Delitti e terrorismo di Stato: guerra sporca alla francese

Un suicidio e due omicidi clamorosi scuotono Ginevra tra il 1957 e il 1960. E la città di Calvino, scrivono i giornali elvetici, all’improvviso “sprofonda in un romanzo di spionaggio”, diventando il cuore della guerra sporca delle spie. A uccidersi, il 23 marzo del ’57, è René Dubois, procuratore generale della Confederazione Svizzera. È La Tribune de Geneve a rivelare che l’alto magistrato intercettava, per conto dei servizi segreti francesi, le telefonate dell’ambasciata d’Egitto a Berna. Le rivelazioni del quotidiano lo spingono a togliersi la vita. Il 19 settembre di quello stesso 1957, nel centralissimo cours de Rive, con un proiettile sparato da un sicario attraverso una sorta di cerbottana di metallo viene assassinato Marcel Léopold, un mercante d’armi che lavorava con il Fronte di liberazione nazionale (Fln) dell’Algeria. Titola il Journal de Geneve del 20 settembre: “Invraisemblable assassinat au Cours de Rive”. Un assassinio ancora più “inverosimile” è compiuto poi il 3 novembre del 1960. Félix Moumié, leader del partito dell’Unione Popolare del Camerun, da poco indipendente dalla Francia, viene ammazzato a Ginevra al ristorante Plat d’Argent, nella città vecchia, con un grammo di tallio versato nel pastis che aveva ordinato.

Quale filo nero lega il suicidio di Dubois e le eliminazioni di Léopold e di Moumié? Non c’è alcun dubbio: il servizio segreto francese. In particolare gli uomini della “Main Rouge”, la “Mano Rossa”: un gruppo terroristico creato dallo Sdece, il controspionaggio, per eliminare dirigenti, militanti e collaboratori del Fronte di liberazione nazionale algerino, ma anche gli esponenti dei movimenti d’indipendenza e anticoloniali africani. La “Mano Rossa” si rende responsabile nel solo 1960, secondo Costantin Melnik, coordinatore in quegli anni dei servizi segreti della Francia, di ben 135 azioni, tra delitti, rapimenti, sabotaggi, distruzioni di navi e di aerei, campagne di disinformazione. Quando all’inizio del ’63 cessa di esistere, almeno sulla carta, come ricorda Pascal Blanchard nella prefazione al libro La Main Rouge di Didier Daeninckx e Mako (Lionel Makowski), l’organizzazione clandestina ha al suo attivo “circa 400 tra omicidi o ferimenti, una quarantina di battelli colati a picco e una dozzina di aeroplani distrutti, interventi in più di venti Paesi e delle azioni specifiche nell’Africa nera”. Dirà Costantin Melnik: “Né la Cia, né il Mossad israeliano o il Kgb disponevano allora di truppe d’élite così numerose e formate, capaci di commettere un gran numero di omicidi all’estero”. La Main Rouge, nome mutuato dallo Sdece da un gruppo di coloni francesi che operavano nel Nord Africa, era nata intorno all’estate del ’56 dopo la perdita francese dei possedimenti in Indocina e lo scoppio della rivolta algerina. Secondo Blanchard, fu ideata “con il sostegno del presidente del Consiglio Guy Mollet, del suo ministro della Giustizia François Mitterrand, del suo ministro della Difesa (e futuro presidente del Consiglio) Maurice Bourgès–Maunoury e del ministro dell’Interno Jean Gilbert-Jules”.

La guerra sporca e “invisibile” della Main Rouge ebbe tra i suoi protagonisti il colonnello Marcel Mercier, ufficialmente addetto commerciale dell’ambasciata francese di Berna, ma in realtà uomo di punta del servizio d’azione dello Sdece. Fu lui ad avere convinto il procuratore Dubois a trasmettergli le trascrizioni delle telefonate della legazione egiziana, durante la crisi del canale di Suez. E fu sempre Mercier, con ogni probabilità, a organizzare l’esecuzione di Marcel Léopold, un avventuriero che, prima di vendere armi ed esplosivi agli algerini, aveva vissuto per oltre vent’anni in Cina.

L’assassinio di Léopold ebbe pure un risvolto italiano, forse frutto di una delle operazioni di depistaggio architettate dallo Sdece. Nell’ottobre del ’58 i giornali svizzeri, francesi e italiani diedero notizia di una pista torinese per il delitto di Ginevra. Scrisse La Stampa, il giorno 3, che un agente cinematografico era stato arrestato “per calunnie contro l’industriale Nello Segre”. Che cosa era successo? “Un torinese è stato tratto in arresto in Francia”, spiegava il corrispondente da Ginevra, “su ordine della magistratura svizzera perché accusato di aver turbato gravemente, con una denuncia calunniosa, le indagini sull’assassinio di Marcel Léopold, il contrabbandiere ucciso a Ginevra con una freccia avvelenata”.

Il torinese arrestato “è Flavio Bergera, consulente di una grande casa cinematografica americana, fratello del dottor Luigi Bergera che impersona la maschera di Gianduia nelle feste di Carnevale. Il mandato di cattura venne firmato 2 mesi fa dal giudice istruttore di Ginevra dottor Dunand”. Quattro mesi fa, “da Torino giunse al capo della polizia federale dott. Dick una lettera anonima, dove si indicava come assassino del Léopold o, meglio, come mandante l’industriale torinese Nello Segre, cugino di Pitigrilli, che è titolare di una ditta farmaceutica e suole dimorare a Beausoleil di Montecarlo, dove ha alla fonda un lussuoso panfilo. (…) La lettera conteneva dati che potevano dare apparenza di verità alle accuse”.

Segre, in ogni caso, “poté dimostrare la sua innocenza”, ed “espresse il desiderio di vedere la lettera anonima, di riconoscere la grafia ed indicò il nome del presunto autore, Flavio Bergera, che egli conosceva da tempo”. Un anno dopo, come si lesse su La Stampa del 26 settembre 1959, l’agente cinematografico Bergera venne assolto dalla magistratura svizzera. L’assassino di Léopold, ovviamente, non fu mai scoperto.

Il tatuatore-missionario che cancella l’odio (gratis)

“Tatoo artist offers to cover hate for free”. Letterale in italiano: tatuatore offre di ricoprire l’odio gratis. Da quando il 2 settembre 2018 il giornale stropicciato della sua città dell’Ohio, il Sunday News Leader di Springfield, ha scritto a lettere cubitali in prima pagina quello che lui aveva cominciato a ripetere ad amici e conoscenti dei dintorni – che at no cost, cioè senza pagare, avrebbe ridisegnato con il suo inchiostro la pelle di chi si pentiva di aver scelto di tatuarsi simboli di odio -, gli americani di molti Stati si sono messi in marcia e poi sono rimasti in fila per entrare nel suo studio. Sorride oggi sotto baffi bruni e lunghi capelli il giovane Justin Fleetwood, quello che, spiega il quotidiano locale che l’ha intervistato per primo, “ti regala gratuitamente una seconda chance”.

È un army child, figlio di un soldato dell’esercito a stelle e strisce che ha seguito da un posto all’altro del mondo, nato in Germania nel 1984 dove il padre era di stanza all’epoca. Da un confine all’altro dei Paesi attraversati con la sua famiglia in mimetica Justin si è dimostrato inadeguato all’educazione bellica a cui sembrava destinato. Scarabocchiava su ogni superficie disponibile, spiega che disegna da quando ha memoria: “Avevo un profondo amore per l’arte, ma ero convinto non potesse pagare le bollette”. Nonostante abbia cominciato a tatuare a 17 anni – se stesso, in maniera primitiva, nella sua stanza da adolescente – confessa oggi che all’inizio della carriera ha “barattato i sogni per i soldi”. Un’era della vita in cui è entrato nei fast food e uscito dai call center: “Ho premuto bottoni per tutta la vita dopo aver abbandonato la scuola. Poi ho trovato un lavoro che mi pagava sopra la media, ma mi sentivo vuoto comunque”. Banale, ovvio e certo: Justin ci ricorda di sapere che “la vita è breve”. Ma aggiunge: “La mia forse sarà più breve delle altre, ho una malattia cardiaca che ha ereditato anche mio figlio, una condizione che non ti abbandona, e quando l’ho scoperto ho seguito i sogni”.

Ha deciso che ricoprire svastiche sarebbe stata la sua missione quando era ancora apprendista nello studio di un tatuatore più anziano ed esperto, a cui un giorno un cliente ha chiesto di disegnare una bandiera americana sulla schiena dove era già incisa un’enorme, grassa e plumbea svastica. “Non potevo crederci che lui avesse acconsentito, poi non potevo credere che avesse raffinato il profilo del disegno della svastica. Ero solo un aiutante all’epoca. Pensai non solo che io non l’avrei mai fatto ma che un giorno quei simboli di odio li avrei coperti for free(gratis, ndr)”. È un ragazzo dal volto ponderoso e fragile, dal sorriso sardonico, che invece di affidarsi a una retorica schematica che condanna gli altri procedendo per stereotipi e pregiudizi, ha deciso di non giudicare le scelte sbagliate del prossimo.

E il prossimo di Justin sono poveri e non istruiti, spregiudicati e disperati ragazzi che vivono tra bar, carcere e roulotte, nell’omogenea povertà dello Stato che vende la propaganda del sogno americano al resto del mondo, così lontano dalla sua periferia disgraziata. Tra le storie inusuali della provincia polverosa che abita, in una regione che conosce bene la miseria, ancora meglio le angustie e le traduce spesso in vite che finiscono fuori dai binari, Justin ha pensato di avere qualche potenziale margine di manovra sugli altri con l’unica cosa che aveva tra le dita: l’ago e l’inchiostro. Per cancellare l’odio dalla pelle degli altri, per sentirsi meglio nella sua. “Allegro e umile, sono solo uno che aiuta gli altri, ecco tutto”.

Petali contro le svastiche, boccioli contro i numeri 88, quelli di Hitler. “Nessuna resistenza ai fiori finora”. Sul lettino del suo studio si stendono detenuti, ex nazisti, criminali pentiti di tutta l’America. Grossi uomini dagli sguardi torvi che si rialzano alleggeriti da un passato fosco, sostituito da rose, narcisi e tulipani inchiostrati da Justin, che inietta disegnando meticoloso e li restituisce luminosi al resto della loro vita, ma senza parte della loro precedente identità sulla pelle. Non sa precisamente quante ne ha coperte: “Però da quando ho cominciato saranno centinaia, di svastiche io ormai ne ho viste molte e molte ce ne sono in giro per le strade d’America”.

Il primo americano entrato nel suo studio aveva simboli nazisti su entrambi i gomiti e come molti clienti possedeva un silenzio ingombrante che non voleva essere violato. Un mutismo che alla fine, senza richieste, si è infranto da solo. “Molti si sentono costretti a dover condividere la loro storia anche se non chiedo niente”. La sorpresa, una svastica dopo l’altra, è stata scoprire che più che estetica o ideologia, quei simboli sono definizione identitaria che “si fanno tatuare senza motivi profondi, oppure li fanno in prigione, solo per la natura del sistema del carcere stesso. Da quello che ho sentito dai ragazzi che sono venuti qui, da tante parti diverse d’America, da tante prigioni dello Stato, è icona d’appartenenza, serve alla divisione tra etnie che vige in carcere. Ognuno con i suoi”. E svastica vuol dire con i bianchi. Contro neri, latini, asiatici. “Molti vogliono rimuoverle perché sono codici di sopravvivenza, come la carta di un club ottenuta durante una permanenza in un luogo orribile. Una volta lasciato quel luogo, quei simboli non offrono più protezione o pace, ma propongono solo altro ridicolo odio”.

Se gli chiedi se è rimasto in contatto con qualcuno di loro risponde che è sempre felice di sapere cosa fanno le persone che ha aiutato come ho potuto. “A volte alcuni sono tornati per farsi tatuare altri disegni”. Uno di loro, Jason Bland, uno che prima “odiava tutto, odiava tutti”, un razzista che poi ha cambiato idea, ha portato con sé sua figlia mulatta.

Cancro e onde radio: i magistrati vedono il nesso

I giudici riconoscono le onde radio come causa di tumori cerebrali, sempre più spesso. A convincerli sono le perizie dei medici indipendenti. La scienza è divisa, ma il rischio delle radiofrequenze non è una chimera. La pensa così anche il ministro della Giustizia: Alfonso Bonafede, come vedremo, da avvocato ha difeso un lavoratore malato di cancro.

L’ultima sentenza però è della Corte d’appello di Torino, il 14 gennaio. Ad adire le vie legali è Roberto Romeo, dipendente Telecom di 57 anni, colpito da neurinoma acustico (un tumore benigno): ha usato il cellulare circa tre ore al giorno per 15 anni, dal ’95 al 2010. Già il tribunale del lavoro di Ivrea, nel 2017, avevo riconosciuto come il cancro fosse un effetto delle onde radio. Ora la conferma dei giudici di secondo grado: l’Inail pagherà al lavoratore una rendita a vita per la malattia professionale. “Non voglio demonizzare l’uso del cellulare ma bisogna saperlo utilizzare in modo corretto”, disse il signor Romeo all’indomani della vittoria nel 2017. Il Tar del Lazio è d’accordo con lui. Il 15 gennaio dell’anno scorso ha condannato i ministeri della Salute, Ambiente e Istruzione, a promuovere campagne informative “sul giusto uso degli apparecchi di telefonia mobile”. Il tribunale amministrativo si è pronunciato per via di un ricorso firmato “Ambrosio & Commodo”, lo studio che ha strappato il risarcimento per il lavoratore Telecom. Gli avvocati curano il sito internet neurinomi.info, per chi ha subito danni dalle onde radio del cellulare. I legali torinesi sono diventati l’incubo dell’Inail, l’Istituto per gli infortuni sul lavoro.

Stefano Bertone fa parte del team: “Ogni volta, la pistola fumante è la consulenza tecnica d’ufficio (Ctu)”. Traduzione: le toghe sono obbligate a chiedere il parere di un professionista e, spesso, le perizie riconoscono il nesso tra onde radio e cancro cerebrale. “Tutte le sentenze che ammettono l’effetto nocivo, nella sostanza, è come se fossero scritte dai medici – dice Bertone – . Non tutte le consulenze però hanno ugual valore, dipende dall’imparzialità dell’esperto”. Cioè: se un medico è legato ad aziende telefoniche o dell’energia elettrica, la sua parola vale di meno, in un’aula di giustizia. E se una ricerca scientifica è finanziata dall’industria, allora va presa col beneficio del dubbio. A sostenerlo è la Corte d’appello di Torino, citando la pronuncia della Cassazione nel 2012: “Ai risultati cui sono pervenuti gli studi finanziati da imprese produttrici di telefoni cellulari non può essere attribuita particolare attendibilità, in considerazione del conflitto di interessi degli autori, come ritenuto dalla Cassazione nella sentenza n. 17438 del 2012”. La pronuncia della Suprema Corte, otto anni fa, ha aperto la via. I giudici di piazza Cavour danno ragione al signor Innocente Marcolini e torto all’Inail: in primo grado (nel 2009) il tribunale di Bergamo aveva negato che la malattia dipendesse dall’esposizione a onde radio; ma l’appello a Brescia rovescia il verdetto a favore di Marcolini. Il motivo? I giudici bresciani danno minor peso alla letteratura scientifica in conflitto d’interesse, cioè pagata dai soldi dell’industria. Ha sbagliato il tribunale di Bergamo, secondo la Cassazione, perché i denari del mercato influenzano l’imparzialità della scienza: perciò Marcolini ha ottenuto il risarcimento.

Lui e il signor Romeo non sono i soli. Dopo i giudici di Torino e Brescia, pure il tribunale di Verona (nel 2017) condanna l’Inail, riconoscendo la relazione causa–effetto tra campi elettromagnetici e cancro. L’ente previdenziale è obbligato a risarcire un lavoratore: per 10 anni, sotto il pavimento in legno della sua postazione, trasformatori e cavi elettrici emettevano onde radio. Ad oggi ci sono almeno due casi aperti. Un lavoratore ha vinto la causa con l’Inail al tribunale di Monza, a marzo dell’anno scorso: l’appello è previsto il mese prossimo. Anche a Brescia, il 24 gennaio 2019, i giudici hanno concesso il risarcimento per una malattia professionale dovuta alle radiofrequenze. Le toghe però non sono unanimi.

A Firenze, ad esempio, un lavoratore ha denunciato l’Inail per il mancato indennizzo: gli è stato diagnosticato lo stesso tumore del signor Romeo e del dipendente di Monza. In primo grado, nel maggio 2017, i giudici gli danno ragione: il cancro è l’effetto delle onde radio. A perorare la causa del lavoratore c’è l’avvocato Alfonso Bonafede, oggi ministro della Giustizia. Ma in secondo grado, cambia il team dei legali e viene nominato un consulente medico che non crede al conflitto d’interessi. Così, la sentenza fiorentina si ribalta: ha ragione l’Inail, nessun risarcimento; il nesso causale tra la malattia e le onde radio è solo “una possibilità”, e non una probabilità. Dopo Bonafede, il lavoratore sceglie di farsi difendere dallo studio Ambrosio & Commodo: “Ora stiamo preparando il ricorso in Cassazione”, avvisa Stefano Bertone. La battaglia legale delle onde radio è solo all’inizio.

5G, l’allarme salute arriva dall’Europa

Il dibattito sui possibili impatti sulla salute umana delle nuove telecomunicazioni 5G tiene banco da tempo e si è trasferito dal mondo accademico all’opinione pubblica, finendo per imperversare anche sui social media. Nei giorni scorsi il tema del principio di precauzione come linea guida delle decisioni politiche in materia di tlc è tornato al centro del confronto anche in ambito europeo. L’11 febbraio una nota del Centro studi del Parlamento Europeo sull’impatto sanitario del 5G ha sottolineato i limiti della ricerca medica e delle regole europee, che non hanno tenuto il passo con gli sviluppi della tecnologia.

La Commissione europea nel 2016 ha presentato nuove misure politiche per far progredire la digitalizzazione della Ue e aumentarne la competitività attraverso reti di telecomunicazioni con capacità molto più elevate. La quinta generazione (5G) di tlc è l’asse portante della strategia per raggiungere entro il 2025 gli obiettivi di connettività indicati da Bruxelles. Secondo stime Ue, con il 5G l’economia europea realizzerà 113,1 miliardi l’anno di maggior fatturato nei settori auto, sanità, trasporti ed energia, attraverso investimenti per circa 56,6 miliardi che dovrebbero creare 2,3 milioni di posti di lavoro. Ma l’implementazione del 5G però costerà molto più delle precedenti tecnologie mobili: secondo stime Ue, bisognerà investire circa 500 miliardi per coprire tutte le aree urbane, le ferrovie e le strade principali.

Il fatto è che il 5G è diverso dalle le tlc attuali: userà frequenze più elevate e onde millimetriche oltre alle microonde usate finora dal 2, 3 e 4G. A causa della copertura limitata e della sensibile a interferenze causate da muri, alberi o persino dalla pioggia, le antenne 5G dovranno essere installate molto fitte, con una densità di 800 stazioni base per chilometro quadrato con microcelle di 20 metri di raggio, mentre le tecnologie 3 e 4G utilizzano macrocelle da 2-15 chilometri. Dunque la popolazione sarà costantemente esposta a questo spettro di banda.

Dati gli enormi investimenti, l’industria delle telecomunicazioni lavora da tempo per convincere i governi dei vantaggi economici e sociali del 5G e continua a dichiarare che non vi sono prove di danni causati dall’esposizione ai campi elettromagnetici. Il partenariato pubblico-privato per l’infrastruttura 5G (5G Ppp), un’iniziativa congiunta tra la Commissione Ue e l’industria europea del settore, sostiene che le reti 5G rispettano gli standard e le normative internazionali e che i sistemi sono progettati per funzionare sotto i limiti di sicurezza sanitaria delle emissioni elettromagnetiche. Tuttavia, secondo l’ufficio ricerche del Parlamento europeo, non offre risposte sugli impatti biologici della radiazione 5G.

Invece l’Agenzia europea dell’ambiente (Eea) da lungo tempo invoca il principio di precauzione per l’esposizione ai campi elettromagnetici e chiede agli Stati membri della Ue di informare di più i cittadini sui rischi, in particolare per i bambini. In una risoluzione del 2 aprile 2009, il Parlamento europeo esortò la Commissione a rivedere le basi scientifiche e l’adeguatezza dei limiti dei campi elettromagnetici, elaborando una guida alle opzioni tecnologiche disponibili per ridurre l’esposizione insieme agli esperti degli Stati membri e delle industrie considerato che le linee guida Ue risalgono al 1999, e chiese al Comitato scientifico Ue per i rischi sanitari di rivedere i limiti dei campi elettromagnetici considerandone gli effetti biologici.

Il comitato scientifico della Commissione europea per i rischi sanitari (Scenihr) nel suo ultimo parere di gennaio 2015 suggerì che mancavano prove della relazione tra campi elettromagnetici, disturbi neurologici e aumento dei casi di cancro. Ma l’Alleanza internazionale per i campi elettromagnetici (Iemfa) rivelò che molti membri di Scenihr erano in potenziale conflitto d’interesse per rapporti professionali o economici con varie società di tlc. Così il nuovo Comitato scientifico della Ue per i rischi sanitari, ambientali ed emergenti (Scheer), creato in sostituzione dello Scenihr, a dicembre 2018 suggerì che potrebbero esserci effetti biologici da un ambiente 5G.

Quanto al mondo universitario, la letteratura accademica sugli effetti dell’esposizione ai campi elettromagnetici e al 5G sta crescendo rapidamente. Alcune ricerche indicano possibili rischi per la salute, mentre altre no. Nel 2011 l’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (Iarc) dell’Organizzazione mondiale della sanità ha classificato i campi elettromagnetici come potenzialmente cancerogeni per l’uomo e ha dato la priorità alle radiazioni dei campi elettromagnetici come tema di ricerca del quinquennio 2020-24. Una parte della comunità scientifica – principalmente medici – crede che vi siano impatti negativi dall’esposizione ai campi elettromagnetici che aumenteranno con il 5G. Un appello sul 5G è stato presentato alle Nazioni Unite nel 2015 e all’Unione europea nel 2017 e il numero dei firmatari è in crescita: 268 scienziati al 18 dicembre scorso. Secondo l’appello, con il 5G nessuno potrà evitare l’esposizione costante ai campi elettromagnetici a causa dell’enorme numero di trasmettitori e di circa decine di miliardi di connessioni dovute alle auto e autobus a guida autonoma, alle telecamere di sorveglianza, agli elettrodomestici. L’appello sottolinea i rischi non solo per gli esseri umani ma anche per l’ambiente e raccomanda una moratoria sul 5G fino a che i rischi potenziali per la salute umana e l’ambiente non siano stati studiati a fondo da scienziati indipendenti dall’industria delle tlc.

Nell’autunno scorso sul tema c’è stato un duro scambio di opinioni sulla prestigiosa rivista Scientific American. Joel M. Moskowitz, ricercatore del centro di sanità pubblica dell’Università californiana di Berkeley, si è aggiunto a chi chiede la moratoria sul 5G per svolgere ricerche preliminari, mentre David Robert Grimes, oncologo e divulgatore degli atenei di Dublino e Oxford, gli ha ribattuto sostenendo che le sue affermazioni – la tecnologia “potrebbe” essere pericolosa e sono i suoi sostenitori a dover dimostrare che è sicura – ribaltano totalmente il metodo scientifico. A fronte di queste richieste, conclude il centro studi del Parlamento europeo, la Commissione europea non ha però ancora condotto studi sui potenziali rischi del 5G per la salute. Sugli aspetti sanitari del 5G si sta insomma “volando alla cieca”, come ha dichiarato il 6 febbraio 2019 il senatore statunitense Richard Blumenthal in un’udienza al Senato di Washington.

Liguria: il M5S apre a sinistra, ma si deciderà su Rousseau

Oltre 80 interventi, 200 partecipanti e quattro ore di confronto a porte chiuse. L’assemblea degli attivisti liguri del Movimento 5 stelle che si è tenuta ieri pomeriggio a Genova sulle prossime elezioni regionali sembrava non finire più. Il dato emerso è la prevalenza di posizioni favorevoli a un’alleanza con il centrosinistra per contendere la Regione a Toti e non rassegnarsi a correre solo per restare all’opposizione.

Non essendo un’assemble deliberativa, ora il facilitatore regionale Marco Mesmaeker dovrà trasmettere a Vito Crimi una sintesi e, tutti auspicano al più presto possibile, il reggente del Movimento 5 stelle dovrà decidere in che direzione procedere. Se tutte le opzioni sono ancora aperte, quella più probabile è il voto su Rousseau, soluzione ora caldeggiata anche da Alice Salvatore, candidata in pectore del Movimento in Liguria: “A questo punto credo che la consultazione avremmo dovuta farla due settimane fa. Come da regolamento sono pronta ad accettare l’esito e, in caso di coalizione, presentarmi come capolista e sostenere il candidato comune”. Nettamente a favore di un accordo con il campo progressista la maggioranza dei parlamentari, consiglieri regionali e comunali del M5s presenti in assemblea. In attesa del voto online, che i presenti all’assemblea vorrebbero riservato agli iscritti liguri, nessuno si sbilancia rispetto al nome del possibile candidato, anche se è chiaro che “la figura civica e esterna ai partiti” che tutti sembrano prendere in considerazione sarebbe quella del giornalista del Fatto Ferruccio Sansa, unico nome che ha già il via libera dal campo progressista che unisce Pd e la sinistra in Regione.

Salvini marcia su Roma, attacca le donne e intanto ricicla gli uomini di Alemanno

Termovalorizzatori, incentivi all’edilizia, revisione “all’indietro” del codice degli appalti. La Roma che sogna Matteo Salvini somiglia a quella che fu di Gianni Alemanno. A partire dagli uomini, quelli che ieri pomeriggio hanno fatto da cornice al leader leghista in un Palazzo dei Congressi dell’Eur strapieno.

Inclìti protagonisti di una stagione che si ricompone attorno al Carroccio. Sul palco c’era Davide Bordoni, all’epoca assessore alle Attività produttive; in platea, il capo delegazione di FdI, Fabrizio Ghera, assessore ai Lavori pubblici dell’ex sindaco. Fra il pubblico, tanti ex esponenti del fu Pdl romano e laziale, oggi con la maglietta bianca e la scritta “Salvini premier”.

Ma è dalle “proposte tecniche” che emerge il déjà-vu. La più evocativa è di Pasquale Cialdini, ex presidente di Roma metropolitane, scelto e poi spinto alle dimissioni da Virginia Raggi: “Sul codice degli appalti dobbiamo tornare indietro, snellire le procedure – afferma – perché per evitare le ruberie non serve cambiare le regole, ma la testa della gente”. Gli fa eco Giuseppe Amatilli, presidente del Consorzio recupero periferie, che ricorda con nostalgia come “dal 2013 siamo fermi con le opere di urbanizzazione” e che “ci sono 230mila domande di condoni da esaminare che potrebbero fruttare decine di milioni di euro”. Il clima da restaurazione lo suggella il “capitano”: “Qui un terzo della ricchezza è prodotta dall’edilizia – dice Salvini – se il pubblico non dà risposte, serve un meccanismo basato sul silenzio-assenso”. Al “Voglio 200mila cantieri aperti” e “le piste ciclabili sono roba da radical-chic”, la sala esplode in un applauso. Accade anche quando il capo attacca sui rifiuti: “Basta con i ‘signor no’ come Raggi e Zingaretti, si facciano questi benedetti impianti di termovalorizzazione”.

L’altra dichiarazione “forte” è sull’aborto: “Se si arriva alla settima interruzione di gravidanza significa che si sbaglia stile di vita. Il pronto soccorso non è un bancomat sanitario per gli incivili”.

La sfida è lanciata: “Non voglio un sindaco leghista, ne voglio uno capace”, ripete Salvini, ammiccando alla possibilità di lasciare la testa della corsa agli alleati. È “un chiacchierone: lo scorso anno ha affossato il Salva Roma, togliendo milioni ai romani”, gli rinfaccia su Twitter la Raggi. Anche lei lo sa: è cominciata la discesa della nuova Lega su Roma. Che “torna Capitale”, recita la scritta sul palco. La dimensione da considerare è quella temporale: si torna ad Alemanno.

Le Sardine al governo: “Via i decreti Sicurezza”

Le Sardine ci sono. Il movimento anti-salviniano torna a Roma in contemporanea alla kermesse del leghista e mostra di avere ancora vitalità. Il luogo è piazza Stanti Apostoli, la stessa dei Cinque Stelle contro i vitalizi solo 24 ore prima. È meno gremita del giorno precedente ma il colpo d’occhio è buono, ci sono diverse migliaia di persone.

E proprio con il Movimento ormai è polemica aperta. La sardina romana Lorenzo Donnoli attacca Luigi Di Maio: “È vergognoso, invece di farsi i selfie si occupasse della liberazione di Patrick Zaki”.

Sul palco non salgono i fondatori bolognesi, Mattia Santori e gli altri, rimasti nel capoluogo emiliano in vista della marcia di oggi per lo studente egiziano. Ci sono invece, oltre ai romani, rappresentanti del Sud come la calabrese Jasmine Cristallo e il siciliano Massimiliano Perna. La manifestazione è stata convocata per chiedere l’abolizione dei decreti sicurezza, i simboli della stagione di Salvini al Viminale. “Dire che quelle leggi liberticide servono per la lotta alla mafia – dice Perna dal palco – è una grandissima presa per i fondelli”. “I decreti sicurezza – aggiunge Cristallo – vanno abrogati, non modificati. Potrebbe essere utile anche per i Cinque Stelle”.

In piazza, più che i giovani, si incontrano i volti di tanti storici militanti della sinistra romana: esuli di molte battaglie, delusi dai partiti e rimasti senza rappresentanza, ma con voglia di partecipare e di essere convocati. Che sia una piazza inequivocabilmente di sinistra lo prova anche l’ovazione che si solleva quando Cristallo legge una poesia di Mariangela Gualtieri e pronuncia il nome di Antonio Gramsci, padre del comunismo italiano.

Cosa siano queste Sardine non è chiaro, forse è persino velleitario chiederlo. Loro comunque rispondono in modo evasivo: “Siamo una moltitudine che porta avanti i valori della Costituzione”, “Un gruppo di pressione che combatte le politiche dell’odio”, “Un anticorpo”. Se proveranno a diventare un partito o qualcosa di simile non lo sanno ancora. Sarà più chiaro dopo l’incontro nazionale di Scampia a metà marzo. Per ora, citando Montale, sanno solo “ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”. Con i Cinque Stelle la dialettica è sempre più tesa. Il sottosegretario grillino Stefano Buffagni ha ironizzato sulla manifestazione romana: “È un palco costoso e una regia che nemmeno gli U2. Chi paga? Chi hanno dietro? I Benetton?”. Le Sardine replicano che “il palco è costato 2800 euro” e grazie ai contributi volontari di crowdfunding ne sono stati raccolti 6mila.

Donnoli sul Movimento ha idee piuttosto nette: “Grazie alla linea sovranista di Di Maio, i Cinque Stelle si sono ridotti a un partitino che si occupa di buffonate. Invece di fare sciocchezze il ministro degli Esteri si occupasse di Zaki”.

Germania chiama Italia per gestire la crisi libica

Ci sarà anche il governo italiano al tavolo di “grandi europei”, almeno quando discutono della stabilizzazione della Libia, dove intanto la guerra civile prosegue. Sembra ovvio ma invece è stato necessario un notevole impegno diplomatico perché la Germania finalmente acconsentisse a proporre a Francia e Gran Bretagna di invitare anche Roma al cosiddetto formato E3.

È un tavolo di confronto fin qui trilaterale nato nei primi anni Duemila per coordinare le politiche nei confronti dell’Iran in relazione ai negoziati sul nucleare, ma poi utilizzato sulle diverse crisi del fronte sud della Nato: ieri la Siria e oggi appunto la Libia, con tutto quello che comporta per gli interessi europei e Usa nel Paese oltre che per il tema dei migranti che riguarda soprattutto l’Italia e Malta. Ancora ieri Alarm Phone ha dato notizia di una barca con “circa 40 persone in fuga dalla guerra in Libia” nella zona Sar (Search and rescue, ricerca e soccorso) maltese. Ma è logico che il gruppo ristretto, in formato E3 o E4, continuerà ad occuparsi di tutto lo scenario a sud del Mediterraneo dove l’impegno diretto americano è destinato a ridursi dopo l’eliminazione del generale iraniano Qasem Soleimani in Iraq e sempre più dovrebbe toccare alla Nato e all’Europa. Sulla Libia l’amministrazione di Donald Trump da tempo invita gli alleati a muoversi da soli, sono gli alleati ad avere troppi interessi divergenti.

Il via libera all’Italia nel formato E3 è arrivato venerdì a Monaco dalla ministra della Difesa di Berlino, Annegret Kramp-Karrenbauer, da sei mesi presidente dell’Unione cristiano democratica tedesca (Cdu) al posto di Angela Merkel. Mercoledì a Bruxelles aveva incontrato il suo omologo italiano Lorenzo Guerini. “Noi (l’Europa) disponiamo di strumenti comuni e di interessi comune – ha detto Kramp-Karrenbauer –. Troviamo anche una volontà politica comune. Il formato E3 è un altro esempio. In vista della Brexit, in particolare, funziona come collegamento importante tra Nato e Ue ed è per questo che credo che dovrebbe essere reso più flessibile e inclusivo. Ad esempio, quando si tratta di stabilizzare la Libia, penso che dovremmo includere l’Italia in questo formato”. Guerini incassa il risultato, ricorda di aver “avuto modo di riparlarne con la collega tedesca Annegret Kramp-Karrenbauer anche nell’ultimo bilaterale di mercoledì sera a Bruxelles, in occasione della ministeriale Nato”, riferendosi in particolare a “Iraq e Libia”. Anche Luigi Di Maio, ministro degli Esteri ieri a Monaco, sottolinea che la proposta tedesca “è un riconoscimento importante al lavoro fatto dall’Italia sia in Libia che su tutti i tavoli internazionali più importanti”.

Ora però, dopo la Conferenza di Berlino, si continua a discutere sull’impegno per la Libia e a Monaco, in particolare, dell’embargo sulle armi che non funziona. Su questo è tornato anche Di Maio auspicando una “maggiore presenza degli Stati Uniti, perché gli Usa hanno un’influenza che potrebbe essere determinante su alcuni attori del conflitto” e soprattutto una concreta iniziativa europea, anche con una missione militare. “L’Ue deve avere un ruolo fondamentale per bloccare l’ingresso di armamenti in Libia, l’unico modo per garantire un cessate il fuoco è togliere le armi che stanno circolando in Libia”, ha dichiarato ieri Di Maio al termine della riunione ministeriale dell’International Follow-Up Committee sulla Libia a Monaco. E ha rinviato alla riunione del Consiglio dei ministri degli Esteri di oggi: “Lì discuteremo di una missione che consente di bloccare l’ingresso delle armi in Libia via aria, via terra e via mare”.

“Vendonsi Autostrade”. È la resa dei Benetton

Il dossier della revoca della concessione ad Autostrade per l’Italia (Aspi) è una partita a scacchi tra il governo e i Benetton. Ma una mossa sembra ormai defilarsi: ridurre la presa della famiglia veneta sulla concessionaria, risolvendo così anche un grosso problema all’esecutivo, che non sa come uscire dall’incastro. Dal giorno del crollo del ponte Morandi a Genova, il 14 agosto 2018, di acqua sotto ai ponti ne è passata parecchia. Di ipotesi se ne sono fatte tante, dalla revoca della concessione all’ingresso dello Stato tramite la testa di ponte della Cassa depositi e Prestiti (Cdp). Il tutto mentre i partiti – al governo e non – avevano visioni e sensibilità diverse.

Ora, fonti ben informate e vicine al dossier confermano che la famiglia trevigiana si sarebbe decisa a spingere la holding Atlantia a mettere sul mercato una quota rilevante di Autostrade per l’Italia (Aspi). E questo perché quello che è tuttora l’azionista di maggioranza del governo, il Movimento 5 Stelle, non ne vuole sapere di lasciare la concessione un’azienda che custodiva un ponte che si è sbriciolato, con le sue 43 vittime.

Dopo mesi di trattative e bracci di ferro che non hanno portato risultati, Atlantia sarebbe intenzionata a vendere parte del suo business più redditizio. La holding controlla l’88% della concessionaria e potrebbe mettere sul mercato una cifra non superiore al 50%.

Chi comprerà? L’ultima ipotesi risale a poche settimane fa ed era stata fatta ventilare proprio da Autostrade al ministero delle Infrastrutture, guidato da Paola De Micheli (Pd). Una proposta di accordo transattivo per chiudere la ferita aperta dal Morandi facendo acquistare dallo Stato – per il tramite della Cdp – il 49% del capitale di Aspi. Un acquisto che, se prendessimo la valutazione complessiva con cui, nel 2017, il fondo statale cinese Silk Road ha rilevato il 5% del capitale di Autostrade, costerebbe allo Stato circa 5,5 miliardi, una cifra enorme, che però potrebbe essere più bassa nel caso concreto che la concessione venga in qualche modo rivista aumentando la manutenzione e gli investimenti non remunerati in tariffa. Anche così, però, resterebbe una cifra a nove zeri. L’ipotesi sarebbe stata scartata, anche perché politicamente insostenibile per il premier Conte (contrario a un impegno così gravoso per la società pubblica) e soprattutto indigeribile per i 5 Stelle. Inoltre con quella percentuale lo Stato non avrebbe nemmeno il comando assoluto: Atlantia, la holding controllata dai Benetton, possiede l’88% della società Autostrade. Cedendo il 49% finirebbe in minoranza, senza però che lo Stato possa comandare davvero da solo: dovrebbe trovare di volta in volta l’accordo o con la famiglia Benetton o con gli altri due azionisti, cioè Appia Investments del gruppo Allianz(6,94%) e, appunto, il fondo statale cinese Silk Road Fund (5%).

L’altra ipotesi è che venga usato il fondo infrastrutturale F2i guidato da Renato Ravanelli che vede fra i suoi quotisti più importanti proprio la Cdp. Problema: il fondo non ha una potenza di fuoco sufficiente, potrebbe al massimo fare da capofila di una cordata di investitori esteri e italiani (come fondazioni e casse di previdenza) oppure conferire parte dei suoi asset ad Autostrade. In questa ipotesi lo Stato non avrebbe un ruolo, visto che Cdp non ha poteri di governance in F2i, ma è senz’altro la strada preferita dai Benetton. Nelle scorse settimane il loro manager plenipotenziario, Gianni Mion, aveva pubblicamente aperto a un negoziato con F2i. Da qui l’idea di togliere la concessione ai Benetton – che ha fruttato ricchissimi dividendi agli azionisti – non appena arriverà il via libera dall’Avvocatura dello Stato e dalla Corte dei Conti.

Insomma, l’unico modo per far uscire il governo dallo stallo, anche nel timore che la revoca dia avvio a un enorme contenzioso, è che i Benetton mollino la presa su Autostrade. Monetizzando la gallina dalle uova d’oro finchè vale qualcosa.

Ma mi faccia il piacere

La campagna di primavera. “Renzi prepara una campagna nazionale sul reddito di cittadinanza” (Corriere della sera, 16.2). Vuole la villa di cittadinanza.

Accontentiamolo. “Aut aut di Renzi: basta vivacchiare o noi siamo fuori” (Sole-24 ore, 13.2). Appello al governo: allora vi prego, vivacchiate.

Il portafortuna. “Oggi vinciamo” (Matteo Salvini, segretario Lega e tifoso del Milan, sul derby finito 4-2 per l’Inter, Corriere, 9.2). Fassino, è lei?

La banda del Bugo. “Saremmo diventati amici anche se non fossimo stati musicisti, a Sanremo ci andiamo con una canzone che si chiama ‘Sincero’ perché racconta la sincerità del nostro rapporto… Siamo nati per duettare insieme… grande intesa” (Morgan e Bugo, una settimana prima della rissa con insulti, botte e morsi a Sanremo, Sorrisi e Canzoni tv, 1.8). Renzi, è lei?

Roba da denuncia. “Per voi e per questo splendido Paese c’ero, ci sono e ci sarò sempre!” (Salvini, Facebook, 4.2). É passato alle minacce.

L’elogio funebre. “Lo spettro dei responsabili ha spento l’ardore di Renzi, ma la sua battaglia è giusta” (Renato Schifani, Il Dubbio, 15.2). Sono soddisfazioni.

Meriti storici. “Formigoni in cella per un errore di Bonafede” (Renato Farina, Libero, 13.2). Scusi, Bonafede, non è che potrebbe fare un altro errore anche su Farina?

Ci mancherebbe. “Berlusconi ai suoi: ‘Nessun aiuto sulla prescrizione” (il Giornale, 15.2). Ne ho avute già 9 e aspetto la decima.

Tutto d’un pezzo/1. “Ora un’area civica progressista” (Lorenzo Fioramonti, ex 5S, ex ministro dell’Istruzione, il manifesto, 15.2). Parola di uno che era viceministro con la Lega e s’è dimesso dal governo col centrosinistra.

Tutto d’un pezzo/2. “Un altro governo non è tabù” (Fioramonti, ibidem). Così rifaccio il ministro e mi ridimetto.

Il cinefilo. “The New Pope è una cosa spregevole, questo Sorrentino è davvero una persona inquietante, squallido tentativo di demolire la Chiesa e i cattolici, vergogna Sky Uno” (Maurizio Gasparri, FI, vicepresidente del Senato, Twitter, 2.2). Poi l’hanno sedato e gli hanno spiegato che non era un documentario.

Imbarazzi. “Franceschini: ‘Sulla giustizia avete la stessa posizione della Lega’. E Boschi: ‘Chi ti dice che questo mi imbarazza?’” (Il Foglio, 9.2). Giusto: chi sta con Renzi non può imbarazzarsi a stare con Salvini.

I Pisapii. “Travaglio estrapola le frasi dal contesto… diffonde fake news e cioè che i difensori anzichè fare il loro dovere fanno di tutto per allungare i tempi dei processi” (on. avv. Giulaino Pisapia,

Corriere della sera, 9.2). “Il centrodestra chiede giustizia celere, ma nei processi usa tutti gli strumenti dilatori per evitare che si giunga a sentenza o far scattare la prescrizione. Vogliono condanne veloci e pene certe solo per deboli ed emarginati”, “Un conto sono i diritti di difesa, un altro l’uso sistematico e strumentale di impedimenti per bloccare il corso della giustizia, allungare i tempi e arrivare alla prescrizione”, “Previti non vuole l’accertamento della verità, ma solo l’impunità con la prescrizione” (on. avv. Pisapia, avvocato di parte civile per De Benedetti nel processo Mondadori, 1.4, 23.4 e 3.11.2001). Ricapitolando: la prescrizione è una porcata quando Pisapia è parte civile; è cosa buona e giusta quando Pisapia è difensore e/o parlamentare.

Gombloddo! “I 5Stelle in piazza contro i vitalizi? Pensino piuttosto ai decreti sicurezza. Da loro riceviamo solo attacchi, da quando è uscita la foto con Benetton hanno rivelato il terrore che hanno nei nostri confronti, forse l’uscita di Stephen Ogongo dalle sardine romane non è stata casuale” (Mattia Santori, fondatore delle Sardine, Repubblica, 15.2). Eh sì, dev’esserci per forza sotto un complotto dei pesci palla.

Vietato ai Minoli/1. “Lo spot elettorale con Craxi nel 1987 lo rifarei. Vada a rivederselo e faccia i confronti con l’oggi. Certo che era uno spot, però ci misi la mia faccia, non finsi che non lo fosse” (Giovanni Minoli, Corriere della sera, 16.2). Ah beh allora.

Vietato ai Minoli/2. Forse sono troppo libero” (Minoli, ibidem). Uahahahahahah.

I titoli della settimana. “I viaggi dell’inglese ‘superuntore’. Si chiama Steve Walsh, ha 53 anni” (Repubblica, 11.2). “Coronavirus, guarito il cittadino inglese super ‘untore’” (Il Messaggero, 11.2). “Il viaggio del paziente inglese che ha infettato 11 persone” (Repubblica, 12.2). “Il superuntore e i termoscanner nelle stazioni” (Pomeriggio 5, mediasetplay.it, 12.2). “Russa evasa da quarantena, era in gabbia” (Ansa, 12.2). Seguono commenti pensosi e stupefatti sulle misteriose origini della psicosi da coronavirus.