questo che voglio parlare.