Torneranno i bei tempi dei bottegai

Ormai le botteghe non esistono quasi più, sono state sostituite dai supermercati. La nuova agorà, la nuova piazza dove la gente si incontra e non si limita solo a comprare, ma chiacchiera, scambia idee sui prodotti, sulla politica, sui prezzi aumentati: “Ha visto signò, quanto so aumentate le cipolle? Io non so dove vojono arrivà!”. Certo al supermercato la gente non tratta i massimi sistemi, però comunica. Ma la cosa che colpisce di più è che non esiste prodotto che non sia avvolto, imprigionato, blindato nella plastica. Tutto ha la sua bella confezione, per la gioia di chi quella bella confezione produce. Una volta si diceva: “Mi dà due etti di prosciutto?” – “So’ due e trenta signò, lascio?”, e te lo avvolgevano in una carta gialla. Mi mancano quei tempi, sapevano di buono, avevano un loro sapore. Ma tutte queste confezioni dove andranno a finire? Per esempio la bomboletta della schiuma da barba, che naturalmente io non adopero, almeno per ora, è un mostro indistruttibile di alluminio, acciaio e altri materiali misteriosi. È anche infiammabile! Fa paura. La bomboletta è una bomba inesplosa, il mondo ne è pieno e fra duemila anni sarà ancora intatta. Ma sono certa che troveranno un sistema per risolvere questo problema dei rifiuti! Torneremo a frequentare le botteghe del pizzicagnolo, del fornaio, le mercerie. Compreremo solo delle belle saponette avvolte dalla carta biodegradabile, la schiuma da barba verrà mescolata e montata dal gioco dei pennelli, che dureranno anni, ci seguiranno per tutti i nostri giorni, diventeranno dei compagni di vita, fino a una naturale e serena fine biologica. Sarà bellissimo provare quel tipo di emozioni, tornare a una vita semplice. Nel frattempo però, la bomboletta della schiuma da barba che ho comprato oggi durerà in eterno, ci sopravviverà. Beata lei.

(Ha collaborato Massimiliano Giovanetti)

George Soros e il complotto dei migranti: bugia di moda

Come una fiaba di Mille e una notte la storia di Soros non finisce mai. Adesso ha scritto un libro, Democrazia! Elogio della società aperta, Einaudi, che non è un’autobiografia né una difesa. La biografia sarebbe stata impossibile perché Soros è forse l’uomo più famoso del mondo. La difesa sarebbe impossibile perché Soros è accusato di tutto e antipatico persino a chi non lo accusa (forse perché ha violato schemi e categorie in cui lo si poteva ingabbiare). È l’unica celebrità che chiama a raccolta grandi folle ostili, ma non mobilità alcun movimento di difesa, salvo blande citazioni che sono dedicate più ai suoi nemici che a gesti d’amicizia.

Anche nel libro, Soros tiene a dire quello che ha fatto e sta facendo, mandando in bestia la vasta parte dei suoi accusatori, ma non prova a suonare fanfare. Racconta della sua militanza per la democrazia e della sua idea di “società aperta”, a cui ha dedicato la nota fondazione che porta il suo nome (e che secondo i nemici serve al complotto di George Soros contro il mondo), e del fascismo ungherese guidato da Viktor Orban, strano despota accettato dall’Europa come normale capo di uno Stato democratico che però ha stroncato e soppresso la democrazia nel suo Paese. George Soros non lancia appelli e non chiama a raccolta.

Benché perseguitato nella sua Ungheria, su cui ha versato un parte discreta della sua ricchezza, fra nuove scuole, una grande università e lotta alla povertà (non gli giova essere ebreo nel Paese più sinceramente antisemita d’Europa, dopo la Polonia ) Soros non usa questo libro per autodifesa o rappresaglia. Semplicemente racconta, offrendoci un testo interessante di vita europea contemporanea. Per esempio, racconta della trovata di Orban, che tutti prendono per buona in Europa e in cui credono come fosse vera: Orban e il suo partito fanno parte del gruppo “popolare” europeo (cioè liberalconservatore) e non dell’estremismo di destra alla Salvini, pur avendo abolito la magistratura nel suo Paese e fatto totalmente tacere (in un modo o nell’altro) televisioni e giornali. Come vedete sappiamo molto da questo libro su vita e opere di un ricchissimo europeo (ora cittadino americano) che ha destinato (e continua a destinare ) parte della sua ricchezza a sostegno, come lui tiene a dire, di istituzioni democratiche.

Ma anche questo libro (come gran parte del giornalismo del mondo) non risponde alla domanda: perchè in tanti, e così tanto, lo odiano? L’accusa, che gira molto, è creduta, ed è molto ripetuta, è che Soros, da solo, ha messo in moto, sostenuto e moltiplicato le migrazioni dall’Africa e dal Medio Oriente allo scopo (che viene raccontato in 2 modi) di creare nuovi schiavi per l’uomo bianco o di rendere l’uomo bianco schiavo dell’immigrato nero. Le due versioni dell’accusa non hanno molto senso ma, forse proprio per questo, incontrano un successo straordinario. Nelle pagine del testo l’autore racconta, ma lascia a noi (i non salvinizzati, i non melonizzati) di decidere. Utile, dunque, cominciare da questo libro la lunga marcia per capire.

Quant’è poetica la morte della poesia. “Poetry slam”, la gara globale in versi

Aprimo sguardo sembra un concorso letterario. C’è un tema, un limite sugli inediti, una giuria e un premio finale. Il poetry slam, però, fa blasone del vivere una poesia che non trova coronamento – più spesso epilogo – nella pubblicazione cartacea, e che anzi altro non è che versi legati all’attimo. È durante la declamazione che avviene la poesia, ed è nell’esperienza del pubblico che rimane. Le regole della competizione sono ferree, atte ad evitare che la poesia venga oscurata dallo spettacolo: non si possono indossare costumi, usare basi musicali, insomma non ci si può avvalere di altra forza che non sia quella della parola.

Però nessuno più legge poesia, nessuno più la compra. È la nenia professorale di chi lamenta le basse vendite dei libri, o l’irrilevanza dei poeti sulla scena culturale – anche i più premiati sono di fatto sconosciuti al grande pubblico. I poeti vivi, però, la pensano altrimenti. La vera poesia – ed è il poeta contemporaneo Garcìa Montero a rivelarlo – non ha paura della propria morte, anzi, ne mette in versi l’annuncio. La sua Ballata sulla morte della poesia svolge un paradosso, un cortocircuito nel quale le cause sono identiche agli effetti: “Le parole si annoiano” e, abbandonate, “respirano con difficoltà”. È infatti impossibile che la poesia muoia. Se succedesse “l’inesistenza prenderebbe il posto dell’esistenza”; il giudizio del critico letterario Alfonso Berardinelli, a proposito delle voci poetiche contemporanee, è però anche spiegazione del perché, nel poetry slam, libera da stampe e da vendite, la poesia sia cosa viva.

E in Germania il poetry slam è roba seria. Non sono i locali di nicchia a organizzarne i campionati, ma le biblioteche pubbliche fanno a gara ad accaparrarsi i contest. La differenza di atteggiamento la fanno già le definizioni. A Saarbrücker, nello sforzo di definire il poetry slam – e nel fastidio tutto tedesco di utilizzare anglicismi – il campione venticinquenne Johannes Warnke ne parla come di una “competizione letteraria” – literarischer Wettstreit.

Si dice che il poetry slam, nella sua codifica contemporanea – tre minuti di tempo per ogni poeta, cinque giurati sorteggiati tra il pubblico – sia nato venti o trent’anni fa negli Stati Uniti. Ogni lingua pretende per sé una variante; in Italia il tempo a disposizione del poeta è cinque minuti – per far spazio alle vocali – mentre in Germania fino a sette – là si affermano poeti con esibizioni in coppia. Il sapore proprio del poetry slam è però nel tono. I versi sono intrisi di sarcasmo, così come di critica della società. Non è una poesia in cui spadroneggia un io piegato su se stesso – piaga della poesia contemporanea – ma l’osservatore che guarda al di fuori, giovane e attento, e dalla sorpresa delle cose scaturisce un verso limpido, semplice. Nella storia dell’umanità il poetry slam è però erede diretto dei combattimenti poetici degli antichi arabi. E poesia, nell’Arabia felix, è blasone, vessillo di fierezza.

Dall’unione dello spirito contemporaneo con l’eredità mediorientale, la slam, in Germania, si fa lavoro. Il campione di versi è il Sultano di Thurgau, nome d’arte di Jusef Selman, ventenne, genitori iracheni, che nell’anno preparatorio agli studi di medicina si finanzia con le sfide di slam e scrivendo poesie su commissione. Nomi e circostanze che paiono traslati dalla vita di Baghdad nell’età dell’oro, perché la vita del verso è una soltanto. Giusto una, per giammai annoiare la parola.

Barbara Alberti al reality: “Brava, s’è macchiata di trash ma la cultura va difesa in tv”

 

Cara Selvaggia, ho letto con interesse il suo articolo su Barbara Alberti e la sua partecipazione al reality Grande fratello , ora che la signora è uscita vorrei dire la mia. Premetto che non ho visto il programma e non frequento i reality (guardai la prima edizione del Grand fratello, poi capii che era sufficiente per capire il fenomeno). Il mio è un ragionamento sul personaggio, non sul programma. Lei affermava che queste trasmissioni contaminano anche le persone migliori e così è stato per Barbara Alberti, convinta forse di andar lì per elevare un prodotto culturale (anche un reality in tv lo è, sebbene nell’accezione più ampia); invece è stata fagocitata e macchiata a sua volta, confusa tra personaggi senza sostanza, in un gioco crudele. In poche parole, usata. Si chiedeva dunque chi glielo avesse fatto fare. Io non sono d’accordo. Insegno lettere in un liceo, sono una donna di sinistra e ho quasi 60 anni. Da tempo ho capito una cosa: noi che abbiamo studiato e pensiamo di far parte dell’elettorato saggio, empatico, che crede ancora di doversi occupare dei più fragili culturalmente, socialmente, economicamente, abbiamo il dovere di toglierci questa maledetta puzza sotto al naso e di sporcarci le mani. Forse Barbara Alberti si è sporcata pure i piedi e la punta dei capelli, ma che Dio l’abbia in gloria: un’intellettuale pura come lei che non vede l’ignoranza come un ghetto da cui tenersi alla larga, ma come un luogo da occupare per portare un’idea di cultura e libertà. Ce ne fossero di Barbara Alberti, non solo nei reality, ma a sinistra. Individui così coraggiosi da offrire un’alternativa ai mostri televisivi; ma non nei salotti chic, bensì proprio nella fabbrica dei mostri. Da insegnante, ho scelto di sapere cosa vedono, cosa ascoltano i miei ragazzi. Recupero le serie di cui parlano e sento la musica trap (alcuni testi sono perfino belli, altri orribili), perché per farli appassionare a Dante, devo parlare la loro lingua, in una sorta di tacito baratto: loro si interessano a quello che piace a me se io mi interesso a quello che piace a loro. Non è che ce lo diciamo, ma io uso una citazione di Ghali quando parlo del Paradiso, e loro capiscono che non sono una trombona che vive sulla luna. Così dicono: ehi, forse la prof. non è soporifera e vale la pena ascoltarla. Sia chiaro, non è che io abbia trasformato i miei alunni in primi della classe. Però ci siamo contaminati e ci contaminiamo, e questo ha fatto bene a tutti. Io vedo così la scelta di Barbara Alberti. Forse ora i ragazzi che non hanno studiato, il pubblico incolto di quel programma penserà: ah però, non sono così male questi intellettuali. Magari la prossima volta, cambiando canale, incroceranno la Alberti in un salotto più degno per parlare di libri o amore, come sa fare lei, e la ascolteranno per la prima volta. Spero di essere stata chiara. Viva le contaminazioni, viva gli intellettuali che non si chiudono negli sgabuzzini.

L.M.

 

Cara L.M. , condivido in parte la sua lettera. Contaminarsi e alimentare sono due questioni distinte e separate, però. Per me osservare quei programmi e sapere cosa guardano le persone (e anche divertirsi guardandoli, perché a volte capita), è un esercizio che tutti dovrebbero fare di tanto in tanto. Serve ad interpretare l’altro, anche quello più distante, e a rimanere sintonizzati sul Paese reale. Partecipare a questo Grande fratello e farsi usare in quel modo paraculo e spietato dagli autori, se si è Barbara Alberti, vuol dire alimentare la fabbrica dell’abbrutimento a cui quel tipo di tv educa buona parte del Paese. Bestemmie, gente che parla di donne come fossero quarti di bue, personaggi che vanno riabilitati per forza e non si sa bene il perché, casi umani con situazioni familiari borderline o fenomeni da circo, ormai i reality sono questa roba. Io non credo che Barbara Alberti si meritasse questo e non penso che abbia aggiunto valore al programma. Credo che il programma lo abbia tolto a lei. E questa non è contaminazione: è un delitto.

 

Morgan, la popolarità ingiusta: basta l’insulto

Cara Selvaggia, riflettevo sul Festival di Sanremo appena archiviato e su quali strascichi abbia lasciato. Ebbene, dopo una settimana, ci siamo dimenticati di monologhi e belle parole, di abbracci e di amore cantato, e l’unica cosa di cui si parla ancora è la lite Morgan–Bugo (a proposito: mai sentito nominare questo Bugo). Quindi alla fine chi si è prodigato per mesi in cerca di una bella canzone o del look giusto, chi ha studiato a lungo il messaggio migliore (d’amore per le donne, di affetto per i figli o per il nostro Paese) s’è ritrovato appannato e dimenticato. Chi ha mandato a cagare il compagno di palco interrompendo un’esibizione e mandando all’aria il lavoro degli altri (ci avranno lavorato in tanti alla canzone, immagino, compresi gli orchestrali) è stato premiato con un bagno di popolarità, ospitate in tv (ben pagate, penso) e articoli sui giornali. Morgan è il vero vincitore di questo Festival, altro che Diodato. Quindi la mia domanda è: che messaggio è questo? Perché uno che maltratta il lavoro altrui non viene isolato anziché invitato ovunque? Io faccio il musicista e se avessi visto la mia canzone buttata nel cesso in quel modo, per le bizze di un compagno di palco, l’avrei presa con molta meno filosofia di Bugo e oggi Morgan, anziché in tv, sarebbe nel reparto ortopedia di qualche ospedale. Garantito.

Matteo

 

Caro Matteo, Bugo prima era per tutti qualcosa tipo la capitale dell’Azerbaigian o un ristorante fusion, adesso è il personaggio più chiacchierato del Paese. Dubito che la sua canzone avrebbe potuto ottenere tanto, per cui per una volta Morgan ha fatto la cosa giusta.

 

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L’attivismo cattolico del premier e il sostegno della Chiesa italiana

Il Cardinale e il Presidente. Il primo a braccia aperte che recita il Padre Nostro. Il secondo compunto, accanto a lui, come in raccoglimento. Si è aperto così il convegno che ha celebrato a Palazzo Altieri, a Roma, il settantatreesimo anniversario della nascita dell’Ucid, l’Unione cristiana imprenditori dirigenti.

Il Cardinale è Sua Eminenza Gualtiero Bassetti, presidente della Conferenza episcopale italiana (Cei) e arcivescovo di Perugia e Città della Pieve. Il Presidente è il capo del governo Giuseppe Conte, che guida una coalizione giallorossa. La partecipazione del premier alla festa dell’Ucid è caduta nei giorni convulsivi della sceneggiata di Italia Viva sulla prescrizione, a conferma che l’avvocato ci tiene particolarmente al suo intenso rapporto con la Chiesa e il mondo cattolico.

Meno di un mese fa è stato ad Assisi dai francescani per l’anti-Davos italiana. Indi ha presentato con il cardinale Pietro Parolin, Segretario di Stato Vaticano, il libro sul Mediterraneo di padre Antonio Spadaro, direttore di Civiltà Cattolica nonché tra i consiglieri di papa Francesco. Infine la scorsa settimana, tra il convegno dell’Ucid e il ricevimento per il novantunesimo anniversario dei Patti Lateranensi, dove è stato il politico più corteggiato per i selfie.

Una lettura semplicistica e superficiale inserirebbe l’attivismo contiano su questo fronte tra le solite illazioni sul “partito cattolico”. In realtà il processo innescato dal premier è più profondo e riguarda il tratto caratteristico della sua leadership giallorossa: l’umanesimo cristiano che è stato patrimonio di tutta la sinistra dc da Giorgio La Pira in poi. Non a caso, le parole dello stesso Conte ai cronisti che lo hanno avvicinato a Palazzo Altieri sono state queste: “Non sto parlando di un nuovo partito dei cattolici ma di un’impostazione culturale”.

Insomma un umanesimo che riguarda più la coalizione giallorossa che un singolo partito da fondare, contrapposto alla destra che odia. E che incassa il sostegno della Chiesa anche nella fase contingente. Ha detto il cardinale Bassetti sul governo Conte: “La stabilità politica è un valore in sé”.

L’amore salva la famiglia: e se con il nascituro arrivasse la crisi?

Provate una voglia irrefrenabile di un secondo (o terzo), profumato, pargoletto? Beh, allora non andate a vedere il (bellissimo) film di Mattia Torre, Figli, ancora nelle sale. La storia è semplice: una coppia abbastanza affiatata, con una figlia già grandicella e due lavori impegnativi, decide di buttarsi e fare un secondo figlio. Con tutte le conseguenze del caso: notti da incubo, litigi, fatica. Il messaggio generale però è positivo: e cioè che, nonostante il welfare che non c’è, i nonni che latitano per svariati motivi, i soldi che non bastano mai, a reggere tutto miracolosamente insieme ci pensano loro: l’amore, e la capacità di madre e padre di accettare la vita per come è. Un messaggio vero, senz’altro, che forse andrebbe integrato anche da un altro: fare un (ulteriore) figlio può essere meraviglioso, ma anche rovinoso, perché l’arrivo di un altro essere umano rischia di rompere equilibri già precari. E poi bisognerebbe considerare anche il fattore età, che spesso noi uomini e donne, convinti di essere immortali, dimentichiamo. Mi accade spesso di discettare di altri figli con cinquantenni neanche troppo atletici, ai quali pongo alcune perfide domande: come siete messi a età (appunto)? Soldi? Nonni? Pensione futura? Sarà triste, ma un po’ di realismo ci vuole. Alle soglie della menopausa, con un contratto precario e i genitori che da assistere, la gravidanza (ammesso che arrivi) e ciò che ne segue potrebbero non essere così meravigliosi, anzi. E l’inarrestabile crisi demografica, certificata la scorsa settimana dall’Istat? Pazienza. Già fare un figlio unico qui significa buttare il cuore oltre l’ostacolo. E poi astenersi potrebbe suonare anche un po’ come (giusta) vendetta: avete arraffato pensioni retributive e vitalizi credendo di essere al sicuro? Ebbene, potrebbe non esserci, guarda un po’, nessuno che vi paga la pensione.

Ecco perché in Italia nessuno fa pargoli: servizi scarsi e tasse alte

Chissà perché usiamo l’auto, anziché servirci di mezzi pubblici inefficienti, scassati e sempre in ritardo. Riflessione idiota, vero? Quasi come il dilemma sulla natalità che si ripropone ad ogni rapporto Istat: chissà perché gli italiani preferiscono non fare bambini quando essere genitori è faticoso, dispendioso, poco apprezzato e, dal punto di vista professionale, catastrofico per le donne. Ancora più idiota la risposta di chi dovrebbe affrontare il problema, cioè lo Stato, disposto a tutto per incoraggiarci a fare uno o due bambini, tranne che offrirci sgravi fiscali, servizi per le famiglie, politiche che non obblighino a scegliere tra figli e lavoro. Costa meno lasciar blaterare soloni come Giuseppe De Rita, presidente del Censis, sul narcisismo dilagante che colpirebbe tutti i meno vecchi di lui: macché asili e sgravi, quel che manca è lo spirito di sacrificio. Non mi pare che i francesi siano noti per lo spirito di sacrificio, anzi, la joie de vivre è ancora il loro carattere nazionale. Eppure i cugini d’oltralpe fanno figli a raffica, perché sanno che lo Stato li aiuterà a mantenere la loro qualità della vita assicurando, e ci risiamo, più servizi e meno tasse. In Francia – ma anche in Germania, Olanda, Spagna, e nei Paesi scandinavi – Figli di Mattia Torre sarebbe un film incomprensibile (così come il suo slogan, secondo cui dobbiamo rifugiarci nel messaggio beatlesiano: all you need is love, l’unica soluzione è l’amore). In Italia invece è una docufiction. Irritante finché si vuole, specie per un pubblico giovane, ma terribilmente vero. Andiamo a vederlo prima che torni un governo di centrodestra. Perché le uniche misure pro–natalità che l’illuminato sovranismo all’italiana riuscirà a elaborare saranno abolire la legge 194 e mettere al bando i film in cui madri e padri non siano dei martiri entusiasti.

Questo mister Sarri che sembra Ventura

E se Sarri diventasse il Ventura della Juventus? Il sospetto, a nove mesi dalla sua presentazione alla sala “Gianni e Umberto Agnelli” dell’Allianz, incomincia a serpeggiare. Voi direte: ma Ventura ha portato l’Italia al naufragio che tutti ricordiamo mentre Sarri è primo in campionato, è in corsa in Champions League e ha un piede in finale di Coppa Italia. Verissimo. E però alcune somiglianze tra i due percorsi sono sinistre. Come i capannelli di giocatori juventini che al termine di Verona–Juve 2–1, dieci giorni fa, si sono fermati in campo dando vita ad animate discussioni prima di sciogliere l’adunata e raggiungere il tecnico nello spogliatoio. Come la squadra che spedisce Chiellini e Buffon a una cena con Paratici per notificare al club lo stato dell’arte del rapporto, instabile, con l’ex guida di Chelsea e Napoli. Come Bonucci che ai continui richiami di Sarri gli si rivolta contro urlando: “Stai calmo. Sappiamo cosa dobbiamo fare”; lo stesso Bonucci che non esitò a rincorrere Allegri negli spogliatoi, tre anni fa, per dar vita a uno scontro quasi trasceso alle mani.

Ebbene, ricordate Ventura? Dopo il deludente 1–1 con la Macedonia a Torino, con l’Italia smarrita e in piena implosione, alla ripresa degli allenamenti al Filadelfia gli azzurri indirono una riunione chiedendo al c.t., ormai spossessato del suo ruolo, di non parteciparvi. E vane furono le insistenze di Ventura affinché Buffon, come capitano, si presentasse ai media per smentire le voci di una nazionale che aveva deciso di passare all’autogestione. Lo stesso Buffon che oggi, panchinaro alla Juve, passa metà del tempo in piedi a dare indicazioni ai compagni, con Sarri che lo guarda stranito come Seedorf guardava il vice Tassotti al Milan. Gelido.

Le continue concessioni di Sarri a CR7, gli elogi sperticati (“Se penso che c’è qualcuno che ha vinto più Palloni d’Oro di Cristiano mi girano le scatole”: riferito a Messi, nientemeno) e la marcia indietro ingranata dopo averlo tolto dal campo a Mosca e poi a San Siro col Milan (con Ronaldo che se ne va dallo stadio prima della fine del match in spregio ai compagni), hanno minato la stima dello spogliatoio: e Dybala e Higuain non hanno mancato di evidenziarlo in più di un’occasione al momento di uscire dal campo.

Poi c’è De Ligt. Che guadagna, Ronaldo escluso, più di tutti, più di Dybala e Higuain, quasi il doppio di Pjanic, Douglas Costa, Khedira, Bonucci, e che senza gli infortuni di Chiellini e Demiral sarebbe oggi il quarto difensore bianconero, riserva di Chiellini e Bonucci e persino di Demiral, che ormai lo aveva scalzato al 3° posto della gerarchia. Un disastro alle sue prime apparizioni, ora Sarri, obbedendo agli input societari (come già per CR7), dovendo per forza avvalersene per via dell’indisponibilità di Chiellini e Demiral, ha spintonato Bonucci a sinistra mettendo lui a destra, la posizione che occupava nell’Ajax a fianco di Blind. De Ligt è un capitale (sic), lo pagano come fosse Pelè, gli altri sono più bravi eppure devono farsi da parte e fargli da balia per sventarne gli svarioni. Ma lo spogliatoio vede. E giudica. E agisce di conseguenza, magari giocando partite senz’anima, pur senza l’intenzione cosciente di voler figurare male. Ma l’autorità, e l’autorevolezza, nel calcio hanno ancora il loro peso. Ventura le aveva perse. Sarri quasi.

Il potere di Facebook dietro la politica degli influencer

Chiara Ferragni ha 18,4 milioni di follower su Instagram, più di quanti spettatori possano contare tutti i talk show italiani sommati. Che succederebbe se, sotto elezioni, indossasse una canotta con la faccia di Matteo Salvini o facesse un appello contro l’astensione? Anche la politica inizia a capire che gli influencer – come il nome suggerisce – influenzano e riescono a raggiungere un pubblico che non guarda la tv e men che meno si abbona ai giornali. Potrebbe non essere una cattiva notizia: la ricerca del consenso torna capillare, ogni voto è importante e la competizione aumenta, è molto più difficile controllare tutti gli influencer rilevanti che tre reti della televisione di Stato. C’è solo un problema: l’arbitro di questa competizione – la piattaforma social che ospita gli influencer – può decidere chi vince.

Il miliardario di New York Michael Bloomberg sta cercando di vincere le primarie di un partito Democratico che non lo ama grazie al suo patrimonio personale. Come rivelato dal Daily Beast, il suo staff ha fatto un accordo con la piattaforma Tribe: mini-influencer, gente che ha tra i 1000 e i 100.000 follower, possono ricevere 150 dollari a post se propongono a Tribe contenuti favorevoli a Boloomberg, che elogiano la sua storia di successo. Tecnicamente non è Bloomberg a comprare i post degli influencer, ma Tribe: i contenuti cosi risultano “organic”, cioè naturali, non pubblicitari. Ma Bloomberg ha anche lanciato la sua offensiva su Instagram grazie a un’altra società, Meme 2020: post autoironici, che gli utenti scambiano per autentici meme ma sono costruiti (e pagati) dalla campagna di Bloomberg. Facebook, che possiede anche Instagram e WhatsApp, ha deciso che questi meme politici sono esenti dalle regole sulle inserzioni politiche, con un argomentazione opinabile: Bloomberg paga per pubblicare i meme, ma non per promuoverli (cioè renderli più visibili), quindi non vanno considerati contenuti sponsorizzati e sono esenti dagli obblighi di trasparenza che Facebook impone al resto della comunicazione politica i cui promotori devono dichiarare quanto spendono e per promuovere quali contenuti.

Il 9 gennaio Facebook ha anche annunciato le sue linee guida sul controllo preventivo di questi spost: zero filtri, se ci sono fake-news o distorsioni, saranno gli utenti stessi a sanzionare il politico che racconta bufale. Molto democratico, no? Peccato che dal 2016 siamo entrati nell’era del micro-targeting: non tutti gli utenti vedono gli stessi contenuti, la precisione di Facebook permette di mostrare propaganda politica contro gli immigrati a chi è più sensibile al tema immigrazione o sull’aborto a chi vota in base alle questioni dei diritti civili. Nel 2016 la campagna di Trump ha immesso su Facebook 5,9 milioni di annunci politici diversi, contro i 66.000 di Hillary Clinton che puntava ancora sui media tradizionali, in particolare la televisione. Facebook non permette ai ricercatori di accedere ai suoi dati per vedere che effetto hanno queste tattiche, ma un gruppo di economisti ha trovato un modo per studiarlo comunque. Federica Liberini (Università di Bath), Michela Redoano (Warwick), Antonio Russo (Loughborough), Ángel Cuevas Rumin (UC3M), and Ruben Cuevas Rumin (UC3M) hanno osservato i picchi di micro-targeting nel 2016 deducendo la domanda dagli andamenti dei prezzi dei costi per mille impressioni (Cpm) e costo per clic (Cpc). I prezzi variano continuamente e sono determinati da un’asta: più alto il prezzo, più alta la domanda. Con questo sistema si può capire quali gruppi di elettori i candidati hanno messo nel mirino e poi stimare gli effetti confrontando il voto di quei gruppi di popolazione col resto dell’elettorato.

Gli effetti del micro-targeting sono stati rilevanti: gli elettori Democratici diventavano meno inclini a votare per Hillary e quelli Repubblicani più trumpiani. Un aumento del 10 per cento del costo per mille impressioni (Cpm) nei giorni prima del voto riduceva del 3,9 per cento la probabilità che un potenziale elettore di Trump cambi idea. L’effetto era doppio tra gli uomini e gli elettori conservatori. “Donald Trump era il candidato perfetto per Facebook”, come ha detto il suo stratega digitale Brad Parscale.

La politica è anche marketing, niente di male in questo: nel 2016 Trump ha capito il potenziale del micro-targeting e Hillary no, nel 2020 Bloomberg ha fatto un passo avanti e punta su influencer e meme. Ma la competizione è truccata: soltanto Facebook sa in tempo reale quali di queste tattiche funzionano e quali no, basta un piccolo cambio delle regole della piattaforma (vietare il micro-targeting, fare il controllo preventivo dei contenuti, impaginare diversamente le inserzioni politiche o bloccarle del tutto come ha fatto Twitter) per favorire un candidato o danneggiarne un altro. La politica degli influencer non è più democratica di quella combattuta a colpi di annunci tv e giornali, perchè alla fine l’unico voto che conta è quello di Marck Zuckerberg, fondatore e padrone di Facebook. E a Zuckerberg, come a tutti gli industriali della storia, interessa una sola cosa: avere un presidente degli Stati Uniti che non intacchi il suo potere. La tecnologia e l’assenza di regole vincolanti gli permettono di decidere il prossimo inquilino della Casa Bianca.

Nome in codice Abominor: “Vita da infiltrato nelle truppe Isis”

Un commissariato di polizia da qualche parte in Francia. Due fratelli musulmani stanno segnalando la scomparsa di un parente: non hanno sue notizie da un po’ e sospettano che sia partito per la Siria. Il più giovane ammette di essere stato sedotto a sua volta per qualche tempo dal jihadismo. Ora si sente in colpa. Teme che il parente scomparso sia stato reclutato su internet attirato dalla prospettiva di morire da martire. I due firmano la deposizione sotto l’occhio attento di un poliziotto in borghese: è il vice capo della sede locale della Dgsi, la Direzione generale della sicurezza interna. Quando i due se ne vanno, l’agente chiama la Centrale.

Fino a metà 2013, i casi segnalati di francesi in partenza per l’hijra, il “pellegrinaggio” per unirsi all’Isis, erano rari. Tutto è cambiato a partire dall’autunno di quell’anno. I casi sono diventati decine, centinaia e la Centrale, sommersa, ha cominciato a ridistribuirli alle sue sedi locali. Un agente all’epoca mi aveva confidato: “Non riusciamo più a infiltrare le reti islamiste. Le sole informazioni che abbiamo provengono da genitori che denunciano un figlio sul punto di partire per la Siria o che è già partito e vorrebbero farlo tornare”. Per riunire frammenti di informazioni, la Dgsi moltiplica i colloqui con i familiari degli aspiranti jihadisti. Fino a 465 in un anno. La sera stessa i due fratelli vengono convocati dalla Centrale. A interrogarli ci sono due agenti di “T”, la sotto direzione dell’antiterrorismo, e altri due ufficiali, tra cui il capo di “T3”, l’unità di “T” specializzata nel lotta al jihadismo. Li fanno aspettare in una stanza vuota e offrono loro un caffè. Il fratello maggiore è nervoso, a disagio. Il più giovane, un ex spacciatore di neanche trent’anni, invece non si lascia intimidire. Il capo di “T3” si mostra interessato: “Lui andrebbe bene”, dice. “Potremmo rivederti per riparlarne?”, gli viene chiesto. Il giovane delinquente se ne va, ma capisce subito che cosa gli stanno proponendo: gli agenti vorrebbero reclutarlo come informatore. Anche nel mondo dei servizi segreti, come per ogni contratto di lavoro, esiste un periodo di prova. L’informatore è immatricolato e gli viene attribuito uno pseudonimo imposto dalla Centrale. Il suo nome in codice è ormai “Abominor”. Ma l’agente Abominor non sa che la Dgsi gli ha dato questo soprannome. Al primo incontro gli viene chiesto di entrare in contatto con la “jihadosfera” francese tramite social network. Lui pretende un S4 per lavorare, l’ultimo modello del Samsung Galaxy. È un tipo esigente, ma rifiuta di essere remunerato dalla Dgsi. “Non sono una spia”, dice. “È solo un rimborso spese”, insiste un agente che gli passa qualche banconota e gli fa firmare una ricevuta. Ora è ufficiale: Abominor è un informatore della Dgsi. Il giovane musulmano, in abiti occidentali, incontra gli agenti in alcuni bar lontani da tutto. Sono sempre riunioni a tre: l’informatore e due poliziotti. I luoghi vengono scelti con diversi giorni di anticipo. Devono disporre di un locale tranquillo sul retro con accesso a un’uscita di sicurezza. I colloqui sono strutturati tutti allo stesso modo. Gli viene chiesto: “Come stai? Come stanno a casa?” Si discute dei risultati delle partite di calcio. Poi si arriva al dunque. Abominor, che frequenta poco la moschea, trascorre le sue notti sui social network. Agli agenti fornisce i kounyas, i soprannomi dei simpatizzanti jihadisti con i quali ha parlato su Facebook o su Twitter. Gli agenti gli comunicano le identità di alcuni dei loro “obiettivi”. Abominor riesce a entrare in contatto con dei jihadisti già in Siria. In qualche mese ottiene la loro fiducia e diventa il contatto in Francia di alcuni jihadisti che reclutano nuove leve. Uno di questi lo chiama nel bel mezzo di un combattimento a Sham chiedendogli di trasmettere un messaggio a uno dei suoi. Sono convinti di avere trovato in Abominor una “porta d’ingresso” in Francia, qualcuno che possa informarli, e non si rendono conto che invece sta accadendo esattamente il contrario. Per comprendere meglio la mentalità jihadista, Abominor divora la stampa francese e internazionale. Per i servizi è come avere un occhio e un orecchio in Siria. Un giorno annuncia alla Dgsi che lo Stato islamico sta progettando di ripiegare su Raqqa e Deir ez-Zor per riorganizzarsi e andare a conquistare una grande regione della Siria e dell’Iraq. Agli agenti descrive la vita che si svolge tutti i giorni dentro i confini del nuovo califfato e le rivalità tra le etnie. Spiega che i francesi in Siria non sono apprezzati perché, si dice, non combattono abbastanza sul fronte.

Di fronte al flusso continuo di informazioni, gli agenti della Dgsi sono costretti a moltiplicare gli incontri con lui (fino a 4 volte a settimana), senza contare le telefonate quotidiane. Dopo ogni incontro o contatto viene compilato un rapporto su cui compaiono solo i criptonimi, mai le vere identità. Prima le note vengono esaminate da un analista, che verifica che i colleghi non si stanno facendo manipolare da Abominor. Poi le note risalgono la gerarchia fino al quartier generale della Dgsi, dove si selezionano quelle da trasmettere all’Eliseo, al primo ministro o a altri ministri. Una di queste note è anche all’origine di un incontro tra François Hollande e Barack Obama.

L’attività di Abominor sui social non sfugge del resto agli americani. A un certo punto, la Cia lo denuncia ai servizi francesi: l’uomo è pericoloso ed è in contatto con i capi dell’Isis. Alla Dgsi alcuni cominciano a pensare di rompere la collaborazione con Abominor. E se fosse un altro Mohammed Merah, il killer di Tolosa? La sua attività viene dunque passata al setaccio. Ma Abominor ha comunicato ai servizi tutti i suoi video e audio con i jihadisti. Le sue informazioni risultano “esatte”. Alla fine, il capo di “T3” decide: “Se gli americani hanno individuato la frequenza di questi scambi con i jihadisti, vuol dire che Abominor è uno bravo. Andiamo avanti!”. Per sicurezza il prezioso informatore, i suoi genitori, la moglie e il fratello vengono comunque sottoposti a intercettazioni. La Dgsi gli fornisce un computer che i servizi possono controllare a distanza. Ma Abominor non solleva sospetti. Al contrario, la sua attività è sempre più fruttuosa.

Un sabato mattina, un aspirante jihadista si presenta ad una porta d’imbarco dell’aeroporto Charles de Gaulle. Ha un biglietto per la Turchia con cui spera di passare il confine per raggiungere l’Isis. In qualche minuto attraversa i controlli di sicurezza. L’aspirante jihadista non sa di essere seguito dal gruppo Roissy, gli agenti della Dgsi in servizio nello scalo parigino. Il piano prevede che l’uomo imbarchi senza problemi. Nel suo bagaglio a mano ha due cellulari che i servizi francesi vogliono far arrivare in Siria. I colleghi della Dgse, la Direzione generale dei servizi esterni, vogliono saperne di più su ciò che accade dentro lo Stato islamico: i due telefoni anche spenti funzionano come microfoni e possono essere geolocalizzati.

Per portare a termine l’operazione gli agenti si sono rivolti ad Abominor. L’informatore ha affidato una missione a un aspirante jihadista: acquistare due cellulari da trasmettere ai “fratelli” in Siria. Lo ha quindi inviato dal proprietario di un negozio di telefonia che però era d’accordo con la Dgse. Ed è così che, grazie a lui, i servizi francesi hanno potuto contare su due telefoni-spia in Siria per diversi mesi. Una sera una pattuglia di poliziotti interviene in una casa popolare. C’è una lite familiare in corso. Un uomo e una donna discutono a voce molto alta. Gli agenti cercano di calmarli, minacciano l’uomo di portarlo in commissariato. L’uomo allora chiede se può fare una telefonata. Al suo interlocutore spiega la situazione e poi passa il telefono al poliziotto col grado più alto. “Buonasera – dice una voce nel telefono – bisogna calmare la situazione. Quest’uomo è un nostro contatto. Noi siamo quelli che lavorano al piano di sopra con la porta blindata che si apre solo col pass biometrico. Ha capito chi siamo?”.

Tra Abominor e la moglie sono nate diverse tensioni. Lui ha lasciato il lavoro. Lei lo vede passare tutto il suo tempo su internet e assentarsi per appuntamenti misteriosi, eppure continua a portare soldi a fine mese. Pensa che sia tornato a fare il delinquente. Non sa che la Dgsi gli dà uno stipendio mensile di circa 2 mila euro. Per evitare che la situazione peggiori, gli agenti infrangono il protocollo di sicurezza: si presentano a casa della coppia, dicono di essere poliziotti, ma senza precisare per quale servizio lavorano e, tra un sorso di tè alla menta e l’altro, spiegano alla donna che “si prendono cura” del marito e che lo “proteggono”. “Non fa nulla di male” dicono e mentono: “Non è in pericolo”. La Dgsi non può permettersi di perdere il prezioso informatore proprio ora che li aiuta a evitare un attentato. Una sera Abominor chiama un agente della Dgsi: ha appena saputo che un jihadista sta per rientrare dalla Siria e che vuole commettere un attentato. Intende colpire una sinagoga. Abominor impiega delle settimane a ottenere i dettagli del progetto. Nel frattempo un gruppo di “S”, la divisione della Dgsi specializzata nella sorveglianza, mette sotto controllo h24 il soldato del califfato di ritorno in Francia. Quando il passaggio all’atto sembra imminente, gli agenti decidono di non rischiare: il jihadista viene arrestato ed accusato di adesione allo Stato islamico.

Estate 2015. La Dgse invia due note alla Dgsi relative a dei jihadisti addestrati in Siria per commettere attentati in Francia. Gli agenti incontrano Abominor per chiedergli se tra i suoi contatti ci sono uomini rientrati in Francia che potrebbero passare all’atto. Nel corso dei mesi, l’agenda dell’informatore si è infittita. Abominor discute con i membri dell’Amniyatn, il servizio segreto dello Stato Islamico, con semplici mujaheddin e emiri. È in contatto con alcuni membri della famiglia di Abdelhamid Abaaoud, che sarà il cervello dell’attacco kamikaze al Bataclan, ma di Abaaoud non sa nulla. Il 13 novembre, giorno della strage nel teatro parigino, Abominor è a pezzi. Appena qualche mese prima aveva avuto modo di parlare brevemente con uno dei futuri membri del commando del Bataclan. Come gli uomini e le donne dei servizi di intelligence, sente di non aver fatto bene il suo lavoro. Da allora sono passati dei mesi, degli anni. Chi dorme in prigione anche grazie a Abominor ignora persino la sua esistenza. Gli altri sono morti. Ma ormai Abominor non è più un informatore della Dgsi: dopo lo choc del 13 novembre, l’uomo della Dgsi ha infatti voluto fare di più ed è riuscito a impedire un altro attacco, una probabile strage di massa. Su richiesta della Dgse ha incontrato più volte in Francia un terrorista. Per dimostrare che non era un poliziotto infiltrato, ha trasmesso ai membri dell’Amniyat una copia della sua carta d’identità col suo vero indirizzo di casa. In questa missione ogni suo gesto era validato dai vertici dello Stato. In Siria, diversi jihadisti sospettati di aver svolto un ruolo nell’organizzazione del 13 novembre, sono stati eliminati dopo essere entrati in contatto con lui. Ma quando la vera identità di Abominor ha rischiato di venire a galla e la sua vita era in pericolo, la Dgsi ha messo fine all’attività del prezioso informatore. Lo hanno fatto trasferire. Lo Stato si è fatto carico degli affitti non pagati e gli è stato dato un premio in denaro di oltre 30 mila euro in contanti. Il denaro è stato contato e alla fine, come sempre, gli hanno fatto firmare una ricevuta. Anche questa volta Abominor si è impegnato a non parlare mai di nulla con i servizi o i giornalisti stranieri. Lui che diceva “ho fatto solo il mio dovere”, ha offerto i suoi servizi in pianta stabile anche alla Dgsi. Gli è stato risposto che avrebbe dovuto iscriversi all’accademia di polizia. Ma era un ex trafficante di droga e allora se n’è andato. Stando ad una fonte giudiziaria anonima, non gli è stata nemmeno accordata la protezione come previsto dallo status di “collaboratore di giustizia”, secondo la legge Perben II del 2004.

La sua vera identità compare persino su certi verbali. È stato infatti interrogato come testimone sul caso del familiare partito in Siria e di cui nel frattempo si è sentito parlare. Un cognome tra centinaia. Quanti eroi sconosciuti sono nella sua stessa situazione? Lo scorso autunno Le Monde ha affermato che 58 dei 59 attentati sventati negli ultimi sei anni lo sono stati grazie all’intervento di un informatore. Mediapart ha appreso di almeno quattro attacchi evitati dal 13 novembre grazie ad una testimonianza raccolta nell’entourage di un terrorista. È capitato anche che un jihadista in prigione abbia indicato ai servizi chi da Raqqa pianificava attacchi in Europa, dopo di che dei bersagli sono stati bombardati. Nel frattempo Abominor si è rifatto una vita, lontano dal suo quartiere e dalla sua regione. La sua famiglia ignora il ruolo essenziale che ha svolto nella lotta al terrorismo e le vite che ha contribuito a salvare. Abominor va al lavoro tutti i giorni. Anonimamente.

(traduzione Luana De Micco)