Trattamento di fine rapporto: state lontani dai fondi pensione

L’industria della previdenza integrativa le prova tutte per mettere le mani sul Trattamento di fine rapporto (Tfr) degli italiani. Addirittura accusa l’Inps di rifiutarsi di trasferire quello giacente nel suo fondo di Tesoreria “a un altro fondo pensione”. Come dire? Biechi burocrati che vogliono condannare i lavoratori a una vecchiaia senza fonti di sostentamento. Così esso si è visto costretto a ribadire l’ovvia infondatezza di tale pretesa col messaggio n. 403 del 4-2-2020. La c.d. portabilità vale fra fondi pensione e quello in questione mica lo è: si tratta di un contenitore per il Tfr accantonato dalle aziende con almeno 50 dipendenti.

Fermo restando che l’Inps ha ragione in pieno, merita entrare nel merito. Converrebbe ai lavoratori spostare a un fondo pensione non solo il loro Tfr futuro ma addirittura quello già maturato? No; e in questo frangente ancora meno che in altri.

Tirare i remi in barca. In effetti adesso è consigliabile proprio il contrario, cioè togliere più che si può dai fondi pensione. Marca male infatti per la loro quota nel reddito fisso, che nel complesso è la componente preponderante. Bisogna aspettarsi rendimenti molto inferiori di quelli visti finora; e magari anche pesantemente negativi.

Come per i fondi comuni obbligazionari, le performance passate sono irripetibili, perché frutto del crollo dei tassi di interesse, che però hanno praticamente toccato il fondo. Mica sono pensabili rendimenti negativi dei Btp o anche dei titoli di Stato tedeschi del -2 o -3 (meno tre) per cento annuo!

È quindi prudente sfruttare la possibilità di prelevare il 30% senza motivazioni dopo almeno otto anni di permanenza nella previdenza integrativa. Ugualmente fanno bene a riprendere tutto i pochi fortunati cui ciò è concesso per un cambio della loro posizione lavorativa.

Uno poi non sa cosa fare delle cifra recuperata? Purtroppo non è possibile riportarla in azienda nel Tfr. Si può metterla in Buoni del Tesoro Poliennali (Btp) indicizzati all’inflazione. Ma anche tenerla provvisoriamente sul conto non è assurdo.

Tfr vincente. Soprattutto questo è uno dei momenti più sbagliati per spostare il Tfr nei fondi pensione, da parte di chi per sua fortuna non l’ha fatto, cioè la maggior parte dei lavoratori italiani. Il discorso è numerico: attualmente il Trattamento di fine rapporto è l’impiego previdenziale migliore che esista. Ragionando sul tasso d’inflazione tendenziale, il Tfr rende l’1,9% mentre per esempio i Btp Italia 2023 sullo 0,6%. La fiscalità è un po’ diversa, ma non ribalta certo la convenienza.

 

L’Rc auto è in formato famiglia. “Così aumenteremo i prezzi”

È partita ieri tra mille polemiche l’Rc auto familiare che consente di assicurare auto e due ruote usufruendo della migliore classe di merito presente all’interno della famiglia. Una possibilità valida non solo per le nuove polizze, ma anche al momento del rinnovo di quelle esistenti. L’importante è che non si siano verificati sinistri negli ultimi 5 anni. L’entrata in vigore della misura senza ulteriori slittamenti (originariamente prevista dal decreto Fiscale per metà dicembre 2019), così come era stato auspicato dalla Confindustria delle assicurazioni – Ania – è stata confermata giovedì scorso dalle commissioni Affari costituzionali e Bilancio della Camera quando non hanno approvato gli emendamenti bipartisan al decreto Milleproproghe che ne chiedevano il rinvio al 16 aprile (Pd), al 16 giugno (Fi e Italia Viva) o al 30 giugno (M5S). È stato, invece, dato il via libera al solo emendamento del dem Claudio Mancini, riformulato dal ministero dello Sviluppo economico, che ha introdotto anche il “malus” individuale. In pratica, come succede in ogni altro contratto di assicurazione automobilistica, nel caso in cui il beneficiario del contratto familiare con veicolo di diversa tipologia (presumibilmente moto o motorino) causi un incidente con danni superiori a 5.000 euro, potrà subire alla successiva stipula – solo lui e non gli altri familiari – un declassamento di 5 classi di merito. Oggi in caso di responsabilità c’è una penalizzazione di sole 2 classi di merito.

Una novità che nelle intenzioni del legislatore servirà a riequilibrare quello che sarebbe stato un sistema esposto a non pochi rischi di iniquità tra assicurati, ma anche di rincari delle tariffe. La prima versione della misura prevedeva, infatti, che anche il “malus” fosse familiare, così come il bonus, con una penalizzazione dopo l’incidente per tutti gli assicurati all’interno dello stesso nucleo che avesse beneficiato dell’assicurazione collettiva. La riformulazione ha, invece, puntato sul “malus” individuale, con l’obiettivo di incoraggiare comunque comportamenti virtuosi da parte dei componenti di tutta la famiglia dal momento che, secondo le simulazioni elaborata da Facile.it, la nuova Rc auto potrebbe portare al risparmio di mille euro all’anno per un nucleo con 4 mezzi di cui 2 auto in prima classe di merito e due moto in 14 classe.

Tanto che la novità continua a non piacere all’Ania che parla di “norma ingiusta per gli assicurati”. Del resto negli ultimi 7 anni le compagnie hanno conseguito 9 miliardi di utili solo nell’Rc auto con 50 miliardi di profitti complessivi. Ottimi risultati economici raggiunti grazie a un’assicurazione che dovrebbe, invece, portare a un pareggio tra le entrate (quando pagano gli assicurati) e le uscite (il costo dei sinistri, tra l’altro in leggero calo dello 0,3% nel 2018 sull’anno prima). Nel terzo trimestre 2019 gli automobilisti hanno sborsato in media 410 euro, un premio più basso di circa 10 euro rispetto allo stesso trimestre dell’anno precedente (dati Ivass), ma comunque tra i più alti in Europa.

Un mucchio di soldi che ora sono a rischio. “Il sistema bonus/malus – spiega l’Ania – non attivando alcun intervento sugli oneri complessivi, opera solo una ridistribuzione dei costi degli incidenti con una diminuzione dei prezzi a favore delle famiglie che dispongono di più veicoli, a scapito di quelle che ne possiedono solo uno”. Un esempio chiarificatore: in base alle nuove norme, un 18 enne inesperto che ha più probabilità di rimanere coinvolto in un incidente rispetto a un conducente con più esperienze, pagherà come chi non ha effettuato alcun incidente per numerosi anni. “È evidente – prosegue l’Ania – che questo vanifica ogni incentivo di buon comportamento al volante, incrementando il rischio di maggiori incidenti stradali e, quindi, di potenziale incremento per tutti dei prezzi Rc auto”. A rimarcare la contrarietà è l’ad di Unipol Carlo Cimbri: “Si tratta di una normativa di carattere populista che produrrà degli effetti iniqui in quanto penalizzerà le famiglie meno abbienti, mentre le più abbienti, che hanno 3 o 4 veicoli, beneficeranno di una riforma che presenta aspetti non meritocratici”. E giù con la minaccia: “Le compagnie aumenteranno i prezzi e – aggiunge Cimbri – rivedranno le componenti tariffarie per far sì che questa operazione sia un gioco a somma zero”. Secondo i dati di Facile.it, si tratta di un possibile rincaro del 2,6% per circa 40 milioni di veicoli, dal momento che in circa 2 milioni (il 5% degli assicurati) potrebbero entrare in prima classe e ottenere circa il 50% di risparmio se l’altro veicolo si trova in quattordicesima classe. Prezzi più alti che equivarrebbero a un aumento di 25 euro per gli assicurati della Campania che da sempre pagano l’Rc auto più alta d’Italia.

Sempre che non arrivi l’approvazione di una proroga di legge prima della conversione del Milleproroghe.

Il rilancio di BoJo sull’auto ecologica

Il Regno Unito anticipa ancora la dead line per la messa al bando di motori diesel e benzina dalle proprie strade. Il Segretario ai Trasporti Grant Shapps, infatti, ha dichiarato in settimana alla BBC che lo stop alla vendita di auto con motori termici tradizionali potrebbe avvenire addirittura tra 12 anni, nel 2032. In anticipo, dunque, rispetto alla data del 2035, indicata dal primo ministro Boris Johnson a inizio febbraio; che era, a sua volta, un’ulteriore accelerata rispetto al 2040 fissato in agenda giusto due anni e mezzo fa. In realtà, quella di Johnson era sembrata un’uscita ad effetto, per sponsorizzare il summit sul clima Cop26 che si terrà a Glasgow il prossimo novembre, con l’Inghilterra che, stando alle parole del suo premier, deve assumere un ruolo da leader nella battaglia contro il cambiamento climatico.

Pare invece che a Londra facciano sul serio, spingendo sull’auto elettrica ma anche su ibride e ibride plug–in. Il pacchetto, sul mercato inglese di gennaio, valeva circa 17 mila macchine, ovvero il 12% del totale. Ancora poco, evidentemente, per fugare le preoccupazioni sulla consistenza dei volumi da qui a soli 12 anni. Il grido d’allarme lo aveva lanciato l’associazione dei costruttori inglesi, la SMMT: “Se il Regno Unito vuole guidare l’agenda globale per le zero emissioni, abbiamo bisogno di un mercato competitivo in grado di incoraggiare i costruttori a produrre e vendere qui da noi. Una data senza un piano semplicemente distruggerà valore, oggi”. Ma Bojo non lascia, semmai raddoppia.

Suv medi: 2020, lo stallo. Ma cresceranno nel 2021

I suvdi dimensioni medie, da anni sulla cresta dell’onda in Europa, quest’anno rallenteranno la crescita, per riprenderla dal 2021. È la stima degli analisti di LMC Automotive: la domanda nel 2020 rimarrà invariata a circa 2,2 milioni di unità, crescerà a 2,4 milioni il prossimo anno per toccare quota 2,8 milioni entro il 2025. Gli sport utility compatti sono un business d’oro per marchi come Nissan, Ford e Peugeot. Le tre case automobilistiche hanno sfornato modelli di successo come Qashqai (fra qualche mese arriverà la terza generazione), Kuga (appena arrivata sul mercato con tecnologia ibrida plug–in) e 3008 (a metà del suo ciclo-vita e disponibile con l’ibrido ricaricabile alla spina). In Europa il segmento dei suv medi (il quarto per importanza) vale il 13% delle immatricolazioni complessive: la più amata è la Volkswagen Tiguan, seguita da Nissan Qashqai e Peugeot 3008. Nel 2020 debutteranno le nuove generazioni delle coreane Hyundai Tucson e Kia Sportage. Ci sono tuttavia 2 nodi da sciogliere, uno nell’immediato e l’altro a lungo termine. Il primo è l’inesorabile calo del gasolio, alimentazione regina tra i suv compatti: anche se quella diesel rimane la motorizzazione preferita per parecchi clienti, i costruttori stanno puntando sull’elettrificazione. C’è poi la questione emissioni: le normative sempre più stringenti non favoriscono certo auto pesanti come i suv (che di conseguenza consumano di più). Per LMC Automotive, il rischio è che prevalgano vetture più leggere, come le berline compatte.

“Honda e”, tecnica e stile. L’elettrica dalle linee vintage

Se l’auto elettrica è protagonista di una scena, al fascino della tecnologia va sempre l’intero film. La sceneggiatura qualche volta lascia alle emissioni zero soltanto uno dei capitoli. Tesla l’ha insegnato, molti hanno imparato, Honda ora lo ha fatto. Siamo andati a Valencia per guidare la nuova Honda e, dai fari circolari ispirati alla N360 del 1967, a caccia della suggestione di un futuro prossimo ma elegante, tra linee pulite in modo maniacale. Ci sarà un mercato di massa per le auto a batteria, questo sì. Ma intanto godiamoci quel momento di egoismo automobilistico ad impatto zero, a bordo di una citycar solo per questioni di taglia, ma non di voglia.

Lunga 389 cm, 175 cm in larghezza e 151 d’altezza, Honda e racconta di sbalzi ridotti al minimo, cinque porte per quattro passeggeri e un bagagliaio di 171 litri di capienza, cioè l’ingombro di una formalità. Sedili con finiture in legno, dal design inguaribilmente anni settanta, e lo stupore del cruscotto da cinema. Un display da 8,8 pollici dietro il volante, più due touchscreen da 12,3 pollici di diagonale, che occupano tutta la parte superiore della plancia. Sui lati estremi, ancora due schermi da 6,6 pollici per proiettare le immagini delle videocamere Hd al posto dei classici specchietti retrovisori, che non ci sono più. L’interfaccia d’uso è ancora migliorabile, come la visibilità in coda attraverso il piccolo lunotto a trapezio. Inutilizzabile, non fosse per l’ennesimo display annegato nello specchietto centrale collegato ad una videocamera. La scena d’interni è fantascienza. Quella successiva, uno street show. Le sospensioni McPherson all’avantreno e al retrotreno trasmettono il compromesso buono tra isolamento e compattezza di assetto. Lo sterzo è docilissimo in manovra, ma consistente e preciso quando serve.

Honda e sarà disponibile con motore da 136 Cv a quota 35.500 euro (versione base), e nell’allestimento Advance da 38.500; è quello che abbiamo scelto di provare e che da maggio arriverà in Italia, con una gustosa potenza fino a 154 Cv. La velocità tocca il massimo di 145 Km/h e non stupisce, come l’accelerazione da 0 a 100 orari in 8,3 secondi.

Il divertimento vero però sta tutto nel mezzo, nelle andature che danno spazio alla ripresa secca del motore elettrico, alla possibilità di entrare in curva e poi godersi l’uscita con l’acceleratore completamente a fondo, con un controllo della trazione da manuale. Honda e Advance percorre ufficialmente 210 km con un pieno agli accumulatori, che si ricaricano in 19 ore utilizzando una comune presa domestica, oppure in 4 ore con il caricatore da 7,4 kW. Non è destinata a diventare la prima auto di famiglia, ma casomai la prima che viene voglia di guidare.

“Sognavo il fioretto di Zorro e mi allenavo in un garage”

C’era quasi riuscito, lo schermidore Daniele Garozzo, a farla franca. Certo, schivare gli assalti reali di un fioretto (come quelli metaforici delle domande) è la sua specialità. Ce l’aveva messa tutta per lasciarsi inquadrare solo di profilo come quando gareggia, mostrando solo una parte di sé, quella ufficiale, la stessa che concorre – sempre con estrema onestà, sia chiaro – a nutrire l’idea dell’atleta tutto d’un pezzo e ligio al lavoro, che non a caso poi diventa anche il campione olimpico in carica (Garozzo, infatti, ha vinto l’oro nel fioretto ai Giochi di Rio 2016). “Nella scherma, per vincere” spiega, “bisogna raggiungere il giusto compromesso tra l’essere focalizzato nel momento presente e immaginare l’istante successivo”. Quasi fosse in pedana, inizia gestendo da solo l’incontro–intervista con risposte fiume in cui anticipa le domande: è uno ponderato, Garozzo! A lui, non la si fa!

Ecco, dunque, com’è di profilo: vita sana (“Vado a letto presto per recuperare le forze dopo gli allenamenti”), passando per buone abitudini e ore di allenamento. Impegnato nel sociale (“Ho devoluto il premio dell’oro di Rio all’Associazione Medici Senza Frontiere perché credo nel circolo virtuoso dei gesti di bellezza: uno ne richiama altri”). Studia medicina all’università, il poco tempo libero lo dedica ai libri e alla fidanzata Alice Volpi, collega schermitrice. È curiosissimo, ascolta gli audiolibri dello storico Alessandro Barbero e molta musica, tra tutti Cesare Cremonini. Che dire: perfetto! Salvo poi, dolcemente inciampare. E in una parola. D’altronde, in ogni narrazione c’è una parola inafferrabile, disabilitata botola che svela segreti preziosi. Una parola inciampo, che a cascata ne provoca altre, e altre, e altre.

Quando il campione Garozzo accarezza nella ricordanza i suoi esordi in Sicilia con il fratello maggiore che è sempre stato il suo punto di riferimento, è a Daniele che si spezza la voce nel pronunciare “garage”. Negli occhi verdi e grandi di questo campione, come nei flashback un po’ fané al cinema, luccica ancora il piccolo Daniele di sette anni che inizia scherma ad Acireale. “Da bambino” sorride imbarazzato, “durante il carnevale mi vestivo sempre da Zorro o da D’Artagnan. Così i miei genitori mi iscrissero in una piccola palestra dove si praticava scherma”. Subito precisa: “A dire il vero, era un garage. (Pausa) Ripenso sempre a quanto mi abbia formato quella mancanza di risorse, quel poco più di niente che mi sembrava così bello, il dovermi poi separare dalla mia famiglia perché in Sicilia non era possibile praticare la scherma a certi livelli. E ancora, imparare a cucinare, a stirare, ma soprattutto a stare da solo. Lo dico sempre ai giovani che iniziano: l’esperienza migliore per gareggiare dentro la pedana si fa fuori dalla pedana. È quando diventi uomo che puoi pensare di diventare atleta. Per me è stato così!”

Mentre dipingeva La libertà che guida il popolo, Eugène Delacroix scrisse: “La pratica di un’arte esige un uomo per intero”. Per essere il numero uno al mondo nel fioretto, Daniele ha lasciato gli affetti e rinunciato a molto. Per esempio “alla granita cioccolato e panna con brioscia” scherza, ma soprattutto “alla spensieratezza”. “Non ho rimpianti, del mio sport sono appassionato e innamorato: come rimetterei insieme i pezzi di me quando una gara non va o prendo una batosta, se con l’amore per la scherma?”.

Ora che il tempo delle chiacchiere è finito, a ben ammirarlo tornare a guizzare in pedana mentre si allena in attesa di Tokyo 2020 con ancora il riverbero del suo parlare senza rete di protezione, ecco chi è Daniele Garozzo: un vispo grillo, di quelli che avrà ascoltato da bambino nelle sere d’estate. Per gli etologi, ogni grillo maschio canta con un proprio ritmo e una propria nota alla ricerca, paziente e speranzosa, di quel grillo femmina che saprà rispondere a tono, duettare con lui e finalmente amarlo. La stessa pazienza, la stessa speranza, lo stesso amore battono nel cuore del grillo azzurro della scherma.

Il poeta da rinchiudere: dal manicomio al palco

La figura di Marcello Barlocco vive più nella leggenda che nella realtà, nella cronaca nera più che nelle cronache letterarie. I suoi testi girano in una cerchia ristretta di cultori, vanno esauriti da piccoli editori che accontentano le esigenze di alcuni devoti. Tra i pochi che tentarono di trascinarlo fuori dal ghetto ci fu Carmelo Bene, quando nel 1961 gli mise in scena Tre atti unici al Teatro Eleonora Duse di Genova. E di Barlocco scrisse: “Un folle straordinario… interessante scrittore. Alto un metro e novanta, pesava trenta chili. Faceva impressione. L’avevano internato per vent’anni in manicomio, l’appendevano all’ingiù con la testa nel cesso. Raccontava anche strani riti, di messe nere, di bambini sacrificati, ma nessuno gli dava ascolto”. Forse già allora la leggenda deformava la realtà.

Marcello Barlocco era nato nel 1910 con i cromosomi del maudit. Le origini borghesi ereditate dal padre, farmacista di Carcare in Liguria, furono presto cancellate da una sete di orizzonti sfrangiati. Abbandonò la facoltà di farmacia e come punizione venne spedito sulle navi per un’improbabile carriera nautica. Tornato a terra riuscì a completare gli studi ma subito riprese a seguire la sua natura, scrivere, vagabondare. Si trovò a Roma tra i bohemien del dopoguerra. Nel 1949 ebbe una particina in un film di Monicelli dal titolo beffardo: Al diavolo la celebrità. In realtà era la celebrità che aveva mandato al diavolo lui fin dalla nascita. Di quel periodo esiste un documentario di Virgilio Pallottelli intitolato Ultima Boheme, dove si vede un Barlocco quarantenne già segnato dalla vita. In quel calderone di aspiranti alla celebrità c’erano Mimmo Rotella, Piero Dorazio, Sebastiano Matta, Anna Salvatore. Riuscirono tutti a emergere, solo Barlocco non trovò mai la porta per uscire dall’ombra.

Il suo primo libro, Racconti del Babbuino, raccoglie storie cupe, fatte di lampi disperati, rovinosi abissi, cadaveri, ossari, fantasmi e altri alfabeti neri che evocano Poe. Il noir è a volte humor noir, assurdo, dadaismo. “Molto interessante… racconti intrisi di un’amarezza toccante… un disperato furore…” scriveva Geno Pampaloni su Belfagor. Ma al Premio Viareggio Barlocco raccattò solo qualche approvazione critica, il suo non era libro da premi italiani con serate finali per signore in lungo e signori in papillon.

In mancanza di riconoscimenti ricorse ai suoi studi in farmacia, che gli avevano dato una certa familiarità con i miracoli della chimica. E nel 1958 Barlocco venne arrestato a Milano come capo di una gang internazionale di spacciatori. Cercò di spiegare alla polizia che era finito lì dentro per scrivere un libro sulle droghe e su quell’ambiente, ma un commissario nemico della fantasia lo mandò in galera. Dalla prigione venne trasferito nel manicomio di Reggio Emilia come squilibrato dedito a sostanze stupefacenti. Si apprende da un articolo della Stampa (primo marzo 1961) che fece un esposto alla magistratura per aver subito esperimenti di “imbalsamazione vivente”, e queste torture gli avrebbero “mineralizzato l’organismo”. Dentro il manicomio si commettevano omicidi, sevizie chimiche e riti sacrileghi, denunciava Barlocco. Fu accusato di calunnia dalla direzione dell’ospedale psichiatrico, ma nel 1965 venne scagionato.

Riuscì a pubblicare in queste travagliate vicende un altro libro di racconti Per chi danza l’orso viola e un romanzo, Veronica, i gaspi e Monsignore, storie di allucinazioni, di personalità altalenanti tra Jekyll e Hide. Anche i giornali delle opposte parrocchie, L’Unità e Il Popolo, gli accettarono qualche racconto. Tuttavia un’ostinata nuvola d’ombra sembrava seguirlo in ogni tentativo di emergere. Forse la sua originalità visionaria metteva in crisi i critici, che non sapevano come inquadrarlo. E lui se ne guardava bene dall’inquadrarsi, andava rassegnato alla deriva: “Io mi suicidavo per il dolore di non conoscere la ragione per cui avevo deciso di suicidarmi!”. I rapporti con gli editori erano disastrosi: “Quando uno scrittore che non è un pederasta o non ha una giovane piacente moglie disposta a fare dei piaceri, o non frequenta il salotto Bellonci o non è cugino dell’onorevole Andreotti, sarà riuscito a trovare un grande editore italiano che gli pubblichi un suo romanzo, allora sarà trascorso un solo secondo di eternità”. Si riferiva all’apologo orientale che paragonava un secondo di eternità a infinite decine di migliaia di anni.

L’occasione per riparlare del suo caso è l’uscita di un’edizione antologica dei suoi scritti da Giometti & Antonello. Un negro voleva Iole. Racconti scelti e aforismi inediti. Barlocco scomparve nel 1972, e prima di andarsene si ridusse a leggere poesie nei night club di Roma passando col piattino per le monete, come racconta Tonino Conte in L’amato bene. Era nato per osservare i mondi remoti dell’immaginazione e invece fu costretto a guardare nel piattino sotto il naso per capire se esisteva la possibilità di una cena.

Emiliani, lo spazio dell’arte è lo stesso della democrazia

Se dovessi fare i nomi di coloro che più di tutti han lavorato, nell’Italia del secondo Novecento, per tener saldi e vivi i rapporti tra le pietre e il popolo, uno dei primissimi a fiorirmi sulle labbra sarebbe quello di Andrea Emiliani (1931-2019): storico dell’arte, soprintendente, fondatore dell’Istituto dei Beni Culturali dell’Emilia-Romagna. Proprio oggi a Bologna gli si rende pubblico omaggio, in una giornata nell’aula magna dell’Accademia di Belle Arti che apre le celebrazioni che l’intera regione intende dedicargli a un anno dalla scomparsa. La prima volta che incontrai Emiliani fu all’inizio degli anni Novanta, alla Scuola Normale dove ero studente. Alla fine del suo secondo seminario sui “beni culturali”, trovai il coraggio di domandargli cosa pensasse della diffusione, che pareva allora inarrestabile, dei corsi di laurea appunto in beni culturali. La risposta di quel famoso soprintendente fu assai poco paludata: mi guardò sorridendo, e disse, con la sua aria sorniona, “sono una truffa”. Era una verità che nessuno aveva il coraggio di dire: e con quell’uscita Emiliani si guadagnò il rispetto di un’altra generazione di storici dell’arte.

Emiliani era venuto a parlarci del suo modo di fare storia dell’arte: “Vivere l’opera d’arte del passato nell’osservazione critica dell’attualità”. La conoscenza capillare del territorio dell’Emilia-Romagna lo aveva spinto a cogliere sempre quella che chiamava “la forte simultaneità di apparizione” del patrimonio. Non, dunque, la lettura della successione temporale degli stili, come in un manuale ordinato, ma la concretizzazione, e dunque la stratificazione, della storia in una porzione di territorio. La geografia come storia, potremmo dire: lo spazio al posto del tempo.

E questo spazio dell’arte e della storia, per Emiliani era lo stesso spazio della democrazia, della comunità quando ha voluto spiegare, in questi ultimi anni, il significato del titolo – geniale e drammatico, visto da oggi – di un suo celebre libro “pubblicato alla macchia nel 1970”, e cioè La conservazione come pubblico servizio, Emiliani ha detto che si riferiva “al valore per me centrale della pubblica proprietà etica e politica di tutto ciò che si condensava in patrimonio”. Il patrimonio, insomma, come luogo in cui la collettività riconosce se stessa e si autogoverna: era qua la ragione dell’intesa, così profonda, con l’urbanista Pier Luigi Cervellati sull’importanza cruciale dei centri storici. La città storica come patrimonio vivente: pietre antiche per una società nuova. L’arte – sono parole di Emiliani – come “costruzione civile, e propizia alla comunità”.

Con un crudele paradosso, il più luminoso successo di Emiliani coincide con una sconfitta che egli ha fatto in tempo a vedere, commentare e soprattutto soffrire. Nessuno quanto lui, in Italia, era riuscito a dare un senso positivo, costruttivo, potenzialmente carico di futuro, a quel rapporto tra Stato e regioni che la Costituzione aveva lasciato irrisolto. La fondazione dell’Istituto per i Beni Culturali dell’Emilia-Romagna è stato il culmine di una straordinaria pratica di catalogazione, conoscenza e conservazione delle opere d’arte della regione.

Mentre in tutta Italia le regioni chiedevano autonomia per abbassare le tutele del loro patrimonio culturale, visto come un pozzo petrolifero da trivellare, la sola Emilia-Romagna dimostrava che si doveva e si poteva chiedere e ottenere autonomia per fare più tutela, e per farla con i cittadini e non contro di essi. Perché – e sono ispiratissime parole di Emiliani – “la testimonianza artistica custodita, ad esempio, in una chiesa delle foreste casentinesi in Romagna, non sarà mai tutelata dallo Stato, ma dalla comunità locale, se consapevole della propria identità culturale che in quelle opere si specchia”. Non c’era, in tutto questo, il minimo senso non dico di lontananza, ma nemmeno di minor amore, per l’idea di nazione: per tutta la vita Andrea Emiliani è rimasto quello che dalla finestra vedeva Raffaello, secondo il bel titolo dello struggente libro che suo fratello Vittorio Emiliani gli ha appena dedicato. Ne vedeva letteralmente il monumento dalla finestra di casa nella decisiva giovinezza ad Urbino, e ne tenne poi sempre presente l’altissimo magistero contenuto in quella lettera a Leone X del 1519 in cui l’artista per la prima volta metteva in esplicita e programmatica relazione il patrimonio culturale e la costruzione dell’identità italiana. E però, dicevamo, Emiliani ha fatto in tempo a vedere il duplice scempio di questo illuminato modello di tutela regionale: da una parte attraverso la riforma Franceschini, che ha pasticciato in modo irriconoscibile il governo del patrimonio culturale emiliano-romagnolo (Emiliani, pur assai misurato, definì pubblicamente questo assetto “da dementi”), dall’altra attraverso il decollo dell’autonomia differenziata (e siamo alla triste cronaca dei nostri giorni) che vede l’Emilia-Romagna di Bonaccini in condizione di sudditanza culturale e politica rispetto al disegno leghista della “secessione dei ricchi” dal resto dell’Italia. Tutto il contrario di ciò che, per lungo una vita, ha costruito Emiliani. “La sola, vera valorizzazione è la conoscenza critica”, ha scritto nel 2015: con parole che valgono come un testamento spirituale. Una bussola, una dichiarazione di intenti, un programma politico: per quella “politica dei beni culturali” che Andrea Emiliani, storico vero e uomo dello Stato fino in fondo, è stato uno dei pochi ad attuare.

Il postino mancato: senza lavoro per uno scarabocchio

È nativo di Procida e forse anche per questo aspirava a fare il postino, come Massimo Troisi nel suo ultimo film ambientato in quell’isola del golfo di Napoli. Ma, per il momento, il rigore burocratico delle Poste ha congelato la sua assunzione a causa di “carichi pendenti”. E così Davide Zeccolella, 33 anni; guardia giurata volontaria della Lipu (Lega italiana protezione uccelli); imputato di “falso materiale”; condannato in primo grado e ora in attesa del giudizio d’appello, rischia di perdere il lavoro di portalettere, benché a tutt’oggi risulti incensurato e abbia il diritto – come qualsiasi altro cittadino – di essere considerato innocente fino alla sentenza definitiva.

Questa storia di “ordinaria ingiustizia” comincia nell’autunno scorso. Zeccolella risponde a un annuncio di Poste italiane, candidandosi alle selezioni per diventare postino. A novembre 2019, partecipa alle prove presso gli uffici centrali di Napoli, supera con successo i test di logica e quello di guida del ciclomotore. A quel punto, gli viene consegnata una lista di documenti da preparare al più presto, per consegnarli il giorno in cui avrebbe sottoscritto un primo contratto trimestrale.

Il 30 gennaio 2020 l’aspirante portalettere viene convocato presso la sede centrale delle Poste a Napoli, per la firma e l’inizio del rapporto di collaborazione. Ma, alla consegna della documentazione richiesta, la pratica si blocca: pur esibendo un casellario giudiziario “nullo”, ed essendo quindi giuridicamente incensurato, Zeccolella risulta avere “carichi pendenti” per un procedimento penale in corso. I funzionari delle Poste gli assicurano tuttavia che resta “idoneo” per fare il portalettere e che potrà tornare a firmare il contratto quando sarà terminato il processo e non risulteranno più “carichi pendenti”. Ora la prima udienza dell’appello è fissata per il 20 novembre prossimo, ma a quella data l’agognato “lavoro temporaneo” avrebbe potuto essere già concluso.

Quali sono i “carichi pendenti” che hanno impedito finora alla guardia giurata di essere assunto alle Poste, nonostante che questo specifico certificato non fosse richiesto nel bando di selezione? Di quale reato, insomma, si sarebbe macchiato il giovane volontario ambientalista? Per risalire all’origine della vicenda giudiziaria, bisogna tornare indietro di nove anni, quando Davide ne aveva poco più di 24.

Nel 2011, sull’isola di Ischia, la guardia giurata della Lipu – affiancato da due colleghi arrivati appositamente da Parma, uno dei quali era il vicecomandante della Polizia provinciale, per combattere il bracconaggio – contesta un verbale amministrativo da 200 euro a un cacciatore, sorpreso a sparare fuori dell’orario stabilito. “Oltre il tramonto – spiega Davide – è proibito, perché le beccacce si spostano dopo che il sole è calato e al buio si rischia di non distinguerle più dai rapaci notturni, come il gufo, che sono specie protette per evitarne l’estinzione”. Allora, secondo il racconto del volontario ambientalista, “lo stesso cacciatore firmò il verbale con una sigla che somigliava a uno scarabocchio”. Sta di fatto comunque che, anche se il trasgressore non volesse farlo, un pubblico ufficiale può sempre scrivere di suo pugno “si rifiuta di firmare” e la contestazione è ugualmente valida.

In seguito, però, il cacciatore – sostenuto dalla potente lobby venatoria – disconobbe il verbale accusando Zeccolella di “falso materiale” e le altre due guardie in concorso con lui per aver controfirmato la contestazione. Da qui, l’avvio di un processo penale davanti al giudice del Tribunale di Ischia, Alberto Capuano. Nel corso del dibattimento, un perito d’ufficio sostenne che la firma sul verbale poteva corrispondere con “alta probabilità” alla calligrafia dell’imputato, nonostante la controperizia di parte affermasse l’opposto e nonostante le testimonianze rese dai suoi colleghi. Alla fine, nel settembre 2018, Davide fu condannato a due anni e sei mesi di reclusione e gli altri due imputati vennero assolti “per non aver commesso il fatto”. La sentenza è stata appellata dalla difesa di Zeccolella, al quale la Regione Campania non ha revocato il titolo di guardia giurata in attesa del giudizio di secondo grado. Ma qualcuno intanto gli ha danneggiato il motorino e squarciato le gomme, quasi fosse un avvertimento mafioso.

Nel frattempo, un altro processo intentato per gli stessi motivi da un secondo cacciatore sorpreso fuori orario dalla medesima pattuglia della Lipu è stato archiviato dal pubblico ministero. Mentre il giudice Capuano, arrestato nel luglio scorso nell’ambito di un’indagine anticorruzione e detenuto sei mesi nel carcere di Poggioreale, è tornato da pochi giorni a casa ai domiciliari. La giustizia, come si dice, deve fare il suo corso. Ma, per citare un altro celebre film tratto dal romanzo di James Cain, “il postino suona sempre due volte”.

“Abbiamo infettato i nostri figli. La lotta per noi è un obbligo”

Quando la sua primogenita era alle elementari, un decennio fa, Michela Zamboni pensava che quelle sull’acqua potabile contaminata fossero solo dicerie. “L’acqua del sindaco – si diceva abitualmente in paese – è pulita”. Con buona pace dei detrattori accusati di allarmismo, la vita a Legnago, in provincia di Verona, proseguiva serenamente. Sette anni fa, però, il vociare è cresciuto. Michela ha iniziato a insospettirsi e ha smesso di utilizzare l’acqua dell’acquedotto. Da quel momento alle sue figlie, oggi di 17 e 12 anni, ha dato da bere solo quella in bottiglia. La tensione è aumentata nel 2017, quando è venuta a conoscenza delle gravi conseguenze sulla salute e sull’ambiente di alcuni impermeabilizzanti liquidi, noti come pfas, ovvero sostanze perfluoroalchiliche, prodotti per più di cinquant’anni dalla società Miteni, in provincia di Vicenza, e finiti nella falda acquifera. Queste sostanze chimiche, utilizzate in campo industriale per conciare le pelli, trattare i tappeti, rivestire le padelle antiaderenti e per l’abbigliamento tecnico, hanno contaminato per decenni le province di Verona, Vicenza e Padova. Il disastro ambientale, su cui è in corso un processo penale presso il tribunale di Vicenza, interessa un territorio di 700 chilometri quadrati, in cui vivono circa 350mila persone.

La vita di Michela Zamboni è cambiata all’improvviso quando sua figlia maggiore è stata convocata dall’agenzia regionale per la prevenzione e protezione dell’ambiente per essere sottoposta ad analisi specifiche, necessarie per rilevare la presenza di pfas nel sangue. Sostanze che sono state individuate, anche se per ora non ci sono conseguenze. Prima di essere una delle donne più attive del gruppo “Mamme NoPfas”, trascorreva le giornate tra la cura della prole e il lavoro da grafica. Amava l’arte, l’apicoltura e la natura. Oggi si sveglia all’alba, per prima cosa guarda la chat che condivide con una trentina di attiviste e si mette subito all’opera. È impegnata su più fronti: dalla comunicazione al monitoraggio costante degli studi scientifici, dal filone giudiziario all’organizzazione di eventi pubblici. Ad ottobre era dinanzi alla commissione parlamentare d’inchiesta sulle Ecomafie. Prima era stata dall’allora ministro dell’Ambiente Sergio Costa. Ha tenuto una conferenza stampa anche al Parlamento europeo. “All’inizio le mie figlie pensavano fossi impazzita – racconta – adesso vengono con me”.
Il primo allarme sulla presenza di perfluorati nelle acque dei maggiori fiumi europei è scoppiato nel 2006, a seguito di uno studio coordinato dall’Università di Stoccolma. Il Po è finito sotto i riflettori. Tuttavia, mentre in Europa le indagini sugli impermeabilizzanti si sono intensificate, in Italia la ricerca ha proceduto più lentamente. Il Consiglio dei ministri ha dichiarato lo stato di emergenza per i pfas in Veneto, con la contestuale nomina di un commissario, solo a marzo 2018. Tra il 2015 e il 2016, su pressione delle associazioni ambientaliste, è stato avviato un biomonitoraggio a campione. I cittadini, che vivono nella vasta area contaminata, hanno presentato valori molto elevati di Pfas nel sangue. È stata istituita una zona rossa, al cui interno vive anche Michela. Il Piano di sorveglianza sanitaria è iniziato nel 2017 e include le persone nate dal 1951 al 2002. “Chiunque voglia sottoporsi volontariamente alle analisi sui pfas, non può farlo”, denuncia Michela Zamboni. Infatti lei stessa, per sapere cosa ci sia nel sangue della figlia minore, dovrà attendere che venga convocata. Forse nel 2022. “Sono analisi molto particolari, può eseguirle soltanto il laboratorio dell’Arpav – spiega – così, però, si sta negando un diritto fondamentale”.

Lei in poco più di due anni ha imparato tutto sui contaminanti. Il suo nome figura tra le 229 richieste accolte di costituzione di parte civile nel processo in corso contro i vertici dell’ex Miteni, che nel frattempo nel 2018 ha dichiarato fallimento. I reati contestati sono “disastro ambientale innominato e avvelenamento di acque e sostanze alimentari”. I danni all’ambiente, secondo i calcoli dell’Ispra (Istituto superiore per la protezione e ricerca ambientale del ministero) ammontano a 136 milioni di euro. Michela ripone massima fiducia nei giudici: “Abbiamo i figli contaminati e il territorio compromesso. È giusto che chi ha sbagliato paghi e spero che la sentenza serva da monito per chi sta inquinando altrove”.
La prossima udienza si terrà il 23 marzo. La storia della Miteni ha inizio nel 1965, con l’apertura a Trissino del centro di ricerca dell’azienda tessile RiMar del gruppo Marzotto. Poi la società è diventata una joint venture tra Mitsubishi ed Eni, da qui il nome. In seguito l’ha rilevata Mitsubishi, per passare successivamente alla Icig, fino a giungere al fallimento della Miteni.
L’inquinamento sarebbe iniziato già a fine anni ’70 con lo sversamento di rifiuti chimici pericolosi e potenzialmente cancerogeni nella falda, arrecando gravi danni anche alla produzione agricola e al bestiame. “Il corpo umano non ha pfas nel sangue – spiega Michela – noi invece lo abbiamo. Ci sono giovani a Legnago che hanno più di mille nanogrammi di pfas per millilitro di sangue. Il limite sarebbe 8 nanogrammi!”.
Le conseguenze possono essere disastrose: cardiopatie, diabete, tumore del rene e del testicolo anche nei bambini, disturbi alla tiroide, aumento del colesterolo, preeclampsia, infertilità. Lo spiega bene la videoinchiesta di Andrea Tomasi “Pfas quando le mamme si incazzano”, alla cui realizzazione ha collaborato anche Michela. Lei è una mamma davvero “incazzata”: “La rabbia cresce – dice – quando penso a chi non ha peli sullo stomaco pur di fare profitto. Noi inconsapevolmente abbiamo contaminato i nostri figli con la gravidanza e allattando. Non possiamo permetterci il lusso di farci gli affari nostri”.